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mercoledì 26 marzo 2003

Potere Insegnante
(Avvertenza: pezzo fazioso e autocelebrativo. E ci sono tanti altri blog interessanti in questi giorni. Avvertiti).

La scuola è naturalmente per la pace. Come fa a non essere per la pace?
Anonimo sindacalista

So che non siete d’accordo, e non penso di riuscire a convincervi, ma io credo che la diplomazia internazionale potrebbe tranquillamente essere affidata agli insegnanti della scuola dell’obbligo italiana. La situazione, più di tanto, non potrebbe peggiorare – ma se migliorasse?

Quando parlo o sento parlare di containment, mi rendo conto che la maggior parte delle persone non ha un’idea di ciò di cui si sta parlando. All’università, nei master, ai corsi di autostima, si impara ad affrontare i nostri nemici di petto, come se si trattasse sempre di nemici da poco e noi fossimo tanti piccoli Rumsfeld, tante piccole superpotenze. E questo va benissimo, per degli adulti abituati a trattare con altri adulti, più o meno dello stesso segmento sociale.
In fondo sono animali mansueti, gli adulti, gli fai una sfuriata e loro arretrano, istintivamente. Non vogliono grane. Prendili di petto, insegnagli chi è il capo, e loro abbozzeranno.

Ma la scuola dell’obbligo – eh, signori – la scuola dell’obbligo è tutt’un’altra cosa. Mettete da parte i vostri ricordi adolescenziali; mentre voi crescevate e facevate carriera l’Italia è cambiata, e la scuola per prima. Per voi la società multietnica consiste in pratica nel dare una mancia al lavavetri marocchino, e già la cosa è un piccolo fastidio. Ma vostro figlio e il figlio del lavavetri fanno la stessa scuola e corteggiano la stessa ragazza. La lotta di classe riparte da qui, ed è più dura di quanto non crediate.
C’è poco da fare i gradassi, qui. Qui se vuoi delle grane sei il benvenuto. Ed è inutile mostrare le palle, c’è gente pronta a staccartele a morsi.
L’insegnante lo sa.
L’insegnante non ha letto Sun Tzu, non ha letto Clausewitz, ma dopo una decina d’anni di scuola dell’obbligo potrebbe dare qualche lezione a Rumsfeld. Una molto semplice, per esempio: guai a innervosire un avversario disperato. Non c’è nulla di più pericoloso di un torello messo con le spalle al muro. I nemici non si prendono di petto, mai. I nemici vanno addormentati, lentamente. Questo è il containment.
E un insegnante lo pratica tutti i giorni, tre o quattro ore al giorno, solo contro 25/30 torelli in piena ebollizione ormonale. Per farsi rispettare non dispone di nessun armamento convenzionale: per disarmare chi brandisce forbici acuminate o cutter non può far ricorso all’uso della forza, né minacciare ritorsioni. I presidi li sorvegliano, i genitori diffidano di loro, i bidelli scuotono la testa. E le loro macchine restano nei parcheggi scolastici, incustodite, un’esca per qualsiasi vendicatore di ingiustizie.
Eppure in un qualche modo l’insegnante ce la fa. Non sempre, certo. Sui giornali che sfogliate, sotto alle decine di pagine di guerra, a volte troverete nella cronaca locale qualche trafiletto sulla scuola dell’obbligo: un pestaggio, un accoltellamento, un atto vandalico, un racket di merende. È solo la punta dell’iceberg. Il resto è containment, quotidiano containment. Pino, non picchiare Yu col righello. Aziz, ti do il permesso di uscire per fare la pipì, non per fregare il giubbino firmato di Alì. Concetta, se ti do Buono invece di Distinto è perché te lo meriti, non perché sono razzista nei confronti della tua etnìa: cerca di spiegarlo a tuo padre che ha già chiamato il preside per suggerire il mio trasferimento.

Non va sempre bene. Ogni tanto qualcuno esce di testa. La gente non lo sa, ma l’insegnamento è una professione a forte rischio di malattia fisica e mentale. Eppure di solito – novantacinque volte su cento – il containment funziona. Come funziona?
Non lo so. Onestamente. Da qual che ho capito, il containment è un misto di pazienza, simpatia, antipatia, ironia, scenate teatrali, impassibilità, urli, silenzi, minacce, moine, ispezioni, pugni sulla cattedra, praticamente tutto quello che può fare un essere umano senza arrivare al contatto fisico. Qualcosa di molto poco elegante, e tuttavia novantacinque casi su cento funziona.

E a quel punto viene anche spontaneo cercare di applicarlo fuori dalla scuola, ai rapporti con gli amici e coi conviventi, e perché no, alla politica internazionale. Cosa si potrebbe fare con un dittatore del Medio Oriente che tiranneggia il suo popolo e forse dispone di armi di distruzione di massa? Si sarebbe potuto provare, per esempio, con la pazienza, le scenate teatrali, l’impassibilità, gli urli, i silenzi, le minacce, le moine, le ispezioni, i pugni sulla cattedra… con qualsiasi cosa che non fosse lo scontro diretto. Non so cosa ne pensi Sun Tzu o Clausewitz, ma un insegnante lo sa: è una follia sfidare in campo aperto chi non ha più niente da perdere. Siamo sicuri di aver provato davvero in tutti i modi? Siamo sicuri di non aver ceduto all’emotività, all’ancestrale bisogno di mostrare le palle, contro chi è abbastanza sciocco e disperato da potercele strappare?

Ma io chi sono, e a nome di chi parlo? Io sono un supplente, e forse non sono fatto per questo lavoro. (E tanto, per come si stanno mettendo le cose, non andrò mai di ruolo). Sono una persona discretamente coraggiosa, anche nel senso d’imprudente: ho visto le cariche di Genova e i carri armati a Ramallah, e non me la sono fatta sotto. Invece certe mattine, prima di andare a lavorare, mi succede: me la faccio sotto. E questo qualche cosa vorrà dire.

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