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mercoledì 25 aprile 2018

Michele Serra è inversamente proporzionale al popolo

Se in questi ultimi giorni non siete rimasti chiusi dentro una cella frigorifera, o in un’imbarcazione al centro del grande vortice di plastica del Pacifico settentrionale, o in un campo base alle pendici di un massiccio tibetano, probabilmente sapete già che Michele Serra ha scritto un’Amaca molto dibattuta.

Non è solo che molti sui social ne stanno discutendo: sembra proprio che non riescano a smettere. Se all’inizio aveva tutta l’aria di una discussione politica, a questo punto sembra più un esperimento sulla percezione collettiva. Qualcosa di simile al grande dibattito sul Vestito Nero-Azzurro o Bianco-Oro che catturò l’attenzione di tutti gli internauti nel lontano 2015, forse qualcuno ancora si ricorda. In una fotografia veniva ritratto un vestito che per molti era nero e azzurro, e per molti altri era bianco e oro, e non ci si è mai messi d’accordo su chi dovesse avere ragione. Il solco tracciato da Serra con l’Amaca di venerdì scorso sembra altrettanto profondo.

Riferendosi all’ultima ondata di notizie riguardanti incidenti scolastici, Serra scrive che “il livello di educazione […] è direttamente proporzionale al ceto di provenienza”. Di fronte a un’affermazione così perentoria, l’arena dei lettori si spacca in due: da una parte c’è chi trova l’Amaca assolutamente condivisibile; dall’altra chi la considera di un classismo insopportabile. Entrambe le parti stanno leggendo lo stesso trafiletto; da entrambe le parti troviamo lettori progressisti e conservatori, laureati e non, esegeti acuti e gente che ha letto soltanto le prime tre righe. I pochi che tentano di trovare una soluzione di compromesso (Serra avrebbe ragione, ma l’avrebbe messa giù un po’ troppo brusca) si trovano nella posizione più scomoda: come fai a sostenere pubblicamente che Serra si spiega male in 1500 caratteri? Lo fa da trent’anni.


A questo punto, più di prendere partito per l’uno o l’altro schieramento, si tratterebbe di capire cosa li ha divisi in modo tanto netto. Per molti pro-Serra si tratta di una banale questione di comprensione del testo: da una parte c’è chi ha capito che Serra non sta affermando una verità apodittica, ma denunciando uno “scandalo” (è lui il primo a usare questa parola) che le forze progressiste hanno l’obiettivo di contrastare. Dall’altra parte ci sono gli analfabeti funzionali che non se ne sono accorti, oh, e dire che è così semplice. Lo ha persino scritto: “scandalo”. Lettori troppo distratti che arrivano da link che li orientano male e cliccano via dopo tre righe credendo di aver capito chissà cosa.

E però non tutti gli anti-Serra sono così. C’è anche chi non ha affatto frainteso la sua posizione, ma trova discutibile il suo assioma: non risulterebbe affatto, come sostiene Serra, che la situazione è più grave negli istituti professionali e tecnici rispetto ai licei. In una ricerca ISTAT sul bullismo condotta nel 2014 il 19,4% degli studenti liceali appariva vittima di azioni di bullismo diretto; seguivano gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%). Il che non vuol comunque dire che volino più sedie nei licei che nei professionali. Il fatto è che in questi giorni si sta parlando di casi che tre volte su quattro non hanno a che vedere col bullismo. Uno studente che fa una scenata a un insegnante non è bullismo – a volte è pura insolenza o melodrammatica ad usum Youtube. Un genitore che aggredisce un docente non è bullismo. Si tratta di più banale prepotenza, oltre che maleducazione, e non siamo nemmeno sicuri che sia in aumento.

