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domenica 22 febbraio 2015

Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2014)

Saving Mr Banks, regia di John Lee Hancock, nomination per la migliore colonna sonora.

Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.


La vera suor Hildegard incontra il figlio di Philomena
(e non le rivela la sua identità).
Philomena, regia di Sthephen Frears, nomination per il miglior film, migliore attrice protagonista (Julie Dench doveva vincere!), migliore sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora.

Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.


American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).

"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.



12 anni schiavo, regia di Steve McQueen.
Oscar al miglior film, migliore attrice e alla migliore sceneggiatura non originale.

Con 12 anni schiavo abbiamo avuto tutti la sensazione di vedere la schiavitù al cinema per la prima volta. I cambiamenti che Steve McQueen ha portato alle memorie di Salomon Northup sono sottili e comunque significativi. Oltre alle due scene di sesso completamente alienato, che Northup non poteva descrivere e McQueen non poteva fare a meno di immaginarsi, c'è la scena in cui la schiava Patsey (Lupita Nyong'o, oscar), oggetto delle violente attenzioni del padrone, chiede al compagno di schiavitù Salomon di ucciderla. Molto commovente, ma forse causata da un errore dello sceneggiatore (John Ridley, oscar): nel testo originale era la gelosa moglie del padrone a chiedere a Salomon di uccidere Patsey, ma la frase era abbastanza ambigua da consentire entrambe le letture. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l’alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto. Infine c'è la questione del morbillo. Nel film un tentativo di ammutinamento di Salomon e alcuni compagni è interrotto quando uno di loro è accoltellato mentre cerca di opporsi allo stupro di una schiava. Ma un negriero si sarebbe disfatto così sbrigativamente della merce appena acquistata? Nella realtà, fu un'epidemia morbillo a uccidere un compagno di Salomon e a sfigurare quest'ultimo. Sarà una coincidenza ma gli americani sembrano ultimamente più disposti a discutere delle vittime della schiavitù che di quelle di una delle più banali malattie infettive...


Lui/lei, per esempio, non è mai esistito/a.
Dallas Buyers Club, regia di Jean-Marc Vallée. Oscar ai migliori attori protagonista (McConaughey) e non (Jared Leto), e al miglior trucco.

È stato abbastanza straniante guardare Dallas Buyers' Club e commuoversi per la storia del cowboy omofobo Ron Woodroof che diventa l'eroe di un'intera comunità di sieropositivi texani - proprio nel periodo in cui in Italia processavano Vannoni. Prima di diventare un film, Dallas è stato un soggetto proposto e rifiutato per vent’anni. Affinché la “storia vera” diventasse una storia vendibile, è stato forse necessario rendere Ron molto più cowboy di quanto non fosse l’originale: metterlo in groppa a un toro (benché appassionato di rodeo come un po' tutti in Texas, non ne cavalcò mai uno), togliergli la figlia, affinché in una scena topica rimpiangesse di non averne mai avute; enfatizzarne l’omofobia, tema caro a Vallée (laddove molti testimoni sostengono che fosse bisessuale); e soprattutto mettergli contro l’intero Dallas Mercy Hospital, il ranch dove i malvagi dottori sperimentano intrugli nocivi per arricchire le multinazionali.
Però poi nei titoli di coda si ammette con una certa onestà che l’AZT, il veleno che secondo Ron stava facendo una strage, è ancora oggi uno degli ingredienti del cocktail di farmaci che tiene in vita milioni di sieropositivi. Invece il Peptide T, che nel film salva la vita a Ron e ai suoi amici, pare proprio che non serva a niente. Insomma Dallas Buyers Club è un bel film su un eroe quasi del tutto inventato. È abbastanza straniante rendersi conto che un buon regista e un buon sceneggiatore potrebbero fare anche di Vannoni un eroe: fortuna che non li abbiamo, vien da pensare.

Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2013)

5 commenti:

  1. Visto che siamo sul filone di Holywood che o riscrive o cambia radicalmente le chiavi di lettura... Monument Men?

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  2. Era un altro grande esempio, ma gli oscar non li vede neanche col cannocchiale.

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  3. delle volte penso che gli sceneggistori hollywoodiani siano come certi grafici quando usano photoshop: gli scappa la mano e si allontanano dalla realtà creando mostri & cappellate vere e proprie
    il bello è che la maggior parte delle volte le distorsioni non sono necessarie né utili

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  4. Pensavo avresti parlato di Selma. Prossima puntata?
    Uli

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    Risposte
    1. Selma se la gioca stasera!

      (Ed è un film più accurato di altri, a quanto pare).

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