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martedì 11 febbraio 2003

Maestri di vita (6) – Giovanni Papini: Amiamo la guerra

Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.

Non è solo per fare il bastan contrario – o forse sì – ma il fatto è che ultimamente sono un po’ stanco di sentire gente che odia la guerra. Specie quelli molto più idealisti, realisti, intelligenti e informati di me, che odiano la guerra più di me ma sono convinti che a questo punto sia necessaria, per poter arrivare più rapidi alla pace.
Ecco, dopo mesi e mesi di discorsi su quanto sia brutta e ineluttabile la guerra, mi vien voglia di andare a cercare quel pezzo in cui un giornalista italiano dichiarava francamente e senza vergogna di amarla, questa benedetta guerra. Ma chi era? E dove scriveva? E quand’è che l’abbiamo letto? Come facciamo a ricordarcelo così bene?

Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sudore nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre. […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve.


Il giornalista si chiama Giovanni Papini (Firenze 1881-1957). Scriveva su una piccola rivista fiorentina, “Lacerba”, da lui fondata nel 1913 e sotterrata nel 1915, che ebbe un certo successo. A volte viene considerato un futurista: in realtà Papini e Marinetti non sono mai andati molto d’accordo, ma pescavano nello stesso bacino di malumori che sarebbe poi fermentato nelle trincee della Grande Guerra, dando luogo a quel singolare fenomeno politico italiano, il fascismo.
Però Marinetti, che di solito viene ricordato per aver scritto “Guerra, sola igiene del mondo”, non sarebbe mai stato capace di scrivere righe asciutte e feroci come queste:

C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita.

Non è un caso che in quasi tutte le antologie di letteratura italiana per la scuola superiore ci sia una foto di Marinetti, ma questa pagina di Papini. Volendo dare un esempio di letteratura francamente, schiettamente bellicista, i compilatori delle nostre antologie scolastiche (tutti comunisti, com’è noto) finiscono invariabilmente per ritagliare questo editoriale di Lacerba, datato primo ottobre 1914. E questo il motivo per cui ce la ricordiamo bene: in mezzo a tante letture soporifere, Papini ha uno stile che ti dà la sveglia. Senti qui:

Non si rinfaccino […] le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere.

Ah, se sentisse il Ministro Martino…

E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo pianto si sta meglio.

Papini di recente è finito anche al cinema, in una brevissima scena di Un viaggio chiamato amore: è in un caffè di Firenze con dei sottufficiali di passaggio, che declama un suo articolo. Indovinate quale.

C’è una linea fiorentina che forse non risale fino a Dante Alighieri, ma sicuramente a Machiavelli: una scia brillante di scrittori che non sempre (anzi, quasi mai) diventano classici della letteratura, ma conoscono un buon successo presso i loro contemporanei. Perché? Per due motivi. Primo: cercano di scrivere come parlano, un lusso che fino a poco tempo fa solo un fiorentino poteva permettersi. Secondo: dicono cose enormi, micidiali. Machiavelli scriveva saggi su come ammazzare gli avversari politici, con tanto di esempi documentati. Papini spiega che la guerra ha tutta una serie di ricadute positive in vari settori, l’agricoltura, per esempio:

I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiano i fanti tedeschi e che grosse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!

Nel Novecento Papini è il primo interprete di questa scia. Dopo di lui la fiaccola passa a Maccari e a qualche altro strapaesano, ma c’è meno gusto a fare i gradassi quando il gradasso in capo è a Palazzo Chigi. Finché, dopo la seconda guerra la fiaccola viene afferrata da Montanelli, che la impugna con sicurezza, ma la normalizza, la imborghesisce. Ed essa languisce con lui.
Quando Montanelli muore (nell’estate del 2001), l’Italia resta senza il suo grillo parlante toscano, per alcuni mesi. Finché l’undici settembre, in un attico di New York un’anziana signora di Firenze perde la testa, scrivendo torrenti di insulti. Il Corriere della Sera glieli pubblica, senza cambiare una virgola. E gli italiani impazziscono, si rubano il Corriere dalle mani, corrono in copisteria per fotocopiarlo. Gli italiani hanno un bisogno disperato di toscanacci maldicenti.

E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici.

È fin troppo evidente quanto abbiamo perso nel passaggio da Papini alla Fallaci. Senza bisogno di scrivere Cazzo e Fottiti, come il peggio scrittore pulp, Papini resta oggi molto più osceno di quanto non sia mai riuscita a essere la povera signora. A proposito, io della Rabbia e dell’Orgoglio già non ricordo più niente. Mentre questo Amiamo la guerra, veramente, non me lo levo dalla testa.

