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giovedì 25 settembre 2003

L’anno prossimo a Ponte Alto

Terza e ultima

Settembre, a Modena, è l’unico mese che valga la pena. Poi ci saranno le nebbie, le piogge, qualche nevicata, e poi improvvisamente il sole, il sudore, i finestrini aperti su polline e micropolveri, le zanzare e l’afa, e tutti al mare. Non ci fosse questo terrazzino sull’autunno, dove vengono le ragazze vestite di bianco per meglio farsi valutare l’abbronzatura, e il lavoro di rassodamento ai fianchi, non ci fosse un po’ di Festival per farsi il riassunto su chi si è diventati, dove si abita, e con chi, e perché, e quanto al mese e per quanti mesi. Non ci fosse tutto questo si potrebbe anche piantar baracca e burattini e andare dovunque, ché la val Padana non sembra esser stata progettata per noi: per le zanzare, forse (o per le nutrie).
Io poi col secolo nuovo avevo un sacco di cose da dire a un sacco di gente: che adesso abitavo in centro a Modena, e lavoravo, lavoravo anche parecchio, con un contratto a tempo indeterminato, ch’è si raro. Così che improvvisamente il volontariato non mi interessava più. Oddio, il mio capo – che aveva uno stand al Festival – ci avrebbe anche tenuto.
“E poi potresti andare a fare qualche serata al Festival, no?”
“Al festival? Fino a mezzanotte?”
“Ma no, alle undici chiudi”.
“Ma poi il giorno dopo vengo a mezzogiorno?”
“Ehm, no, se fai così tu dopo anche tutti gli altri…”
“Ma allora è straordinario, me lo pagate?”
“No, sarebbe volontariato”.
Eeeh?”
“Volontariato!”
“Beh, qualche volta vi verrò a trovare”.

Il lavoro è lavoro e il volontariato non è lavoro, e a chi mi diceva rifacciamo una rivista un gruppo di studio, o semplicemente tiriam mattina con i massimi sistemi e con la birra io rispondevo non ho tempo vado a lavorar. Mi fermai a sentire Luttazzi, risi tutto il tempo e il giorno dopo non mi ricordavo una battuta sola (pare che a molti faccia questo effetto), vidi i Subsonica, gli Almamegretta, la gente che entrava a vedere i Blu Vertigo, con Morgan che tentava lo stage diving e picchiava per terra ingloriosamente (e la Sammi si incazzò col suo ragazzo perché Asia lo aveva inspiegabilmente salutato). Fu un anno di transizione, come tutti. Del resto a esser precisi il secolo iniziava l’anno successivo.

L’anno successivo, appunto.

L’anno successivo mi ritrovavo a sinistra del Partito, parecchio a sinistra del Partito, per uno che era partito da una parrocchia e non gli sembrava di essersi mosso granché. Allora forse si era spostato il Partito, no?
Tornare da Genova, con le sirene nei timpani, e trovare tra un paio di Megan Gale quel cartello pubblicitario fu come il colpo di grazia. Noi ci si faceva massacrare per strada e il partito restava in casa a fare marketing. Ero molto incazzato, e quando sono incazzato scrivo (riuscite a immaginarvi quanto io sia incazzato?)
Scrissi un pezzo che, a detta di chi se ne intende, è ancora uno dei migliori. La lesse pure mio fratello e rise molto. Un giorno eravamo in macchina assieme – stavamo andando al matrimonio di Virus (che non si ricorda più di essersi mai chiamato Virus) – e passammo sotto quel cartello. “Non dire niente”, mi disse. “So già la storia”. Scrivendo molto non mi restavano poi parecchie cose da dire.
Io sapevo che prima o poi mio fratello l’avrei visto, allo Spazio Giovani, stavo abituandomi all’idea. C’era abbastanza Spazio Giovani per tutti e due? Dovevo farmi da parte?

Per il momento andavo ai concerti (gli Stereolab! Ma l’acustica era pessima) e stavo dietro il banchetto di Attac. C’eravamo presi la nostra posizione e non la mollavamo. In un mese avevamo già stampato cinque quaderni di lavoro, vendevamo magliette, tessevamo una trama di studenti, insegnanti, operai più o meno specializzati. Chiesi al mio capo uno spazio dello stand per proiettare un paio di filmati di Genova, uno coi manifestanti pacifici e l’altro coi manifestanti tumefatti. Non facevamo che guardare spezzoni di Genova, e in sottofondo, onnipresente, Manu Chao, neanche più musica, fruscio. Dovevamo convertire il Partito che il 21 luglio ci aveva lasciati soli. Eravamo in tanti, l’assemblea era prevista per la sera dell’11.

