Servo di Dio
L'angelo apparve a Abdullah il primo aprile 2006, nel cielo terso di Pantelleria: il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
A detta di alcuni non sarebbe stata Pantelleria, ma Lampedusa: e non il primo aprile, bensì il 28 marzo: data in cui secondo gli annali si verificò effettivamente un eclissi totale di sole nel Nordafrica. Ed ecco spiegato perché Abdullah stesse impalato a guardare il cielo quel giorno. Del resto le eclissi nel Cristianesimo sono importanti: alla morte di Gesù Cristo in croce si fece buio in tutta la terra, ecc. ecc. (Ma anche il primo Aprile ha il suo bel simbolismo: il Pesce era il rebus usato dai primi cristiani clandestini nelle catacombe…)
Gli avevano detto di non fissare il sole, che senza occhiali era pericoloso, ma gliel'avevano detto nella lingua sbagliata, e comunque ad Abdullah non fregava più niente di niente. Perdere la vista, dopo aver perso tutti quei soldi. I risparmi della vita. Più un bel prestito dal cugino. Più nulla. Tutto bruciato. Gli italiani avevano intercettato il peschereccio venti minuti dopo la partenza. Una soffiata dei libici, evidentemente, ma chi se ne frega? Libici, italiani, tutti ladri, tutti bastardi. I risparmi di una vita per finire in una galera italiana all'aria aperta. Senza aver fatto niente di male. I risparmi di una vita. Ladri e bastardi.
Nel racconto che ci è stato tramandato c'è un'evidente imprecisione. Abdullah sostiene di avere visto l'angelo in una "galera italiana all'aria aperta", il che è impossibile. In quell'epoca non c'erano prigioni del genere, sulle isole italiane del mediterraneo. A Lampedusa c'era però un centro di raccolta dei clandestini, ed è possibile che Abdullah l'abbia scambiato per una galera, per via dei muri, delle sbarre di ferro alle finestre, della polizia, delle manette, del filo spinato. Ma noi sappiamo che in realtà non si trattava di una galera, bensì di un centro di raccolta. Giusto per ristabilire la verità storica.
Cosa gli sarebbe accaduto, ora, Abdullah non poteva saperlo. Fu l'angelo stesso che glielo spiegò, sussurrandogli all'orecchio: "Abdullah, servo di Dio, sei nella merda. Ora gli italiani ti riconsegneranno ai libici, che dopo averti succhiato i soldi di una vita con la promessa di sbarcarti in Italia, ti ficcheranno in un campo di concentramento a Kufra, nel bel mezzo del Sahara, a pane e acqua sotto il sole. Questo è il tuo destino, Abdullah. A meno che…"
"Chi sei?", disse Abdullah "Perché mi chiami servo di Dio?"
"Perché è il tuo nome, no? Abdullah, servo di Dio. Non cercare di fissarmi, ti fai male".
"Sei un angelo?"
"Lascia perdere chi sono. Troppo bello per te, comunque. Ascoltami attentamente. Ci tieni ancora ad arrivare in Italia?"
"L'Italia è una merda".
"Sì, e Kufra è merda secca. Ascolta me. Hai ancora una possibilità. Sai leggere? Hai dato un'occhiata ai giornali di recente?"
"Sono stato un po' impegnato".
"Ti pareva. Quindi non sai cos'è successo in Afganistan".
"Hanno trovato Osama?"
"Ma che Osama e Osama, ascoltami. Devi sapere che…"
***
L'operatore era un panzone stronzo, per nulla consapevole di trovarsi di fronte a un servo di Dio. Con l'aria più seria del mondo snocciolava sillabe dal suono vagamente arabo, e se non lo capivi al volo s'incazzava pure.
"Sostieni di chiamarti Abdullah".
"È il mio nome, sì".
"Originale. E verresti dalla..."
"Mauritania".
"Abdullah, forse ti piacerebbe sapere dove ti manderemo".
"Credo di saperlo già".
"Per ora torni in Libia, dove ci sono dei campi per i clandestini come te. Avrai da mangiare e da dormire. Poi…"
"No".
"Come sarebbe a dire, no?"
"Non succederà nulla di tutto questo. Io andrò in Italia, oggi stesso. Stasera atterrerò a Roma".
"Ah sì?"
"Verrà un Ministro a prendermi all'aeroporto. Non so bene quale ministro. L'angelo non me l'ha detto".
"Non riesco a capire".
"Non riesci a capire perché la tua conoscenza della lingua araba è spaventosamente approssimativa, panzone di merda! A Roma avrò a lamentarmi di questo trattamento".
"Fammi capire, tu pensi che andrai a Roma?"
"Io non penso, io so. Io sarò a Roma, stasera".
"E chi te lo fa pensare?"
"L'angelo che ho visto qua fuori, un'ora fa. Me l'ha detto lui".
"Ti ha detto cosa?"
"Mi ha detto: Abdullah, servo di Dio, c'è un solo modo per salvarti. Convertiti. E io gli ho detto: sì".
"Convertiti?"
"Ma tu sei scemo, o non lo sei? Lo capisci quello che sto dicendo? È importante. Mi sono convertito. Adesso sono cristiano. Non potete rimpatriarmi in Mauritania. Là c'è il reato di apostasia. È punibile con la morte. A p o s t a s i a. Sai cosa significa? In francese, forse?"
"Apostasia…"
"È quando qualcuno rinnega la sua religione per convertirsi a un'altra. Come quell'afgano in tv, l'hai visto l'afgano? Ha chiesto asilo religioso e in mezza giornata gliel'hanno dato. E adesso lo devono dare anche a me. O ci sono apostati di serie A e di serie B?"
"Piano, piano, non capisco".
"Hai capito benissimo. Ho visto un angelo che mi ha detto convertiti. Mi ha anche detto di… di… cos'è che fanno i cristiani, si lavano i capelli, come si chiama…"
"Il battesimo".
"Perfetto, il battesimo, chiama il tuo mullah, devo battezzarmi. È urgente".
In seguito il Ministro degli Esteri ebbe a esprimere in privato l'opinione che, se ci si fosse limitati a battezzare Abdullah a mazzate, rispedendolo subito dopo al mittente, si sarebbe senz'altro violato qualche principio internazionale, ma anche evitati tutti i casini che ne seguirono. Perché non appena Abdullah fu battezzato Teodulo (che in greco significa "Servo di Dio") e la voce si sparse, nell'isola, che bastava una lavata di capo per ottenere il permesso di soggiorno, l'ondata di conversioni spontanee che ne scaturì fu tale da far impallidire le gesta dei Santi Pietro e Paolo e gli Atti degli Apostoli tutti. Di lì a pochi giorni le ambasciate italiane in tutto il Medio Oriente venivano circondate da migliaia di persone che non venivano più ad appiccare il fuoco per qualche vignetta irriverente, macché! Tutta gente che aveva visto un segno in cielo, tutti folgorati sulla via di Damasco, o meglio di Lampedusa...
In capo a sei mesi, il Parlamento italiano – con un emendamento bi-partisan – stabiliva il reato di apostasia, con effetto retroattivo. I musulmani che avessero tentato di battezzarsi e abbarbicarsi alle radici cristiane sarebbero stati puniti non già con la morte (ché siamo gente civile, noi), ma con l'espulsione in qualche Paese dove gli apostati li lapidano.
(A proposito, gli angeli ci sono sia nel Cristianesimo che nell'Islam - e si chiamano più o meno con gli stessi nomi. Ma non sono tutti per forza buoni consiglieri. Si sa per certo che il più bello si ribellò a Dio, e tuttora tra i due c'è una certa ruggine. Insomma, non dovete per forza fidarvi del primo che vi appare, anche se ha una buona idea da proporvi).
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venerdì 31 marzo 2006
mercoledì 29 marzo 2006
- prepararsi al peggio e al meglio
Insomma, a questo punto (io lo dico piano) (anzi, non lo dico proprio) (lo dico sotto forma di ipotesi, di ipotesi lontanamente plausibile) (un'ipotesi accademica, pura speculazione) dobbiamo prepararci all'eventualità, intendo dire la remota eventualità, che Berlusconi perda le elezioni.
Cosa fare dopo B ?
E che sarà mai, uno dice. Ne ha perse altre. Sì, ma stavolta è diverso. L'uomo è anziano e stanco – e sarebbe anziano e stanco persino se il dieci aprile vincesse. Spira una certa tramontana, e secondo me è il caso di prepararsi. Noi siamo maniaci di Berlusconi, è cosa nota. Per noi è il simbolo delle mille cose di questo Paese che non ci sono mai piaciute. In questo è persino troppo comodo – un signore che da solo mette insieme il malaffare della Tangentopoli milanese con la mafia siciliana, la speculazione edilizia, la televisione spazzatura, la politica spazzatura, l'anticomunismo da strapazzo, l'arroganza brianzola: nell'odissea dello schifo italiano di questi ultimi vent'anni non c'è praticamente un solo capitolo che non possa essere ricondotto a lui. Forse la mucillagine sulla riviera adriatica. Ma con un po' d'impegno.
Ebbene, questo comodo simbolo, questo sorriso a 32 perle stampigliato su tutte le cose che non ci piacciono, sta per salutarci, ed è un grosso pezzo della nostra vita che se ne va. È probabile che ci sentiremo più liberi, dopo. Ma è la liberta dei canarini fuori dalla gabbia, non è detto che sopravvivremo. Berlusconi è al governo dal 2001, ma ingombra il dibattito politico almeno dal 1994. Eravamo ancora ragazzini quando abbiamo imparato a dare ogni colpa a lui. Cosa faremo quando non ci sarà più? Sul serio, si accettano consigli.
S'intenda, noi non siamo quelli disperati che per saltare dal carro, in questi giorni, sono pronti ad aggrapparsi a qualsiasi cosa, comprese le sdrucciolevoli radici cristiane e le tonache di placidi cardinali che mai avrebbero pensato di trovarsi in prima linea nel conflitto di civiltà. Per quelli ormai è ragione di vita o di morte, per noi no; è abbastanza certo che manterremo gli stessi impieghi e le stesse frequentazioni; però siamo quel tipo di persone che non amano trovarsi a corto d'argomenti, e se B dovesse sparire d'un colpo, potrebbe appunto succederci questo: ritrovarci in società senza argomenti. E questo noi non lo vogliamo, vero?
Sgombriamo il campo da certi equivoci. Il fascismo, per esempio. Ogni tanto (anche all'estero) si fa questo paragone, che in realtà non ci dice molto né su Berlusconi né su Mussolini, né sul fascismo, né sull'Italia in cui viviamo oggi. Berlusconi senz'altro non è un antifascista molto convinto. Ma non ha mai pensato di praticare restrizioni alle libertà dei cittadini paragonabili a quelle di Mussolini. Né la situazione gliel'avrebbe consentito – l'Europa del 1994 non era più quella del 1922. Lo dico con una punta di rincrescimento, perché se fosse stato davvero il neoduce che un po' ci aspettavamo, avrei cospirato contro di lui. Il che francamente non è successo – mi sono limitato a lagnarmi su un blog, e lui me l'ha consentito.
D'altro canto il berlusconismo è stato per certi versi qualcosa di più subdolo e strisciante: e se fosse vivo oggi Pasolini affermerebbe senza tema che il ventennio berlusconiano (1986-2006?) ha fatto assai più danni di quello mussoliniano, perché la tetra propaganda fascista non aveva veramente fatto breccia nella coscienza del popolo, nel borgataro e nella contadina, mentre Canale 5… ma Pasolini è morto, e se fosse vivo io probabilmente non sarei d'accordo con lui e passerei il tempo a fargli il verso, quindi lasciamo perdere.
La verità è che il paragone tra Benito e Silvio è molto abusato perché comporta un notevole risparmio d'energia mentale. Soprattutto all'estero. Quando al Guardian parlano di un ritorno al fascismo, non fanno che interpretare male i sintomi, attribuendoci la stessa malattia di cui ci hanno già visto soffrire. Punti rossi, quindi è varicella. E se fosse morbillo?
C'è un'altra possibilità. Nella coscienza politica degli italiani, di quasi tutti gli italiani, Mussolini rappresenta il polo negativo. Ma all'estero, quando si cita Mussolini, non si ha tanto in mente il traditore ex-socialista, il delitto Matteotti, le leggi razziali, Salò… quanto piuttosto il massimo esempio di moderno tiranno-buffo, tiranno wannabe che si sgola per trascinare all'Impero un popolo di guitti scettici. È questo, dunque? Berlusconi sarebbe il successore di Mussolini in quanto clown?
Oggi non c'è dubbio che Berlusconi sia un clown – e anche come clown, piuttosto malriuscito. Da anni le sue clownerie ingombrano la scena politica italiana, abbassando il livello del dibattito, impedendoci di parlare di altro che non sia una pelata e un nasone rosso. Ma non è sempre stato così.
Nel 1994, quando abbiamo iniziato a preoccuparci seriamente di lui, l'aspetto clownesco era l'ultima voce in lista. A quel tempo eravamo tutti sinceramente spaventati di quello che avrebbe potuto fare un uomo in possesso di tre televisioni e un polo editoriale-pubblicitario, se si fosse conquistato la maggioranza in Parlamento. In effetti non sembravano esserci limiti al suo potere. Avrebbe potuto completare la conquista dei media italiani e sopprimere ogni voce di dissenso. E non era nemmeno inverosimile che un imprenditore di successo riuscisse a dare una scrollata a un sistema di potere incancrenito, e a conquistarsi coi fatti un consenso superiore a quel famoso 51% degli italiani.
Nei fatti, in cinque anni di governo si è 'limitato' a far votare innumerevoli leggi a suo favore, Costituzione inclusa. Ma non è andato oltre, non ci ha costretti ad amarlo con la forza.
Perché? Ci sono tante spiegazioni. Alcune ce le ha fornite lui stesso: gli alleati rissosi, la campagna d'odio della sinistra, il buco dell'Ulivo, l'Euro a 1936 lire, l'undici settembre… sì, sì, d'accordo.
E se B, più semplicemente, fosse un inetto? Come imprenditore ha avuto qualche buona idea (e qualche Santo in paradiso), ma come politico è stato incapace di mettere a frutto l'incredibile credito politico che milioni di italiani (dagli operai a Confindustria) gli hanno aperto nel 1994 (e qui il paragone con Benito Mussolini, giornalista post-socialista abbandonato dagli ex compagni, che in pochi anni si fa gioco di Giolitti e del Re, è davvero impietoso). Nella sua megalomania, si è sempre aspettato che gli italiani dovessero innamorarsi di lui spontaneamente. È un vecchio patetico playboy, che sotto il cerone si crede ancora, in qualche modo, irresistibile.
Ma è facile dirlo col senno del poi. Nel 1994 non potevamo saperlo. Eravamo partiti a lottare contro un tiranno moderno, efficiente e seducente; e ci siamo trovati di fronte, strada facendo, un clown che infila una serie prodigiosa di gaffes e orrende freddure. Dopo un'adolescenza abbastanza spensierata eravamo finalmente pronti alla tragedia, e abbiamo impiegato degli anni a capire che era una farsa, a nostre spese. Il nostro disagio non è poi così dissimile da quello di tanti berlusconiani, che dieci anni fa salirono sul carro pensando di appoggiare uno statista liberista, e oggi devono ridursi a dimostrare la genialità dell'odierna strategia comunicativa del Cavaliere. Partiti per fare i maître à penser, si ritrovano oggi a ridacchiare a comando sulle quinte del Drive In.
Da cui l'equivoco fondamentale, nel quale ci troviamo tutti invischiati: cosa non ci piace veramente in Berlusconi? Il caimano o il clown? Il fatto che abbia concentrato su di sé tutto il potere, o il fatto che non abbia saputo che farsene? Guardiamoci in faccia, compagni di trincea: abbiamo lottato contro un tiranno ridicolo perché era un tiranno o perché era ridicolo? Uno statista democratico altrettanto ridicolo ci andrebbe bene? O non preferiremmo un altro tiranno, ma un po' più serio?
Insomma, dopo B. una possibilità potrebbe essere rifarlo. Ma migliore. Più serio. Niente barzellette. O almeno divertenti. In Italia del resto gli autori non mancano. Siamo un popolo di allenatori, opinionisti, spindoctors. Forse è meglio mettersi sul mercato, si aprono mesi interessanti, le ragazze tirano fuori le camicette, e questa tramontana… è un bel momento, proviamo a godercelo. Ci sentiamo.
Cosa fare dopo B ?
E che sarà mai, uno dice. Ne ha perse altre. Sì, ma stavolta è diverso. L'uomo è anziano e stanco – e sarebbe anziano e stanco persino se il dieci aprile vincesse. Spira una certa tramontana, e secondo me è il caso di prepararsi. Noi siamo maniaci di Berlusconi, è cosa nota. Per noi è il simbolo delle mille cose di questo Paese che non ci sono mai piaciute. In questo è persino troppo comodo – un signore che da solo mette insieme il malaffare della Tangentopoli milanese con la mafia siciliana, la speculazione edilizia, la televisione spazzatura, la politica spazzatura, l'anticomunismo da strapazzo, l'arroganza brianzola: nell'odissea dello schifo italiano di questi ultimi vent'anni non c'è praticamente un solo capitolo che non possa essere ricondotto a lui. Forse la mucillagine sulla riviera adriatica. Ma con un po' d'impegno.
