Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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giovedì 29 novembre 2007

il più grande statista, finché tace

L'uomo inutile

In questi giorni di grande confusione, in cui Forza Italia si scioglie e si rifonda anche in due ore, io non saprei proprio dire chi vincerà, ma se dovessi puntare sul perdente scommetterei tranquillamente su Gianfranco Fini.

Perché proprio lui?
Perché è inutile. Anche se molto popolare. Ecco un altro mistero italiano: ogni volta che si fa un sondaggio di popolarità, quel tizio è in cima. L’impressione è che la gente si vergogni meno di lui che di Berlusconi, almeno quando parla ai sondaggisti. Poi nel segreto dell’urna fa altre cose. Fini è stato la faccia seria del centrodestra, fino a ieri. Ma poi alla fine uno cosa se ne fa, della faccia seria?

Fini è un caso di hybris, la superbia che offende gli Dei. Passare in una sola generazione dal Fronte della Gioventù a Palazzo Chigi non si può fare, spiacenti. Capisco benissimo che ti rode, con tutti questi ex partigiani al Quirinale. C’è la piccola differenza che hanno vinto la guerra, loro. Mentre tu, tu hai scelto il tuo destino un pomeriggio che volevi andare a vedere un film con John Wayne e dei comunisti non ti facevano entrare. Ora, capisci anche tu che non suona bene come la storia della via di Damasco. Se quel giorno non avessi scelto John Wayne, forse oggi saresti più presentabile. E cioè saresti un presentabilissimo Signor Nessuno, perché tutte le belle figure della vita le hai rimediate circondandoti d'imbecilli. Sei sempre stato il più furbo tra i pecoroni, il più profumato degli stronzi. Ma quanto vali veramente? Difficile dirlo.

Cosa lasci ai posteri? La legge di Bossi sui flussi? Qualunque xenofobo era in grado. Un partito post-fascista che sta per confluire in un movimento post-post-fascista che a sua volta… tre righe d’enciclopedia ti faranno giustizia. Tu dovevi dimostrare che gli ex fascisti erano diventati persone ragionevoli. Ma poi alla lunga cosa ce ne facciamo, di ex fascisti ragionevoli? Non servono a niente, è questa l’amara verità. Fanno solo arrabbiare i fascisti irragionevoli, i cui voti oggettivamente fanno gola. A Gerusalemme hai messo la kippa, e hai strappato con la Mussolini. Hai parlato di voto agli stranieri, e hai strappato con Storace. Sei un accorto politico, finché taci: appena parli cominciano i guai. Se anche riuscissi a ripulire del tutto le stalle di Augia del tuo partito, non ci servirebbero a niente, perché quello che interessava veramente non erano le stalle in sé, ma il marciume che c’era dentro.

Ora che dopo mille pulizie il tuo salotto è quasi pulito, guarda che succede: invece di venire a prendere il caffè da te, Berlusconi sta rovistando nella tua spazzatura. Esce con Storace. Se serve si metterà d’accordo anche con Forza Nuova. Perché Storace e Roberto Fiore sono quello che Gianfranco Fini era nel 1994: simpatici teppisti con tanta voglia di fare. Tu invece sei un ex teppista che hai solo parole di buon senso, e che se ne fanno a destra del buon senso? Ed è inutile alternare colpi al cerchio e alla botte: se voglio un politico che parla bene delle imprese coloniali italiane, ne trovo di più convinti di te. Se voglio un filoisraeliano, ne conosco anche di quelli che da piccoli non inneggiavano al Duce. Idem se ne cerco uno che tenda sinceramente la mano agli stranieri. Ognuno hai i suoi gusti, ma tu, tu sei uno strano cocktail di rum e olio di ricino, per quale motivo al mondo dovrei mandarti giù?

Ieri da Mentana hai osato una cosa incredibile: una battuta su Berlusconi. Hai osato insinuare che non sia molto sviluppato in altezza. Ecco, se volevi caratterizzarti come un politico serio offeso dalle ultime piazzate del padrone di casa, hai sbagliato registro. Per l’ennesima volta. Non azzecchi mai il tono giusto, questo è il problema. Finché stai zitto funzioni. Ma in politica non si può star zitti sempre, ecco il dramma.

Lo scrivo senza pietà, ma neanche compiacimento, perché alla fine credo che tu sia stato sul serio il meno peggio. Però sei anche l’anello più debole, e la catena comincia a tirare. Niente di personale, eh. Massimo rispetto, come sempre, finché taci.

martedì 27 novembre 2007

farsi gli affari tuoi

Deal or No Deal

Il culto del Presentatore
Per molto tempo il successo italiano di Affari Tuoi è stato attribuito unicamente a Bonolis, alle sue doti d’imbonitore di piazza. Non è bastato che se ne andasse; occorreva sostituirlo con una mezza calza perché ci si rendesse conto che le sue piazzate occultavano il vero fulcro della trasmissione: il format.
La conduzione di Pupo fu uno psicodramma. Sostanzialmente Affari Tuoi è la cosa più simile a un giuoco d’azzardo che si possa trasmettere sui canali in chiaro: mettere in cabina di comando una persona che aveva un problema di dipendenza dal gioco era la scelta più dissennata che si potesse fare: non basta essere incompetenti, bisogna anche essere un poco criminali. Come affidare a un ex eroinomane la distribuzione del metadone, se mi spiego. Che poi come conduttore, oggettivamente, facesse schifo, pazienza: è già miracoloso che non si sia rimesso a giocare immediatamente. Io al suo posto l’avrei fatto. Massimo rispetto a Pupo.

Con Insinna finalmente la versione italiana ha trovato un suo equilibrio; ancora un po’ sbilanciato sul presentatore (che suda, soffre e impiega il tempo sparando sequenze randomizzate di aforismi) mentre all’estero il protagonista è piuttosto il concorrente. Ma che ci vuoi fare. Se la tv è una pandemia mondiale, il Culto del Presentatore è la variante specifica italiana. E chissà, se ci fosse stata concessa, anche solo una volta nella Storia della Repubblica, la possibilità di votare Mike Bongiorno, ci saremmo finalmente tolti questo maledetto sfizio. E invece la nostra passione frustrata per il signore che a turno domina il video ci ha portato a cercare sulla scheda elettorale i surrogati più pittoreschi. Ma in fondo è lui che volevamo. L’ossessione italiana per l’uomo che conduce i telequiz è forse quel che resta dell’antica attrazione per il Tribuno, il Capo-popolo, l’oratore da balcone. Sì, in un certo senso è ancora fascismo, ma in una forma, come dire, benigna: non è un complimento, si dice la stessa cosa di certi tumori.

Matematica pratica
Resta da capire cos’ha questo format di irresistibile, più o meno in tutto il mondo. Ciò che lo rende diverso da ogni altro gioco a premi è il fatto che mancano le domande. Quindi la cultura generale non serve più. In questo modo è finalmente abolito il vantaggio che di solito godono gli enigmisti enciclopedici, gli antenati dei geek: quel tipo di persone che quando vengono a cena corri a nascondere il Trivial Pursuit.
Affari Tuoi sostituisce l’enciclopedia con le cifre; ma anche la sua matematica è la più pratica e universale che si possa immaginare: il linguaggio dei soldi. Se non vi è capitato di insegnarla a scuola, non avete idea di come diventi più intuitiva e facile la matematica appena aggiungiamo alle cifre il simbolo €. Bambini assolutamente refrattari all’idea astratta di “frazione”, non esiteranno a sommare due mezzi euro per ottenerne un intero. In questo senso la macchinetta delle merendine, arnese diabolico sotto quasi tutti gli aspetti, assolve una funzione pedagogica da non sottovalutare.
La cultura è di chi se l’è potuta permettere, ma l’aritmetica degli € è alla portata di tutti. Ciò rende, in teoria, Affari Tuoi il gioco veramente democratico: un verduraio ha più possibilità di vincere di un laureato per il semplice motivo che sa fare meglio i conti.
Il problema in Italia è che persino l’accorto verduraio, quando va ad Affari Tuoi lascia i suoi istintivi algoritmi a casa e si gioca i numeri come se fosse il lotto, col pretesto che tanto è un…