È scritto bene, diciamolo. Papini è uno dei pochi scrittori italiani che sia veramente riuscito a campare con quello che scriveva. Ma ogni settimana doveva inventarsene una più grossa. Noi ricordiamo solo “Amiamo la guerra”, ma da un numero all’altro Papini doveva consigliare di chiudere le scuole, abolire il senato, picchiare le donne, i bambini e i cani. E quando i futuristi vennero da Milano a fargli i complimenti, lui per un po’ se li tenne cari, poi non ci fu niente da fare: si mise a insultare anche i futuristi. Doveva farlo: era il suo mestiere. Aveva moglie e figlie, tante figlie da mantenere.
Era un polemista, ma non uno qualsiasi: era l’inventore della moderna polemica giornalistica: stringata, ma linguacciuta, razionale ma vendicativa. Oggi ne abbiamo fin sopra i capelli, ma negli anni Dieci c’era solo lui; i suoi colleghi erano rimasti alla retorica dell’Ottocento. E ogni settimana lui li tirava giù, metodicamente, a colpi di temperino. I suoi lazzi e insulti a quel tempo erano un nuovo stile di giornalismo: oggi li chiameremmo satira. Perché, in fin dei conti, avete creduto che Papini parlasse sul serio?

E rimarrano anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa.

Può darsi che Papini si sentisse un po’ barbaro. Della sua famiglia era stato il primo a studiare, e l’ultimo a patire la fame. Aveva la foga rabbiosa tipica degli autodidatti: il suo libro di critica filosofica (una specie di Simulator, appena un po’ più serio) si chiamava Stroncature.
Ma non era uno stupido. Ce n’erano tanti, come lui, che scrivevano o dipingevano roboanti odi alla guerra: Marinetti, Boccioni, Soffici, Carrà… Finirono tutti al fronte, e dal fronte all’ospedale, e chi tornò a casa (Boccioni non tornò) scrisse poi cose molto più tranquille.
Papini – che probabilmente vedeva un po’ più lontano – preferì saltare un passaggio, e a guerra appena scoppiata si convertì al cattolicesimo, senza passare dal fronte. Evitando così un inutile perdita di tempo (e di sangue).

Ora che lo sappiamo, proviamo a rileggere “Amiamo la guerra”. Curioso: a differenza di tutti i suoi colleghi interventisti, Papini non s’immagina mai di dover combattere la sua amata guerra. Il suo è il più smaccato “armiamoci e partite”. Che la facciano gli altri, la guerra igenica: che si tolgano pure di mezzo.

Chi odia l’umanità – e come non si può non odiarla anche compiangendola? – si trova in questi giorni nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. “Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò sono contento che ne spariscano parecchi”.

E veniamo a noi. Dicevo che ultimamente sono un po’ stanco di sentire persone molto più idealiste, realiste, intelligenti e informate di me, che odiano la guerra più di me, ma sono convinti che sia necessaria. E mi viene da dire: signori, se proprio ne siete convinti, andateci. E levatevi un po’ dai coglioni.
Ma credo che loro scuoterebbero la testa, scettici: “non siamo noi che dobbiamo andarci, sciocco, noi saremmo d’intralcio. Lasciamo lavorare chi conosce il mestiere”.
Senza dubbio. Però, permettete: io non m’intendo di geopolitica, ma non volendo combattere, e non essendo tagliato per farlo, non oserei chiamare qualcun altro a far la guerra in vece mia. Non si fa. Non è fine. Chi è in grado di combattere combatta, chi non ne è capace stia zitto e attento. Tutti questi applausi d’incoraggiamento sono indecenti.Tanto si sa che voi resterete a casa, davanti alle vostre confortevoli finestre sul mondo. Sempre pronti a convertirvi al dio di turno, a seconda della convenienza.

E allora ditelo, che sotto sotto la guerra vi piace (purché la facciano gli altri): fa un sacco di spazio, e concima i terreni. E l’economia riparte. Coraggio. Ditelo. Non mi farete più schifo di quanto non mi facciate già. Non mi piace la retorica dei buoni sentimenti, preferisco la schiettezza di chi scrive come parla e parlando dice quello che pensa. La schiettezza di Giovanni Papini:

Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerrà e spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.

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