Ebbene, questo comodo simbolo, questo sorriso a 32 perle stampigliato su tutte le cose che non ci piacciono, sta per salutarci, ed è un grosso pezzo della nostra vita che se ne va. È probabile che ci sentiremo più liberi, dopo. Ma è la liberta dei canarini fuori dalla gabbia, non è detto che sopravvivremo. Berlusconi è al governo dal 2001, ma ingombra il dibattito politico almeno dal 1994. Eravamo ancora ragazzini quando abbiamo imparato a dare ogni colpa a lui. Cosa faremo quando non ci sarà più? Sul serio, si accettano consigli.
S'intenda, noi non siamo quelli disperati che per saltare dal carro, in questi giorni, sono pronti ad aggrapparsi a qualsiasi cosa, comprese le sdrucciolevoli radici cristiane e le tonache di placidi cardinali che mai avrebbero pensato di trovarsi in prima linea nel conflitto di civiltà. Per quelli ormai è ragione di vita o di morte, per noi no; è abbastanza certo che manterremo gli stessi impieghi e le stesse frequentazioni; però siamo quel tipo di persone che non amano trovarsi a corto d'argomenti, e se B dovesse sparire d'un colpo, potrebbe appunto succederci questo: ritrovarci in società senza argomenti. E questo noi non lo vogliamo, vero?
Sgombriamo il campo da certi equivoci. Il fascismo, per esempio. Ogni tanto (anche all'estero) si fa questo paragone, che in realtà non ci dice molto né su Berlusconi né su Mussolini, né sul fascismo, né sull'Italia in cui viviamo oggi. Berlusconi senz'altro non è un antifascista molto convinto. Ma non ha mai pensato di praticare restrizioni alle libertà dei cittadini paragonabili a quelle di Mussolini. Né la situazione gliel'avrebbe consentito – l'Europa del 1994 non era più quella del 1922. Lo dico con una punta di rincrescimento, perché se fosse stato davvero il neoduce che un po' ci aspettavamo, avrei cospirato contro di lui. Il che francamente non è successo – mi sono limitato a lagnarmi su un blog, e lui me l'ha consentito.
D'altro canto il berlusconismo è stato per certi versi qualcosa di più subdolo e strisciante: e se fosse vivo oggi Pasolini affermerebbe senza tema che il ventennio berlusconiano (1986-2006?) ha fatto assai più danni di quello mussoliniano, perché la tetra propaganda fascista non aveva veramente fatto breccia nella coscienza del popolo, nel borgataro e nella contadina, mentre Canale 5… ma Pasolini è morto, e se fosse vivo io probabilmente non sarei d'accordo con lui e passerei il tempo a fargli il verso, quindi lasciamo perdere.
La verità è che il paragone tra Benito e Silvio è molto abusato perché comporta un notevole risparmio d'energia mentale. Soprattutto all'estero. Quando al Guardian parlano di un ritorno al fascismo, non fanno che interpretare male i sintomi, attribuendoci la stessa malattia di cui ci hanno già visto soffrire. Punti rossi, quindi è varicella. E se fosse morbillo?
C'è un'altra possibilità. Nella coscienza politica degli italiani, di quasi tutti gli italiani, Mussolini rappresenta il polo negativo. Ma all'estero, quando si cita Mussolini, non si ha tanto in mente il traditore ex-socialista, il delitto Matteotti, le leggi razziali, Salò… quanto piuttosto il massimo esempio di moderno tiranno-buffo, tiranno wannabe che si sgola per trascinare all'Impero un popolo di guitti scettici. È questo, dunque? Berlusconi sarebbe il successore di Mussolini in quanto clown?
Oggi non c'è dubbio che Berlusconi sia un clown – e anche come clown, piuttosto malriuscito. Da anni le sue clownerie ingombrano la scena politica italiana, abbassando il livello del dibattito, impedendoci di parlare di altro che non sia una pelata e un nasone rosso. Ma non è sempre stato così.
Nel 1994, quando abbiamo iniziato a preoccuparci seriamente di lui, l'aspetto clownesco era l'ultima voce in lista. A quel tempo eravamo tutti sinceramente spaventati di quello che avrebbe potuto fare un uomo in possesso di tre televisioni e un polo editoriale-pubblicitario, se si fosse conquistato la maggioranza in Parlamento. In effetti non sembravano esserci limiti al suo potere. Avrebbe potuto completare la conquista dei media italiani e sopprimere ogni voce di dissenso. E non era nemmeno inverosimile che un imprenditore di successo riuscisse a dare una scrollata a un sistema di potere incancrenito, e a conquistarsi coi fatti un consenso superiore a quel famoso 51% degli italiani.
Nei fatti, in cinque anni di governo si è 'limitato' a far votare innumerevoli leggi a suo favore, Costituzione inclusa. Ma non è andato oltre, non ci ha costretti ad amarlo con la forza.
Perché? Ci sono tante spiegazioni. Alcune ce le ha fornite lui stesso: gli alleati rissosi, la campagna d'odio della sinistra, il buco dell'Ulivo, l'Euro a 1936 lire, l'undici settembre… sì, sì, d'accordo.
E se B, più semplicemente, fosse un inetto? Come imprenditore ha avuto qualche buona idea (e qualche Santo in paradiso), ma come politico è stato incapace di mettere a frutto l'incredibile credito politico che milioni di italiani (dagli operai a Confindustria) gli hanno aperto nel 1994 (e qui il paragone con Benito Mussolini, giornalista post-socialista abbandonato dagli ex compagni, che in pochi anni si fa gioco di Giolitti e del Re, è davvero impietoso). Nella sua megalomania, si è sempre aspettato che gli italiani dovessero innamorarsi di lui spontaneamente. È un vecchio patetico playboy, che sotto il cerone si crede ancora, in qualche modo, irresistibile.
Ma è facile dirlo col senno del poi. Nel 1994 non potevamo saperlo. Eravamo partiti a lottare contro un tiranno moderno, efficiente e seducente; e ci siamo trovati di fronte, strada facendo, un clown che infila una serie prodigiosa di gaffes e orrende freddure. Dopo un'adolescenza abbastanza spensierata eravamo finalmente pronti alla tragedia, e abbiamo impiegato degli anni a capire che era una farsa, a nostre spese. Il nostro disagio non è poi così dissimile da quello di tanti berlusconiani, che dieci anni fa salirono sul carro pensando di appoggiare uno statista liberista, e oggi devono ridursi a dimostrare la genialità dell'odierna strategia comunicativa del Cavaliere. Partiti per fare i maître à penser, si ritrovano oggi a ridacchiare a comando sulle quinte del Drive In.
Da cui l'equivoco fondamentale, nel quale ci troviamo tutti invischiati: cosa non ci piace veramente in Berlusconi? Il caimano o il clown? Il fatto che abbia concentrato su di sé tutto il potere, o il fatto che non abbia saputo che farsene? Guardiamoci in faccia, compagni di trincea: abbiamo lottato contro un tiranno ridicolo perché era un tiranno o perché era ridicolo? Uno statista democratico altrettanto ridicolo ci andrebbe bene? O non preferiremmo un altro tiranno, ma un po' più serio?
Insomma, dopo B. una possibilità potrebbe essere rifarlo. Ma migliore. Più serio. Niente barzellette. O almeno divertenti. In Italia del resto gli autori non mancano. Siamo un popolo di allenatori, opinionisti, spindoctors. Forse è meglio mettersi sul mercato, si aprono mesi interessanti, le ragazze tirano fuori le camicette, e questa tramontana… è un bel momento, proviamo a godercelo. Ci sentiamo.
lunedì 27 marzo 2006
- il pezzo che lunedì non ti aspettavi
(Il film non finisce così:
Nell'ultima scena il giudice sta per emettere la sentenza, quando la donna magistrato si volta verso il Caimano. Che la fissa, lo sguardo iniettato di sangue.
Ma la donna magistrato è Margherita Buy, che ha finalmente accettato la particina a cui teneva tanto l'ex marito! "Non mi chiamo Ilda", esclama, "il mio vero nome è Aittra…" E poi trafigge il Caimano con l'asta di una bandiera tricolore (oppure tutta rossa, non cambia niente); la polizia la bracca, lei fugge sui tetti, sparatoria, titoli di coda.
Io il film l'avrei finito così, prima di entrare in clandestinità).
Quello che segue è un pezzo sul Caimano. Già. Proprio così. Chi se l'aspettava.
Non avete ancora visto il film? Non importa, non svelerò niente di più di quello che avete già letto sui giornali (cioè, più o meno, tutto).
Il caimano – sbarazziamoci subito dell'argomento – non sposterà un solo voto da una parte o dall'altra. I film non spostano voti. Nel 2006, un film assolve alla sua missione se riesce a portare il grosso sedere dello spettatore occidentale su una poltrona diversa da quella di casa sua. Il cinema guarda a sinistra non per spirito di missione, ma di sopravvivenza, perché di solito questi spettatori strani che vanno a vedere i film su schermi grandi in sale buie sono più orientati a sinistra. Succede persino negli USA (a Hollywood è una gara a chi è il più liberal, ormai), figurati da noi.
Il caimano è un film irrisolto – dopodiché va bene lo stesso, i film non sono mica problemi, non è che un film risolto debba essere per forza più bello o interessante.
Il caimano, d'altro canto, era un film impossibile da fare. L'impossibilità era il risultato della somma di due difficoltà. La prima è Berlusconi. Non si tratta solo di una difficoltà di ordine pratico – realizzare un film polemico nei confronti dell'uomo più potente e ricco d'Italia. Ma di ordine estetico: a cosa sarebbe servita l'ennesima parodia di Berlusconi? E d'altro canto, si può mettere in scena Berlusconi senza trasformarlo in parodia? Lui stesso, nei filmati di repertorio, mostra quant'è difficile essere Berlusconi rimanendo seri. Berlusconi è la storia che si ripete in farsa, la barzelletta del nostro tempo: il ridicolo che lui stesso cerca di esorcizzare a suon di barzellette tristi.
Inoltre Berlusconi è il simbolo del berlusconismo: un fardello davvero troppo pesante per un uomo solo. La deriva morale, l'involuzione culturale, la corruzione al potere, si sono visti un po' dappertutto, nel mondo civilizzato. Ma soltanto in Italia questi fenomeni si sono presentati dietro alla faccia (tosta) di un solo individuo. Al punto che riassumere, in un'ora e mezza, quello che Berlusconi ci ha fatto era un'impresa impossibile, e forse nemmeno tanto utile. Perché, come dice il Moretti-personaggio, ormai chi voleva capire ha capito, e agli altri evidentemente sta tutto bene così.
La seconda difficoltà è la croce personale di Moretti: vale a dire il dover fare, ogni tanto, un film di Nanni Moretti. Un film che i giornalisti delle principali testate si precipiteranno a descrivere, dalla prima scena all'ultima, sui quotidiani del giorno dopo. Un film destinato a essere vagliato, sviscerato, da critici non solo cinematografici, alla ricerca di slogan e tormentoni in grado di riassumere lo spirito dei tempi eccetera. Un film persino più difficile del solito, perché stavolta Moretti doveva dare conto sia della sua stagione di effettivo impegno politico coi girotondi, sia del suo ritorno al privato nell'ultimo paio d'anni.
Ricapitolando, il film doveva:
– mettere in scena Berlusconi senza fargli il verso: niente battute tricologiche, niente imitazioni;
– pagare il tributo alle campagne giustizialiste dei girotondi: riassumere quindi per sommi capi il complesso intreccio di soldi sporchi, mazzette, collateralismo politico, ecc. ecc.
– allo stesso tempo illustrare il berlusconismo, un fenomeno che va ben oltre il malaffare: l'involuzione morale ed estetica di un intero Paese.
– essere un film di Nanni Moretti, vale a dire un film dove un borghese nevrotico lotta contro le avversità sempre nuove della vita, finché in un paio di scene cruciali non compie una scenata in pubblico o non si sfoga in casa rompendo qualche oggetto domestico.
Viste le premesse, c'è da essere contenti di come il regista sia riuscito a uscirne riducendo i danni; evitando di darci sia la parodia di Berlusconi che di sé stesso. Il suo eroe-tipo si è trasformato in un produttore di B-movies in crisi coniugale; un mascheramento parziale (un po' come quando Woody Allen in Hollywood Ending si traveste da regista di kolossal) che gli consente di esprimere anche la nostalgia per un tipo di cinema meno meditato, più viscerale, veramente autarchico. Il rischio di fare di Berlusconi una macchietta è evitato con un gioco di specchi: nel film ci sono 4 Berlusconi diversi; siamo tutti Berlusconi, come in Casino Royale eravamo tutti James Bond. Morale: Berlusconi forse perderà le elezioni e i processi, ma il berlusconismo ha vinto, ci ha penetrato, ha trasformato le nostre esistenze. E su questo siamo tutti d'accordo, non importa cosa voteremo il nove aprile. Tutto bene, poteva andare peggio. Ma anche meglio.
Il paragone con Il portaborse, ad esempio, è impietoso. I protagonisti erano più giovani, la trama più solida, le aspettative meno problematiche – forse Moretti dovrebbe recitare più spesso nei film degli altri.
Il caimano, alla fine, è un film che cerca di essere tante cose senza mai crederci davvero. Per prima cosa, non è un film girotondino, sulla misteriosa ascesa finanziaria di SB. Dovendo riassumerla per sommi capi, Moretti se la cava con una serie di flash-back immaginari che sono davvero capolavori di sintesi (un mezzo minuto di sederi di ballerine riassume tutta la degenerazione televisiva degli anni Ottanta), ma che rimangono comunque parecchio in superficie (certo, forse la cosa più bella del film è il flash della cassaforte: ma è uno spunto surreale che non viene più ripreso. Peccato: un Berlusconi surreale ci manca).
Non è neppure quel film epico – che forse aveva in mente Moretti – in cui un eroe ammalato di cinema trionfa sulle avversità della vita, e riesce a girare almeno una scena del suo capolavoro. In realtà non si capisce perché Silvio Orlando ci tenga tanto, a rovinarsi col Caimano. La sceneggiatura gli interessa relativamente, e non fa neanche in tempo a innamorarsi della regista. Forse vuole soltanto dimostrare ai figli che ha un lavoro importante, organizza i set e paga un sacco di gente.
Allora è un film socio-politico sul berlusconismo della vita quotidiana? Sul modo in cui Berlusconi ci ha reso tutti più meschini e gretti? È una chiave di lettura, ma non è che apra molte porte. In fin dei conti la trama 'privata' del film è la più banale del mondo (moglie vuole lasciare marito che non vuole), e non è che il berlusconismo c'entri molto, con la rovina finanziaria e famigliare dei personaggi. Non è a causa del Caimano che Margherita e Silvio Orlando si stanno lasciando (a proposito: perché si stanno lasciando?) E i figli – che per metà del film occupano la scena ballando e saltando – questi figli stanno crescendo nevrotici e iperattivi non a causa della tv berlusconiana, ma più semplicemente perché hanno due genitori separati e altrettanto nevrotici. È vero, Placido è un viscidone riuscitissimo, ma di qui a farne l'incarnazione del berlusconismo, ce ne passa. No. Il Berlusconismo senz'altro esiste, e ha ragione il personaggio-Moretti a dire che ha vinto: ma nel film è soltanto definito, evocato, non messo in scena. E dire che Moretti questo imbarbarimento lo ha descritto, stigmatizzato, esemplificato, per quasi vent'anni (senz'altro da Bianca a Caro Diario), con una cattiveria che è stata il suo marchio di fabbrica. Paradossalmente, proprio nel Caimano di tutta questa cattiveria non c'è quasi più traccia: Moretti non è mai stato tanto gentile coi suoi personaggi quanto col suo produttore frustrato, la sua regista lesbica, la moglie emancipata, i figli iperattivi. Non sono più macchiette: sono persone. E allo stesso tempo, non sono nemmeno personaggi. Non si capisce esattamente perché stiano assieme o perché divorzino.
Insomma, Moretti – che di solito non fa passi più lunghi delle sue gambe – si è lasciato convincere, per spirito di servizio, a un'impresa troppo ambiziosa: mostrare in un film solo il volto tronfio del potere e la miseria del privato. Mettere in un solo film Berlusconi e il borghese divorziato. Il punto in cui secondo me il Caimano fallisce è proprio nel dimostrare il ruolo di Berlusconi nel fallimento del borghese divorziato. Alla fine le due storie vanno avanti per compartimenti stagni. Si poteva fare diversamente? Io, per esempio, come avrei fatto? Non lo so. Probabilmente avrei saccheggiato Jonathan Coe, che con What a carve up! (La famiglia Winshaw, 1994), ci ha dato negli ultimi anni il migliore esempio di come pubblico e privato si possano intrecciare nella stessa narrazione. Invece di affaticarsi a ritrarre la Thatcher, Coe ha selezionato alcuni aspetti in cui il thatcherismo ha dato il peggio di sé: l'involuzione culturale, la privatizzazione della sanità, il cibo-spazzatura, l'intrattenimento-spazzatura, il giornalismo-spazzatura, il traffico d'armi. Questi sei aspetti si incarnano, nel romanzo, in sei personaggi: i membri della diabolica famiglia Winshaw. Coe non intendeva descriverli come figure a tutto tondo: gli è bastato tratteggiarli come villain dickensiani; quello che gli premeva è mostrare come le scelte prese da questi sei fantocci abbiano effetti indiretti, ma concreti e tragici, nella vita quotidiana dei personaggi del romanzo. C'è chi muore in un ospedale privatizzato, chi perde contatto con la realtà a causa del vhs.