…gioco d’azzardo
E senz’altro lo è. Però, attenzione.
La fortuna è importante. Ma non è l’unico fattore, e non è poi molto più determinante che in tanti altri giochi a premi. In realtà Affari Tuoi non è che una forma semplificata del poker. A poker la fortuna conta; ma quante possibilità avremmo noi di vincere una mano col campione del mondo in carica?
Ciò che rende Affari Tuoi un vero gioco di azzardo non è tanto il caso, quanto la funzione assegnata ai soldi: ad Affari Tuoi si possono perdere. Dopo decenni di quiz che attiravano l’attenzione degli spettatori erogando soldi a pioggia sui vincitori, qualcuno ha capito che la medesima attenzione si può ottenere anche con la sottrazione. Naturalmente, la pruderie del ventunesimo secolo ci impedisce di saccheggiare i risparmi dei concorrenti (anche quelli che per condotta di gioco lo meriterebbero ampiamente); il colpo di genio sta appunto nel regalare in un primo momento i soldi al concorrente, soltanto per lo spettacolo di toglierglieli in un secondo momento. Il successo di questa innovazione è stato tale da contagiare altre produzioni; per esempio da due anni a questa parte un quiz molto più tradizionale, come L’eredità, funziona in una maniera simile: prima ti fanno vincere cifre nominali molto alte, e alla fine te le tolgono, per il gusto del sadico telespettatore.

La messa in scena
Se dunque per vincere mezzo milione occorre una notevole dose di fortuna, per uscire da Affari Tuoi con meno di ventimila euro in tasca bisogna essere un imbecille. Il fatto è che tutto è messo in scena appositamente per farti fare una figura da imbecille.
Il gioco in sé è molto semplice. Il tuo avversario ha una carta in mano, e tu devi scartarne altre 19. Quelle blu sono brutte, quelle rosse sono buone. Ogni tre carte l’avversario ti fa un’offerta. È chiaro che scartando le blu l’offerta sale, viceversa scende. Se te la spiego in questo modo, ti ho già suggerito la strategia di gioco ottimale: quando vedi che hai scartato più rosse che blu, accetti l’offerta. Se ti offre di cambiare carta, rifiuti, perché le possibilità di cambiare un rosso con un blu sarebbero aumentate (se invece avessi già scartato molte blu, dovresti accettare). Non c’è nient’altro che tu possa fare, razionalmente.
Questo discorso razionale va invece a farsi benedire nel momento in cui alle carte sostituisco i famigerati pacchi. Tutto l’inganno sta nell’ultimo pacco: è la carta in mano all’avversario, eppure è il “mio” pacco, ce l’ho davanti a me, mi è stato consegnato dalla Dea Fortuna, dal destino, dal povero nonno buonanima, da Padre Pio, da Rai1. Il risultato di questa messa in scena è che, invece di prestare attenzione al numero di pacchi rossi e blu ancora in gioco, e a cogliere i segnali impliciti nelle offerte dell’avversario, la maggior parte dei concorrenti va semplicemente avanti a testa bassa, come al bingo. L’errore è credere che tu abbia già vinto qualcosa, e che qualcosa sia nel tuo pacco, e che tutto quello che sta in mezzo sia solo un’agonia in attesa di scartare finalmente il tuo pacco. Mentre invece il premio finale dipende semplicemente dalla tua contrattazione col nemico. Di solito i concorrenti se ne rendono conto soltanto verso la fine della partita. E piangono. Quelli che alla fine del match hanno preso di più della prima offerta rifiutata sono veramente pochi.

La cabala
Nel frattempo, piuttosto di piegarsi a un vile compromesso, hanno sciorinato tutte le cabale possibili e immaginabili. L’anniversario di matrimonio. Il numero fortunato. L’oroscopo, la smorfia, i ritardatari. E intanto lo spettatore da casa oscilla tra la pietà e il cinismo. Quest’ultimo scatta di fronte a conclamati casi umani, come quel tizio che si ritrovò all’ultima scelta tra un euro e centomila. È chiaro che qualsiasi animale razionale avrebbe preferito un’offerta intermedia piuttosto che ritrovarsi in questa situazione. Ma il concorrente preferiva giocarsi il compleanno della madre. E perse. Insinna, diabolico, lo congedò con un pistolotto che in sostanza diceva: hai perso i soldi, ma hai salvato l’affetto di tua mamma. Nel frattempo probabilmente mamma sua lo diseredava e malediva.

Mort aux cons (Vaste programme)
Veramente, quando certi fessi piangono, non sai se piangere con loro o ridergli in faccia.
Personalmente ammetto un pregiudizio: per me vincere soldi in un gioco a premi è moralmente ingiusto; e probabilmente c’è anche un po’ d’invidia, perché se non lo trovassi moralmente ingiusto anch’io parteciperei, e siccome conosco l’abc del calcolo delle probabilità, sicuramente porterei a casa qualcosa di più del fesso di turno. Ma insomma, la mia è la vita del pigro razionalista nel paese in cui la religione di Stato è l’oroscopo: un po’ li odio, i miei simili, un po’ vorrei salvarli, ma di fronte a spettacoli del genere mi rendo conto che non ce la farò mai, e allora ripasso all’odio. Se fossi un po’ meno Pigro diventerei semplicemente Cattivo, ed entrerei a far parte in una di quelle entità che distribuiscono i pacchi e si prendono gioco della povera gente superstiziosa. Siccome lavoro nella scuola di Stato, non è detto che io non l’abbia già fatto senza accorgermene.

Il pacco mondiale
Quando mi sono messo a scrivere, volevo usare i pacchi come un pretesto per scrivere degli italiani e di certi loro vizi (irrazionalità, fatalismo, culto del presentatore). Strada facendo mi sono ricordato che Affari Tuoi è un format internazionale, che funziona bene in un sacco di Paesi. Anche se dovunque è un po’ diverso. Per cui un discorso serio sull’italianità dei pacchi dovrebbe passare attraverso uno studio comparato delle versioni nazionali; una cosa che non ho tempo di fare, ma se fossi laureando di Scienze della Comunicazione ci farei un pensiero (non esistono solo le tesi sui blog. Faccina ironica). L’unica cosa che posso dire è che la versione francese è molto più glamour, con flash e lustrini che confrontati al calore del nostro legno e del nostro cartone ondulato danno comunque un’impressione ospedaliera; che in Francia colui che Bonolis battezzò l’“infame” si chiama “banque” ed è persino fuggevolmente inquadrato, ma solo di spalle; tutt’un altro rispetto per le autorità, come si vede; e che almeno l’anno scorso c’era una cassaforte con davanti un figo pazzesco. Non faceva niente, stava lì nell'uniforme di guardia giurata: in confronto la Gregoraci si guadagna il pane. E mi è venuto in mente che Affari Tuoi è l’unico gioco italiano senza vallette. I pacchi italiani non hanno bisogno nemmeno del sesso. Notevole.

Non si patteggia
Mettiamola così: Affari Tuoi è un gioco che insegna ai cittadini del mondo l’importanza di contrattare, di venire a patti col destino. Ciò che rende la versione italiana uno spettacolo struggente, drammatico, irresistibile, è che gli italiani non imparano mai. Sono convinti che ci sia qualcosa di eroico nel rifiutare le offerte e andare avanti. Il pubblico applaude e loro si convincono vieppiù di stringere tra le mani il Pacco Finale, nel quale ci sono Meno Tasse per Tutti, o le Riforme, o le 35 Ore, o la Commissione d’Inchiesta, eccetera eccetera. Vanno verso la rovina tra gli applausi, e si credono anche dei grandi personaggi. Invece sono dei poveri cristi ai quali, se solo avessi più coraggio, dovrei semplicemente ridere in faccia.

giovedì 22 novembre 2007

tunc!