Molti anti-Serra contrappongono all’Amaca le proprie esperienze personali: è quasi un riflesso involontario. C’è il figlio del muratore che ha fatto il classico, chi ricorda con nostalgia un ITI o un IPSIA dove gli insegnanti venivano trattati con rispetto, eccetera. Nessuno di questi resoconti ha un valore statistico in sé; messi tutti insieme però dimostrano una forte resistenza di massa all’assioma di Serra: quell’Italia in cui la maleducazione è direttamente inversa al ceto non esiste più, ammesso che sia mai esistita. È una semplificazione che forse può funzionare in alcune città grandi e medie in cui il giornalista ha abitato, ma che va in pezzi appena si mette un po’ il naso in provincia – e l’Italia, rispetto ad altri Paesi dove l’urbanizzazione è più intensa, ha questa particolarità che a molti osservatori sfugge: è una grande provincia. È un luogo dove a volte non studia chi se lo può permettere, ma chi non ha alternative, mentre i figli dei padroni si contentano spesso di scaldare la sedia cinque anni in un diplomificio privato dove gli insegnanti se la vedono brutta tanto quanto in un professionale. È un’Italia dove è normalissimo incontrare analfabeti in yacht e dantisti in pedalò. È un mondo senz’altro ingiusto e sbagliato, ma ecco, stavolta non è ingiusto e sbagliato come lo descrive Serra, tutto qui. È vero che gli insegnanti dei professionali se la passano peggio che quelli dei licei? Non ci sono concreti dati statistici, ma sembra abbastanza intuitivo. È vero che quei professionali sono frequentati soprattutto dal volgo, mentre al liceo vanno i ricchi? Non proprio, non sempre, e per molti lettori non è questo il punto. Il genitore arrogante che minaccia il prof non è necessariamente un poveraccio insicuro. A volte è un facoltoso – ugualmente insicuro (continua su TheVision)

Serra alla fine cerca di ricondurre un argomento (il bullismo scolastico) al grande Tema di ogni pensatore e militante di formazione anche solo vagamente marxista: la lotta di classe. Tutto il resto è sovrastruttura. Dite che le scuole stanno diventando una jungla? Sarà per via della lotta di classe. Date ai poveri la stessa scuola dei ricchi, e la jungla si dipanerà, centomila fiori fioriranno. I poveri non sono d’accordo? È falsa coscienza, propalata dai populisti, inconsapevoli servi del potere.Qualcuno può trovare questo approccio ideologico (come se esistessero approcci non ideologici), ma molti che criticano Serra non ritengono così superata la lotta di classe. Semplicemente non riescono più a riconoscere in Serra un intellettuale organico; nemmeno un fiancheggiatore. Pare piuttosto un gentiluomo di campagna con un’idea della società un po’ astratta. Sarebbe tutto molto più chiaro se solo i poveri ammettessero di essere poveri... E invece capiscono male e s’incazzano. È vero, s’incazzano, ma non hanno capito poi così male.

È senz’altro anche un problema di contesto: Serra si trova nella difficile posizione di simbolo di un ceto medio riflessivo che pur borbottando ha appoggiato il PD al governo da Monti a Renzi a Gentiloni, per sette anni: sette anni di ragionevolezza, di accigliato paternalismo, ai termini dei quali hai voglia a dichiarare lo scandalo dell’ingiustizia sociale; sette anni in cui tra Repubblica e il popolo si è aperta una voragine. Serra probabilmente è il primo che farebbe un passo indietro, anzi l’ha già fatto: dalla prima pagina a quella dei commenti (in controtendenza con gli altri quotidiani nazionali, dove le rubriche da 1500 battute stile-Amaca in prima pagina ormai sembrano necessarie). Senz’altro non merita tanta aggressività, senz’altro non si può liquidare come quei benpensanti che a ogni manifestazione di piazza riciclano Pasolini dando per scontato che i poliziotti continuino a essere i poveracci e i manifestanti in prima linea i borghesi. A volte è ancora così, a volte no, la lotta continua ma siamo in una fase di mischia, è difficile riconoscersi; uno studente arrogante potrebbe essere una vittima della società ma anche uno stronzetto che non capisce perché a sedici anni deve perdere ancora tempo in classe quando suo padre ha già pronto per lui il capannone per la startup innovativa (coi fondi europei). C’è gente che urla per riconoscersi, slogan anche vecchi o esagerati, ma più che il senso si tratta appunto di riconoscersi; un gran baccano. È difficile a questo punto non immaginarsi Serra, in vestaglia, che si affaccia un po’ perplesso: tutto questo caos indispone.

domenica 22 aprile 2018

La violenza a scuola e l'effetto bulldog


Gli insegnanti italiani sono sotto assedio, probabilmente lo avete già letto da qualche parte. I casi di bullismo nei loro confronti si moltiplicano. A Ferrara i genitori di un alunno sovrappeso hanno preso a testate un insegnante di educazione fisica; a Bari i genitori di un alunno hanno picchiato addirittura un preside. Nel frattempo su Youtube si moltiplicano i video in cui i docenti vengono ripresi e ridicolizzati, al punto che il ministro Fioroni ha dovuto ribadire con una circolare il divieto di portarsi telefonini in classe. Esatto, Fioroni.