E allora: io, dovendo ri-scrivere il Caimano, metterei in chiaro una cosa che Moretti non dice mai: quel cinema viscerale e strampalato che oggi non si fa più, non si fa più anche perché in ogni casa ci sono tre canali di Berlusconi – ed ecco che il protagonista avrebbe un vero motivo esistenziale per prendersela con lui. Farei dei suoi due figli due insopportabili berluschini, ipnotizzati dalla tv, pronti a pestare i piedi appena l'allenatore li tiene in panchina. Farei di sua moglie una quarantenne frustrata che cerca di aggrapparsi ai modelli femminili delle riviste patinate. E in mezzo a tutto questo metterei un po' di Caimano che prende decisioni, qui ci mettiamo un ripetitore, qui una televendita, qui una depenalizzazione, qui un attacco a due punte. Quelle piccole grandi decisioni che probabilmente ci hanno rovinato la vita. Io farei questo. Ma d'altronde, perché dovrei mai infilarmi in un guaio del genere? Insomma, onore al merito. Un film irrisolto è quasi sempre meglio di nessun film.
(Stanotte sognerò chele d'aragosta).
Nell'ultima scena il giudice sta per emettere la sentenza, quando la donna magistrato si volta verso il Caimano. Che la fissa, lo sguardo iniettato di sangue.
Ma la donna magistrato è Margherita Buy, che ha finalmente accettato la particina a cui teneva tanto l'ex marito! "Non mi chiamo Ilda", esclama, "il mio vero nome è Aittra…" E poi trafigge il Caimano con l'asta di una bandiera tricolore (oppure tutta rossa, non cambia niente); la polizia la bracca, lei fugge sui tetti, sparatoria, titoli di coda.
Io il film l'avrei finito così, prima di entrare in clandestinità).
Quello che segue è un pezzo sul Caimano. Già. Proprio così. Chi se l'aspettava.
Non avete ancora visto il film? Non importa, non svelerò niente di più di quello che avete già letto sui giornali (cioè, più o meno, tutto).
Il caimano – sbarazziamoci subito dell'argomento – non sposterà un solo voto da una parte o dall'altra. I film non spostano voti. Nel 2006, un film assolve alla sua missione se riesce a portare il grosso sedere dello spettatore occidentale su una poltrona diversa da quella di casa sua. Il cinema guarda a sinistra non per spirito di missione, ma di sopravvivenza, perché di solito questi spettatori strani che vanno a vedere i film su schermi grandi in sale buie sono più orientati a sinistra. Succede persino negli USA (a Hollywood è una gara a chi è il più liberal, ormai), figurati da noi.
Il caimano è un film irrisolto – dopodiché va bene lo stesso, i film non sono mica problemi, non è che un film risolto debba essere per forza più bello o interessante.
Il caimano, d'altro canto, era un film impossibile da fare. L'impossibilità era il risultato della somma di due difficoltà. La prima è Berlusconi. Non si tratta solo di una difficoltà di ordine pratico – realizzare un film polemico nei confronti dell'uomo più potente e ricco d'Italia. Ma di ordine estetico: a cosa sarebbe servita l'ennesima parodia di Berlusconi? E d'altro canto, si può mettere in scena Berlusconi senza trasformarlo in parodia? Lui stesso, nei filmati di repertorio, mostra quant'è difficile essere Berlusconi rimanendo seri. Berlusconi è la storia che si ripete in farsa, la barzelletta del nostro tempo: il ridicolo che lui stesso cerca di esorcizzare a suon di barzellette tristi.
Inoltre Berlusconi è il simbolo del berlusconismo: un fardello davvero troppo pesante per un uomo solo. La deriva morale, l'involuzione culturale, la corruzione al potere, si sono visti un po' dappertutto, nel mondo civilizzato. Ma soltanto in Italia questi fenomeni si sono presentati dietro alla faccia (tosta) di un solo individuo. Al punto che riassumere, in un'ora e mezza, quello che Berlusconi ci ha fatto era un'impresa impossibile, e forse nemmeno tanto utile. Perché, come dice il Moretti-personaggio, ormai chi voleva capire ha capito, e agli altri evidentemente sta tutto bene così.
La seconda difficoltà è la croce personale di Moretti: vale a dire il dover fare, ogni tanto, un film di Nanni Moretti. Un film che i giornalisti delle principali testate si precipiteranno a descrivere, dalla prima scena all'ultima, sui quotidiani del giorno dopo. Un film destinato a essere vagliato, sviscerato, da critici non solo cinematografici, alla ricerca di slogan e tormentoni in grado di riassumere lo spirito dei tempi eccetera. Un film persino più difficile del solito, perché stavolta Moretti doveva dare conto sia della sua stagione di effettivo impegno politico coi girotondi, sia del suo ritorno al privato nell'ultimo paio d'anni.
Ricapitolando, il film doveva:
– mettere in scena Berlusconi senza fargli il verso: niente battute tricologiche, niente imitazioni;
– pagare il tributo alle campagne giustizialiste dei girotondi: riassumere quindi per sommi capi il complesso intreccio di soldi sporchi, mazzette, collateralismo politico, ecc. ecc.
– allo stesso tempo illustrare il berlusconismo, un fenomeno che va ben oltre il malaffare: l'involuzione morale ed estetica di un intero Paese.
– essere un film di Nanni Moretti, vale a dire un film dove un borghese nevrotico lotta contro le avversità sempre nuove della vita, finché in un paio di scene cruciali non compie una scenata in pubblico o non si sfoga in casa rompendo qualche oggetto domestico.
Viste le premesse, c'è da essere contenti di come il regista sia riuscito a uscirne riducendo i danni; evitando di darci sia la parodia di Berlusconi che di sé stesso. Il suo eroe-tipo si è trasformato in un produttore di B-movies in crisi coniugale; un mascheramento parziale (un po' come quando Woody Allen in Hollywood Ending si traveste da regista di kolossal) che gli consente di esprimere anche la nostalgia per un tipo di cinema meno meditato, più viscerale, veramente autarchico. Il rischio di fare di Berlusconi una macchietta è evitato con un gioco di specchi: nel film ci sono 4 Berlusconi diversi; siamo tutti Berlusconi, come in Casino Royale eravamo tutti James Bond. Morale: Berlusconi forse perderà le elezioni e i processi, ma il berlusconismo ha vinto, ci ha penetrato, ha trasformato le nostre esistenze. E su questo siamo tutti d'accordo, non importa cosa voteremo il nove aprile. Tutto bene, poteva andare peggio. Ma anche meglio.
Il paragone con Il portaborse, ad esempio, è impietoso. I protagonisti erano più giovani, la trama più solida, le aspettative meno problematiche – forse Moretti dovrebbe recitare più spesso nei film degli altri.
Il caimano, alla fine, è un film che cerca di essere tante cose senza mai crederci davvero. Per prima cosa, non è un film girotondino, sulla misteriosa ascesa finanziaria di SB. Dovendo riassumerla per sommi capi, Moretti se la cava con una serie di flash-back immaginari che sono davvero capolavori di sintesi (un mezzo minuto di sederi di ballerine riassume tutta la degenerazione televisiva degli anni Ottanta), ma che rimangono comunque parecchio in superficie (certo, forse la cosa più bella del film è il flash della cassaforte: ma è uno spunto surreale che non viene più ripreso. Peccato: un Berlusconi surreale ci manca).
Non è neppure quel film epico – che forse aveva in mente Moretti – in cui un eroe ammalato di cinema trionfa sulle avversità della vita, e riesce a girare almeno una scena del suo capolavoro. In realtà non si capisce perché Silvio Orlando ci tenga tanto, a rovinarsi col Caimano. La sceneggiatura gli interessa relativamente, e non fa neanche in tempo a innamorarsi della regista. Forse vuole soltanto dimostrare ai figli che ha un lavoro importante, organizza i set e paga un sacco di gente.
Allora è un film socio-politico sul berlusconismo della vita quotidiana? Sul modo in cui Berlusconi ci ha reso tutti più meschini e gretti? È una chiave di lettura, ma non è che apra molte porte. In fin dei conti la trama 'privata' del film è la più banale del mondo (moglie vuole lasciare marito che non vuole), e non è che il berlusconismo c'entri molto, con la rovina finanziaria e famigliare dei personaggi. Non è a causa del Caimano che Margherita e Silvio Orlando si stanno lasciando (a proposito: perché si stanno lasciando?) E i figli – che per metà del film occupano la scena ballando e saltando – questi figli stanno crescendo nevrotici e iperattivi non a causa della tv berlusconiana, ma più semplicemente perché hanno due genitori separati e altrettanto nevrotici. È vero, Placido è un viscidone riuscitissimo, ma di qui a farne l'incarnazione del berlusconismo, ce ne passa. No. Il Berlusconismo senz'altro esiste, e ha ragione il personaggio-Moretti a dire che ha vinto: ma nel film è soltanto definito, evocato, non messo in scena. E dire che Moretti questo imbarbarimento lo ha descritto, stigmatizzato, esemplificato, per quasi vent'anni (senz'altro da Bianca a Caro Diario), con una cattiveria che è stata il suo marchio di fabbrica. Paradossalmente, proprio nel Caimano di tutta questa cattiveria non c'è quasi più traccia: Moretti non è mai stato tanto gentile coi suoi personaggi quanto col suo produttore frustrato, la sua regista lesbica, la moglie emancipata, i figli iperattivi. Non sono più macchiette: sono persone. E allo stesso tempo, non sono nemmeno personaggi. Non si capisce esattamente perché stiano assieme o perché divorzino.
Insomma, Moretti – che di solito non fa passi più lunghi delle sue gambe – si è lasciato convincere, per spirito di servizio, a un'impresa troppo ambiziosa: mostrare in un film solo il volto tronfio del potere e la miseria del privato. Mettere in un solo film Berlusconi e il borghese divorziato. Il punto in cui secondo me il Caimano fallisce è proprio nel dimostrare il ruolo di Berlusconi nel fallimento del borghese divorziato. Alla fine le due storie vanno avanti per compartimenti stagni. Si poteva fare diversamente? Io, per esempio, come avrei fatto? Non lo so. Probabilmente avrei saccheggiato Jonathan Coe, che con What a carve up! (La famiglia Winshaw, 1994), ci ha dato negli ultimi anni il migliore esempio di come pubblico e privato si possano intrecciare nella stessa narrazione. Invece di affaticarsi a ritrarre la Thatcher, Coe ha selezionato alcuni aspetti in cui il thatcherismo ha dato il peggio di sé: l'involuzione culturale, la privatizzazione della sanità, il cibo-spazzatura, l'intrattenimento-spazzatura, il giornalismo-spazzatura, il traffico d'armi. Questi sei aspetti si incarnano, nel romanzo, in sei personaggi: i membri della diabolica famiglia Winshaw. Coe non intendeva descriverli come figure a tutto tondo: gli è bastato tratteggiarli come villain dickensiani; quello che gli premeva è mostrare come le scelte prese da questi sei fantocci abbiano effetti indiretti, ma concreti e tragici, nella vita quotidiana dei personaggi del romanzo. C'è chi muore in un ospedale privatizzato, chi perde contatto con la realtà a causa del vhs.
E allora: io, dovendo ri-scrivere il Caimano, metterei in chiaro una cosa che Moretti non dice mai: quel cinema viscerale e strampalato che oggi non si fa più, non si fa più anche perché in ogni casa ci sono tre canali di Berlusconi – ed ecco che il protagonista avrebbe un vero motivo esistenziale per prendersela con lui. Farei dei suoi due figli due insopportabili berluschini, ipnotizzati dalla tv, pronti a pestare i piedi appena l'allenatore li tiene in panchina. Farei di sua moglie una quarantenne frustrata che cerca di aggrapparsi ai modelli femminili delle riviste patinate. E in mezzo a tutto questo metterei un po' di Caimano che prende decisioni, qui ci mettiamo un ripetitore, qui una televendita, qui una depenalizzazione, qui un attacco a due punte. Quelle piccole grandi decisioni che probabilmente ci hanno rovinato la vita. Io farei questo. Ma d'altronde, perché dovrei mai infilarmi in un guaio del genere? Insomma, onore al merito. Un film irrisolto è quasi sempre meglio di nessun film.
(Stanotte sognerò chele d'aragosta).
venerdì 24 marzo 2006
- indecisi d'Italia, 2.
Vota (per) Natascia
Caro astensionista di sinistra
Come ben sai, ti scrivo tutti gli anni (2001, 2002, 2003, 2004, 2025)– questo è il sesto, e spero che sia l'ultimo.
Direi che ormai ci conosciamo. Tu sei un uomo/donna che non cede ai compromessi, in cabina elettorale. Magari neanche altrove.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il boss ti chiede di restare un'altra mezz'ora al lavoro (che poi diventa un'ora), ti licenzi seduta stante. Io non sono come te. Io vivo nel compromesso.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il compagno/a vuole vedere il grande fratello invece di un film o qualsiasi altra cosa, fai le valigie. Io non sono come te. Un po' t'invidio, va detta.
In ogni caso ti rispetto. Se dopo cinque anni di Berlusconi al governo – se dopo Genova, la Cirami, l'articolo 18, le speculazioni sul caso Biagi, gli insulti al parlamento europeo, la Bossi-Fini, la depenalizzazione di falso in bilancio, i condoni, i cantieri finti, gli assegni per chi manda i figli a scuola dai preti, le chiacchiere su Mussolini che mandava gli antifascisti a prendere il sole, la legge Gasparri, il ministro Martino che rassicura le mamme non andremo mai in Iraq e poi ci siamo andati, la speculazione sui morti di Nassiryia, la gente che è morta per opzionare un po' di petrolio, i CPT appaltati ai privati, la legge sulla fecondazione assistita, e poi basta, non ce la faccio a fare il conto, in cinque anni ho perso di vista tante cose, il cielo a volte mi è sembrato grigio anche d'estate – se dopo cinque anni di tutto questo, tu non hai ancora trovato abbastanza argomenti per votare contro Berlusconi, potrò convincerti adesso io? Non credo. Quindi non ci provo nemmeno.
Hai capito? Non intendo convincerti.
Voglio solo che tu vada a votare.
Non per te. Ma per qualcun altro che vorrebbe votare, che meriterebbe di votare, e non può farlo. Perché in Italia c'è un apartheid, e se ne parla meno di quanto si dovrebbe.
Perché nel mondo ci sono centinaia di migliaia di persone che non vivono in Italia, non lavorano in Italia, non pagano le tasse, ma hanno il diritto di decidere se ci governerà Berlusconi o Prodi – e al contrario, ci sono milioni di persone che si danno da fare in Italia per il PIL italiano, che mandano i figli nelle scuole italiane a imparare l'italiano, che pagano le tasse (quando possono) all'erario italiano, ma non hanno il diritto di decidere proprio niente.
Per me questa è una grande vergogna. Io forse sotto sotto sono un liberale, orfano della Rivoluzione Americana, che nacque sotto un principio pragmatico e tuttora validissimo: No taxation without representation: gli inglesi non possono tassarci senza darci il diritto alla rappresentanza.
Ma per te, astensionista di sinistra? Tu che insegui, senza compromessi, il sogno di un mondo dove tutti abbiano immediatamente pari diritti – davvero puoi resistere ancora un minuto in un Paese che fa votare i cosiddetti "italiani all'estero" e non fa votare le persone che da tutto il mondo sono venute a vivere qui, proprio qui, in mezzo a noi, che lavorano con noi e per noi, pagano le tasse che paghiamo noi e usano i servizi che usiamo noi? E allora basta, scusa. O te ne vai immediatamente, oppure ci aiuti a cambiare le cose subito, senza compromessi. Se il nove aprile non hai intenzione di votare per te, vota per un qualunque straniero che non ne ha il diritto – e che dovrebbe averlo. Aderisci alla campagna Adotta il voto di un immigrato, lanciata da Salamelik.
Non ti sto dicendo per chi votare, attento. Non devi votare per il mio candidato, ma per il suo. Non lo sai? Chiediglielo. Esci in strada e domanda. Secondo me non devi andare molto lontano per trovare uno straniero al lavoro. Guarda, senza neanche uscire dal portone – sul pianerottolo c'è Natascia che dà lo straccio. Ha due figli che contribuiscono a riportare in attivo il bilancio demografico del Paese. Non vuoi votare per te? E vota per Natascia, che dovrebbe averne il diritto, e forse ne ha anche più bisogno.
Che c'è, ti vergogni a chiedere? E allora torna su internet e studiati i programmi dei due schieramenti. Entrambi fanno schifo? Forse, ma ce n'è uno che rispetta Natascia in quanto forza lavoro. E ce n'è uno che considera Natascia potenzialmente pericolosa per la salute pubblica del Paese. Una terza possibilità non c'è.
"Ma lo vedi, si tratta sempre di un compromesso".
Sì, certo, come al solito. Ma posso assicurarti che questo compromesso non intaccherà la tua integrità morale, che è e rimane inviolabile. Non è il tuo compromesso. È quello di Natascia.
Se lei potesse votare per evitarsi altre umilianti ronde notturne intorno alle poste, non lo farebbe? Se lei potesse votare per mettersi in regola, non lo farebbe? Se lei potesse votare per essere riconosciuta come una cittadina nel Paese in cui lavora, non lo farebbe?
E allora fallo tu. E poi basta. Io sono un po' stanco di queste orazioni. Fuori è ancora grigio, ma quando arriva questa primavera? Facciamo che arriva per tutti il dieci aprile? Dipendesse da Natascia. Ma dipende da noi. Solo da noi. Ciao.
Caro astensionista di sinistra
Come ben sai, ti scrivo tutti gli anni (2001, 2002, 2003, 2004, 2025)– questo è il sesto, e spero che sia l'ultimo.