Adesso, se toccasse a me fornire un consiglio di bassa politica, non mi tirerei indietro: Prodi, dimettiti.

Non fraintendermi. Sarai sempre nel mio cuore. Io non sono come tutti gli altri blog intelligenti, che ti prendono per un nonnino suonato. O meglio: io continuo a pensare che un nonnino suonato bolognese è in grado di dare la paga a dieci manager lombardi e cento intrallazzoni romani, per cui ti prego di accettare l’espressione della mia più profonda gratitudine. Hai salvato la patria un paio di volte, mentre i supereroi erano al cinema o in missione per salvare l’Africa, le staminali, la pena di morte, tutte le gloriosissime cause perse del mondo. Meriti monumenti in tutte le città, ma non te li faranno; pazienza, vorrà dire che i piccioni si libereranno su quelli a Veltroni. Non è così importante. Hai fatto tutto quello che hai potuto, e a volte anche qualcosina che non potevi, ma l’hai fatta lo stesso: continua così. Quello che ci serve è un ultimo, sublime sacrificio.

Metti la fiducia sulla prima cretinata che ti viene in mente. Non stare nemmeno a spiegare il perché e il percome, aspetta il voto negativo e poi dimettiti. Devi farlo adesso, mentre Fini ancora strilla coi pugnetti alzati che con Berlusconi non ci gioca più. A gennaio si vota, e li voglio vedere, lui e il Polipo della libertà, di nuovo apparentati. La faccia di bronzo ce l’hanno, ma stavolta non basta. Stanno giocando alla Rottura perché credono di avere il tempo di ricucire: tu dimettiti. Andiamo a vedere il bluff. Il Polipo vale il 35%? E cosa ci fa, con questa porca legge elettorale? Berlusconi ha avuto fretta di chiudere per un anno, adesso però ha bisogno di un po’ di tempo. Col cavolo. A votare subito, e vediamo se regge un’altra sconfitta.

Mi sbaglio? Che importa, tanto lo so che non lo farai. Non si gioca con le istituzioni repubblicane, non si sciolgono le camere a seconda delle opportunità, è roba da Chirac. Tu sei troppo responsabile. Sempre con questa mania di voler salvare gli italiani. È un’ossessione che non paga mai. Tu sei l’ultimo discendente di una stirpe di statisti che in mezzo al caos italico si autoconvincono che la priorità è il bilancio e non deviano mai dalla rotta. Come se all’elettore fregasse qualcosa, del bilancio. Tu cerchi di quadrare i conti e intanto loro intonano canti nostalgici all’inflazione, alla liretta, ai bei tempi quando non si soffriva della concorrenza rumena perché la Romania eravamo noi. È un popolo che non ti merita, diciamo la verità. Tu sei un nonnino suonato, ma per noi sei già troppo. Lasciaci perdere.

Altrimenti si potrebbe andare avanti all’infinito: cinque anni di bengodi berlusconiano, due anni di stringi-la-cinghia prodiano. Cinque anni di condoni, due di lotta; cinque carnevali, tre quaresime. È evidente che tu e il polipo siete le facce di una stessa medaglia.
E allora tu buttala via. Nessuno ti capirà, ma cosa importa? Basta che scampi uno solo per cantare le tue gesta, e sarò io. Tu per me sarai per sempre l’ammiraglio Ramius di Ottobre Rosso, che quando sente il siluro avvicinarsi, inverte le rotta e gli va addosso: si sente un gran tunc!, e il sottomarino è salvo. Anticipando la collisione non gli ha dato il tempo di scoppiare.
Oppure il sergente di Salvate il soldato Ryan, che si vede un tedesco armato a un metro, non ha nemmeno il tempo di prendere in mano il fucile, e allora sai che fa? Si toglie l’elmetto e glielo tira in testa. Lascia perdere le saghe, le guerre vere si vincono così. L’olimpo degli eroi veri è un circolo acli di nonnetti suonati. È tempo di raggiungerli.

martedì 20 novembre 2007

gazebole

Il Polipo delle Libertà

– Io non ho la minima idea di quanti gazebo fossero attivi in questi tre giorni. Sul sito di Forza Italia si parlava di aprirne 10.000, una stima lievemente ottimista per quel poco che m’intendo di attivismo politico. Sarebbe come dire un gazebo ogni 6000 italiani, bambini ed extra inclusi.
Ma diamogliela per buona, gliene abbiamo date tante. Supponiamo che in Italia in questi tre giorni ci fossero 10.000 gazebo aperti (3x10=30.000) dalle otto del mattino a mezzanotte con orario continuato, quindi per un totale di 16 ore (30.000x16=480.000). In totale questi gazebo sono stati aperti per 480.000x60=28.800.000 minuti, pari a 28.800.000x60=1.728.000.000 secondi.
Berlusconi ormai sta parlando di 10 milioni di firme. 1.728.000.000 diviso 10.000.000 fa 172,8. Significa una firma ogni tre minuti scarsi, no stop per sedici ore al giorno, in diecimila gazebo. Correggetemi se sbaglio, ma insomma, la sostanza è che avrebbe firmato un italiano su sei. E scusa, con dei numeri così, come fai a perdere tempo con dei mentecatti stile Bossi o Fini? Come fai a non fondare un partito nuovo? È il popolo che te lo chiede.

– Durante il week-end mi sentivo in effetti un po’ stanco, esaurito. Ora so il perché: evidentemente sono andato a firmare anch’io, facendo una lunga coda al freddo, prima di poter scorgere il gazebo all’orizzonte. Non me lo ricordo perché ero in trance, ma statisticamente qualcuno nel mio quartiere deve pure esserci andato. Dunque ho firmato per… per andare a votare subito, no? E chi le ha raccolte tutte queste firme? Berlusconi! E cosa ci fa con queste firme Berlusconi? Non hanno ancora smontato i gazebo che lui già sta mercanteggiando con Veltroni per prolungare la legislatura in attesa di una nuova legge elettorale. Ma come? 10 milioni di italiani firmano per le elezioni subito e tu li prendi in giro così? E nessuno protesta? Protesterò io! Oh, Silvio, abbiamo firmato una petizione, mica un assegno in bianco! La legge elettorale che c’è va benissimo, del resto l’ha fatta il tuo governo, come può farti schifo?

- Uno sarebbe in effetti portato a riderci su. La possente corazzata della CdL ha sbattuto contro il fragile governo Prodi ed è andata in pezzi. È bastata una cosa semplicissima e inaudita: che i senatori si dessero un po’ da fare, che approvassero una finanziaria senza fiducia e senza indulgere al mercato acquisti. Un sussulto di dignità che forse in parte dipende anche dalla famosa ondata antipolitica.

- ...Eppure non ce la faccio. Temo Berlusconi anche quando regala gazebi. So benissimo che non ha nessuna vera idea nuova, non ignoro che possegga ormai un decimo della vitalità e della fantasia del 1994. Come può riciclarsi cambiando semplicemente nome e ragione sociale? Con che faccia convincerà i liberisti, lui che in due governi non ha liberizzato quasi niente? Con che sorriso prometterà posti di lavoro, lui che ha ruminato un po’ la Treu e l’ha rigettata peggio di prima? Forse che calerà le tasse, come ha fatto nel… nel… nel… forse che le ha mai calate? Eccetera eccetera. Chi ci può cascare ancora? Mah, gli italiani, per esempio.