Quando su un tavolo di biliardo una boccia colpisce un’altra, trasferisce su di lei gran parte della sua energia cinetica. La boccia che era immobile schizza via. La boccia che correva si ferma di colpo. Ma se potessimo rallentare come in un filmato, scopriremmo che c’è un istante in cui le due bocce sono ferme, immobili, e l’energia cinetica è trattenuta da qualche parte. La collisione c’è già stata, ma le reazione non ancora. L’11 settembre ci sentivamo così. Venivamo da Genova, andavamo forte, siamo andati a sbattere contro questa cosa enorme. E sapevamo già che non ci saremmo più mossi, e che anche questa cosa enorme in breve sarebbe schizzata via, per la sua rovinosa strada: ma intanto eravamo lì, a bocce ferme, disperati e impazienti. Allo Spazio Giovani avevano montato il maxischermo, così arrivando alla spicciolata sentimmo per la prima volta la voce di Bruno Vespa nel sacrario. E in un momento in cui non ci si capiva nulla, ma davvero nulla, e le stime sui morti variavano dai cinquecento ai cinquantamila, il Ministro Claudio Scajola seppe fornirne la cifra precisa, “da fonte certa, americana”. Quell’uomo era un fenomeno, anzi è.

Tornai a casa, misi su rai 3 e passai la notte sul divano. Nulla sarebbe stato come prima, come si dice in questi casi.

L’anno dopo c’era la guerra e io ero esausto. Cambiare lavoro, raccogliere tremila firme, protestare contro l’Afganistan e l’articolo 18, incontrare la donna della propria vita, sono cose che stancano. In libreria ci sono i soliti fumetti, è inutile che ristampino Moebius, lo so a memoria. C’è una mostra di Wharol, ma quanto tempo ci puoi mettere a guardare una mostra di Wharol? Dieci minuti per leggere la presentazione e tre minuti per un’occhiata ai vasetti Campbell. Al banchetto del Forum Sociale ci andavo per inerzia. Proiettavo l’ennesima videocassetta su Genova (e la gente continuava a fermarsi, sconvolta). Volevo prepararmi sul WTO, lessi tutto il libro di Susan George che in seguito, purtroppo, dimenticai.
Di fronte c’era l’Associazione Italia-Cuba, con le eterne magliette del Che. Il giorno della manifestazione per la pace, spuntò il cartello: magliette della pace.
Lì sotto, sulla riva del lago, c’era lo spazio Giovani, ma io non volevo più andarci, e avevo ragione. C’è gente davvero giovane lì sotto. Una sera stavamo facendo capannello quando non passa un fighetto totalmente stonato con un gavettone di birra? Ed eccoci qui, un architetto, un professore di italiano, un dottorando in filosofia e un avvocato, fradici di birra. Eravamo molto incazzati, in ispecie Johnny, che certe cose ai suoi amici non le può tollerare (lo tenemmo fermo in sei).
“Ti portiamo a casa, eh?”
Verso il parcheggio, sull’argine del laghetto artificiale, quasi inciampiamo in un culetto roseo, sbocciato da un paio di jeans sbottonati.
“Ehi, ma qui c’è un culo!”
“Se guardi bene, non è da solo”.
“Ma che ci fanno lì? Si sono addormentati?”
“Oppure se la prendono comoda”.
“Che roba però, ‘sti giovani”.
“Sfacciati, proprio, eh?”
“Ma figurati se noi alla loro età”.


Sulla strada di casa sorpassiamo il fighetto a piedi con la macchina, il suo fuoristrada ha spianato il guard-rail.

Quest’anno qualcosa è cambiato.
Hanno fermato Tom fuori dal parcheggio custodito: si era fatto un paio di birre. Palloncino, patente ritirata (da dieci giorni a sei mesi, vedremo), dieci punti in meno, mille euro di multa.
Ho la sensazione che nulla sarà come prima.

