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martedì 24 febbraio 2004

Si capisce a occhio che io ed Ella Fitzgerald non abbiamo niente in comune.

Maestri di vita (13): la voce di Ella Fitzgerald

Lei era una donna afroamericana e statunitense, formidabile cantante swing e jazz (come ti hanno detto da piccolo e tu non avevi motivo di dubitarne) che dopo una lunga gavetta ha cantato con tutti i grandi. Io sono un trentenne caucasico di mediocri speranze con una voce abbastanza maleducata (senza accompagnamento, stono), e quando non sto dormendo, lavorando, mangiando o scrivendo, probabilmente sto guidando.
In effetti io guido molto. In un certo senso mi piace. Mi fa anche molta paura. Guidare è la cosa che faccio più vicina alla morte. Ogni giorno posso uccidere ed essere ucciso.
È anche la cosa più vicina ai miei simili. Quando sono in macchina, nessuno fa caso a dove sto andando e perché. Ho diritto ad attraversare il mondo a una determinata velocità. Ci sono delle regole scritte e non scritte e io so quando le posso e non le posso rispettare. Tutto questo si riassume in una piccola liturgia: quando sono in macchina è come se stessi lavorando, quando alla fine arrivo a casa ho il diritto di essere stanco e che qualcuno si occupi di me. Gli uomini hanno bisogno di questi piccoli mondi dove tutto è chiaro e regolato: la strada, il bar, il campionato. Le donne forse no, ma gli uomini, se lasciati liberi, amano occupare il loro tempo in questo modo.

In effetti la strada è molto simile alla guerra: un posto dove gli uomini uccidono e si lasciano uccidere in base a un certo numero di regole precise, e in questo modo occupano gran parte del loro tempo senza che ormai nessuno si chieda più il perché. Sì, c’è una guerra dalle mie parti: ve ne siete accorti? Io me ne accorgo quando incrocio qualche vecchio amico della mia età: classe di ferro. Ma non siamo rimasti mica tanti, sapete.
“E hai saputo di Xxxxxxxx?”
“Tremendo, ma com’è stata?”
“La curva del Cantone, sai quanti ne ha presi”.
“Nebbia?”
“Ghiaccio”.
“Sfiga”.
Nessuno sa esattamente perché combattiamo, e contro chi: combattiamo perché è il nostro destino, il nostro modello di sviluppo. Negli anni ’50 c’era una piccola ferrovia, poi la smantellarono; noi siamo cresciuti con una sola idea fissa: prendere la patente: uccidere ed essere uccisi. I nostri amici partivano in avanscoperta e tornavano sulla sedia a rotelle o non tornavano affatto: sfiga. Sembra assurdo, vero? Vi garantisco che non è assurdo, quando ci vivi dentro. È la tua vita e non hai mai pensato che potrebbe essere migliore, perché sei troppo occupato a guidare.

In questa vita io mi destreggio come posso e, modestamente, sono un veterano. Ma non devo la mia vita al mio buon senso, alla mia prudenza o alla mia concentrazione. Chi mi conosce può testimoniare quanto io sia povero di queste tre preziose qualità. Devo la vita forse a San Cristoforo (protettore della mia prima Golf, ma in seguito è stato tolto dal calendario) e Sant’Antonio da Padova; alle preghiere di mia madre e alla musica. La musica in particolare ha per me la stessa importanza che avevano le razioni di tabacco nelle trincee: rendere sopportabile una guerra, colorare quello che e grigio, senza però mai distrarre da quello che accade davanti e dietro.
Diciamo allora che io non sono un appassionato di musica: io ho bisogno della musica. Senza musica non riuscirei ad alzarmi da letto la mattina, perché l’idea di affrontare 100 km. in compagnia del mio cervello che ronza sarebbe inaccettabile. Senza musica mi addormenterei, mi distrarrei. Senza musica mi ucciderei, o ucciderei qualcuno. Non stiamo parlando di un genere voluttuario, ma di un bene di prima necessità.