Siamo così stupidi? Sì, può darsi. Se abbiamo appena fatto aprire un centro bellezza a Vanna Marchi, perché non dovremmo ricomprarci lo stesso Berlusconi avanzato da due anni fa nel nuovo pacco novità? La stupidità italica è un'ipotesi di lavoro; io non è che stia conducendo ricerche in merito, salvo ogni tanto a cena quando vedo Affari Tuoi. Il gioco dei pacchi, sì. È un format internazionale, perciò sarebbe interessante vedere come funziona all’estero. Da noi è un disastro. I concorrenti non hanno quasi mai il minimo rudimento di matematica e statistica; viceversa si affidano alle cabale più oscene, rifiutano offerte allettanti e vanno avanti anche quando hanno cinque pacchi brutti contro uno buono. Ogni sera vedono sbagliare i loro connazionali, e quando tocca a loro vanno e sbagliano. È una specie di istinto di autodistruzione che ci ha preso da trent’anni in qua, come ai lemmings. Salvo che la storia dei lemmings che si suicidano in massa era una bufala, mentre gli italiani… noi sì che dovremmo andare su discovery channel, un giorno o l'altro. “Italiani: il segreto di un popolo votato alla perdizione!” Peccato non esserci quando lo trasmetteranno.

giovedì 15 novembre 2007

land of fucking geniuses

5 diagnosi su House
(una potrebbe anche essere corretta)

Se siete della razza che scarica i telefilm (pardon, le serie) da internet, misurandovi reciprocamente i centimetri sulla barretta di bit-torrent, alla fine House non è che il solito prodotto di nicchia che vi identifica e vi gratifica: e beati voi.

Se invece siete ancora nella fase catodica, come me, probabilmente condividete l’incredulità, l’imbarazzo, il fastidio di aver dovuto premere il pulsante 5 del telecomando in prima serata. È una cosa che non facevo più da anni - che forse non avevo mai fatto. Oddio, beh, qualche pezzo di Grande Fratello quando c’era Franco, ma… insomma, io pensavo di non avere più nulla a che fare con quel Canale, con quel target, con quel mondo. A Italia1 ci si attacca in un disperato tentativo di restar giovani, Rete4 da sempre blandisce col piacere proibito di sentirsi intelligente vedendo gli idioti al lavoro. Canale 5 è una cosa diversa, una cosa seria. È la morte che si mette in marcia. Quando il programma che ti piace di più va in onda in prima serata su C5, sei definitivamente uscito dalla nicchia. Sei un adulto medio. Sei brutto. Tra un po’ sarai anche vecchio, e andrai a dalla De Filippi a piangere e scatarrare nei fazzoletti.

Non puoi nemmeno invocare l’errore umano: House non è finito su C5 per sbaglio. Se l’è sudato tutto, il percorso verso la prima serata generalista. Se l’hanno messo lì, è perché funziona: ci sono milioni di italiani che lo guardano. Alla faccia della nicchia. Giovani, adulti, casalinghe che stirano mentre il dottore drogato trapana cervelli per mettere a fuoco un’ipotesi. Come ci si sente, ad avere gli stessi gusti di milioni di italiani? Fa un po’ senso, vero?

Non è un incidente di percorso. A un certo punto la Mediaset si è gettata anima e cuore sul dottore drogato. La copertina di TV sorrisi e canzoni, che non è mica Rolling Stone; le telepromozioni imbarazzanti (dopo aver diagnosticato una rarissima forma di cancro, il doppiatore si mette a decantare con lo stesso tono le virtù della skoda fabia). Il punto di massima speculazione l’ha toccato Mentana, che una sera per battere Vespa ha messo su una replica di House. Col dibattito. Ma il dibattito veniva dopo: in sostanza era una replica di House, e contro la Franzoni ha fatto il botto. A pensarci, è l’uovo di colombo: bisognava pensarci prima. La De Filippi non ha abbastanza casi umani da opporre alla Clerici? Proietta in studio una puntata di House! La fiction in costume fa schifo alla miseria? Titolo: La Contessina di Villapenosa stasera presenta il Doctor House! Il reality sprofonda nella noia? Costringi gli inquilini a guardare House, e piano piano zoomi sul loro televisore. E se il pubblico gradisce, perché no?

Già, ma si può sapere perché il pubblico gradisce? La reazione del pubblico generalista italiano a House contraddice tutte le conclusioni scientifiche e sperimentali degli ultimi due decenni, tra cui il primo, fondamentale postulato di Berlusconi (i programmi vanno pensati per “un bambino di 11 anni neanche tanto intelligente”). È una cosa che non può assolutamente passare liscia, così ho preso la mia lavagna e ho messo giù alcune ipotesi di lavoro.

Prima ipotesi: House è un programma stupido. Perlomeno, molto meno intelligente di come si presenta. Dietro la gratificante superficie intellettuale e specialistica, le trame sono abbastanza lineari: c’è un malato e un dottore che lo salva (quasi sempre).
Qualche anno fa fece molto rumore un libro che diceva che i telefilm fanno diventare intelligenti perché mettono al lavoro tutta una serie di abilità del tuo cervello. Alcune cose erano interessanti, ma mi colpì molto il fatto che citasse un dialogo di ER in medichese spinto: la pressione è a ottanta, quindici milligrammi di betaprozitene, stiamo perdendo la cistifellea, ecc. ecc.
Qui evidentemente c’è un equivoco: nessuno impara la medicina guardando ER, altrimenti i nostri padri sarebbero tutti diventati bovari provetti a furia di Bonanza. Di fronte a uno sfoggio di vocabolario tecnico, lo spettatore ha lo stesso atteggiamento di Linus Van Pelt quando legge i fratelli Karamazov: “Come fai a pronunciare tutti quei difficili nomi in russo?” “Mi limito a guardarli”. A parte qualche studente di medicina, nessuno è veramente in grado di seguire i percorsi diagnostici di House: noialtri ignoranti ci limitiamo a guardare quel che succede, e constatiamo che il dottore drogato sbaglia molto ma alla fine ce la fa quasi sempre, e nel frattempo produce una serie di facce spassosissime. Siccome quell’attore, prima di House, faceva il papà di Stuart Little o il cattivo della Carica dei 101, l’ipotesi non è da buttar via: ci crediamo tutti esperti di medicina, ma siamo ancora e sempre 11enni poco intelligenti, che con la scusa delle diagnosi ci esaltiamo con le smorfie.

Seconda ipotesi: Turismo ospedaliero. Ci pensavo ieri sera. House ha dei colori meravigliosi. Quell’ospedale è bellissimo. Molto spesso è autunno, e cosa c’è di più bello di un autunno nel New Jersey? È tutto meravigliosamente pulito e ordinato, un mondo a mille miglia dagli ospedali italiani. Forse House per noi italiani è pura evasione in un mondo di ospedali colore arcobaleno. Una volta non si poteva andare in Africa, e allora si andava al cinema a guardare il film coi leoni. Adesso Sharm el Sheik te lo regalano, ma una degenza in un ospedale del genere è ancora un’esperienza da mille e una notte. Va da sé che lo stato della sanità USA non è esattamente quella dipinta nel telefilm, per cui a questo punto mi viene in mente una…

…Terza ipotesi: la rimozione della politica. House la sostituisce con la natura. Per lui è naturale lavorare in un ospedale al top, dove possono entrare pazienti di qualsiasi ceto sociale: le differenze sociali sono occultate con molta eleganza. Che tu sia zingaro o miliardario, ti curano notte e giorno e non ti fanno mai vedere la parcella. L’unico tipo di politica presente in House è il dibattito tra razionalismo (di House) e sentimentalismo vagamente religioso (di tutti gli altri deficienti): un dibattito vinto in partenza da House, anche se ogni tanto i saggi sceneggiatori danno un colpo al cerchio ed ribadiscono che House è uno stronzo, che anche i sentimenti sono importanti, che le convinzioni religiose ogni tanto vanno rispettate, ecc., ecc. Tutti possono tranquillamente restare aggrappati al proprio punto di vista. Per intenderci, il super-razionalista che capisce tutto da solo può piacere a Capezzone, ma la puntata in cui la Cuddy salva il feto è perfetta per far spuntare una lacrimuccia a Bagnasco. Quindi House ci mette tutti contenti: gli unici un po’ frustrati sono i giornalisti italiani, che abituati come sono a distinguere tra doccia di sinistra e vasca da bagno di destra, di fronte a un prodotto così elaboratamente paraculo vanno in confusione. Accadono così equivoci assurdi, per cui se House cita di sfuggita il film di Michael Moore, al Corriere della Sera si convincono che House sia democratico anti-Bush, eccetera eccetera. A riprova del fatto che anche se guardiamo House, manteniamo le facoltà intellettive di un 11enne: Eh? Che ha detto? Ha citato Maicolmuùr? Ma allora è di sinistra! Sì, vabbè.