Direi che ormai ci conosciamo. Tu sei un uomo/donna che non cede ai compromessi, in cabina elettorale. Magari neanche altrove.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il boss ti chiede di restare un'altra mezz'ora al lavoro (che poi diventa un'ora), ti licenzi seduta stante. Io non sono come te. Io vivo nel compromesso.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il compagno/a vuole vedere il grande fratello invece di un film o qualsiasi altra cosa, fai le valigie. Io non sono come te. Un po' t'invidio, va detta.
In ogni caso ti rispetto. Se dopo cinque anni di Berlusconi al governo – se dopo Genova, la Cirami, l'articolo 18, le speculazioni sul caso Biagi, gli insulti al parlamento europeo, la Bossi-Fini, la depenalizzazione di falso in bilancio, i condoni, i cantieri finti, gli assegni per chi manda i figli a scuola dai preti, le chiacchiere su Mussolini che mandava gli antifascisti a prendere il sole, la legge Gasparri, il ministro Martino che rassicura le mamme non andremo mai in Iraq e poi ci siamo andati, la speculazione sui morti di Nassiryia, la gente che è morta per opzionare un po' di petrolio, i CPT appaltati ai privati, la legge sulla fecondazione assistita, e poi basta, non ce la faccio a fare il conto, in cinque anni ho perso di vista tante cose, il cielo a volte mi è sembrato grigio anche d'estate – se dopo cinque anni di tutto questo, tu non hai ancora trovato abbastanza argomenti per votare contro Berlusconi, potrò convincerti adesso io? Non credo. Quindi non ci provo nemmeno.
Hai capito? Non intendo convincerti.
Voglio solo che tu vada a votare.
Non per te. Ma per qualcun altro che vorrebbe votare, che meriterebbe di votare, e non può farlo. Perché in Italia c'è un apartheid, e se ne parla meno di quanto si dovrebbe.
Perché nel mondo ci sono centinaia di migliaia di persone che non vivono in Italia, non lavorano in Italia, non pagano le tasse, ma hanno il diritto di decidere se ci governerà Berlusconi o Prodi – e al contrario, ci sono milioni di persone che si danno da fare in Italia per il PIL italiano, che mandano i figli nelle scuole italiane a imparare l'italiano, che pagano le tasse (quando possono) all'erario italiano, ma non hanno il diritto di decidere proprio niente.
Per me questa è una grande vergogna. Io forse sotto sotto sono un liberale, orfano della Rivoluzione Americana, che nacque sotto un principio pragmatico e tuttora validissimo: No taxation without representation: gli inglesi non possono tassarci senza darci il diritto alla rappresentanza.
Ma per te, astensionista di sinistra? Tu che insegui, senza compromessi, il sogno di un mondo dove tutti abbiano immediatamente pari diritti – davvero puoi resistere ancora un minuto in un Paese che fa votare i cosiddetti "italiani all'estero" e non fa votare le persone che da tutto il mondo sono venute a vivere qui, proprio qui, in mezzo a noi, che lavorano con noi e per noi, pagano le tasse che paghiamo noi e usano i servizi che usiamo noi? E allora basta, scusa. O te ne vai immediatamente, oppure ci aiuti a cambiare le cose subito, senza compromessi. Se il nove aprile non hai intenzione di votare per te, vota per un qualunque straniero che non ne ha il diritto – e che dovrebbe averlo. Aderisci alla campagna Adotta il voto di un immigrato, lanciata da Salamelik.
Non ti sto dicendo per chi votare, attento. Non devi votare per il mio candidato, ma per il suo. Non lo sai? Chiediglielo. Esci in strada e domanda. Secondo me non devi andare molto lontano per trovare uno straniero al lavoro. Guarda, senza neanche uscire dal portone – sul pianerottolo c'è Natascia che dà lo straccio. Ha due figli che contribuiscono a riportare in attivo il bilancio demografico del Paese. Non vuoi votare per te? E vota per Natascia, che dovrebbe averne il diritto, e forse ne ha anche più bisogno.
Che c'è, ti vergogni a chiedere? E allora torna su internet e studiati i programmi dei due schieramenti. Entrambi fanno schifo? Forse, ma ce n'è uno che rispetta Natascia in quanto forza lavoro. E ce n'è uno che considera Natascia potenzialmente pericolosa per la salute pubblica del Paese. Una terza possibilità non c'è.
"Ma lo vedi, si tratta sempre di un compromesso".
Sì, certo, come al solito. Ma posso assicurarti che questo compromesso non intaccherà la tua integrità morale, che è e rimane inviolabile. Non è il tuo compromesso. È quello di Natascia.
Se lei potesse votare per evitarsi altre umilianti ronde notturne intorno alle poste, non lo farebbe? Se lei potesse votare per mettersi in regola, non lo farebbe? Se lei potesse votare per essere riconosciuta come una cittadina nel Paese in cui lavora, non lo farebbe?
E allora fallo tu. E poi basta. Io sono un po' stanco di queste orazioni. Fuori è ancora grigio, ma quando arriva questa primavera? Facciamo che arriva per tutti il dieci aprile? Dipendesse da Natascia. Ma dipende da noi. Solo da noi. Ciao.
mercoledì 22 marzo 2006
- indecisi d'Italia, 1.
Da notare quella che è una scelta quasi sicuramente dettata dallo staff di comunicazione di Berlusconi, cioè quella di scrivere e prendere appunti continuamente, spesso disegnando delle figure geometriche e racchiudendo in cerchi le parole precedentemente segnate, come per trasmettere compiutezza e congruenza con parole che vogliono chiarire, mettere nero su bianco i risultati raggiunti dal governo.
Spindoctor for a day
Io non so se i sondaggisti se ne rendano conto, ma esiste una discreta percentuale di italiani che agli sconosciuti non risponde; o se risponde, tutto dice fuorché la verità. Specie a quelli che ti chiamano per telefono.
Fa parte della nostra cultura. Io, per dire, se stasera mi crepasse all'improvviso lo scarico del water, e una pozza d'acqua fetida cominciasse a imbevere i tappetini, mentre la mia ragazza in preda al panico comincia a chiedersi ad alta voce perché ha scelto me invece di quel compagno di banco timido figlio dell'idraulico che adesso è sei mesi all'anno a San Domingo – se in questo preciso frangente squillasse il telefono, e una seducente voce femminile si offrisse di venire, domani, stasera, senza impegno, a cambiarmi le tubature del bagno, e a farmi provare un nuovo spray antiossidante-deodorante gratis, senza impegno, io risponderei grazie, no, non ho bisogno di niente. Perché sono stato educato così, non posso rinnegare la mia cultura.
Dico questo perché negli ultimi dieci giorni si è fatta strada in me la sensazione, dapprima strisciante, poi sempre più forte e insopprimibile, che tutto questo sia soprattutto colpa mia. Volevo aspettare il dieci aprile, per dirlo, ma non ce la faccio più; all'inizio poteva essere divertente, ma ormai provo soltanto una gran pena. Eppure mi sembrava di fare la cosa giusta, quando più o meno 15 giorni fa a uno squillo risposi...
"Pronto".
"Salve, sono della ********, chiamo per un sondaggio…"
"Non compro niente".
"Non le vendo niente, è un sondaggio elettorale, vorrei sapere se…"
"Non voto per nessuno".
"Prego?"
"Non compro niente, non voto per nessuno, non m'interessa la sua offerta, non voglio cambiare gestore telefonico, i deumidificatori per ambiente mi fanno ribrezzo, e inoltre…"
"Ho capito bene, lei ha detto che non voterà per nessuno, è un astensionista, dunque? Un astensionista convinto?"
"No".
"Quindi è un indeciso? Possiamo dire che lei non ha ancora deciso per chi votare il nove aprile?"
"Non rispondo".
"Attenda in linea. Solo un istante. Ehi, ehi, ragazzi!"
"Eh?"
"Ehi, ragazzi, l'ho trovato! Centronord, trentenne, indeciso! È mio! Bingo!"
"Scusi, non la seguo"
"No, no, mi scusi lei, è che con i miei colleghi, qui, stiamo facendo una specie di gioco… il primo che trovava un indeciso-trentenne-centronord vinceva venti euro".
"Siamo così rari?"
"Rari? I sessantenni abruzzesi leghisti, quelli sono rari. Li danno a centocinquanta".
"E qualcuno li ha…"
"Ma no, nessuno beccherà mai un sessantenne abruzzese leghista, è un'astrazione matematica. E anche un indeciso come lei è già piuttosto prezioso. Ma mi perdoni, come fa?"
"Come faccio cosa?"
"Ad essere ancora indeciso. Voglio dire, è trentenne, è nel centronord, ha accesso a tv, giornali… persino internet, sa cos'è internet?"
"Vagamente".
"Insomma, ha tutti i mezzi per farsi un'opinione. I candidati sono gli stessi da dieci anni".
"Effettivamente…"
"Che cosa le manca ancora per capire, cosa vorrebbe da loro?"
"Eh, guardi, non lo so…"
"Mettiamo che io fossi un telefonista che chiama per conto di uno dei due candidati".
"Sì".
"Mettiamo che per una serie di algoritmi statistici che adesso non le posso spiegare, l'indecisione di un trentenne centronord risultasse più importante, che ne so, di quella di una casalinga centro-ovest".
"Sul serio?"
"No, non sul serio, è solo un'ipotesi. Insomma, secondo lei cosa dovrebbe fare, questo candidato per il quale io ipoteticamente lavoro, per convincerla a votare per lei? Se lei fosse lo spindoctor, ha presente cos'è lo spindoctor, no?"
"Certo che ho presente, sono un trentenne centronord".
"Ecco, faccia finta di essere anche uno spindoctor. Ci dica cosa vorrebbe".
"Beh, io vorrei… vorrei… meno promesse chiare e più…"
"Sì?"
"Ma sta prendendo appunti?"
"Certo".
"Allora, meno promesse chiare e più chiacchiere, chiacchiere televisive, ha presente? Punterei meno sui concetti e più sulla funzione fàtica, salve, sono il Grande Candidato, la prego, mi dia del lei, non m'interrompa, mi faccia finire, non mi faccia domande inutili, mi lasci parlare, se non mi dà spazio me ne vado, eccetera. Non so se mi sto spiegando bene".
"Vada avanti".
"Insomma io privilegerei un approccio… come dire… un approccio un po' paranoico. Cioè giocherei molto sull'idea che tutti ce l'hanno con me, m'impediscono di esprimermi, è una congiura nei miei confronti… ecco, mi piacerebbe sentire un candidato in tv che insiste su questo aspetto: c'è una congiura contro di me".
"Una congiura di chi, scusi?"
"Ma non so, magistratura, partiti, industriali, giornalisti… in pratica tutti quelli che osano interrompermi se parlo. Chi non è con me, è contro di me. E poi darei a vedere che sono molto nervoso".
"Sul serio?"
"Sì, per esempio. Mettiamo che si fa un dibattito al vertice, adesso non lo so, non ho seguito molto la campagna fin qui, sa, sono un indeciso. Però mettiamo che si fa una specie di dibattito in tv con i due candidati. Ecco, in questo caso a me piacerebbe vedere un candidato nervoso, che non guarda in camera, che quando non parlano di lui si distrae, fa dei disegnini con la penna… tutte cose che in apparenza sembrano controproducenti, ma in realtà…"
"In realtà?"
"Fanno risaltare la sua grande umanità, e a quel punto io che sono un indeciso guardandolo direi ecco! anche lui è distratto, nervoso, un po' indeciso come me!".
"Comincio a capire. Un meccanismo di identificazione".
"Perfetto, ecco, non mi veniva la parola, identificazione, complimenti".
"Quindi, riepilogando: per conquistarla un candidato dovrebbe apparire: paranoico, distratto, nervoso, …"
"Molto nervoso, io insisterei molto sul nervosismo, noi indecisi siamo molto sensibili al nervosismo. Anzi, vuole sapere qualcosa che ci fa impazzire? L'arroganza".
"In che senso?"
"Nel senso che, mah poniamo che questo candidato vada a un raduno, non so, di commercianti, o industriali… allora, in questi casi la cosa migliore da fare è alzarsi in piedi e arringare la folla in modo maschio, ha presente: voi non capite niente, eravate delle merde e io vi ho salvato, dovete tirarvi su le maniche, venire meno ai convegni e stare più in casa a lavorare!"
"Ma è sicuro?"
"E se il moderatore si lamenta, gli dico taci idiota, non guardare l'orologio, chi se ne frega dell'orologio, la gente è qui perché vuole sentirmi! E se dalle prime file qualche pezzo grosso si azzarda a sorridere, lo chiamo per nome e per cognome e lo accuso di congiurare alle mie spalle con le schegge impazzite della magistratura, farabutto, mi dia del lei! Questo deve fare, un candidato".
"Per convincerla".
"Per convincermi".
"Senta, la ringrazio, devo dire che parlare con lei è stato davvero illuminante".
"Ma si figuri".
"Cioè, chi l'avrebbe detto? Agli indecisi piace lo stile paranoico. È proprio vero, in questo mestiere non si finisce mai d'imparare".
"Lei da quand'è che fa il suo mestiere?"
"Da tre giorni, sono un CoPro a mezza giornata. Sa, di mattina studio".
"Scienze della comunicazione".
"Come ha fatto a capirlo?"
"Ho tirato a indovinare, siete la maggioranza"
"Lei è un mito, davvero. È stato un vero piacere parlare con lei, devo dire che mi ha insegnato molto".
"E poi le ho anche fatto vincere venti euro"
"Eh già. Ora purtroppo la devo lasciare, sa, devo ancora trovare una quarantenne calabrese imprenditrice".
"Ah, mica facile".
"Eh, no".
"Senta un po'… questa conversazione è registrata?"
"Ma cosa sta insinuando?"
"No, no, niente, è che… se nessuno ci sente, io un'imprenditrice calabrese quarantenne in effetti la conosco, pensi un po' che coincidenza…"
"Davvero farebbe questo per me?"
"Ha carta e penna? Tre-quattro-sette-[…………………]. Però non chiami subito, lei a quest'ora di solito riceve i… i… fornitori. Aspetti una mezz'ora, le dispiace?"
"Ma certo. Io non so davvero come ringraziarla per…"
"Ma figurati, se non ci aiutiamo tra noi… A risentirci, allora".
"A risentirci".
Clic.
Tre-quattro-sette-[……………………]
"Agata, ciao, come va? Mamma e papà tutto bene? Senti, non ho molto tempo".
"…"
"No, non è uno dei miei soliti scherzi. Qui se mi aiuti salviamo l'Italia, fidati".
"…"
"Senti, tra venti minuti ti chiamerà un pivello di scienze della comunicazione, ok? No, non vuole venderti niente. Tu per lui sei un'imprenditrice quarantenne di Reggio Calabria. Mi raccomando, la C aspirata".
Spindoctor for a day
Io non so se i sondaggisti se ne rendano conto, ma esiste una discreta percentuale di italiani che agli sconosciuti non risponde; o se risponde, tutto dice fuorché la verità. Specie a quelli che ti chiamano per telefono.
Fa parte della nostra cultura. Io, per dire, se stasera mi crepasse all'improvviso lo scarico del water, e una pozza d'acqua fetida cominciasse a imbevere i tappetini, mentre la mia ragazza in preda al panico comincia a chiedersi ad alta voce perché ha scelto me invece di quel compagno di banco timido figlio dell'idraulico che adesso è sei mesi all'anno a San Domingo – se in questo preciso frangente squillasse il telefono, e una seducente voce femminile si offrisse di venire, domani, stasera, senza impegno, a cambiarmi le tubature del bagno, e a farmi provare un nuovo spray antiossidante-deodorante gratis, senza impegno, io risponderei grazie, no, non ho bisogno di niente. Perché sono stato educato così, non posso rinnegare la mia cultura.
Dico questo perché negli ultimi dieci giorni si è fatta strada in me la sensazione, dapprima strisciante, poi sempre più forte e insopprimibile, che tutto questo sia soprattutto colpa mia. Volevo aspettare il dieci aprile, per dirlo, ma non ce la faccio più; all'inizio poteva essere divertente, ma ormai provo soltanto una gran pena. Eppure mi sembrava di fare la cosa giusta, quando più o meno 15 giorni fa a uno squillo risposi...
"Pronto".
"Salve, sono della ********, chiamo per un sondaggio…"
"Non compro niente".
"Non le vendo niente, è un sondaggio elettorale, vorrei sapere se…"
"Non voto per nessuno".
"Prego?"
"Non compro niente, non voto per nessuno, non m'interessa la sua offerta, non voglio cambiare gestore telefonico, i deumidificatori per ambiente mi fanno ribrezzo, e inoltre…"
"Ho capito bene, lei ha detto che non voterà per nessuno, è un astensionista, dunque? Un astensionista convinto?"
"No".
"Quindi è un indeciso? Possiamo dire che lei non ha ancora deciso per chi votare il nove aprile?"
"Non rispondo".
"Attenda in linea. Solo un istante. Ehi, ehi, ragazzi!"
"Eh?"
"Ehi, ragazzi, l'ho trovato! Centronord, trentenne, indeciso! È mio! Bingo!"
"Scusi, non la seguo"
"No, no, mi scusi lei, è che con i miei colleghi, qui, stiamo facendo una specie di gioco… il primo che trovava un indeciso-trentenne-centronord vinceva venti euro".
"Siamo così rari?"
"Rari? I sessantenni abruzzesi leghisti, quelli sono rari. Li danno a centocinquanta".
"E qualcuno li ha…"
"Ma no, nessuno beccherà mai un sessantenne abruzzese leghista, è un'astrazione matematica. E anche un indeciso come lei è già piuttosto prezioso. Ma mi perdoni, come fa?"