Molto spesso mi distraggo ugualmente, e il colpo di sonno è sempre in agguato. Oppure sono soprappensiero per via dei miei numerosi problemi. In queste situazioni di solito la musica deve soccorrermi come una scossa, come se l’autoradio si accendesse bruscamente e ti costringesse a cantare. Le cassette da viaggio erano organizzate in modo che nessuna canzone potesse suggerire la successiva: ogni pezzo non aveva niente a che vedere con il precedente. Era anche impossibile memorizzare le sequenze. In questo modo il cervello è continuamente portato a chiedersi: “E adesso cosa succederà? Aspettiamo il prossimo pezzo”. Basta un pizzico di suspance per mantenere il cervello sveglio. E il cervello sveglio porta il guidatore a casa.

Del resto, non tutta la musica va bene. Mi dispiace tanto per il jazz, ma qui si tratta di vita e di morte, e se un pezzo non è abbastanza cantabile la percentuale di rischio aumenta in modo esponenziale. Meglio tanti pezzi brevi. Inconsciamente, finisci per ricostruire un palinsesto radiofonico, di come sarebbero le radio private se non fossero diventate tutte veicoli promozionali di qualcosa. Con gli anni, acquisisci un gusto eclettico o superficiale: ti piacciono i primi tre ritornelli di ogni disco che hai sentito. Peraltro, molto spesso continui ad annoiarti, a farti assorbire dai tuoi pensieri, a fermarti a dormicchiare per tre minuti in un parcheggio.

Però a volte succede un’altra cosa: che improvvisamente ti accorgi che stai cantando, e non ti ricordi quando hai cominciato. Un minuto fa avevi la fronte pericolosamente aggrottata; ora hai gli occhi spalancati, canti e sorridi. La percentuale di uccidere qualcuno è calata bruscamente. Cosa è successo? Molto probabilmente la tua radio personale ha fatto passare un brano di Ella Fitzgerald.

Allora capisci quello che ti hanno detto da piccolo e che non avevi motivo di dubitare: Ella Fitzgerald è la più grande. Perché quando canta lei, anche i bianchi stonati caucasici si mettono a cantare, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lei non ha bisogno di dimostrare nulla: niente vocalizzi audaci, niente acuti acutissimi: ma la sua voce è come una ragazza che viene a prenderti dal tavolino del ballo delle Medie e ti dice: “Dai, vieni, è facilissimo”. E tu ci vai, e cavolo, per un attimo sembra facile davvero. Perciò, quando gli altoparlanti mandano i pezzi di Ella, i ragazzi nelle trincee canticchiano, e per un attimo si sentono a casa, in salvo.

I’ll be down to get you in the taxy, honey
You better get ready, half past ten
I mean, don’t be late...


Ella è anche il simbolo del tipo di arte che piace a me, quella che vorrei fare io, se ne fossi capace. Un’arte che ti fa cantare e muovere il piede. Tutto qui? Sì, direi che è tutto. Certo, ogni tanto è bene anche dare un po’ di fastidio, scandalizzare, sperimentare. Ora dico una cosa un po’ snob: a me piacciono gli Area. Complessivamente credo che siano pretenziosi e inascoltabili, ma in ogni disco che ho ascoltato ci ho trovato almeno una o due canzoni belle e originali, e non è da tutti. Però ve lo immaginate il supplizio di svegliarsi la mattina con in testa una canzone degli Area? Se cerchi di cantarla sembri Tarzan con le adenoidi; non puoi battere il tempo perché è in tredici sedicesimi; così te ne resti tutto il tempo con questa canzone degli Area che non va né su né giù. Gli Area mi piacciono, ma non possono salvarmi la vita. Qualche pezzo ogni tanto va bene, ma io ho bisogno di Ella Fitzgerald.

Rimane il dubbio: Ella mi salva la vita, o è un modo in cui la vita mi costringe a restare al mio posto, dove uno di questi giorni potrei uccidere ed essere ucciso?
Ma il dubbio è un lusso che mi consento la sera, dopo un caffè, quando ho le idee abbastanza chiare. Di giorno c’è troppa confusione, troppa fretta, troppo pericolo. La musica non è un lusso: è qualcosa che mi salva la vita quando ne ho bisogno. Un giorno forse mi ribellerò, ma ora non ho tempo. Ho bisogno di Ella Fitzgerald.

...see you tomorrow night, at the darktown stutters' ball.

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