Quarta ipotesi: Il cantico del Professionista.
Se House non ha nulla di politico, qual è il suo messaggio? Il messaggio che traspare da ogni singolo fotogramma è che bisogna avere fede nei professionisti, perché anche se sono drogati e antipatici, sanno il loro mestiere.
Forse ci siamo. Gli italiani, e in particolare i teleutenti di Canale5, non sono di sinistra o di destra. Sono idraulici, avvocati, camionisti, artigiani. Gli italiani sono un popolo di professionisti, e House parla a tutti loro. E gli dice: siete grandi, siete eroi, fate bene a maltrattare i sottoposti e a snobbare i clienti, è da queste cose che si riconosce la grandezza. Attenzione, perché questo non c’entra con la Professionalità: in effetti House è tutto fuorché professionale. Mobbizza i colleghi, si droga sul luogo di lavoro, perverte il codice deontologico ogni qualvolta lo ritenga necessario, ecc. ecc. Fa quel che gli pare, perché è un fottuto genio. Ora, si dà il caso che in Italia la maggior parte dei professionisti si credano appunto fottuti geni, in grado di violare le leggi della professione, dello Stato, e a volte anche della scienza. Perché i camionisti pasteggiano a China Martini? Perché l’alcolismo non è un loro problema, loro sono più bravi! Pensate al vostro commercialista mentre irride le regole dell'algebra, pensate al dentista mentre vi martella un dente si fa beffe del dentista precedente: a sentirlo, sono tutte mezze calze tranne lui. Lui è il Professionista. Ecco, è anche il tipo che guarda House e si esalta. Ora che ci pensate, probabilmente il dottore drogato vi riuscirà meno simpatico.

Quinta ipotesi: non si può escludere a priori che House piaccia a tanti italiani perché è un prodotto scritto, interpretato e diretto molto bene. E tuttavia rimane il dubbio: se agli italiani piace House, perché tutti gli altri giorni della settimana gli date fotoromanzi tipo Rivombrosa o Rino Gaetano contro i discografici nazisti?(*) Se non è per compiacere il pubblico, perché?

A questo punto mi tocca spugnare la lavagnetta e ricominciare: perché la tv italiana è più stupida dei suoi spettatori? Stavolta però non mi viene nessuna teoria credibile. L’unica che mi viene in mente è che dietro ci sia un preciso intento diseducativo. Ma no, dai, nemmeno nei peggiori telefilm.

(*)Vincono i nazisti.

martedì 13 novembre 2007

si prenda le sue irresponsabilità

Ministro Amato, oggi è martedì, e lei non ha ancora presentato le sue dimissioni. Mi sembra un fatto abbastanza grave, che potrebbe avere ripercussioni sulla sicurezza di noi tutti. Proprio quella sicurezza che come ministro lei dovrebbe avere a cuore.

Non le dirò “si prenda le sue responsabilità”: è una frase fatta, e peraltro non è vera. Lei non è responsabile di un colpo partito lungo l’Autostrada del sole. Né della devastazione e del saccheggio, o come lo chiamano adesso, “terrorismo”: come se devastazione e saccheggio non fossero già cause sufficienti per un bel po’ d’anni di galera. Il punto è proprio questo: lei non è responsabile. E siccome non lo è, siccome non è stato capace di esserlo, dovrebbe farsi da parte, e lasciare il suo posto a qualcuno che certe responsabilità è in grado di assumerle. È un mestiere difficile, ma la paga è buona.

Altri mestieri, ben più rischiosi, non sono altrettanto ben remunerati. Il poliziotto che, sfortunato o incosciente, ha lasciato partire un colpo perpendicolare ai sensi di marcia dell’A1, verrà processato, e probabilmente perderà il suo lavoro. È abbastanza ingiusto che nel frattempo lei resti dov’è, senza pagare nemmeno un poco la sua imperizia e la sua irresponsabilità.

Da bambini c’insegnavano a non fare come lo struzzo, che nell’emergenza nasconde la testa sotto la sabbia. Oggi sappiamo che era tutta una montatura delle maestre, gli struzzi non fanno così. Dev’essere proprio lei, Ministro Amato, a tener viva la tradizione? Per una mezza domenica, mentre la furia montava, la Polizia e il Ministero degli Interni hanno mantenuto la versione del “colpo sparato in aria”: un’offesa all’intelligenza di tutti. Persino a quella degli ultras.

Ministro Amato, io non giustifico la violenza degli ultras. Ma so che esiste, che da decenni è studiata, e che esistono strumenti per imbrigliarla e persino governarla. E da domenica so pure che lei questi strumenti non li sa usare. Perciò è opportuno che lasci l’incarico a qualcuno più esperto e al passo coi tempi. Lei è un uomo colto, esperto di economia, politico navigato: i campi in cui può mettere a frutto le sue competenze sono numerosi, e se tra questi non c’è, come s’è visto, la gestione della pubblica sicurezza, io non ne farei un dramma. Bisognerebbe cominciare a capire che a un certo livello di professionalità (e di rimunerazione), le seconde occasioni per chi sbaglia non esistono più.

lunedì 12 novembre 2007

la Creatura

Il richiamo della C
Sento di prendermela sempre più spesso con Riotta. Ma se fossi io, Riotta, che farei?

Per esempio: secondo me il punto più basso della storia del tg1 è stato toccato con la trasmissione della foto di Raffaele Sollecito nei panni di mummia di Halloween. Come a suggerire che, mah, chissà, un costume così è già una prova indiziaria di omicidio. Sono cose che fatte da Riotta mi sbalordiscono, perché secondo me lui quando stava a New York roba del genere in tv non la vedeva. A meno che non guardasse soltanto RaiSat, ma non credo.

D’altro canto, se mi metto anche solo un istante nei panni di Riotta, devo ammetterlo, quella foto è irresistibile. È clamorosa. Un sospettato di omicidio con la mannaia in mano. La tanica d’alcol. Il travestimento. È una foto che grida pubblicami, pubblicami. Come si fa a resistere? È giusto che una foto così clamorosa la faccia vedere Emilio Fede? È giusto che Studio Aperto abbia il monopolio delle cazzate?

Il problema dell’informazione in Italia è appunto che tutti si sentono Lucignolo, ormai. Nessuno si abbassa a fare la BBC. E non parlo solo dei giornalisti. Io critico Riotta, eppure guardate qui: nel mio piccolo ho già scelto. Ho messo la foto sul blog. Il Richiamo della Cazzata è troppo forte.

Io del resto lo so bene. È da una vita che sento questo tipo di richiami. Cose di cui vorrei tanto parlare, ma sento che son cazzate, e mi trattengo, e soffro.
Del resto, chi l’ha detto che sian cazzate. Magari invece salta fuori che son cose interessanti. O divertenti. Il problema è che finché non le tiri fuori non puoi esserne sicuro.

Allora cosa fai? Apri un blog, e scopri che funziona: il blog è fatto apposta per riversarci le cazzate. Quando non ti tieni più, ma non vuoi importunare il prossimo, le metti su un blog.
In effetti molte cose che non eri del tutto sicuro fossero cretine, una volta messe nero su bianco in un blog si rivelano abbastanza intelligenti. Il blog comincia a sembrare intelligente e divertente. A un certo punto sviluppa un carattere suo proprio: non sei più tu, è lui che spara cazzate. Quando le dice lui, hanno tutto un altro aspetto. Alcune sono decisamente cazzate, ma ormai chi passa di lì è abituato a trovarle divertenti o intelligenti, e non se ne accorge.