Era ministro dell'istruzione nel 2007.

Tutte le notizie che ho linkato fin qui risalgono alla primavera del 2007. I "telefonini", quelli con i tasti di plastica, producevano già foto e video di qualità discutibile, ma sufficiente a compromettere il quadrimestre di uno studente e la reputazione di un insegnante. Instagram non esisteva; Facebook in Italia era praticamente sconosciuto; Youtube funzionava da due anni e quella ondata primaverile di allarmismo scolastico ci dimostra che stava già diventando mainstream. I siti dei più importanti quotidiani italiani andavano già in cerca di video amatoriali a base di professori sbeffeggiati: avevano già l'abitudine di ripubblicarli, sovrapponendo il loro logo editoriale, aggiungendo un po' di pubblicità e qualche corsivo moralista: Dove Andremo A Finire?

Oggi lo sappiamo: da nessuna parte in particolare. Siamo ancora qui.

Qualche insegnante è andato in pensione, qualcuno un po' più giovane lo ha rimpiazzato, e ogni tanto i giornalisti si rimettono a frugare su Youtube e scoprono che c'è un'emergenza, la solita. Si è rotto il patto educativo! proclama venerdì il Corriere.  Un prof picchiato ogni quattro giorni, echeggia Repubblica. "Ventisei episodi diventati pubblici in centonove giorni".

Peccato che tra questi episodi sia ancora una volta inclusa la storia della "professoressa legata alla sedia con lo scotch" di Alessandria, che non è stata né picchiata né tantomeno legata a una sedia (con lo scotch? quanti rotolini servirebbero a immobilizzare un adulto? Come si fa a mandare in giro roba del genere?) Peccato che nel bollettino di guerra pubblicato da Repubblica giovedì siano stati cucinati nello stesso calderone fatti di cronaca successi in mesi diversi, alcuni nemmeno a scuola, in cui i prof spesso non sono né vittima di percosse né di molestie: a volte sono quelli che le denunciano. Peccato che il video che rimbalzava venerdì sulle homepage dei quotidiani, dove l'ennesimo stronzetto minaccia un professore di scioglierlo "nell'acido" (paura!) sia dell'anno scorso. Ma avrebbe potuto essere anche di due, tre, undici anni fa. Ormai viviamo in un eterno presente. Colpa dei social, del deficit di attenzione, oppure semplicemente su Youtube le date sono scritte in piccolo e qualche giornalista trova comodo non farci caso.

È l'effetto bulldog: a volte basta un niente, una notizia che per qualche motivo riesce ad attirare l'attenzione (in un parco un bulldog morde un bambino). In redazione si accorgono che funziona e decidono di insistere sul genere, si mettono a cercare: ci sono stati altri incidenti simili, altri bulldog mordaci? Va bene anche se non sono bulldog, va bene anche se non hanno morsicato bambini. Nei giorni successivi le aggressioni canine non aumenteranno, ma invece di scivolare indisturbate in fondo alla cronaca locale finiranno tutte in prima pagina e il lettore si convincerà che esiste un'emergenza bulldog. Bisogna anche ammettere che è primavera, la politica è in stallo, l'emergenza immigrazione è improvvisamente sparita dal radar (per una curiosa coincidenza, tutti i giornalisti che la propagavano sui canali Mediaset sono stati ridimensionati) la guerra mondiale in Siria non ingrana, magari anche i bulldog nei parchi sono un po' lenti di riflessi e così, in mancanza di bimbi morsicati e bombardamenti seri, la maleducazione scolastica sta avendo il suo momento di gloria.