"Come faccio cosa?"
"Ad essere ancora indeciso. Voglio dire, è trentenne, è nel centronord, ha accesso a tv, giornali… persino internet, sa cos'è internet?"
"Vagamente".
"Insomma, ha tutti i mezzi per farsi un'opinione. I candidati sono gli stessi da dieci anni".
"Effettivamente…"
"Che cosa le manca ancora per capire, cosa vorrebbe da loro?"
"Eh, guardi, non lo so…"
"Mettiamo che io fossi un telefonista che chiama per conto di uno dei due candidati".
"Sì".
"Mettiamo che per una serie di algoritmi statistici che adesso non le posso spiegare, l'indecisione di un trentenne centronord risultasse più importante, che ne so, di quella di una casalinga centro-ovest".
"Sul serio?"
"No, non sul serio, è solo un'ipotesi. Insomma, secondo lei cosa dovrebbe fare, questo candidato per il quale io ipoteticamente lavoro, per convincerla a votare per lei? Se lei fosse lo spindoctor, ha presente cos'è lo spindoctor, no?"
"Certo che ho presente, sono un trentenne centronord".
"Ecco, faccia finta di essere anche uno spindoctor. Ci dica cosa vorrebbe".
"Beh, io vorrei… vorrei… meno promesse chiare e più…"
"Sì?"
"Ma sta prendendo appunti?"
"Certo".
"Allora, meno promesse chiare e più chiacchiere, chiacchiere televisive, ha presente? Punterei meno sui concetti e più sulla funzione fàtica, salve, sono il Grande Candidato, la prego, mi dia del lei, non m'interrompa, mi faccia finire, non mi faccia domande inutili, mi lasci parlare, se non mi dà spazio me ne vado, eccetera. Non so se mi sto spiegando bene".
"Vada avanti".
"Insomma io privilegerei un approccio… come dire… un approccio un po' paranoico. Cioè giocherei molto sull'idea che tutti ce l'hanno con me, m'impediscono di esprimermi, è una congiura nei miei confronti… ecco, mi piacerebbe sentire un candidato in tv che insiste su questo aspetto: c'è una congiura contro di me".
"Una congiura di chi, scusi?"
"Ma non so, magistratura, partiti, industriali, giornalisti… in pratica tutti quelli che osano interrompermi se parlo. Chi non è con me, è contro di me. E poi darei a vedere che sono molto nervoso".
"Sul serio?"
"Sì, per esempio. Mettiamo che si fa un dibattito al vertice, adesso non lo so, non ho seguito molto la campagna fin qui, sa, sono un indeciso. Però mettiamo che si fa una specie di dibattito in tv con i due candidati. Ecco, in questo caso a me piacerebbe vedere un candidato nervoso, che non guarda in camera, che quando non parlano di lui si distrae, fa dei disegnini con la penna… tutte cose che in apparenza sembrano controproducenti, ma in realtà…"
"In realtà?"
"Fanno risaltare la sua grande umanità, e a quel punto io che sono un indeciso guardandolo direi ecco! anche lui è distratto, nervoso, un po' indeciso come me!".
"Comincio a capire. Un meccanismo di identificazione".
"Perfetto, ecco, non mi veniva la parola, identificazione, complimenti".
"Quindi, riepilogando: per conquistarla un candidato dovrebbe apparire: paranoico, distratto, nervoso, …"
"Molto nervoso, io insisterei molto sul nervosismo, noi indecisi siamo molto sensibili al nervosismo. Anzi, vuole sapere qualcosa che ci fa impazzire? L'arroganza".
"In che senso?"
"Nel senso che, mah poniamo che questo candidato vada a un raduno, non so, di commercianti, o industriali… allora, in questi casi la cosa migliore da fare è alzarsi in piedi e arringare la folla in modo maschio, ha presente: voi non capite niente, eravate delle merde e io vi ho salvato, dovete tirarvi su le maniche, venire meno ai convegni e stare più in casa a lavorare!"
"Ma è sicuro?"
"E se il moderatore si lamenta, gli dico taci idiota, non guardare l'orologio, chi se ne frega dell'orologio, la gente è qui perché vuole sentirmi! E se dalle prime file qualche pezzo grosso si azzarda a sorridere, lo chiamo per nome e per cognome e lo accuso di congiurare alle mie spalle con le schegge impazzite della magistratura, farabutto, mi dia del lei! Questo deve fare, un candidato".
"Per convincerla".
"Per convincermi".
"Senta, la ringrazio, devo dire che parlare con lei è stato davvero illuminante".
"Ma si figuri".
"Cioè, chi l'avrebbe detto? Agli indecisi piace lo stile paranoico. È proprio vero, in questo mestiere non si finisce mai d'imparare".
"Lei da quand'è che fa il suo mestiere?"
"Da tre giorni, sono un CoPro a mezza giornata. Sa, di mattina studio".
"Scienze della comunicazione".
"Come ha fatto a capirlo?"
"Ho tirato a indovinare, siete la maggioranza"
"Lei è un mito, davvero. È stato un vero piacere parlare con lei, devo dire che mi ha insegnato molto".
"E poi le ho anche fatto vincere venti euro"
"Eh già. Ora purtroppo la devo lasciare, sa, devo ancora trovare una quarantenne calabrese imprenditrice".
"Ah, mica facile".
"Eh, no".
"Senta un po'… questa conversazione è registrata?"
"Ma cosa sta insinuando?"
"No, no, niente, è che… se nessuno ci sente, io un'imprenditrice calabrese quarantenne in effetti la conosco, pensi un po' che coincidenza…"
"Davvero farebbe questo per me?"
"Ha carta e penna? Tre-quattro-sette-[…………………]. Però non chiami subito, lei a quest'ora di solito riceve i… i… fornitori. Aspetti una mezz'ora, le dispiace?"
"Ma certo. Io non so davvero come ringraziarla per…"
"Ma figurati, se non ci aiutiamo tra noi… A risentirci, allora".
"A risentirci".
Clic.
Tre-quattro-sette-[……………………]
"Agata, ciao, come va? Mamma e papà tutto bene? Senti, non ho molto tempo".
"…"
"No, non è uno dei miei soliti scherzi. Qui se mi aiuti salviamo l'Italia, fidati".
"…"
"Senti, tra venti minuti ti chiamerà un pivello di scienze della comunicazione, ok? No, non vuole venderti niente. Tu per lui sei un'imprenditrice quarantenne di Reggio Calabria. Mi raccomando, la C aspirata".
Quelli di oggi è il Berlusconi che piace a noi: quello che parla al cuore e che entusiasma il pubblico. Non doveva andare al meeting di Confindustria, perchè malato, ma alla fine non ha resistito: ed eccolo lì, in mezzo ai suoi colleghi, fiero del suo passato e fiero del suo presente. Eccolo lì mentre si alza, di scatto, incurante del dolore alla schiena, per parlare agli imprenditori. Ne esce un discorso a braccio di una efficacia strepitosa.Ci sono tre tipi di bugie: bugie, dannate bugie e statistiche (Benjamin Disraeli)
lunedì 20 marzo 2006
- una scemenza, scusate
Sabato mattina sono stato minacciato di querela per una cosa che avevo scritto (non qui). Direi che il caso è finito ancor prima di iniziare, visto che ho provveduto subito a cancellare il pezzo (di cui a quanto pare non è rimasta traccia neanche nella cache di google). Resta uno strascico di polemiche e qualche curiosità. Qui di seguito do la mia versione: di parte, va da sé.
Esiste in Italia un giornalista, di cui per rispetto e precauzione qui si omette il nome e il cognome, che con i blog ha un rapporto molto particolare e non felice. Non ne ha uno. Scrive in quello di un suo amico, esponendosi a un pubblico che non è esattamente il suo. Il suo amico è di sinistra quasi estrema, lui scrive per una testata di destra. Il che significa (com'è facile immaginare) che ogni volta che pubblica un post dal loggione partono bordate di fischi, ai quali non sempre sa reagire con stile. Va da sé che il loggione lo fischia anche a sproposito, comunque per partito preso: se non si comportasse così stronzamente non sarebbe un loggione, e se non ci fosse il loggione forse il teatro sarebbe meno frequentato. Chiedersi il perché questo giornalista abbia scelto per sé una ribalta così difficile, è cosa che non spetta a me: dovrebbe chiederselo a lui, parlarne con qualcuno. Magari è felice così, anche se non pare (pare invece, sempre, parecchio incazzato).
Su quel blog – che non è il suo – il giornalista pubblica un po' di tutto. Suoi editoriali, pubblicati o rifiutati; articoli di costume, critica musicale, provocazioni; e a volte gli capita di pubblicare cose che sembrano fatti suoi. In che senso, "sembrano"? Nel senso che sono narrati in prima persona da un 40-e-qualcosa che vive a Milano, come lui, che magari s'intende della stessa musica di cui s'intende lui; che ha modi di fare assai simili a quelli che ha lui; e il solo fatto che li scriva su un blog (dove in generale tutti tendiamo a raccontare i fatti nostri) lascia intendere gli sprovveduti che quelli siano proprio fatti suoi.
Ma naturalmente potrebbe anche trattarsi di un mucchio di palle – o di fiction, come si dice nell'ambiente. Lui preferisce mantenere una certa dose di ambiguità. C'è un tipo di storie che funzionano meglio se danno l'impressione di essere state vissute davvero. Per fare un esempio, i 100 colpi di spazzola si ridurrebbero a ben poca cosa, se l'autrice non avesse lasciato un po' sfumato il confine tra la fiction e la propria esperienza di vita. Il giornalista in questione non si abbandona alle gioie delle orge puberali: si limita a mettere in scena un po' di Milano post-aperitivo. Di recente ha scritto un pezzo, piuttosto divertente, (in realtà lo ha riscritto, per la seconda o terza volta: sta diventando una specie di cavallo di battaglia) in cui racconta la sua disavventura con una tipa impossibile, radical-pancabbestia-chic. Dopo una spedizione in un smart-drogheria alla moda, una seduta di bong alla salvia psichedelica e altre piacevolezze, il narratore (che assomiglia tanto al giornalista in questione) ha un virile moto d'orgoglio, e la manda affanculo senza consumare, spiegandole che "La mia autostima non dipendeva dalla media di coiti annuali, e che non avevo degli amici che in serata mi aspettavano attorno a un biliardo perché raccontassi che me n’ero fatta un’altra".
Tutto molto liberatorio, ma io leggendolo (per la terza volta) ho avuto un sospetto: perché quest'uomo continua a raccontare questa storia? Non ha la stessa insistenza di un tale al bar che non si rende conto di tornare sempre sullo stesso aneddoto? E vantarsi in un blog di aver mandato affanculo una tipa è davvero così diverso dal vantarsi in un bar di essersela fatta? È dura essere maschi adulti, oggi: cerchi con tutte le tue forze di uscire da un bar, solo per scoprire che sei entrato in un altro. Ero in fila in posta, venerdì, mentre pensavo a questo.
Poi sono tornato a casa, e in un buco di mezz'ora ho riscritto lo stesso post del giornalista, ma narrato dal punto di vista della tipa radical-pancabbestia-chic. Oltre all'effettivo gusto sadico di prendere per i fondelli un giornalista affermato, si trattava anche di rivoltare come un calzino una certa idea di maschio: mi sono messo nei panni di questa scema, che siccome non ha mezza voglia di portarselo a letto cerca di stordirlo a furia di tisane allucinogene e musica new age, fino a ottenere il risultato desiderato: un bel fanculo e a mai più rivederci. L'ho scritto, l'ho riletto, mi sembrava non male, era da anni che non scrivevo una cosa così piacevolmente stronza, sicché l'ho postato. Sullo stesso blog in cui scrive il giornalista – ho l'accesso anch'io.
Ora, che s'incazzasse era scontato. Lui è l'emblema dell'incazzamento on line.
Ma una minaccia di querela no, non me l'aspettavo.
Avevo – colpevolmente – sottovalutato un problema.
Nel mio post avevo accennato a un'attività che oggi in Italia è illegale: il consumo di cocaina. Il suo pezzo diceva che la tipa "ogni tanto pippava insieme a mezza Milano". Nel mio la tipa scriveva di averlo incontrato mentre pippava "con mezza Milano": ahi, qui effettivamente attribuivo al protagonista del post la complicità in un reato. Certo, mica lo avevo chiamato per nome e per cognome. Certo, in fin dei conti era solo il protagonista fittizio di un racconto. Però nelle sue fattezze era riconoscibile un noto giornalista. Così, può darsi che gli estremi per una querela non ci fossero, ma la mia si configurava come un'effettiva carognata. Perché ero stato così stronzo?
Si è trattato, ripeto, di una colpevole ingenuità da parte mia. Che vuoi che sia, pippare a Milano, ho pensato. In realtà pippare a Milano è un po' come fare sesso a Catania: si fa, ci si vanta anche, ma poi la gente mormora e ti tocca levare le tende. E' giusto? Certo che no. Ma è così. Il giornalista è intervenuto l'indomani per sottolineare che il suo era un racconto, e che era costretto a querelarmi per diffamazione perché nella mia parodia gli si attribuiva un reato. Io non ho avuto difficoltà a cancellare il mio pezzo, anche se tecnicamente è la parodia fittizia di un racconto dichiarato dal suo stesso autore come fittizio. Non importa che su un pezzo da lui pubblicato qualche mese prima sullo stesso blog una voce narrante molto simile a lui si attribuisse il medesimo reato, concedendosi una pista di centimetri venticinque: non importa nemmeno che in altri siti su Internet una persona che si firma col suo nome e il suo cognome alluda a una dipendenza dalla stessa sostanza, per fortuna superata (complimenti). Soffrendo io di rinite allergica, e passando un mese all'anno a punzarmi compulsivamente il naso, sono il primo a rendersi conto che certe voci di corridoio non vanno alimentate. Sono pericolose, possono compromettere una carriera. Per cui ho preferito cancellare il pezzo. Forse lo avrei cancellato anche senza una minaccia di querela. Certo, la minaccia ha aggiunto a tutta la storia un surplus di antipatia. Dal loggione sono immediatamente partiti i fischi – però andiamo, a nessuno piace che siano messe in giro voci false e pericolose sul proprio conto.
Al di là di chi abbia ragione e chi torto, una querela è una seccatura e una grande perdita di tempo e soldi. Non mi va di sostenerla, specie per una scemenza del genere. Tanto più che il giornalista aveva chiamato in causa anche il proprietario del blog, che non aveva altra colpa che quella di avermi consentito l'accesso, anni fa. Non ci tengo a fare il martire della libertà di espressione (specie a spese d'altri); peraltro non sono del tutto sicuro che la mia libertà di espressione mi consenta di fare quel che ho fatto. Così ho chiesto scusa al giornalista e ho cancellato. Mi dispiace sinceramente di aver contribuito, anche solo per alcune ore, ad alimentare voci sul suo conto che sono lesive della sua reputazione.
Che queste voci abbia contribuito lui stesso a metterle in giro, pubblicando pezzi col suo nome e il suo cognome su un blog, in cui un personaggio molto simile a lui assume una sostanza illegale, è cosa che non deve interessare me. Al limite querelerà sé stesso – e sarà la 145esima querela che si vede recapitare (il conto l'ha fatto lui). Oppure imparerà finalmente le regole del gioco e comincerà a usare uno pseudonimo (ma non sarà altrettanto divertente), o a premettere nero su bianco che si tratta di racconti, fiction, palle (ma non lo prenderemo più altrettanto sul serio). Questi però sono problemi esclusivamente suoi. Forse dovrebbe parlarne con qualcuno.
(Per favore, non chiedetemi via mail di inoltrarvi il pezzo incriminato. È un rischio che razionalmente non mi va di correre. Finché quel pezzo circola in rete, io che l'ho scritto continuo a essere passibile di querela. Consolatevi: non si trattava di un capolavoro, ma di un'acidola presa in giro scritta mezz'ora. Vi meritate di meglio, e anch'io).
Esiste in Italia un giornalista, di cui per rispetto e precauzione qui si omette il nome e il cognome, che con i blog ha un rapporto molto particolare e non felice. Non ne ha uno. Scrive in quello di un suo amico, esponendosi a un pubblico che non è esattamente il suo. Il suo amico è di sinistra quasi estrema, lui scrive per una testata di destra. Il che significa (com'è facile immaginare) che ogni volta che pubblica un post dal loggione partono bordate di fischi, ai quali non sempre sa reagire con stile. Va da sé che il loggione lo fischia anche a sproposito, comunque per partito preso: se non si comportasse così stronzamente non sarebbe un loggione, e se non ci fosse il loggione forse il teatro sarebbe meno frequentato. Chiedersi il perché questo giornalista abbia scelto per sé una ribalta così difficile, è cosa che non spetta a me: dovrebbe chiederselo a lui, parlarne con qualcuno. Magari è felice così, anche se non pare (pare invece, sempre, parecchio incazzato).
Su quel blog – che non è il suo – il giornalista pubblica un po' di tutto. Suoi editoriali, pubblicati o rifiutati; articoli di costume, critica musicale, provocazioni; e a volte gli capita di pubblicare cose che sembrano fatti suoi. In che senso, "sembrano"? Nel senso che sono narrati in prima persona da un 40-e-qualcosa che vive a Milano, come lui, che magari s'intende della stessa musica di cui s'intende lui; che ha modi di fare assai simili a quelli che ha lui; e il solo fatto che li scriva su un blog (dove in generale tutti tendiamo a raccontare i fatti nostri) lascia intendere gli sprovveduti che quelli siano proprio fatti suoi.