Viene il giorno che tu stai per scrivere la tua solita cazzata, e il blog ti risponde: tsk tsk. Questa è troppo cretina, dammene un'altra.
E il bello è che tu non ti offendi nemmeno, cioè, ti rendi conto? Il blog è tuo! L'hai creato tu! Hai sputato a un pezzo di web fangoso e gli hai dato vita, e adesso si comporta come il Grande Artista coi suoi autori, puah, questa roba fa schifo, non te la compro.
E tu neanche ti ribelli, perché sai che sotto sotto ha ragione lui, la Creatura. Stavi per scrivere la più grande cazzata della tua vita, ormai hai perso il controllo, fortuna che c'è Lui.

Dopo un po', però, la cosa diventa faticosa. Non puoi più parlare dei fatti tuoi, perché Lui s'imbarazza. Non puoi millantare crediti senza citare fonti attendibili, perché Lui ha una paura matta che i colleghi lo sgamino. Volevi spernacchiare un giornalista tronfio per il gusto di farlo e Lui dice di no, che i lettori si stancano, i lettori! Lui si preoccupa dei lettori! Volevi scrivere una scemenza sulla Juve e grazie a Lui diventa una storia a puntate del calcio italiano. E' che Lui si crede chissachi, il miglior blog dell'universo, che due palle. E intanto nel cervello ti frullano tante ma tante cazzate, ma così tante che alla fine cosa fai? Apri un altro blog.

Adesso ne hai due. Nel primo ci metti la roba importante, nell'altro le cretinate. Naturalmente a volta qualche cretinata si rivela una cosa importante – ovviamente prima di essere messa nero su bianco non c'era modo di capirlo – e allora si fa copia e incolla, et voilà. Purtroppo non si può fare l'inverso: cioè, se una cosa importante pubblicata sul blog importante si rivela dopo qualche giorno una cazzata, è troppo tardi.

Sembra tutto molto complesso e ai limiti della mania, ma funziona. Ti vengono più idee, sapendo che ci sono varie soluzioni per pubblicarle.

Tutto questo mi serviva soltanto per dare un semplice consiglio a Riotta: perché non apre un altro Telegiornale di fianco al primo, in cui mettere tutte le notizie apparentemente cretine, in attesa di essere sicuri che sono proprio cretine? Per esempio, se in un blog di un sospettato di omicidio c'è una foto del tizio travestito da mummia, ecco, posso capire che un giornalista nel 2007 non sappia resistere alla tentazione; però qualcuno deve anche pensare a fare un giornalismo serio, e io, chissà perché, mi sono convinto che spetti a Riotta.
Se poi Riotta non sa rinunciare a fare il cretino, può benissimo inserire uno stacchetto, far partire un'altra sigla, invitare dei comici, e magari fare un casting e selezionare due veline, non sarà un'idea originale, ma a questo punto gioverebbe.

giovedì 8 novembre 2007

se piangi ancora chiamo Enzo Biagi che ti taglia il naso

Mentre tutti pian piano ripiegano i coccodrilli lungamente meditati, e tornano a interessarsi dei vivi (o perlomeno dei morti ammazzati), io resto solo con la mia domanda: ma Enzo Biagi avrà mai letto la Storia d’Italia a fumetti? La sua, intendo.

La carne, la morte ed Enzo Biagi

Non c’è un collega in giro che non abbia voluto ricordare Enzo Biagi come il cronista per eccellenza, il giornalista coi capelli bianchi che si faceva capire da tutti e non cedeva ai ricatti dei potenti, eccetera eccetera eccetera. Va bene. Però non per tutti Enzo Biagi è stato questo. Quando ero bambino, ad esempio, Enzo Biagi era sinonimo di morti violentissime e donne nude. Non è che voglio fare l’originale a tutti i costi: se do una rapida occhiata al mio inconscio è ancora tutto lì. Femmine discinte, frasi memorabili e nasi mozzati: Enzo Biagi presenta la Storia d’Italia a Fumetti.

Questo, ragazzi miei, fu centinaia di anni fa, quando ancora nessuno parlava ancora di “graphic novel”. E anche se ne avesse parlato, nessuno lo avrebbe capito, perché non si trovava qualcuno che capisse l’inglese per miglia e miglia. Sostanzialmente i fumetti erano divisi in tre generi: Topolino, Tex e la robaccia horror-porno che si trovava nei fossati, come Alan Ford e Frigidaire. A parlare bene dei fumetti era solo Gianni Rodari: diceva che i bambini, dovendo collegare una vignetta con l’altra, facessero un utilissimo sforzo di fantasia. Per molti anni, mentre ammucchiavo Topolini in cantina, ho avuto soltanto Rodari dalla mia.

In mezzo a tutto questo stava la monumentale Storia d’Italia a Fumetti di Enzo Biagi, provocatoria e spiazzante fin dal titolo. Quando l’aprivi restavi travolto da un turbine di sesso e violenza. Per intenderci, facevo le elementari. I tre poderosi tomi stavano nella biblioteca della scuola e nessuno, nessuno mi poteva impedire di portarmeli a casa, perché tanto… erano fumetti! Non potevano farmi male i fumetti, vero?

Forse non mi hanno fatto male, ma quel che mi hanno fatto non me lo tolgo più. Tanto che, quando si è trattato di metter giù un libretto tutto mio, e di trovarci un titolo, la citazione di Biagi mi è venuta assolutamente automatica. Da qualche parte dovrebbe esserci un catalogo in cui la Storia d’Italia a Fumetti viene appena prima la Storia d’Italia a Rovescio (tra parentesi, sono stati i 6 euro meglio spesi della vostra vita. Lo hanno già mandato al macero, è introvabile).

Per esempio, in questi giorni a scuola insegno i Longobardi, e guardate che sui Longobardi c’è ben poco da insegnare. Ma ogni volta che parlo di “Editto di Rotari”, nella mia mente appare una fulgida vignetta: un uomo col naso mozzato. Sì, perché Rotari aveva fissato un guidrigildo di tot ducati per ogni naso mozzato, ed Enzo Biagi o chi per lui aveva pensato di illustrare la situazione in una vignetta. Capirete che poi in età adulta Mel Gibson non ha avuto nessun potere su di me. Dei miei ragazzi avrò dimenticato volti e nomi da qui a cinque anni, ma il naso mozzato del longobardo non se ne andrà più via. Con tante altre cose. Il ceffone di Anagni. Teodolinda, bevi, nel cranio di tuo padre. A Barletta Italia batte Francia 13 a 0. Paga la gabella! Tiremm innanz! E tantissime donnine, che lasciavano di stucco. Battezzadomi come l’alunno fissato con la Storia, maestre e compagni non mi avevano spiegato che la materia includesse l'osservazione di tutte quelle donne seminude. So che chi l’ha letta alle medie ne ha tratto tutt’altre sensazioni, ma io ero alle elementari, e prevaleva l’imbarazzo. L’incredulità, anche.

Ora forse ho capito perché la Storia è rimasta per me un affare di polvere e fango impastati con sangue e sudore. Ecco che mi torna in mente il perché non ho mai pensato di mettere la marcia indietro nella macchina del tempo: io so benissimo che nel passato soffocherei subito, di peste polmonare o allergia a qualche bacillo che sulle tavole di Enzo Biagi era visibile a occhio nudo. Non c’è mai stato un medioevo fatato per me, niente castelli e tornei, le armature arrugginivano e acceleravano la cancrena.