Il bullismo tira – pazienza se in realtà "bullismo" vuol dire un'altra cosa, ormai per i giornalisti italiani lo spettro del "bullismo" si estende dalla semplice maleducazione all'omicidio a sfondo razziale. Il bullismo ci smuove qualcosa dentro: siamo tutti convinti di esserne stati vittima, siamo tutti convinti di poterla far pagare a qualcuno. Quel ragazzino petulante, non ti viene voglia di prenderlo a schiaffoni? Quel prof immobile, non lo licenzieresti? Su Youtube trovi tutti i video che vuoi (ci sono canali dedicati), non devi neanche pagarci i diritti. In cinque minuti puoi sbattere in home uno spettacolo che attira lettori dalle idee radicalmente opposte: chi difende gli insegnanti e chi gode a vederli svillaneggiati (oppure fantastica di trovarsi al loro posto, ma dotato di arcani poteri che gli consentirebbero di sospendere alunni per direttissima, bocciarli ad aprile anche se gli scrutini sono in giugno). Gli insegnanti stessi spesso sono i più voraci lettori e propagatori di notizie e video del genere, convinti che una pubblica umiliazione possa servire a denunciare la triste condizione della classe docente eccetera. E non dimentichiamo il target più difficile per i giornali: gli studenti stessi, a cui questa roba indubbiamente piace. Magari se trovano su Repubblica e il Corriere le stesse scemenze che sono virali su Youtube, staranno un po' più su Rep e sul Corriere e un po' meno su Youtube... e pazienza se si scatena l'effetto emulazione.

Già, l'emulazione.

'Ma mi dia retta, s'inginocchi, vedrà che svoltiamo'.
Il video più virale di questi giorni, quello del "chi è che comanda? s'inginocchi", ha davvero tutta l'aria di un teatrino messo in scena proprio per ottenere like, condivisioni, e magari un giro d'onore sui quotidiani. I giornalisti che ci fanno su la morale sono a ben vedere gli istigatori, e gli unici che alla fine ci guadagnano: il ragazzo sarà sospeso, ormai è diventata una questione di Stato, ma il video è sempre lì a portata di clic, e la pubblicità continua a scattare e a portare qualche centesimo nelle tasche di chi chiede a gran voce la bocciatura dei ragazzi e magari ne approfitta per giudicare la professionalità di insegnanti inquadrati per pochi secondi, più che sufficienti ovviamente per farsi un'idea dello stato della scuola pubblica. Susanna Tamaro se la prende (novità!) con Jean-Jacques Rousseau; Massimo Recalcati, dimmi qualcosa di nuovo, con il "Sessantotto". I loro pezzi hanno davvero la qualità dei classici, nel senso che resistono a qualsiasi evoluzione dei tempi e non smettono di dire quel che devono dire. Purtroppo tutto quel che devono dire è il solito Dove Andremo A Finire, una domanda che ci affascina e ci stucca sin dai tempi di Marco Porcio Catone (Continua sul Post).

Laudatio temporis acti, la chiamavano. Già a quei tempi, alla notizia che qualche studente era stato insolente col suo maestro, una antica Tamaro avrebbe reagito ricordando le qualità pedagogiche della verga, mentre l’equivalente latino di Recalcati – più vicino alle rivendicazioni popolari – avrebbe suggerito di migliorare la condizione dei docenti (anche allora spesso coincidente con la schiavitù): entrambi comunque avrebbero concordato che una volta non era così, eh no, ai tempi delle Guerre Sannitiche c’era più rispetto, nelle aule non volava una mosca.

‘Se non si vuole inginocchiare, potrebbe almeno darmi in ceffone. Finiamo sul canale dei ceffoni, c’è una compilation di ceffoni scolastici che ha 3 milioni di visualizzazioni… oh prof ma mi ascolta? Le sto parlando del nostro futuro’.

Chi è davvero convinto che le scuole del passato fossero ambienti più tranquilli e rispettosi tende a considerare la propria individuale esperienza scolastica un campione statistico rilevante: spesso è gente che ha fatto un buon liceo, dove di mosche magari ne volavano poche e gli echi dei tafferugli nel più vicino istituto professionale arrivavano di molto attutite. Però, ecco, quel buon liceo avrebbe dovuto anche insegnarci a mettere in discussione i luoghi comuni. Do un’occhiata alla mensola alle mie spalle: al primo colpo trovo uno dei primi libri di Sciascia, Le parrocchie di Regalpietra (1956), lo apro a una pagina a caso. Trovo “trenta ragazzi sporchi arruffati” che anche in presenza di un ispettore scolastico “continuano a mormorare e a litigare tra loro”. Nemmeno del parroco che insegna religione hanno rispetto. “Qualche bestemmia ronza nell’aula, ma il prete non finge come me di non sentire. Promette il fuoco eterno. Ridono. Diventa scarlatto di collera. Son costretto a gridare anch’io il mio inutile rimprovero”.