Ma naturalmente potrebbe anche trattarsi di un mucchio di palle – o di fiction, come si dice nell'ambiente. Lui preferisce mantenere una certa dose di ambiguità. C'è un tipo di storie che funzionano meglio se danno l'impressione di essere state vissute davvero. Per fare un esempio, i 100 colpi di spazzola si ridurrebbero a ben poca cosa, se l'autrice non avesse lasciato un po' sfumato il confine tra la fiction e la propria esperienza di vita. Il giornalista in questione non si abbandona alle gioie delle orge puberali: si limita a mettere in scena un po' di Milano post-aperitivo. Di recente ha scritto un pezzo, piuttosto divertente, (in realtà lo ha riscritto, per la seconda o terza volta: sta diventando una specie di cavallo di battaglia) in cui racconta la sua disavventura con una tipa impossibile, radical-pancabbestia-chic. Dopo una spedizione in un smart-drogheria alla moda, una seduta di bong alla salvia psichedelica e altre piacevolezze, il narratore (che assomiglia tanto al giornalista in questione) ha un virile moto d'orgoglio, e la manda affanculo senza consumare, spiegandole che "La mia autostima non dipendeva dalla media di coiti annuali, e che non avevo degli amici che in serata mi aspettavano attorno a un biliardo perché raccontassi che me n’ero fatta un’altra".
Tutto molto liberatorio, ma io leggendolo (per la terza volta) ho avuto un sospetto: perché quest'uomo continua a raccontare questa storia? Non ha la stessa insistenza di un tale al bar che non si rende conto di tornare sempre sullo stesso aneddoto? E vantarsi in un blog di aver mandato affanculo una tipa è davvero così diverso dal vantarsi in un bar di essersela fatta? È dura essere maschi adulti, oggi: cerchi con tutte le tue forze di uscire da un bar, solo per scoprire che sei entrato in un altro. Ero in fila in posta, venerdì, mentre pensavo a questo.
Poi sono tornato a casa, e in un buco di mezz'ora ho riscritto lo stesso post del giornalista, ma narrato dal punto di vista della tipa radical-pancabbestia-chic. Oltre all'effettivo gusto sadico di prendere per i fondelli un giornalista affermato, si trattava anche di rivoltare come un calzino una certa idea di maschio: mi sono messo nei panni di questa scema, che siccome non ha mezza voglia di portarselo a letto cerca di stordirlo a furia di tisane allucinogene e musica new age, fino a ottenere il risultato desiderato: un bel fanculo e a mai più rivederci. L'ho scritto, l'ho riletto, mi sembrava non male, era da anni che non scrivevo una cosa così piacevolmente stronza, sicché l'ho postato. Sullo stesso blog in cui scrive il giornalista – ho l'accesso anch'io.
Ora, che s'incazzasse era scontato. Lui è l'emblema dell'incazzamento on line.
Ma una minaccia di querela no, non me l'aspettavo.
Avevo – colpevolmente – sottovalutato un problema.
Nel mio post avevo accennato a un'attività che oggi in Italia è illegale: il consumo di cocaina. Il suo pezzo diceva che la tipa "ogni tanto pippava insieme a mezza Milano". Nel mio la tipa scriveva di averlo incontrato mentre pippava "con mezza Milano": ahi, qui effettivamente attribuivo al protagonista del post la complicità in un reato. Certo, mica lo avevo chiamato per nome e per cognome. Certo, in fin dei conti era solo il protagonista fittizio di un racconto. Però nelle sue fattezze era riconoscibile un noto giornalista. Così, può darsi che gli estremi per una querela non ci fossero, ma la mia si configurava come un'effettiva carognata. Perché ero stato così stronzo?
Si è trattato, ripeto, di una colpevole ingenuità da parte mia. Che vuoi che sia, pippare a Milano, ho pensato. In realtà pippare a Milano è un po' come fare sesso a Catania: si fa, ci si vanta anche, ma poi la gente mormora e ti tocca levare le tende. E' giusto? Certo che no. Ma è così. Il giornalista è intervenuto l'indomani per sottolineare che il suo era un racconto, e che era costretto a querelarmi per diffamazione perché nella mia parodia gli si attribuiva un reato. Io non ho avuto difficoltà a cancellare il mio pezzo, anche se tecnicamente è la parodia fittizia di un racconto dichiarato dal suo stesso autore come fittizio. Non importa che su un pezzo da lui pubblicato qualche mese prima sullo stesso blog una voce narrante molto simile a lui si attribuisse il medesimo reato, concedendosi una pista di centimetri venticinque: non importa nemmeno che in altri siti su Internet una persona che si firma col suo nome e il suo cognome alluda a una dipendenza dalla stessa sostanza, per fortuna superata (complimenti). Soffrendo io di rinite allergica, e passando un mese all'anno a punzarmi compulsivamente il naso, sono il primo a rendersi conto che certe voci di corridoio non vanno alimentate. Sono pericolose, possono compromettere una carriera. Per cui ho preferito cancellare il pezzo. Forse lo avrei cancellato anche senza una minaccia di querela. Certo, la minaccia ha aggiunto a tutta la storia un surplus di antipatia. Dal loggione sono immediatamente partiti i fischi – però andiamo, a nessuno piace che siano messe in giro voci false e pericolose sul proprio conto.
Al di là di chi abbia ragione e chi torto, una querela è una seccatura e una grande perdita di tempo e soldi. Non mi va di sostenerla, specie per una scemenza del genere. Tanto più che il giornalista aveva chiamato in causa anche il proprietario del blog, che non aveva altra colpa che quella di avermi consentito l'accesso, anni fa. Non ci tengo a fare il martire della libertà di espressione (specie a spese d'altri); peraltro non sono del tutto sicuro che la mia libertà di espressione mi consenta di fare quel che ho fatto. Così ho chiesto scusa al giornalista e ho cancellato. Mi dispiace sinceramente di aver contribuito, anche solo per alcune ore, ad alimentare voci sul suo conto che sono lesive della sua reputazione.
Che queste voci abbia contribuito lui stesso a metterle in giro, pubblicando pezzi col suo nome e il suo cognome su un blog, in cui un personaggio molto simile a lui assume una sostanza illegale, è cosa che non deve interessare me. Al limite querelerà sé stesso – e sarà la 145esima querela che si vede recapitare (il conto l'ha fatto lui). Oppure imparerà finalmente le regole del gioco e comincerà a usare uno pseudonimo (ma non sarà altrettanto divertente), o a premettere nero su bianco che si tratta di racconti, fiction, palle (ma non lo prenderemo più altrettanto sul serio). Questi però sono problemi esclusivamente suoi. Forse dovrebbe parlarne con qualcuno.
(Per favore, non chiedetemi via mail di inoltrarvi il pezzo incriminato. È un rischio che razionalmente non mi va di correre. Finché quel pezzo circola in rete, io che l'ho scritto continuo a essere passibile di querela. Consolatevi: non si trattava di un capolavoro, ma di un'acidola presa in giro scritta mezz'ora. Vi meritate di meglio, e anch'io).
venerdì 17 marzo 2006
- big jim bites the dust
Mi chiamo Leonardo, ho 32 anni, e non vi odio più
La prima cosa che mi viene in mente, davanti al nuovo libro di Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) è: che titolo triiiste, non lo venderanno mai.
Si tratta naturalmente di un'impressione sbagliata. All'Einaudi-Stile-Libero sanno il fatto loro.
E poi andiamo, non si è ancora capito? La lagna tira. Non facciamo che lamentarci di quanto poco guadagniamo. I nostri padri esploravano i mondi artificiali, e noi sappiamo solo prendercela perché ci aumentano l'affitto e la benzina, e ci rinnovano il contratto (forse) ogni due mesi. Non sappiamo vedere più in là. Generazione gretta e venale.
Del resto io, se non si è ancora capito, la mia generazione l'ho odiata, sin dalle elementari, sin dalle prime pubblicità Mattel che interrompevano i cartoni animati su Telesanterno. Odiavo la bimbetta bionda che si circondava di miniaccessori di plastica rosa fluorescente. Odiavo anche la sua versione con autopista e big jim. Con l'autopista ci ho giocato e credo persino col big jim, ma i ragazzini viziati e leccati delle pubblicità li ho odiati di un odio viscerale, etnico. Il consumismo mi stava sulle palle molto prima di aver mai sentito la parola "consumismo", e forse anche la parola "palle". Non so il perché. Forse è semplicemente genetico: c'è una percentuale di persone che nasce refrattaria allo shopping. Non vi resta che sterminarci – o smettere di riprodurvi con noi – ma non è facile, perché siamo rudi e tenebrosi.
Un altro picco di odio l'ho avuto da matricola universitaria. Credo che avesse a che fare con le tare congenite dell'università di massa – lezioni oceaniche e vacue, sedersi sui gradini, le orazioni dei ciellini e i bonghi dei pancabbestia, vaffanculo, morite tutti, e dire che ho fatto pure due occupazioni. La cosa incredibile è che nello stesso periodo c'erano scrittori – più o meno della stessa mia età o anche più giovani – che scrivevano di questa università di massa oceanica e vacua e andavano forte, erano la nuvelvàg della letteratura italiana, e io li odiavo; senz'altro c'era invidia perché da un mondo così grigio sapevano tirarci fuori storie vendibili, e uscivano con ragazze più carine delle mie, ma c'era anche quel problema genetico di cui sopra.
In realtà non è così vero che li odiassi, suvvia. Erano ragazzi come me, evidentemente più bravi di me, che non se la tiravano nemmeno tanto. Quello che non sopportavo ero i loro lettori. Sia quelli più giovani, che vedevano mondi meravigliosi e cannibalismo selvaggio dove c'era soltanto un po' di sfiga medioborghese; sia i più vecchi. I vecchi. I vecchi che leggono gli scrittori giovani e s'informano. Sugli usi e sui costumi. I vecchi che vogliono sapere la musica che ascoltiamo, le sostanza che assumiamo, e soprattutto se scopiamo. Io ho odiato la mia generazione, soprattutto quando pubblicava i suoi diari e ammiccava lubrica alle altre generazioni bavose. Sì, era pieno di p e d e r a s t i in giro, ma se andate in giro conciati in quel modo ve la state cercando.
Dieci anni fa apriva Einaudi-Stile-Libero, con un libro che ho odiato intensamente, ai tempi suoi. Era un reportage sulle camerette dei ragazzini. Le camerette. Dei ragazzini. Che invece di uscire di casa restano in famiglia e si fanno la cameretta. E si sa che gli adulti ne vanno matti, per queste cose. Gli adulti vogliono sapere come si chiama il cantante del poster. Vogliono eccitarsi davanti alla tua originalissima collezione di CD. Non vedono l'ora di sfogliarti la smemoranda e andare in deliquio davanti alle foto dell'interrail dell'estate scorsa – quando dovevate girarvi tutta la Francia la Germania e invece vi siete piantati quindici giorni in un campeggio ad Amsterdam. (io comunque amavo immaginare che sull'armadio ci fosse ancora il vecchio big jim, o qualche accessorio in plastica rosa, perché non vedevo nessuna vera soluzione di continuità tra la vostra infanzia di plastica e la vostra adolescenza: la cameretta era la stessa, e voi eravate gli stessi, solo con qualche smorfia in più). Il ggiovanilismo, il lolitismo, l'ipocrisia melliflua di chiamare Fuori tutti un libro che invece invitava tutti dentro la propria vita privata… vi ho odiato, maledetti, non ve l'ho detto perché nelle camerette delle vostre sorelle cercavo spesso di entrarci, ma vi disprezzavo. No, non avevo nessun piedistallo da cui disprezzarvi, lo facevo e basta. Ero giovane anch'io, va bene?
Ci pensavo l'altro giorno e mi chiedevo: chissà che fine hanno fatto, quei ragazzini. Se in media avevano sedici anni, quando posavano aprivano il loro sancta sanctorum giovanile ai vecchi curiosi, adesso in media ne hanno ventisei; in qualsiasi altra nazione occidentale avrebbero finalmente lasciato la loro cameretta, ma sarebbero ancora i protagonisti assoluti dello spettacolo del consumo, il target più ambito perché è quello che compra di più.
In qualsiasi altra nazione occidentale, ma in Italia no. Da noi la generazione più consumista è quella over 35. Sono loro che si divertono a comprare l'Ipod nuovo ogni volta che ne lanciano uno. Sono loro a spassarsela con l'high tech e la parabola. Invece il ventiseienne-tipo, oggi, è il più delle volte un neolaureato nel panico, che scopre con angoscia di essere stato sovraqualificato: vale a dire che il mondo del lavoro aveva bisogno di persone meno laureate di lui, da pagare meno e da mandare a casa ogni due mesi.
Il mondo cambia. E Stile-Libero si adegua. Dieci anni fa s'invitava nella vostra cameretta, adesso viene a misurarvi il monolocale. Dieci anni fa vi chiedeva la boy band preferita. Adesso s'informa su quanto prendete in busta. Certo, se ha 40 anni, Roberta non può aver posato per Fuori tutti. Ma mi piace pensare che tra le persone intervistate da Aldo Nove ci sia anche qualche reduce del libro di dieci anni fa. E mentre lo penso, dovrei provare un gusto sadico. Perché continuate a sembrarmi di plastica come i vostri giocattoli – vent'anni fa vi vendevano bambole, dieci anni fa scrittori giovanilisti e cannibali, poi c'è stato il revival della plastica anni Ottanta (vi hanno rivenduto gli stessi giocattoli usati, a prezzo maggiorato) e adesso siete pronti per l'industria culturale della lagna. E quindi io dovrei detestarvi, sono nato per farlo. Programmato per farlo.
Ma qualcosa non va – ieri sera per esempio in tv ho visto Aldo Nove, con quelle borse sotto gli occhi, così terribilmente adulto – e pensate un po? mi stava simpatico. E pure voi, con le vostre lagne, e il parlar sempre di affitti e banche che non ti fanno il mutuo – non vi ho mai voluto tanto bene come adesso. Vorrei venirvi a trovare in tutti i vostri monolocali, fare la pipì in tutti i servizi delle vostre mansarde-con-servizi.
Non vi odio più, questa è la verità. Sì, c'è stato un tempo in cui vi ho odiato, vi ho amato; ma adesso stiamo semplicemente invecchiando assieme.
La prima cosa che mi viene in mente, davanti al nuovo libro di Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) è: che titolo triiiste, non lo venderanno mai.
Si tratta naturalmente di un'impressione sbagliata. All'Einaudi-Stile-Libero sanno il fatto loro.
E poi andiamo, non si è ancora capito? La lagna tira. Non facciamo che lamentarci di quanto poco guadagniamo. I nostri padri esploravano i mondi artificiali, e noi sappiamo solo prendercela perché ci aumentano l'affitto e la benzina, e ci rinnovano il contratto (forse) ogni due mesi. Non sappiamo vedere più in là. Generazione gretta e venale.
Del resto io, se non si è ancora capito, la mia generazione l'ho odiata, sin dalle elementari, sin dalle prime pubblicità Mattel che interrompevano i cartoni animati su Telesanterno. Odiavo la bimbetta bionda che si circondava di miniaccessori di plastica rosa fluorescente. Odiavo anche la sua versione con autopista e big jim. Con l'autopista ci ho giocato e credo persino col big jim, ma i ragazzini viziati e leccati delle pubblicità li ho odiati di un odio viscerale, etnico. Il consumismo mi stava sulle palle molto prima di aver mai sentito la parola "consumismo", e forse anche la parola "palle". Non so il perché. Forse è semplicemente genetico: c'è una percentuale di persone che nasce refrattaria allo shopping. Non vi resta che sterminarci – o smettere di riprodurvi con noi – ma non è facile, perché siamo rudi e tenebrosi.
Un altro picco di odio l'ho avuto da matricola universitaria. Credo che avesse a che fare con le tare congenite dell'università di massa – lezioni oceaniche e vacue, sedersi sui gradini, le orazioni dei ciellini e i bonghi dei pancabbestia, vaffanculo, morite tutti, e dire che ho fatto pure due occupazioni. La cosa incredibile è che nello stesso periodo c'erano scrittori – più o meno della stessa mia età o anche più giovani – che scrivevano di questa università di massa oceanica e vacua e andavano forte, erano la nuvelvàg della letteratura italiana, e io li odiavo; senz'altro c'era invidia perché da un mondo così grigio sapevano tirarci fuori storie vendibili, e uscivano con ragazze più carine delle mie, ma c'era anche quel problema genetico di cui sopra.
In realtà non è così vero che li odiassi, suvvia. Erano ragazzi come me, evidentemente più bravi di me, che non se la tiravano nemmeno tanto. Quello che non sopportavo ero i loro lettori. Sia quelli più giovani, che vedevano mondi meravigliosi e cannibalismo selvaggio dove c'era soltanto un po' di sfiga medioborghese; sia i più vecchi. I vecchi. I vecchi che leggono gli scrittori giovani e s'informano. Sugli usi e sui costumi. I vecchi che vogliono sapere la musica che ascoltiamo, le sostanza che assumiamo, e soprattutto se scopiamo. Io ho odiato la mia generazione, soprattutto quando pubblicava i suoi diari e ammiccava lubrica alle altre generazioni bavose. Sì, era pieno di p e d e r a s t i in giro, ma se andate in giro conciati in quel modo ve la state cercando.