Per il resto, mi tengo la smorfia dell’anno scorso, ma non sono più esausto, sono solo scocciato. Non faccio banchetti, volontariato non mi ricordo più cosa sia, le ragazze carine sono tutte sistemate, ballare non se ne parla, birra è meglio berne poca. Giusto per vedere Cofferati, che l’anno prima non sarebbe mai entrato in politica, e quest’anno non desiderava altro che prender la cittadinanza a Bologna. La verità è che ho poca voglia di uscire, non sono più abituato a tanta gente nello stesso posto. E poi una volta ero solo, autonomo, parcheggiavo, bevevo qualcosa, un’occhiata in libreria e fine. Ora devo salutare cento persone e tutte mi chiederanno come va col lavoro, e qui dovrò iniziare cento discorsi un po’ complessi.
“Non sarà che comincia a starti stretta, Modena?”
“No, lo escludo. È che… Lo escludo”.
“Cosa prendi?”
“Una bud”.
“Ih, ih, ih”.
“Che c’è?”
“Si pronuncia bad, ignorante”.
“Lo so. Però io dico bud. Problemi?”
“Eeeeh, che carattere”.
“Sei tu che rompi le palle, scusa”.
“Com’è andata al mare?”
“Di merda. E te?”
“E il lavoro, come va?”
“A puttane grazie”.
“Ma quella rivista che facevi…”
“Chiuse tutte le riviste”.
“E quella brunetta che stava in casa con te, sai che a me piaceva…”
“Tornatataranto”.
“Ah… cambiando argomento”.
“Ecco”.
“Quest’anno è uno schifo, non c’è neanche un concerto”
“Ma non direi, stasera è pieno”
“Sì, Irene Grandi lo chiami un concerto. È roba da ragazzini”.
“Infatti”.
“Ma tu cosa ascolti, adesso?”
“Non lo so”.
“Io ho preso il live di Manu Chao, carichissimo! Te lo presto?”
“Magari un’altra volta”.

Ora mi rendo conto che ho raccontato quindici anni di Festival dell’Unità di Modena senza quasi parlare del Partito. Che ha cambiato due nomi, due quotidiani e quattro segretari, due volte nella polvere e una volta al governo. Che a Roma ha perso soldi a palate, mentre qui la gente si dava da fare a friggere piadine e a bollire tortelloni, polverizzando record d’incasso, e poi buttando tutto via per quel lotto di terra a Ponte Alto che alla fine non valeva neanche la pena.
Allora spiegherò una cosa: per me, e forse non solo per me, il Partito è come la parrocchia. È un’istituzione che non va presa troppo sul serio, però allo stesso tempo non la si può prendere in giro, ci vuole rispetto. Non per i preti, che vanno e vengono e di solito non hanno niente di nuovo da dire, ma perché c’è gente che ci ha lavorato, e gratis, e non per un volontariato di un anno o due, ma per una vita.
Voi cosa sapete delle parrocchie? Quello che dice il Papa, o Ruini? Non ne sapete niente. Cosa sapete del Partito? Quel che dice Fassino? Fassino non è nessuno senza la gente che lo sta ad ascoltare. Ed è quella gente che monta gli stand e serve ai ristoranti, e si siede per due ore ad ascoltare il nuovo segretario, e ogni anno ce n’è qualcuno in meno. Quando non ce ne saranno più pianteremo baracca e burattini e ce ne andremo via, perché la val Padana non è degna di essere popolata. Io a quindici anni ero una tabula rasa, se qualcuno mi avesse detto: tiriamo sassi da un cavalcavia, ci sarei andato. Se mi avessero dato una mazza in mano, sarei entrato in uno stadio con quella mazza in mano. Ma c’era una parrocchia, c’erano festival all’aperto, città finte di compensato in cui la gente passeggiava tranquilla e nessuno mi chiedeva chi ero e da dove venivo. Voi l’avete un posto così, nelle vostre smaglianti città? A Modena un posto così c’è, e lo hanno fatto i comunisti, che adesso si chiamano diessini. Per questo andrebbero giudicati, non per le loro idee sballate o per le loro strategie ancora più sballate. Per il loro lavoro, per la loro serenità, per la loro accoglienza. C’erano librerie e i concerti, e banchi del bar, e qualcuno mi chiese di fare il Delegato Letteratura, e tutto è iniziato da lì. E tutto questo mi è stato dato gratis, e il meno che io possa fare è dire: grazie. Mi dispiace per chi non c’è più, ma io ci sono, e ci sono anche grazie a voi.

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