È davvero il primo libro che mi è venuto in mano. E siccome descrive un territorio che non riesce a liberarsi dal retaggio del Ventennio, mi torna in mente il solito Benito Mussolini che già si portava il coltello alle elementari, e adolescente in un collegio di Faenza rischiò l’espulsione perché lo aveva usato contro un compagno. (Nota: la rischiò soltanto! Non c’è proprio più rispetto. Dove andremo a finire?) Ma il tempo gli riservava un’orribile vendetta: un giorno sarebbe diventato maestro anche lui – con esiti altalenanti. A Tolmezzo si ritrova “una seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo […] Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare”. Imporre a quaranta milioni di italiani una dittatura si sarebbe rivelato un compito più alla sua portata.
Che s’ha da fare pur di non tornare dietro quella cattedra.

Le scuole italiane hanno un sacco di problemi, alcuni strutturali. Tra questi, la maleducazione degli studenti non costituisce una particolare emergenza. È solo la notizia che per qualche motivo ha forato l’attenzione in questo momento. Gli studenti maleducati ci sono da sempre, e non erano molto meno maleducati anche quando si potevano picchiare (è uno dei motivi per cui abbiamo smesso: non funzionava). L’unica sensibile novità è che oggi la maleducazione scolastica è davanti agli occhi di tutti: in attesa delle videocamere appese alle pareti delle aule (arriveranno) la scuola va in onda a tutte le ore su Youtube, su Whatsapp, al punto che viene quasi voglia di prendersela non con il “bullismo”, ma con chi lo propaga, lo rende virale, magari convinto di contrastarlo mentre ci sta soltanto speculando un po’ sopra. Quei video che gli insegnanti condividono nell’illusione di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà della loro professione; che i loro studenti ormai organizzano nella speranza di guadagnarsi quei cinque minuti di viralità che dovrebbero valere il prezzo di una bocciatura; quei video alla fine si rivelano una fregatura per entrambe le categorie: uno spettacolino di costo irrisorio montato in homepage per un pubblico annoiato che spesso finisce per invocare quello che la scuola pubblica non può dare (ma la privata sì): il frustino.

martedì 17 aprile 2018

Democratico, troppo democratico

Piccolo esperimento mentale. Supponiamo che da un momento all'altro un economista italiano di un certo rilievo dichiari il suo appoggio per il Movimento Cinque Stelle. Riuscite a immaginare lo stesso economista, dopo pochi giorni, tentare di dettare la linea al Movimento, magari minacciando di stracciare una tessera appena presa? Nel M5S sarebbe impossibile.


Infatti è appena successo nel Pd, onorato all'indomani della sconfitta elettorale dall'adesione via twitter del ministro Calenda. Dopo poche ore Calenda già spiegava al Pd cosa doveva fare e non fare per non perdere la sua preziosa adesione. Provate a immaginare la stessa situazione nella Lega, o in Forza Italia – non ha senso. Nel Pd non è nemmeno la prima volta. Ogni tanto arriva qualcuno, prende la tessera e spiega agli altri cosa deve fare il partito.