Già allora, tuttavia, era molto difficile collegare tutta quella violenza e sporcizia all’ometto con gli occhiali e i capelli bianchi. Sembrava che le donnine fossero spogliate e torturate quasi a sua insaputa. Il fatto è che per illustrare i suoi testi, Biagi adoperava la manovalanza fumettistica italiana. E i disegnatori di quegli anni – anche quelli che in seguito sono diventati venerati Maestri – in quel periodo per mangiare scrivevano soprattutto robaccia horrorporno. (Forse, poi, chissà, mangiare non era tutto questo problema. Forse disegnare robaccia horrorporno era semplicemente divertente). In ogni caso, una Storia d’Italia a fumetti negli anni Settanta non poteva che essere horrorporno, e l’ometto con gli occhiali non mi pare abbia fatto molto per evitarlo.

Da lì in poi il passato sui fumetti e in tv è diventato un parco a tema, tanto che a Gibson basta mostrare un po’ di sangue in più per diventare un oggetto di culto. Viene da pensare che le persone della generazione di Biagi, anche le meno esagitate, come Biagi, avessero una dimestichezza con il sangue, la morte e la malattia che oggi abbiamo perso. Avremo anche guadagnato qualche cosa in cambio, ma francamente non saprei dire cosa.

martedì 6 novembre 2007

la commissione, tenetevela

Ci sono tanti motivi per prendersela con questo Parlamento. Francamente, ce n’è troppi. Suggerirei pertanto di concentrarsi sui più eclatanti, senza allungare ulteriormente la lista.

In altre parole: ma sul serio vi rimane un po’ d’indignazione da impegnare in una scemenza come la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova? Ma Buon Dio. Indignatevi per i torroncini di Mastella. Per la compravendita di senatori. Per la compravendita di Capezzone, che manco è senatore… probabilmente se lo sono trovati incellofanato in un’offerta speciale (bella sòla). Indignatevi per Veltroni che, incapace di illuminare le vie pedonali di Roma Centro, se la prende col presidente della Romania. Indignatevi per questi e mille altri motivi… ma non per la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova. Che è una scemenza. Devo anche spiegarvi il perché?

Cinque motivi per cui la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fatti di Genova è una scemenza, e discuterne una sconsiderata perdita di tempo ed energie

0. Premessa.
Io a Genova c’ero. Non avrei sopportato di non esserci. Sono uscito dalle Diaz cinque minuti prima che ci entrassero i carabinieri. Un ragazzo che conosco è stato a Bolzaneto. Come tutti, chiedo giustizia. Ma a chi? Di sicuro non a una Commissione Parlamentare. Almeno per ora.

1. Meglio i giudici, grazie.
Tecnicamente, la giustizia la fanno i giudici, applicando le leggi. Io non credo di vivere nel miglior Paese del mondo coi migliori giudici del mondo. Per esempio, i pubblici ministeri che hanno chiesto da 6 a 16 anni anni per un gruppo di dimostranti mi sembrano alquanto esagerati. In generale, comunque, conservo un maggiore rispetto nei confronti della giustizia che della politica: voi no? Preferite che arrivi una commissione di senatori e deputati bipartisan a interferire su procedimenti ancora in corso? Vi dispiace così tanto che questo non possa succedere? Siete ben strani.

2. Chi paga?
Provate un po’ a indovinare chi finanzierebbe i lavori della commissione. Eh, certo, dopo cinque anni in cui avete pagato gli extra a quel fine segugio di Paolo Guzzanti per indagare sulle sedute spiritiche di Prodi, l’idea di non finanziare più una commissione di politici detective vi pesa. Posso capirvi. Allora fate così: andate in banca, ritirate i vostri risparmi in mazzette da cento, e dategli fuoco sulla pubblica piazza (Per inciso, la commissione di Guzzanti ha stabilito che Prodi è uno pseudo-agente del KGB. Questo sì che è spender bene i nostri soldi, no?)

3. Precari di lusso
Se non erro, una Commissione Parlamentare dura finché dura il Parlamento. Non è un mistero per nessuno che l’attuale legislatura stia appesa a un filo. E se Prodi cadesse domani? E se ci si riducesse a votare in febbraio o marzo? Stiamo a fare tutto questo baccano per una Commissione d’Inchiesta che rischia di non fare in tempo a riunirsi? Se anche – per una coincidenza assai remota – i componenti di siffatta Commissione fossero tutti parlamentari onesti, seri, e consapevoli del proprio ruolo, pensate che possano lavorare bene in una situazione in cui qualsiasi seduta della Commissione potrebbe essere l’ultima? Che razza di inchiesta ci salterebbe fuori? Probabilmente un'inchiesta affrettata e superficiale. Ne avremmo veramente bisogno. Così, se un giorno si verificassero le premesse per fare un'inchiesta seria, probabilmente ci sentiremmo rispondere: "Grazie, no. C'è già quella affrettata e superficiale fatta durante il Prodi II, e ce la teniamo".

4. “Ma c’era nel programma”.

Ecco, appunto, ditelo. Ditelo, che a questo punto la Commissione è semplicemente un punto d’onore. Vi hanno tolto uno scalino, un ministero o un sottosegretario, e voi v’aggrappate alla Commissione. Che poi questa Commissione funzioni o no, v’interessa relativamente. Il punto è che voi avete diritto a un contentino.
Vogliamo ricapitolare un po’ la situazione? È vero, la Commissione era nel programma elettorale. Con quel programma (lunghissimo, impraticabile) Prodi ha vinto le elezioni. Di striscio. Dopo qualche mese ha perso la maggioranza in Senato e si è dimesso. In seguito è stato nominato di nuovo da Napolitano, ma con un programma di soli 12 punti, sottoscritti dalla maggioranza. Una maggioranza lievemente diversa da quella delle elezioni (fuori De Gregorio, dentro Follini). In quei 12 punti la Commissione d’Inchiesta su Genova c’è? No. E allora? Perché facciamo finta che in febbraio non sia successo niente?
La situazione è pessima, ma non così difficile da capire. L’unica maggioranza possibile in questo momento in Italia è appesa a un filo. Se cade, si va alle elezioni con una legge orribile, che probabilmente creerà un’altra maggioranza appesa a un filo. A questo punto, o si tira innanzi cercando di rimettere a posto la legge elettorale, o si va al voto e amen. Prodi ha deciso di tirare innanzi. Si può discuterne, ma chi ha votato la fiducia a Prodi in febbraio ha deciso di seguirlo. E ha sottoscritto i 12 punti. Se si accetta l’idea di governare con un voto di scarto al Senato, si accetta anche il fatto che non sempre c’è margine per i contentini. Nel caso della Commissione d’Inchiesta, non c’è. E non mi sembra nemmeno una grande tragedia. Se ne consumano ben altre, negli stessi giorni e nelle stesse stanze.

5. Così è se vi pare
Ma fingiamo di nuovo che tutto possa funzionare: che la Commissione d’Inchiesta, formata da parlamentari onesti seri e consapevoli, riesca a portare a termine un’inchiesta decente entro i termini della legislatura. Pensate che potrebbe giungere a una verità condivisa? Perché in realtà è questo l’unico senso di una Commissione di questo tipo: mettere nero su bianco quello che è successo a Genova, in una forma che possa essere condivisa da tutti. Ve l’immaginate?
Pensate ai parlamentari più seri che conoscete. Di destra e di sinistra. Chiudeteli in una stanza e immaginateli mentre discutono del G8. Pensate che ne possa uscire qualcosa di buono? Un’inchiesta parlamentare di questo tipo, nel 2007 (o nel 2008, o nel 2009), nel migliore dei casi si concluderebbe con due relazioni. La relazione di maggioranza stabilirebbe più o meno quello che sappiamo già, perché lo ha scritto Amnesty: quello che è successo a Genova nel luglio del 2001 è la più grave sospensione dei diritti civili nel dopoguerra. La relazione di minoranza spiegherebbe invece che i poliziotti e i carabinieri, accorsi in massa per evitare gli attentati di Bin Laden, sono stati attaccati dai comunisti cattivi e si sono difesi come potevano. Così in capo a un anno o due avremmo strapagato una dozzina o più di parlamentari per ottenere esattamente quello che avevamo all’inizio: due verità per due Italie diverse. Che tra loro ormai non si parlano più. Guardano gli stessi filmati e capiscono entrambe solo quello che vogliono capire. C’è davvero bisogno di scomodare una commissione per tutto questo?

