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mercoledì 8 febbraio 2023

Un'africana in Veneto

8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)

Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall'Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all'antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l'attenzione di fedeli e curiosi ("Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!") In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto. 

Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz'altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome ("Fortunata"), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l'ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia. 

La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un'altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l'Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l'unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento. 

Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d'istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.

Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt'Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c'è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po' l'effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l'esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l'ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell'impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l'italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l'otto febbraio del 1947. 

Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: "Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?"

17 commenti:

  1. "ma proprio nel 1837" invece di 1937

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  2. Leo, domani è il giorno del ricordo. Immagino tu abbia già preparato il pezzo, giusto?

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    1. Si possono ordinare i pezzi?
      Che bello! Io ne vorrei uno circa il trasferimento della capitale indonesiana da Giacarta a Nusantara, per favore 😜

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    2. Beh, non pubblicare nulla produrrebbe un silenzio assordante. E verrebbe meno lo stesso concetto di "livella". Anche da morti, si riuscirebbe a mantenere una superiorità antropologica, giocando in modo macabro con la memoria e con l'oblio...

      Io, se mi è consentito, voglio ricordare qui, con lo stesso sgomento, tutte le vittime di tutte le dittature...

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    3. Mi sembra un'iniziativa onorevole.
      Ad esempio potremmo ricordare le recenti vittime della dittatura iraniana, sia coloro che sono morti per le strade, sia coloro che sono stati giustiziati.
      La repressione del regime iraniano si fonda sulla tortura psicologica, sessuale (stupri) e fisica (torture e assassini).
      Vorrei infine ricordare che la modalità standard di impiccagione non prevede di precipitare il condannato nel vuoto, causandogli uno strappo alla spina dorsale che porta ad una morte quasi istantanea, bensì sollevando mediante un braccio meccanico, in modo che il soffocamento sia lento e doloroso.

      Il fatto che l'anonimo non spenda neanche una parola per la lotta che gli iraniani ogni giorno combattono... beh... fa riflettere.

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    4. Al momento non sono sposata con nessuna iraniana, anche perché in Iran le ragazze omosessuali non fanno una bella fine.
      Il fatto che tu ironizzi su queste cose non è un buon segno, direi.

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    5. La regola è che se non ho niente di interessante da scrivere non scrivo niente. Come puoi notare questo sito ha più di vent'anni in cui a volte ho scritto cose e a volte no. Se vuoi offenderti perché un anno invece di scrivere una cosa non l'ho scritta, beh, prendi il numeretto. Continuo a ricordare che l'espressione "superiorità antropologica" non significa nulla ma è straordinariamente efficace a identificare gli interlocutori scoppiati.

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    6. Potresti mettere link degli anni passati su questa giornata?
      Grazie

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    7. Ehi trollino, mi sa che ti hanno rubato del materiale dall'archivio...
      Non ho trovato nulla sulla giornata di oggi...però tanto Sanremo e la Mussolini vestita da pecorella...ahah...

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    8. beh almeno ti stai facendo una cultura. Ma hai trovato solenni discorsi di commemorazione di altre guerre o altre stragi?

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    9. Occhio che l'anno 2006 va letto di cima a fondo come fosse un libro, altrimenti non ci si capisce nulla 😜

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  3. Ti ho chiesto se sei la moglie di Tondelli, considerato che gli dai ragione su tutto. Non è buon segno che tu non abbia capito.
    Come non è buon segno che tu non abbia capito queste semplici parole "tutte le vittime di tutte le dittature" . Ergo, nessuna esclusa. Ora ti è più chiaro?

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    1. Quindi la definizione di moglie sarebbe "quella persona che dà ragione al marito su tutto"?
      Interessante... 😀

      Frequento questo blog poiché trovo interessante ciò che ci viene scritto, tutto qui.

      Il tuo scandalizzarti per il fatto che Leonardo nel proprio blog volesse essere libero di trattare gli argomenti che desidera mi fa supporre che tu sia una di quelle persone che hanno bisogno di qualcuno che detti loro l'agenda: il 25 dicembre si fa Natale, il 10 febbraio si parla delle foibe, il 25 aprile della Costituzione, eccetera... guai a parlare di altri argomenti!

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    2. Cioè tu conosci mogli che danno ragione ai mariti su tutto? Dove sono custodite, è possibile visitarle?

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