La stessa avventura renziana, in fondo, è cominciata così: appena otto anni fa anche l'allora sindaco di Firenze era sostanzialmente un outsider. Quel che è successo dopo, a ben vedere, non ha molti precedenti nella storia dei partiti italiani: in una manciata di anni, grazie a un paio di consultazioni di base (le Primarie!), l'outsider si è preso il partito di cui è tuttora, malgrado le dimissioni ufficiali, il leader più rappresentativo. È una traiettoria impensabile in partiti-azienda come Forza Italia o M5S; molto improbabile nella Lega, che ormai è a tutti gli effetti il partito italiano più vecchio in parlamento, l'unico che mostri ancora vagamente una struttura tradizionale novecentesca. Forse è la prova che il Partito Democratico è davvero democratico; di certo è la dimostrazione che è un partito straordinariamente scalabile: che chiunque abbia una visione e un po' di sostenitori – e di finanziatori – può davvero entrare e cominciare a dettare la linea. Gli altri partiti non sono così e gli altri partiti, bisogna ammetterlo, non perdono così tanti voti (più di sei milioni in dieci anni). A questo punto si tratta di capire se quello che doveva essere il punto di forza del Partito Democratico non si sia rivelato la sua principale debolezza: se i segni di vitalità che ci sta mostrando in questi giorni (incontri, dibattiti, correnti che nascono) siano un segno promettente o gli ultimi rantoli di un'entità che non si rassegna al declino. Il Pd non è certo l'unico partito a strutturarsi in correnti, ma è l'unico in cui le correnti diano la sensazione di poter nascere, agglutinarsi, defluire, nel giro di pochi anni o mesi. Matteo Richetti ne ha appena tenuta a battesimo una, "Harambee", affrettandosi a spiegare che si tratta di una parola swahili che non ha un vero e proprio senso: una generica affermazione di volontà e unione, una specie di "daje", "oh issa": non che l'"I care" di Veltroni e il "Big Bang" di Renzi alludessero a significati molto più complessi, ma insomma la sensazione è che siano finiti non soltanto i contenuti, ma ormai anche i nomi per chiamarli.


Il fatto è che in questi dieci anni di vita ormai il Pd le ha provate tutte... (continua su TheVision).

venerdì 13 aprile 2018

Se non bombardi sei isolato in Europa, dice il Pd (lo dice davvero)

Ora può anche darsi che il Movimento 5 Stelle sia una setta di improvvisatori che nella stanza dei bottoni farebbe soltanto danni. Può benissimo darsi. Mentre la Lega è la solita cricca populista, razzista e ultimamente pure filoputiniana: sono abbastanza d'accordo che sia così. Mentre il Pd, quel che resta del Pd, dovrebbe essere il partito responsabile eccetera. Va bene. Però a questo punto, caro partito adulto e responsabile che ha deciso di stare fermo un giro per far giocare gli irresponsabili, spiegami una cosa: perché lasci fuori in giro un tizio come Andrea Romano senza guinzaglio o museruola? A rischio che vada a un talk show ad abbaiare cose?


Cioè mi rendo conto che "abbaiare" è un po' forte, ma come si fa infilarsi in un guaio del genere? Che Salvini sia stato filoputiniano (come lo era Trump prima di entrare alla Casa Bianca, e tuttora ogni tanto gli sale il riflusso) non c'è dubbio, e forse un buon comunicatore politico a questo punto non sbaglierebbe a farlo notare. Che abbia sostenuto Saddam Hussein è ridicolo, una fake news grossa come una casa, il modo più spiccio per mettersi dalla parte del torto. Ma questo è solo un piccolo dettaglio. Con questa meravigliosa abbaiata ponderatissima dichiarazione, Andrea Romano è riuscito a sembrare meno serio di Salvini e più guerrafondaio di lui. E dici: pazienza. Magari non ha il polso del suo elettore-tipo, sai questi giovani geni quando bombardavamo il Kossovo e ci ammazzavano a Nassiriya stavano studiando sodo, sodissimo, e si sono persi le manifestazioni. Recupererà. Crescerà. Eh, ma in calce c'è già scritto: Partito Democratico. Cioè in attesa di sapere chi sta dirigendo il Partito Democratico, la linea agli esteri la ulula Andrea Romano in tv, con questi meravigliosi risultati.



Ovviamente, poche ore dopo non si è mossa soltanto la cancelliera Angela Merkel, per farci sapere che non ha nessuna intenzione di partecipare a un bombardamento della Siria (e non ci voleva molto a immaginarlo, visti i precedenti: ma ecco, pare che l'esperto di Esteri on. Andrea Romano non li conosca). No, a poche ore da questo fantastico tweet ufficiale del Partito Democratico, il capo del governo Gentiloni ha chiarito che "l'Italia non parteciperà ad azioni militari in Siria". Per dire quanto rischia di restare isolata la posizione di Salvini.