Dieci anni fa apriva Einaudi-Stile-Libero, con un libro che ho odiato intensamente, ai tempi suoi. Era un reportage sulle camerette dei ragazzini. Le camerette. Dei ragazzini. Che invece di uscire di casa restano in famiglia e si fanno la cameretta. E si sa che gli adulti ne vanno matti, per queste cose. Gli adulti vogliono sapere come si chiama il cantante del poster. Vogliono eccitarsi davanti alla tua originalissima collezione di CD. Non vedono l'ora di sfogliarti la smemoranda e andare in deliquio davanti alle foto dell'interrail dell'estate scorsa – quando dovevate girarvi tutta la Francia la Germania e invece vi siete piantati quindici giorni in un campeggio ad Amsterdam. (io comunque amavo immaginare che sull'armadio ci fosse ancora il vecchio big jim, o qualche accessorio in plastica rosa, perché non vedevo nessuna vera soluzione di continuità tra la vostra infanzia di plastica e la vostra adolescenza: la cameretta era la stessa, e voi eravate gli stessi, solo con qualche smorfia in più). Il ggiovanilismo, il lolitismo, l'ipocrisia melliflua di chiamare Fuori tutti un libro che invece invitava tutti dentro la propria vita privata… vi ho odiato, maledetti, non ve l'ho detto perché nelle camerette delle vostre sorelle cercavo spesso di entrarci, ma vi disprezzavo. No, non avevo nessun piedistallo da cui disprezzarvi, lo facevo e basta. Ero giovane anch'io, va bene?
Ci pensavo l'altro giorno e mi chiedevo: chissà che fine hanno fatto, quei ragazzini. Se in media avevano sedici anni, quando posavano aprivano il loro sancta sanctorum giovanile ai vecchi curiosi, adesso in media ne hanno ventisei; in qualsiasi altra nazione occidentale avrebbero finalmente lasciato la loro cameretta, ma sarebbero ancora i protagonisti assoluti dello spettacolo del consumo, il target più ambito perché è quello che compra di più.
In qualsiasi altra nazione occidentale, ma in Italia no. Da noi la generazione più consumista è quella over 35. Sono loro che si divertono a comprare l'Ipod nuovo ogni volta che ne lanciano uno. Sono loro a spassarsela con l'high tech e la parabola. Invece il ventiseienne-tipo, oggi, è il più delle volte un neolaureato nel panico, che scopre con angoscia di essere stato sovraqualificato: vale a dire che il mondo del lavoro aveva bisogno di persone meno laureate di lui, da pagare meno e da mandare a casa ogni due mesi.
Il mondo cambia. E Stile-Libero si adegua. Dieci anni fa s'invitava nella vostra cameretta, adesso viene a misurarvi il monolocale. Dieci anni fa vi chiedeva la boy band preferita. Adesso s'informa su quanto prendete in busta. Certo, se ha 40 anni, Roberta non può aver posato per Fuori tutti. Ma mi piace pensare che tra le persone intervistate da Aldo Nove ci sia anche qualche reduce del libro di dieci anni fa. E mentre lo penso, dovrei provare un gusto sadico. Perché continuate a sembrarmi di plastica come i vostri giocattoli – vent'anni fa vi vendevano bambole, dieci anni fa scrittori giovanilisti e cannibali, poi c'è stato il revival della plastica anni Ottanta (vi hanno rivenduto gli stessi giocattoli usati, a prezzo maggiorato) e adesso siete pronti per l'industria culturale della lagna. E quindi io dovrei detestarvi, sono nato per farlo. Programmato per farlo.
Ma qualcosa non va – ieri sera per esempio in tv ho visto Aldo Nove, con quelle borse sotto gli occhi, così terribilmente adulto – e pensate un po? mi stava simpatico. E pure voi, con le vostre lagne, e il parlar sempre di affitti e banche che non ti fanno il mutuo – non vi ho mai voluto tanto bene come adesso. Vorrei venirvi a trovare in tutti i vostri monolocali, fare la pipì in tutti i servizi delle vostre mansarde-con-servizi.
Non vi odio più, questa è la verità. Sì, c'è stato un tempo in cui vi ho odiato, vi ho amato; ma adesso stiamo semplicemente invecchiando assieme.
mercoledì 15 marzo 2006
- via, via, finché siete in tempo
Gente inesistente
Secondo SB, se ho capito bene, non è vero che ci sono file alle poste.
Ovvero: le file sono solo a Roma e a Milano; nel resto d'Italia ci sono trenta stranieri in media per ufficio postale.
Inoltre, le file (che comunque non ci sono, a parte Roma e Milano), sono la prova che la Bossi-Fini è una buona legge, che funziona.
E i risultati si vedono: l'Italia è il Paese europeo con meno immigrati. Sì, mi pare che abbia detto così.
Grazie alla nostra legge sull'immigrazione. Grazie ai nostri CPT.
Malgrado la nostra situazione geografica di ponte nel bel mezzo del Mediterraneo. Siamo quelli con meno stranieri.
Siamo forti.
Io sono una persona timida, ho già il mio daffare con le persone che esistono. Figurati che voglia mi viene, domattina, di andare a vedere una di queste file di gente che non esiste, e che per la stragrande maggioranza continuerà a non esistere.
Figurati che voglia ho di andare là e di chiedere, in tutte le lingue del mondo che non so: ma siete matti? Ma allora ci tenete davvero a stare qui? ma perché? Cosa c'è di così speciale? D'inverno si gela, d'estate si soffoca: non ditemi che è il tempo. La primavera puzza di benzene e d'autunno non si vede da qui a là. Non mi dite che si mangia bene, suvvia: maiale e vino, vino e maiale, non è questo che vi tiene qui.
Già, ma allora cosa? Cos'è che vi tiene ancorati qui, nei centri storici coi metri quadri più cari al mondo? Quale istinto irrefrenabile vi stimola a pagare il canone RAI anche se in tv guardate soltanto teletunisi con la parabolica? E i rincari del metano? Siamo quasi ad aprile e i termosifoni vanno ancora. E la benzina? Ma vi sembra una cosa regolare? E allora cos'è tutta questa ansia di regolarizzarsi?
Ma io dico. Ce n'è di bei posti al mondo. Dove almeno l'inverno è meno freddo, o l'estate meno calda. O la benzina meno cara. O il fruttivendolo meno stronzo. Ce n'è. Prendi l'Olanda. Dico, com'è possibile che voi siate qui invece che in Olanda? Là c'è più lavoro e meno maiale. E non dovrebbero esserci queste inesistenti file alla posta – al massimo ti fanno vedere un filmino con i gay che si baciano, che per quanto possa essere fastidioso secondo me non equivale a una notte d'inverno davanti a un ufficio postale. O no? Non lo so. Ognuno ha la sua cultura. Ma multiculturalismo a parte, secondo me siete matti. Con tutto l'Occidente a disposizione, ostinarsi a restare qui.
Io lo so perché sto qui: ci sono nato. Tengo famiglia, gli amici, i contatti, bla bla. Nascere qui non è una colpa e non è un merito. Ma scegliere di vivere qui, è una follia. Sarà perché non leggete i giornali. Sveglia! Non siamo più la quinta potenza mondiale. Va bene che siete i naufraghi del Terzo Mondo, ma avete scelto la scialuppa fallata. Fate ancora in tempo a salvarvi, ma via di qui, via! Ormai avete capito come si fa. E dovreste avere un bagaglio leggero. Via! Non avete certo bisogno di noi. Al limite è il contrario.
Se fosse per acclimatarvi… qualche anno di compensazione, prima di salire in Francia o in Germania... questo lo potrei capire.
Ma voi avete le facce di chi viene per stare. Fate persino i mutui per le case. Portate su famiglia e figli. Voi avete deciso davvero di vivere qui. Con tutti i bei posti che ci sono al mondo. Siete matti.
Per fortuna che non esistete.
Secondo SB, se ho capito bene, non è vero che ci sono file alle poste.
Ovvero: le file sono solo a Roma e a Milano; nel resto d'Italia ci sono trenta stranieri in media per ufficio postale.
Inoltre, le file (che comunque non ci sono, a parte Roma e Milano), sono la prova che la Bossi-Fini è una buona legge, che funziona.
E i risultati si vedono: l'Italia è il Paese europeo con meno immigrati. Sì, mi pare che abbia detto così.
Grazie alla nostra legge sull'immigrazione. Grazie ai nostri CPT.
Malgrado la nostra situazione geografica di ponte nel bel mezzo del Mediterraneo. Siamo quelli con meno stranieri.
Siamo forti.
Io sono una persona timida, ho già il mio daffare con le persone che esistono. Figurati che voglia mi viene, domattina, di andare a vedere una di queste file di gente che non esiste, e che per la stragrande maggioranza continuerà a non esistere.
Figurati che voglia ho di andare là e di chiedere, in tutte le lingue del mondo che non so: ma siete matti? Ma allora ci tenete davvero a stare qui? ma perché? Cosa c'è di così speciale? D'inverno si gela, d'estate si soffoca: non ditemi che è il tempo. La primavera puzza di benzene e d'autunno non si vede da qui a là. Non mi dite che si mangia bene, suvvia: maiale e vino, vino e maiale, non è questo che vi tiene qui.
Già, ma allora cosa? Cos'è che vi tiene ancorati qui, nei centri storici coi metri quadri più cari al mondo? Quale istinto irrefrenabile vi stimola a pagare il canone RAI anche se in tv guardate soltanto teletunisi con la parabolica? E i rincari del metano? Siamo quasi ad aprile e i termosifoni vanno ancora. E la benzina? Ma vi sembra una cosa regolare? E allora cos'è tutta questa ansia di regolarizzarsi?
Ma io dico. Ce n'è di bei posti al mondo. Dove almeno l'inverno è meno freddo, o l'estate meno calda. O la benzina meno cara. O il fruttivendolo meno stronzo. Ce n'è. Prendi l'Olanda. Dico, com'è possibile che voi siate qui invece che in Olanda? Là c'è più lavoro e meno maiale. E non dovrebbero esserci queste inesistenti file alla posta – al massimo ti fanno vedere un filmino con i gay che si baciano, che per quanto possa essere fastidioso secondo me non equivale a una notte d'inverno davanti a un ufficio postale. O no? Non lo so. Ognuno ha la sua cultura. Ma multiculturalismo a parte, secondo me siete matti. Con tutto l'Occidente a disposizione, ostinarsi a restare qui.
Io lo so perché sto qui: ci sono nato. Tengo famiglia, gli amici, i contatti, bla bla. Nascere qui non è una colpa e non è un merito. Ma scegliere di vivere qui, è una follia. Sarà perché non leggete i giornali. Sveglia! Non siamo più la quinta potenza mondiale. Va bene che siete i naufraghi del Terzo Mondo, ma avete scelto la scialuppa fallata. Fate ancora in tempo a salvarvi, ma via di qui, via! Ormai avete capito come si fa. E dovreste avere un bagaglio leggero. Via! Non avete certo bisogno di noi. Al limite è il contrario.
Se fosse per acclimatarvi… qualche anno di compensazione, prima di salire in Francia o in Germania... questo lo potrei capire.
Ma voi avete le facce di chi viene per stare. Fate persino i mutui per le case. Portate su famiglia e figli. Voi avete deciso davvero di vivere qui. Con tutti i bei posti che ci sono al mondo. Siete matti.
Per fortuna che non esistete.
lunedì 13 marzo 2006
- gesticolando, come un coglione
La forbice
Quando insegnavo la Storia ai sordi – il che è impossibile, specie se nessuno ti ha mai spiegato come si fa – ho iniziato a inventarmi alcuni gesti, di cui ora non mi libero più. Trasformare un concetto in un gesto è una cosa che il non-sordo non dovrebbe fare (specie davanti ai non-sordi) perché ti fa sembrare un folle.
Per esempio, quando io inizio a parlare di "impoverimento" (che già di per sé non è un soggetto sexy), la mano destra se ne va per conto suo, e pinocchiescamente inizia a fare il segno della forbice (quello con l'indice e il medio, avete presente) non rapidamente come a dire "taglia taglia", ma lentamente: una forbice lenta e inesorabile che… si chiude? No, si apre. Perché l'impoverimento (cercavo di spiegare) è una forbice che si apre lentamente: chi è povero diventa più povero, chi è ricco diventa più ricco. Perché? Non so il perché.
Tutta la mia mezza vita si configura come un tentativo di spiegare ai sordi cose che nemmeno io so bene, ma quando dalla metafora si passa ai fatti (quando ti trovi davanti gente che è sorda per davvero) senti quanto sia ruvida la realtà, e poco accogliente.
Congedandomi dal mondo dei sordi mi è rimasta questa idea: che molti miei pensieri, in realtà, siano solo gesticolazioni; tentativi di esprimersi in un alfabeto che non so. È tragico perché io credo di avere qualcosa da dire, ma in realtà ho solo un gesto da ripetere. La forbice. La forbice. La forbice. La volete capire o no? Niente, loro guardano la mano.
Ieri ho visto questo bel documentario di Riccardo Iacona, sulle case di Milano; e ho sentito quel vecchio tremito alla mano destra. La forbice. Avete visto cosa fanno a Milano? Sgomberano i locatari da 600 euro al mese, e ristrutturano in residence da 1000 euro al mese. Non c'è mica tanto, in fondo, tra i 600 e i 1000: ci sono due lame di forbice che si stanno aprendo lentamente tra noi. Mi sembra di gesticolare, quando scrivo queste cose. Insomma, c'è un modo intelligente e snob per spiegarlo? Chi sta sotto i 600, è povero e lo diventerà sempre di più; chi può permettersi i 1000, d'ora in poi è ricco e avrà altri problemi. State in mezzo? Non potrete restarci per molto. No, non vi sto chiedendo di scegliere, non è una scelta che spetti a voi.
Lo so, lo so, dividere la gente in poveri e ricchi, nel 2006, è pazzesco (io poi conosco gente su entrambe le sponde: e con molti ci eravamo lasciati da buoni amici). Ci sarà senz'altro una teoria economica che spiega tutto questo sotto forma di cicli di sviluppo e recessione. Io non ho mai studiato economia – è solo colpa mia. Dove avevo la testa? Io ho studiato (per esempio) storia dell'Arte. Ho imparato che verso la fine del Duecento in Italia impazzava il gotico: è uno stile maestoso ma leggero, promosso dalla classe borghese che si sta facendo avanti. I commerci sono buoni, i soldi girano, ogni Comune vuole avere la sua bella chiesa con le guglie. Persino i pittori cominciano a interessarsi alla gente: cancellano i fondi oro e piazzano i poveri e i ricchi sullo stesso sfondo urbano, qualcosa che sembra già una prospettiva. Va di moda San Francesco, il ragazzo ricco e viziato che pianta tutto e si fa povero: una scelta ancora praticabile, nel Duecento. Poveri e ricchi stavano ancora sotto lo stesso cielo, parlavano la stessa lingua, in fondo prendevano la stessa pioggia e pativano lo stesso caldo.
In seguito accadono alcune cose, ma non è chiaro quale sia la decisiva. Forse la peste, forse le guerre, è un concorso di cause o una serie di sfighe di respiro europeo, fatto sta che nel giro di cinquant'anni cambia tutto. La popolazione si dimezza, molti tornano in campagna, i poveri che girano per le strade smettono di essere considerati creature del buon Dio che hanno fatto forse la scelta giusta. E i pittori lo sentono. Si rimettono a fare santi ieratici per le cappelle private delle famiglie bene. Se non possono proprio reintrodurre il fondo oro, si mettono a lavorare sulle aureole o sui vestiti: i personaggi che vanno per la maggiore sono i Re Magi, perfetti manichini per opere di haute couture.
La cosa interessante, è che se per raccontare la Storia non avessimo che i pittori, potremmo pensare che nel primo Quattrocento la gente stesse meglio che un secolo prima: i quadri erano più colorati, i vestiti più sofisticati, i santi più eleganti. Il fatto è che si era aperta la forbice, e gli artisti sanno sempre con chi stare: con chi paga le commesse (non è mica una scelta, non spetta a loro scegliere). La stessa cosa accade oggi, e accadrà domani. Se di quest'epoca che viviamo dovesse sopravvivere solo la moda, il design d'interni, la sagoma delle auto sportive… ehi, c'è il rischio serio di passare alla Storia come un'epoca d'oro. Oro. Oro dappertutto. Quando iniziate a vedere lo sfondo oro nelle foto, è ora di preoccuparsi.
La cosa peggiore è che questo sfondo oro io comincio a vederlo anche in rivendicazioni che mi sembrano giuste e importanti. Per dire, l'intero programma della Rosa nel Pugno mi sembra sbalzato nell'oro. Il matrimonio ai gay, ad esempio, certe sere mi sembra un gradino importante verso la parità totale; qualcosa che non ha precedenti nel passato dell'uomo. E poi il mattino dopo mi appare una rivendicazione di lusso, quando abbiamo quartieri dove la gente non paga più l'affitto e ha iniziato a spararsi a pallini. La forbice si è aperta, e forse non è mai stata così aperta. Poveri e ricchi non parlano neanche più la stessa lingua. Non hanno la stessa legge, non parliamo poi dell'assistenza sociale. Sono due mondi e non comunicano. E l'arte – e la letteratura – sanno sempre da che parte stare.
È una scelta obbligata. Da una parte c'è il denaro, c'è il gusto, c'è il linguaggio. Dall'altra parte è solo un branco di scimmie che piange, ride, gesticola.
Quando insegnavo la Storia ai sordi – il che è impossibile, specie se nessuno ti ha mai spiegato come si fa – ho iniziato a inventarmi alcuni gesti, di cui ora non mi libero più. Trasformare un concetto in un gesto è una cosa che il non-sordo non dovrebbe fare (specie davanti ai non-sordi) perché ti fa sembrare un folle.