Un giorno si farà, la Commissione. Spero non sia domani. Quando la giustizia ci avrà portato già qualche sentenza definitiva. Quando avremo un governo un po’ più saldo, in grado di non flettersi ad ogni venticello parlamentare. Quando Fini sarà definitivamente fuori dai giochi – sicché si potrà anche invitarlo in Commissione e fargli un paio di domande: Come mai era a Genova? A che titolo ha passato in rassegna le forze dell'ordine? Perché lei sì e il Ministro degli Interni no? I poliziotti non le sembravano un po' eccitati? Ha sentito parlare anche lei dei gavettoni di sangue infetto? Ha perso un po’ di tempo a spiegare che si trattava soltanto di una leggenda urbana? Eccetera eccetera.
Quella sì che sarà una grande commissione d’inchiesta. Ma ha da passare una nottata.

giovedì 1 novembre 2007

i mostri siamo noi

Svegliati, Popolo del Sangue

Tutti questi finti o veri preti che continuano a prendersela con Halloween - festività - pagana, ma si rendono conto che dell’idiozia che incarnano? Halloween e Ognissanti cadono lo stesso giorno: possibile che una festa sia celtica e l’altro giudaico-cristiana? Che il Natale caschi la stessa notte in cui i romani celebravano il Sole Invitto e il Dio Odino cavalcava portando doni ai piccoli barbari non vi suggerisce proprio niente? Halloween-Ognissanti non sarà semplicemente la stessa festa filtrata in due culture diverse? E il fatto che una stia mangiando l’altra… non depone a sfavore della vitalità di quest’ultima? E una cultura in crisi di vitalità, come intendete curarla, con le messe in suffragio? Hai voglia.
Sedetevi, vah, che vi racconto una storia.

La tribù aveva paura dei morti, che tornavano di notte a tormentare il sonno dei bambini. Per ovviare al problema s’inventò la sepoltura; restava il problema dei morti dispersi. Si pensò allora di celebrare un rito anche per loro, una volta all’anno. Finché dalla città arrivò un predicatore, spiegò che Gesù era risorto anche per loro, e battezzò tutta la tribù in mezza giornata. Prima che andasse via gli chiesero: ma possiamo ancora festeggiare la prima notte di novembre?
“E cosa sarebbe?”
“È il giorno in cui lasciamo i dolci per i morti”.
“I dolci per i morti. Dunque… nel Vangelo non se ne parla. Ma cosa se ne farebbero, i morti, insomma?”
“Sono morti dissepolti, che altrimenti vanno negli incubi dei bambini”.
“Aaah, è per i bambini”.
“In pratica sì”.
“Ma se lasciate i dolci sui davanzali, le bestie selvatiche…”
“Dopo un po’ in effetti li togliamo e li diamo ai bambini. Dici che è una cosa troppo pagana?”
“Via, non si dica che Gesù è venuto a togliere i dolci ai bambini. Fate pure. E intanto dite delle preghiere”.
“Preghiere?”
“Pregate Gesù che porti i morti in paradiso. Teologicamente non fa una grinza, e rispetta anche le tradizioni del territorio. Col vescovo poi me la vedo io. C’è altro?”
“Nell’equinozio di primavera rubiamo un bambino alla tribù vicina e lo sgozziamo…”
“D’ora in poi sgozzerete un agnellino”.
“Ma l’agnellino è tanto carino…”
“No. Su questo Gesù Cristo non transige. Stop ai sacrifici umani”.
“Uffa”.

Sarà anche un’americanata, Halloween: ma se funziona (e funziona), forse risponde ad esigenze a cui la cattolica liturgia dei Morti non risponde più.
Per esempio, l’elemento paura. Non venite a dirmi che è un sostrato celtico: i morti fanno paura a tutte le tribù del mondo. Morte e Paura vanno a braccetto: ma Halloween celebra la paura, Ognissanti no.
Ora aspetto che arrivi uno laureato fresco pronto a spiegarmi che noi latini siamo troppo solari per celebrare questo tipo di cose. La letteratura gotica non l’abbiamo inventata noi. Le storie di fantasmi non sono roba nostra.
Fate che arrivi. Fate che ci provi, a spiegarmi questa cosa. Io lo aspetto al varco per sgozzarlo col mio italianissimo attrezzo da norcino. Noi italiani siamo il popolo del sangue e del terrore! Gli elisabettiani ambientavano le tragedie in Italia perché il pubblico si metteva paura solo a sentire i nomi delle città… Noi facevamo splatter nel Trecento, con Dante Alighieri e i suoi effettacci che gli americani ancora c’invidiano! E anche Boccaccio quando voleva sapeva mettere insieme storie di fantasmi mica male. E certe pagine di Ariosto, del Tasso… ma restiamo nel folklore. Prendiamo le Fiabe Italiane e andiamo a vedere quanti boschi oscuri e quanti diavoli incontriamo. No, quello che fa rabbia di Halloween, è che fino a due secoli fa avevamo tutto il materiale culturale per farcelo da soli, il nostro Halloween, anche più spaventoso di quello americano. E poi cos’è successo?

Sbaglio di troppo a dire che l’egemonia anglosassone nella letteratura fantastica nasce proprio dalla consuetudine di raccontarsi storie di fantasmi ad Halloween? Pensate a Henry James, a Dickens. Col suo Cantico, Dickens si è preso persino il Natale, l’ha trasformato in un’anglissima leggenda di fantasmi. Non solo, ma con i Fantasmi dei Natali Passati e Futuri, Dickens ha persino inventato la nozione moderna di viaggio nel tempo. La moderna letteratura fantastica e fantascientifica deve quasi tutto alle storie di fantasmi. Gli inglesi e gli americani sono abituati a raccontarsele da bambini, noi no.
Alla fine, sarà un caso? Loro hanno un immaginario vivace, pieno di variazioni sul reale, e noi ci becchiamo i filmetti minimalisti alla Soldini.
Non ditemi che è una questione culturale, perché noi italiani siamo quelli che abbiamo lanciato Dario Argento e Dylan Dog. Se penso a un film letteralmente terrificante, penso alla Casa delle Finestre che Ridono di Avati, che non solo è orrore puro, ma italiano al 100%: il pittore matto, il prete ambiguo… Il nostro problema è che tutto questo rimane confinato nel “genere”. La più grande fregatura degli ultimi vent’anni è stata appunto questa nozione del “genere”. Dieci anni fa era un ghetto, oggi ha messo i cancelli d’oro, ma sempre ghetto è. Nel mondo anglosassone la storia di fantasmi non è “genere”: può essere benissimo grande letteratura. Amleto è un groviglio di psicanalisi e antropologia, ma allo stesso tempo è anche una grande storia di fantasmi. Nessuno può scambiarla per evasione.
I fantasmi sono una cosa seria. Il racconto dell’orrore, quando lo scrive Kafka in una notte insonne, mette a fuoco l’umanità meglio di cento o mille romanzetti minimal-realisti. Se nei secondi tempi dei nostri film non atterrano mai gli alieni, se non si risvegliano gli zombie, se non si riesce mai a fare un discorso che vada un po’ più in là del nostro naso, è proprio perché a un certo punto abbiamo voluto tenere i fantasmi fuori dal nostro Ognissanti. Abbiamo fatto male. Ce lo meritiamo, Halloween. Ci serve proprio.
Non dite che i morti dissepolti non tormentano anche voi. Prendete un bambino sulle ginocchia, questa sera. Raccontategli qualche storia spaventosa. Ve ne sarà grato per la vita.

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