Il quale Salvini fin qui che io sappia ha dichiarato soltanto: "Che qualcuno pensi ad una terza guerra mondiale farneticando di bombe e di missili sulla pelle di donne e bambini è assolutamente impensabile". Notate: non propriamente detto che la Siria non ha usato armi chimiche (ma chi non ci vuole credere penserà che Salvini gli dà ragione). Ha invece senz'altro detto che è impensabile scatenare la terza guerra mondiale per questo. Io penso che Salvini sia il leader di una cricca populista fascista e putiniana: mi addolora molto notare come risulti molto più professionale degli attuali portavoce del Pd. Più misurato, più affidabile, temo persino più responsabile – non che ci voglia tantissimo, eh: basta non precipitarsi a bombardare appena Trump e Macron dicono che è il caso. No, basterebbe pochissimo, ma quel pochissimo il Pd in questo momento non ce l'ha. Ha Andrea Romano.

venerdì 6 aprile 2018

Scuole violente o giornalisti un po' esagerati? (indovina)

Lavoro nella scuola dell’obbligo. Fino a qualche anno fa, quando la gente lo scopriva, tradiva una smorfia di compassione: poveraccio, chissà quali incidenti di percorso, quali peccati deve espiare. Ultimamente ho notato che qualcosa sta cambiando; nelle smorfie più recenti ho infatti intravisto una sfumatura di ammirazione. Pare che il mio mestiere stia diventando qualcosa di eroico. Sempre più spesso mi chiedono se sono stato testimone di colluttazioni o fatti di sangue. Si direbbe che insegnare ai preadolescenti sia sempre più pericoloso: scherzi pesanti, botte, coltelli; e se ti lamenti con i genitori pare che vada ancora peggio (ancora più botte, ancora più coltelli). Perlomeno è quello che la gente mi racconta, quando le spiego che lavoro a scuola: è quello che si sente dire.

Chissà se è poi vero.

Può anche darsi che gli adolescenti e i preadolescenti italiani, negli ultimi anni, siano diventati più violenti – non è un’ipotesi che si possa escludere a priori. Ma non abbiamo i numeri per dirlo. Non c’è un aumento di denunce (e anche se ci fosse, non coinciderebbe necessariamente con un aumento della violenza). È il solito discorso dell’albero che cade e della foresta che cresce. Magari avete sentito parlare di un’insegnante accoltellata al volto a Caserta: un fatto gravissimo che ha fatto scattare immediate sanzioni penali. Ma in Italia ci sono 9 milioni di studenti che vanno tutti i giorni a scuola e la quantità di accoltellatori è veramente troppo esigua per poter individuare un trend; un episodio, in sé, non significa niente. Ricordo ancora la prima volta che fui convocato in presidenza: il dirigente che mi aveva appena assunto aprì il cassetto della sua cattedra ed estrasse un coltellaccio da cucina da quattro dita, appena sequestrato dalla classe in cui sarei andato a insegnare. È successo più di dieci anni fa. Significava qualcosa? Non significava niente. Non mi è più capitato di vedere una lama a scuola. E anche questo non significa niente, domani un mio studente potrebbe estrarne una. Sono giovani, sono imprevedibili, e sono 9 milioni. Non è statisticamente così strano che qualcuno tiri fuori un coltello ogni tanto, è uno dei motivi per cui ci assicuriamo. Sapete, i rischi del mestiere.




Però ultimamente potreste aver provato la sensazione che questo lavoro stia diventando più rischioso. Magari avete sentito parlare di un professore picchiato dai genitori durante un colloquio. O di una professoressa presa a pugni perché aveva osato chiedere a un ragazzo di metter via il cellulare. O di una supplente legata alla sedia e picchiata da una classe di “bulli”. Se avete sentito parlare di tutte queste cose, più o meno al ritmo di un fatto di cronaca a settimana... anche questo non significa niente (continua su TheVision).
(C'è anche la versione audio su Radio 3, con infinite grazie a Silvia Bencivelli).

O meglio: non significa che gli allievi italiani stiano diventando più violenti e pericolosi per gli insegnanti. Significa semplicemente che i giornalisti hanno deciso di raccontarla così. Alcuni fatti di cui avete sentito parlare non risultano proprio. In molti casi invece un singolo fatto viene raccontato nella versione più fantasiosa che può essere partorita da un team di creativi che abbia accesso a una chat di genitori.

