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martedì 18 novembre 2003

D’Annunzio vs Wu Ming


“Io esco. Rispettatemi i morti nel frattempo” (Roberto Grassilli)

Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità (e guardate che le pubblicità sono soldi, e parecchi), andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?
Banalmente, sarebbe finita qui. I morti rimangono morti, i vivi rimangono vivi, i militari italiani rimangono in Iraq. Abbiamo scoperto che siamo in guerra, abbiamo deciso di restarci. Ora potremmo anche tornare alle rispettive occupazioni (in attesa del prossimo allarme). Invece abbiamo altre 24 ore di lutto nazionale. Che si fa?

Ci studiamo le biografie dei caduti? Già fatto. Intervistiamo i parenti, i commilitoni? Fatto, fatto. Li spremiamo un po’ a vedere se finalmente piangono? Ma non è più tempo di lacrime, l’ha detto anche Berlusconi: l’Italia non è più il Paese delle mamme. E allora che si fa?

Nel 1887 il Regno d’Italia era in guerra e non lo sapeva.
L’avventura coloniale era cominciata due anni prima, piuttosto in sordina: un battaglione di bersaglieri era salpato da Napoli alla volta di Assab, un porto nel Mar Rosso acquistato da un armatore privato. L’obiettivo era, secondo alcuni, civilizzare gli indigeni che avevano barbaramente assassinato un esploratore italiano, Bianchi; secondo altri, “cercare le chiavi del Mediterraneo nel Mar Rosso” (il fatto è che la Francia ci aveva appena soffiato la Tunisia sotto il naso). Qualcuno sperava forse di poter collaborare con gli Inglesi alla “pacificazione” e alla relativa spartizione del Sudan: speranza subito frustrata. I Bersaglieri si limitarono a occupare il territorio di Massaua (Eritrea) e a cercare di accreditarsi come mediatori tra i due capi indigeni in lotta fra loro: il Negus d’Etiopia e il suo futuro successore, Menelik. (La mediazione è una vera vocazione delle nostre forze armate).

Non che di questo, tutto sommato, fregasse un granché a qualcuno. Erano anni difficili, in Italia: i movimenti anarchici, il primo socialista in Parlamento, il trasformismo, la pressione fiscale sui ceti meno abbienti, il gioco delle alleanze europee… perfino i nazionalisti, più che all’Africa, guardavano alle più vicine Trento e Trieste.

Quand’ecco che giunge la notizia che una colonna di cinquecento italiani è stata sterminata da un capotribù, tale ras Alula. Cosa avranno pensato, gli italiani, di un eccidio così improvviso e immotivato? Avranno esposto la bandiera, si saranno uniti al cordoglio, avranno pregato per i caduti. E poi? Poi si saranno chiesti, semplicemente, che ci facevano cinquecento italiani in mezzo all’Abissinia. Cosa stavano pacificando? E il Governo? Il Primo Ministro de Robilant, una settimana prima che la notizia giungesse in Italia, aveva risposto in Parlamento che non valeva la pena di preoccuparsi per “quei quattro predoni” che ostacolavano l’operato degli italiani. Alla notizia della strage si dimise. (Ripeto: si dimise).

Rimaneva, in quell’ancora timido embrione di opinione pubblica, un senso di insofferenza per una strage smisurata (paragonabile a quella delle guerre d’indipendenza) in un territorio praticamente sconosciuto, in una guerra che nessuno aveva veramente scelto di combattere. È a questo punto che interviene lo Scrittore. Un individuo che capta una sensibilità diffusa, che riesce a dar corpo a un disagio che nessuno era riuscito fino a quel momento a concretizzare.

Gabriele D’Annunzio pubblica Il Piacere nell’89. È la storia di un raffinato aristocratico, Andrea Sperelli, un artista che promette bene ma che si rovina a causa di due donne. Benché l’autore avverta subito che intende descrivere “tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane”, il fascino del suo personaggio gli prende la mano. Più procede nella depravazione, più Sperelli risulta irresistibile ai lettori e alle lettrici.
Finché non succede qualcosa. Una sera Sperelli va a un concerto, al Palazzo dei Sabini: incontra le due protagoniste femminili e flirta con entrambe; durante un quartetto di Bach si mette a ragionare, freddamente, su come “l’una avventura avrebbe aiutato l’altra”. Uscendo, si imbatte con la carrozza in una manifestazione per l’eccidio di Dogali ed esclama:

“Per cinquecento morti, morti brutalmente!”

La donna che è con lui rimane di sasso. Di sasso rimane anche il lettore. Finora Sperelli non si è mai interessato di politica. E da qui in poi cesserà di interessarsene. Perché parlare di Dogali? E in modo così oltraggioso, poi? Cosa è successo?

Non è successo niente di strano: è D’Annunzio che cerca lo scandalo, e lo trova. Il romanzo viene accolto da mille polemiche. Come osa questo scrittore parlar male degli eroici caduti di Dogali? E D’Annunzio, sornione, che in una lettere all’editore dichiara:

Quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele d’Annunzio, e sta in bocca di quella specie di mostro. […] Perché i critici dovrebbero insanire? Io, Gabriele d’Annunzio, per i morti di Dogali ho scritto una ode molto commossa, pubblicata a suo tempo.

Salvo che dell’”Ode molto commossa” nessuno si ricordava già più: mentre i “cinquecento bruti” se li ricorda abbastanza bene chiunque abbia letto il Piacere. Ma perché allora D’Annunzio si comporta così?