Il caso della supplente di Alessandria “legata e picchiata” dai suoi studenti è un classico esempio, dal momento che non è stata né legata né picchiata. “Particolarmente timida e un po’ impacciata [è la versione del preside], ha chiesto ad alcuni ragazzi di scrivere alcune frasi alla lavagna. Ne hanno un po’ approfittato. C’è stata qualche risata di troppo e qualcuno le ha messo dello scotch nella borsetta dell’insegnante. Nessun l’ha legata e, tanto meno, presa a calci”. Il vero problema è che la scena sarebbe stata ripresa da qualche studente col cellulare, anche se i fantomatici filmati sono spariti dai social così presto da far dubitare che siano mai stati condivisi: di sicuro non mostravano insegnanti legati e imbavagliati, e così i giornalisti si sono dovuti arrangiare con l’immaginazione. Qualche organo di stampa ha comunque corredato la notizia con una foto di mani legate – polsi sottili avvinti da pesanti funi da ormeggio.

E dire che a scuola ci siamo andati tutti. L’abbiamo avuto tutti un compagno che avrebbe potuto tirar fuori un coltellino; magari qualche volta in tasca l’avevamo pure noi. Ma la corda per legare un’insegnante neanche nei cartoni animati – com’è che ci beviamo cose del genere e che anche dopo aver sentito la spiegazione del dirigente continuiamo a invocare punizioni esemplari? Gli studenti che hanno scherzato con la supplente di Alessandria sono stati sospesi con obbligo di frequenza: è una sanzione molto grave. Niente, non basta: gli stessi opinionisti che si lamentano della perdita d’autorità dell’istituzione scolastica, se la prendono con l’istituzione scolastica che non condanna gli studenti a… cosa? Espulsione immediata? Qualche settimana di gogna in aula magna potrebbe secondo loro lavare l’onta di aver gettato un rotolino di scotch nella borsetta di un’insegnante. La stessa insegnante che, raggiunta dai giornalisti, rilascia un’intervista brevissima in cui ogni risposta sembra gridare lasciatemi perdere: sembra anche lei vittima dell’omertà. Di quella particolare forma della sindrome di Stoccolma che ti impedisce di chiedere la lapidazione per chi ti infila un rotolo di scotch nella borsetta a tradimento. E così via.

Lavoro nella scuola dell’obbligo. Ho naturalmente paura dei coltellini, dei tirapugni e di tante altre cose che non vi sto nemmeno a raccontare, ma ho ancora più paura quando mi passano il telefono e invece del temuto dirigente, o del temutissimo rappresentante dei genitori, mi si presenta un giornalista. Magari non è nulla. Magari è l’inizio di un lungo romanzo d’appendice in cui una pallina di stagnola diventa una calibro 22. Non è neanche tutta colpa dei giornalisti – alla fine hanno un pubblico da sfamare. Evidentemente c’è chi ha fame di notizie del genere: scuole violente, studenti brutali, genitori ancor più brutali, dirigenti omertosi e così via.

Gli stessi insegnanti che ripostano questo genere di notizie sanno benissimo che la realtà è sempre molto più complessa: che il genitore che mena è uno su mille, il genitore che non collabora uno su cento, e il genitore che non sa che pesci pigliare e chiede aiuto agli insegnanti è molto più frequente (e più faticoso da gestire: noi insegniamo italiano, insegniamo matematica, ma a fare i genitori non t’insegna nessuno). Gli stessi insegnanti che commentano: “DOVE ANDREMO A FINIREEE????” in calce all’ennesimo pezzo sulla prof legata in classe con fantomatiche funi fetish sanno benissimo che quello che arriva ai giornali di solito è la punta dell’iceberg. Di solito prima di tirare fuori il coltello uno studente ha già lanciato diversi segnali: di solito prima dell’incidente fatale c’è una lunga storia di difficoltà famigliari, sociali, economiche, a volte psichiatriche; di solito, prima di chiamare i carabinieri gli insegnanti hanno avvisato i servizi sociali e gli psicologi. Di solito, insomma, prima e dopo il coltello c’è tutta una storia che ai giornalisti non racconteremo mai. Loro vogliono sapere solo cosa è successo in quel momento. Vorrebbero il sangue; raccontare che la scuola italiana non è un semplice spicchio della società italiana, ma un inferno di anarchia e prevaricazione. E anche noi a volte vogliamo sentirci raccontare una scuola del genere. È un modo per reclamare attenzione, alla fine. Forse anche per farci sentire un po’ eroi quando ci chiedono che mestiere facciamo. Se poi passa il messaggio che la scuola pubblica sta fallendo, allora, ci lamenteremo anche di chi chiede finanziamenti per la concorrenza.

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