È che ha capito qualcosa d’importante. Forse lo ha capito leggendo, nell’Educazione sentimentale di Flaubert, di come il protagonista, al colmo dell’abiezione (ha portato una prostituta nella camera che aveva arredato per il suo primo amore), senta eccheggiare le prime fucilate di una rivoluzione ed esclami: “Toh, accoppano qualche borghese” (On casse quelque bourgeois). “Ci sono situazioni”, aggiunge subito Flaubert, “in cui un uomo, anche il meno crudele, è così distaccato dagli altri che vedrebbe perire il genere umano senza un palpito di compassione”. Quell’uomo, non crudele, ma spaventosamente distaccato, è lo scrittore, è l’artista. È Flaubert: forse è anche D’Annunzio. Che finora si è divertito a descrivere il suo modello di viveur: a prestargli i suoi modi e i suoi gusti: ma si è fatto tardi, il romanzo sta finendo, il peccatore deve essere punito, i lettori devono tornare riappacificati alla loro triste realtà. Sperelli deve diventare un mostro: tanto vale tirare in ballo la più grave tragedia nazionale, per mostrarne finalmente l’aspetto cinico, brutale, la “corruzione”, la “depravazione”, le “falsità sottili e vane”.

E in più, una volta liberatosi del mostro Sperelli, D’Annunzio è libero. Non è più lo scrittore di torbidi romanzi sull’aristocrazia romana, no: è il poeta civile che scrive “odi molto commosse”. E il suo lettore? Forse anche lui, a suo tempo, aveva osservato un piccolo lutto per i morti di Dogali: e poi era tornato agli affari suoi, e ai suoi svaghi, compresi i romanzi torbidi. Ma ecco che è chiamato a giudicare “il mostro” Sperelli: miracolo! Ora, finalmente, può indignarsi, elevarsi sulla “depravazione” e le “falsità vane” degli aristocratici che non amano la Patria. E Dogali ha acquistato un senso anche per lui. Ora sì che cinquecento morti non sono morti invano. Ora sì che l’opinione pubblica è pronta per l’avventura coloniale: e ci saranno altre spedizioni, altre stragi, altre “odi molto commosse”.

***

Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità, andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?

Ma certo, è così semplice… possiamo indignarci.

Contro chi? Contro chi manda i carabinieri in un luogo che non possono difendere, in una missione per la quale non sono addestrati, in una “pace” che pace proprio non è, contro i Ministri che in Parlamento per tanti mesi hanno minimizzato, minimizzato? Macché.

Ci indigniamo contro il primo pirla che troviamo nell'open publishing di Indymedia: è così facile, è a portata di mano... ci indigniamo contro una piccola casa editrice che fomenterebbe il terrorismo: Luttwak ci mostra come si fa.
Ci indigniamo contro gli scrittori. Contro Wu Ming 1 (Roberto Bui), che ha avuto, per i diciannove di Nassiriya, parole molto ciniche dal primo giorno. E un po’ d’italiani che fino a quel momento non sapevano nemmeno d’essere in guerra e contro chi, hanno finalmente trovato qualcosa per cui combattere: l’indignazione per quello che scrive Wu Ming.

Chi è Wu Ming? Discorso lungo. Diciamo almeno che non è D’Annunzio. Si tratta di un collettivo di scrittori che negli ultimi anni ha prodotto alcuni romanzi notevoli, ma soprattutto un’idea di letteratura ‘impegnata’ che negli anni Novanta si era del tutto persa per strada. Nei mesi che precedettero Genova, i Wu Ming si ritrovarono nel ruolo di agit prop telematici del Movimento: fu un bel momento, credo, per il Movimento e per Wu Ming. Poi ci fu Indymedia, la forumizzazione di Indymedia, la ghettizzazione dei Disobbedienti, e il rumore di fondo coprì un po’ tutto. I Wu Ming continuano ad avere molte cose da dire, ma, diversamente da due anni fa, per lo più si tratta di prediche ai convertiti. E non è colpa loro: è venuto a mancare un terreno di scambio tra ambienti e linguaggi diversi, che avrebbe potuto essere, e non è stato, Indymedia.

E i blog? Anche i blog avrebbero potuto diventare quel terreno di scambio. Che effetto avrebbe fatto una “predica” di Wu Ming su un blog generalista? Ora lo sappiamo, da quando Giuseppe Genna ha postato il pezzo di Wu Ming1 sui morti di Nassiriya su GNU. E gli utenti, illustri e no, si sono uniti in un coro di vibrante protesta. Alla fine, più di Nassiriya, si è parlato di quanto sono stronzi i Wu Ming. (Sorte analoga -- anche un po' peggiore -- è capitata a un pezzo di Gianluca Neri su Clarence). Senza discussioni sul merito, naturalmente. Bui, per esempio, ricordava i fatti di Genova (che rendono ancora difficile a molti italiani, oggi, parlare dei “nostri carabinieri”); ricordava i militari italiani caduti per l’uranio impoverito. Ma, più dei fatti, contava il tono: era un breve pezzo scritto per la mailing-list di Wu Ming: lapidario, cinico, diciamo pure stronzetto. Il massimo per chi vuole avere un “mostro” contro cui indignarsi.

E allora coraggio, indigniamoci. Tiriamo pure fuori Pasolini, che amava i poliziotti proletari: che belli i proletari che vanno a morire per noi in Iraq. Ed ecco: per altre 24 ore abbiamo risolto il problema di cosa dire, di cosa fare. Poi, se dio vuole, torneremo al nostro tran tran. In attesa del prossimo allarme. Perché siamo in guerra, ricordiamo.

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