Per esempio, quando io inizio a parlare di "impoverimento" (che già di per sé non è un soggetto sexy), la mano destra se ne va per conto suo, e pinocchiescamente inizia a fare il segno della forbice (quello con l'indice e il medio, avete presente) non rapidamente come a dire "taglia taglia", ma lentamente: una forbice lenta e inesorabile che… si chiude? No, si apre. Perché l'impoverimento (cercavo di spiegare) è una forbice che si apre lentamente: chi è povero diventa più povero, chi è ricco diventa più ricco. Perché? Non so il perché.
Tutta la mia mezza vita si configura come un tentativo di spiegare ai sordi cose che nemmeno io so bene, ma quando dalla metafora si passa ai fatti (quando ti trovi davanti gente che è sorda per davvero) senti quanto sia ruvida la realtà, e poco accogliente.
Congedandomi dal mondo dei sordi mi è rimasta questa idea: che molti miei pensieri, in realtà, siano solo gesticolazioni; tentativi di esprimersi in un alfabeto che non so. È tragico perché io credo di avere qualcosa da dire, ma in realtà ho solo un gesto da ripetere. La forbice. La forbice. La forbice. La volete capire o no? Niente, loro guardano la mano.
Ieri ho visto questo bel documentario di Riccardo Iacona, sulle case di Milano; e ho sentito quel vecchio tremito alla mano destra. La forbice. Avete visto cosa fanno a Milano? Sgomberano i locatari da 600 euro al mese, e ristrutturano in residence da 1000 euro al mese. Non c'è mica tanto, in fondo, tra i 600 e i 1000: ci sono due lame di forbice che si stanno aprendo lentamente tra noi. Mi sembra di gesticolare, quando scrivo queste cose. Insomma, c'è un modo intelligente e snob per spiegarlo? Chi sta sotto i 600, è povero e lo diventerà sempre di più; chi può permettersi i 1000, d'ora in poi è ricco e avrà altri problemi. State in mezzo? Non potrete restarci per molto. No, non vi sto chiedendo di scegliere, non è una scelta che spetti a voi.
Lo so, lo so, dividere la gente in poveri e ricchi, nel 2006, è pazzesco (io poi conosco gente su entrambe le sponde: e con molti ci eravamo lasciati da buoni amici). Ci sarà senz'altro una teoria economica che spiega tutto questo sotto forma di cicli di sviluppo e recessione. Io non ho mai studiato economia – è solo colpa mia. Dove avevo la testa? Io ho studiato (per esempio) storia dell'Arte. Ho imparato che verso la fine del Duecento in Italia impazzava il gotico: è uno stile maestoso ma leggero, promosso dalla classe borghese che si sta facendo avanti. I commerci sono buoni, i soldi girano, ogni Comune vuole avere la sua bella chiesa con le guglie. Persino i pittori cominciano a interessarsi alla gente: cancellano i fondi oro e piazzano i poveri e i ricchi sullo stesso sfondo urbano, qualcosa che sembra già una prospettiva. Va di moda San Francesco, il ragazzo ricco e viziato che pianta tutto e si fa povero: una scelta ancora praticabile, nel Duecento. Poveri e ricchi stavano ancora sotto lo stesso cielo, parlavano la stessa lingua, in fondo prendevano la stessa pioggia e pativano lo stesso caldo.
In seguito accadono alcune cose, ma non è chiaro quale sia la decisiva. Forse la peste, forse le guerre, è un concorso di cause o una serie di sfighe di respiro europeo, fatto sta che nel giro di cinquant'anni cambia tutto. La popolazione si dimezza, molti tornano in campagna, i poveri che girano per le strade smettono di essere considerati creature del buon Dio che hanno fatto forse la scelta giusta. E i pittori lo sentono. Si rimettono a fare santi ieratici per le cappelle private delle famiglie bene. Se non possono proprio reintrodurre il fondo oro, si mettono a lavorare sulle aureole o sui vestiti: i personaggi che vanno per la maggiore sono i Re Magi, perfetti manichini per opere di haute couture.
La cosa interessante, è che se per raccontare la Storia non avessimo che i pittori, potremmo pensare che nel primo Quattrocento la gente stesse meglio che un secolo prima: i quadri erano più colorati, i vestiti più sofisticati, i santi più eleganti. Il fatto è che si era aperta la forbice, e gli artisti sanno sempre con chi stare: con chi paga le commesse (non è mica una scelta, non spetta a loro scegliere). La stessa cosa accade oggi, e accadrà domani. Se di quest'epoca che viviamo dovesse sopravvivere solo la moda, il design d'interni, la sagoma delle auto sportive… ehi, c'è il rischio serio di passare alla Storia come un'epoca d'oro. Oro. Oro dappertutto. Quando iniziate a vedere lo sfondo oro nelle foto, è ora di preoccuparsi.
La cosa peggiore è che questo sfondo oro io comincio a vederlo anche in rivendicazioni che mi sembrano giuste e importanti. Per dire, l'intero programma della Rosa nel Pugno mi sembra sbalzato nell'oro. Il matrimonio ai gay, ad esempio, certe sere mi sembra un gradino importante verso la parità totale; qualcosa che non ha precedenti nel passato dell'uomo. E poi il mattino dopo mi appare una rivendicazione di lusso, quando abbiamo quartieri dove la gente non paga più l'affitto e ha iniziato a spararsi a pallini. La forbice si è aperta, e forse non è mai stata così aperta. Poveri e ricchi non parlano neanche più la stessa lingua. Non hanno la stessa legge, non parliamo poi dell'assistenza sociale. Sono due mondi e non comunicano. E l'arte – e la letteratura – sanno sempre da che parte stare.
È una scelta obbligata. Da una parte c'è il denaro, c'è il gusto, c'è il linguaggio. Dall'altra parte è solo un branco di scimmie che piange, ride, gesticola.
venerdì 10 marzo 2006
- l'era dell'ottimismo
Sorridi, sei in Italia
Diciamo che esiste Xavière (nome inventato): è una ragazza di 28 anni che proviene da un Paese dell'Africa occidentale. Ma sta in Italia. In un Centro di Permanenza Temporanea.
Xavière non dice niente, ma ci sorride dal giornale.
La cosa fa scalpore e induce anche un po' al sospetto, perché a prima vista il CPT non è appare come un luogo divertente dove vivere. Per dire, tutto intorno c'è una recinzione alta alta, e non si può uscire. Insomma, quando in prima pagina sul giornale locale compare il titolo "Storia di Xavière che grazie al CPT torna a sorridere", uno lì per lì non ci crede. Fortuna che nelle pagine interne è tutto spiegato.
E infatti lì si apprende che Xavière
– ha smesso di sorridere anni fa, quando uno zio ha commesso su di lei violenze e soprusi che "l'avevano portata a rischio di vita".
– ma per fortuna un ente missionario italiano si è interessato al suo caso, e l'ha fatta venire in Italia.
E volendo la storia sarebbe già finita qui, e noi sul giornale leggeremmo: "Storia di Xavière che grazie alla missione italiana torna a sorridere"…
– e invece no! perché la missione riesce solo a procurarle un permesso di soggiorno turistico (e ci mancherebbe altro, lo zio ti molesta e vuoi che ti neghiamo una gita turistica nel Bel Paese?) Diciamo che Xavière si sistema da turista presso il fratello, immigrato regolare in una dolciastra cittadina lombarda. Per tre anni rimane lì, "facendo per conto della parrocchia locale dei piccoli lavoretti".
E in fondo la storia potrebbe essere finita anche qui, e su un altro bel giornale locale leggeremmo: "Storia di Xavière che grazie alla parrocchia torna a sorridere"…
– ma per fortuna non è così! Perché la "comunità che la assiste" nel frattempo si è dimenticata di iniziare la trafila per regolarizzare la sua posizione. Così un giorno – magari in seguito a una telefonata – le forze dell'ordine passano in parrocchia per un controllo e ci trovano la turista Xavière, nel bel mezzo del suo Grand Tour europeo, magari mentre dà lo straccio in oratorio. E la arrestano, anzi no, non si può dire che l'arrestino, non è la parola giusta; limitiamoci a dire, con Vasco, che la prendono e la portano via. La portano nel CPT di un'altra città.
– In questo CPT gli operatori ricostruiscono la storia, ne controllano la veridicità, mettono in ordine i dati e ottengono la regolarizzazione. Così in effetti adesso Xavière sorride. Grazie al CPT.
Però io non mi limiterei a ringraziare il CPT, che in questo caso ha effettivamente fatto un buon lavoro. Tutti hanno la loro parte di merito per aver fatto sorridere Xavière. E quindi mi sembra il caso di ringraziare anche:
– La parrocchia che le ha dato un lavoro, anzi, tanti "lavoretti", senza mai intraprendere la regolarizzazione; se fosse stata regolarizzata subito, Xavière non avrebbe mai incontrato il personale del CPT, e quindi sorridere.
– La missione che l'ha portata in Italia ma non aveva niente di meglio da promettere che un visto turistico; se non fosse mai arrivata in Italia, Xavière non avrebbe mai potuto essere
– E sì, forse anche lo zio, perché a ben vedere senza le sue molestie, come avrebbe fatto Xavière ad arrivare in Italia, anzi nel CPT che le ha ridato il sorriso?
Ma in fondo noi esageriamo l'importanza degli enti, delle parrocchie, delle persone. Se l'accoglienza degli stranieri in Italia è una macchina così bene oliata, il merito è delle leggi. In un altro Paese, in un altro mondo Xavière sarebbe arrivata e si sarebbe semplicemente messa a lavorare con un contratto regolare. Non avrebbe dovuto ringraziare nessun generoso salvatore. Pensate che ingiustizia.
In Italia, invece, guardate quanta gente Xavière deve ringraziare; quanti eroi a cui deve il suo sorriso. Dai datori di lavoro della parrocchia agli operatori del CPT, è tutto un piccolo grande mondo che si adopera affinché dopo mille traversie Xavière finalmente sorrida. E non è fantastico questo?
Voglio dire, trent'anni fa partivamo ancora con le valige di cartone. E adesso in tante città abbiamo centri murati e recintati dove gli operatori si adoperano a far sorridere la gente. Non è un mondo perfetto. Però ci stiamo lavorando.
E cosa sono questi brontolii – li sento, sapete. Che razza di mondo avete in mente, voi? Un mondo dove chiunque arriva può mettersi a lavorare regolarmente, subito, senza ringraziare nessuno? O addirittura un mondo senza paesi poveri, dove non esistono zii molesti, e quindi nessuno deve scappare con permessi di fortuna?
Davvero è questo il vostro sogno? Un mondo grigio, senza sorrisi? Un mondo dove tutti si danno da fare e nessuno ti ringrazia?
Tenetevelo, il vostro mondo. Noi preferiamo stare qui. È pieno di creaturine sorridenti. Di sicuro vorrebbero dirci "grazie".
Se solo potessero parlare…
martedì 7 marzo 2006
- anni zero
Siamo usciti (vivi) dagli anni Ottanta
E siamo negli anni Zero. Facciamo finta di niente, ma la verità è sempre più dura. Quando ci sbatte sul muso.
Sabato, 4 febbraio, tema d'italiano in terza media. Tre tracce, aventi per argomento:
1) Rosso Malpelo (G. Verga)
2) Il caso delle vignette su Maometto (l'alunno può consultare i ritagli di quotidiani sul quaderno).
3) Sanremo.
Risultati
Il tema n. 1 è stato scelto da n. 11 studenti.
Il tema n. 2 è stato scelto da n. 13 studenti.
2 studenti erano assenti.
Il tema n. 3 non è stato scelto da nessuno.
E siamo negli anni Zero. Facciamo finta di niente, ma la verità è sempre più dura. Quando ci sbatte sul muso.
Sabato, 4 febbraio, tema d'italiano in terza media. Tre tracce, aventi per argomento:
1) Rosso Malpelo (G. Verga)
2) Il caso delle vignette su Maometto (l'alunno può consultare i ritagli di quotidiani sul quaderno).
3) Sanremo.
Risultati
Il tema n. 1 è stato scelto da n. 11 studenti.
Il tema n. 2 è stato scelto da n. 13 studenti.
2 studenti erano assenti.
Il tema n. 3 non è stato scelto da nessuno.
lunedì 6 marzo 2006
- la città delle crepe
Da venerdì è riaperta la Tenda, il locale all'incrocio di viale Molza e Monte Kosica che scuoterà dalle fondamenta la vita notturna modenese e non solo. La redazione di Leonardo ci andrà spesso, e consiglia a tutti di consultare il programma (non appena sarà disponibile) e farci un salto. Oggi e domani, per esempio, c'è un incontro su Pier Vittorio Tondelli nel cinquantenario della nascita, con testimonianze, interviste inedite e racconti a cura di Enos Rota ed Ennio Trinelli.
Il pezzo che segue non c'entra niente, è una serie di frasi senza senso.
4 domande
Uno passa una mezza vita a combattere contro il concetto astratto e stucchevole di "generazione" –
– finché non si arrende: è proprio così. Siamo nati tutti nello stesso momento (più o meno una trentina di anni fa) e continuiamo più o meno a trovarci negli stessi luoghi. Se esiste altra gente (dovrà pur esistere) si muove in posti e in orari che non frequentiamo. Non frequentandoli, difficilmente riusciremo a riprodurci con loro. Continueremo a stare tra noi, e quando faremo dei figli, li faremo nello stesso momento (il che sta accadendo).
Certo, in trent'anni sono cambiati un poco i luoghi, l'abbigliamento, e (grazie al cielo) gli argomenti.
Dieci anni fa le domande erano: "cosa studi" e "che musica ascolti".
Si trattava di quesiti identitari: volevamo sapere chi eravamo. Chi ci preparavamo a diventare ("cosa studi?") e, nel frattempo, che stile di vita stavamo abbracciando (apprezzate l'economia del quesito: "che musica ascolti". Non hai bisogno di dirmi in che tipo di locale vai, come ti vesti, se ti piace o no ballare e cosa: se ti piacciono gli U2 ho già capito tutto questo e anche di più. La condivisione dei gusti musicali è l'equivalente umano dell'annusarsi canino).
Lentamente, ci siamo spostati al "ti stai laureando? / ti sei già laureato?"
Una domanda già un po' minacciosa. Dopo aver capito più o meno chi eravamo, e che musica ascoltavamo, abbiamo iniziato a sospettare che ci fosse gara tra noi. Per cui: come stai andando? Sei davanti a me o dietro? Non è necessariamente competitività o invidia. Si trattava anche di capire dove sono io: la mia posizione. Perché i sorpassi esistono, è inutile far finta di niente. Gente che fino a qualche tempo fa ti stava dietro, improvvisamente te li trovi che ti danno le spalle. Il minimo è fargli i complimenti. E si passano degli anni così, a fare complimenti e a incassarne. È un quadretto stucchevole, perché di solito chi fa i complimenti è sinceramente ammirato, sinceramente invidioso, sinceramente angosciato: e tutta questa invidia e ammirazione e angoscia va a sbattere contro un neolaureato (magari pure neoimpiegato) che fa spallucce. Come se laurearsi fosse la cosa più semplice del mondo.
Il problema è che è vero: laurearsi è la cosa più semplice del mondo. Quello che per il suo inseguitore sembra il traguardo della vita (cui seguiranno mesi di bisbocce e viaggi per il mondo) era solo una mediocre tappa di trasferimento, e il neolaureato lo sa. Lui sta già chiedendo a qualcun altro:
"Che lavoro fai / Dove abiti adesso?"
In realtà non siamo quella generazione di mammoni sfigati che qualcuno pensa: non è che fino alla laurea siamo tutti restati a casa dei genitori senza fare altro che studiare. Ma per molto tempo il domicilio e il lavoretto non sono stati veri argomenti di discussione. Non dicevano davvero nulla sulla nostra identità, e nemmeno sulla nostra posizione. Erano simpatici diversivi. Poi ti laurei e ti accorgi che la vita è tutta lì: un ufficio e un bilocale. A chi va bene. E a nessuno frega più di quel che ascolti in cuffia.
A quel punto – che per molti è coinciso con l'inizio di una fase critica della storia dell'umanità (l'11 settembre, il Berlusconi-bis, l'Euro, la Cina nel WTO, la crisi strutturale della piccola economia italiana, l'islamofobia dilagante ecc. ecc.) – a questo punto in città hanno iniziato ad aprirsi dei solchi.
In un primo tempo sembravano solo corrugamenti dell'asfalto, quel tipo di cose che fanno le radici degli alberi. Ma nessuno veniva a riasfaltare. E i solchi sono diventati crepe, e le crepe sono diventate profonde, e chi più chi meno ci siamo tutti cascati dentro; e siccome non siamo persone molto tragiche, siccome siamo cresciuti in anni di operetta, e la commedia ce l'abbiamo nel sangue, cosa si pretendeva che facessimo? Ci siamo semplicemente adoperati a rendere questa crepe più confortevoli. Ci abbiamo portato la nostra musica, la pergamena della nostra laurea, il nostro CV con tutti i lavoretti, e il contratto di affitto, e abbiamo fatto il possibile per non trovarci male, nella crepa.
Addirittura ogni tanto ancora usciamo – specie quando torna la bella stagione, e apre un posto nuovo. Nominalmente, si tratta ancora di uno spazio aggregativo "giovanile". Ma la domanda che gira non è più molto giovanile, infatti è:
"Che fine hai fatto?"
Che domanda è. Sono andato a stare in una crepa di fianco alla tua. Non si sta male, non mi lamento. Ovvero sì, potrei lamentarmi all'infinito, ma che senso ha. Era una bella giornata e siamo usciti, adesso non tiriamoci giù da soli con le nostre domande stupide. Piuttosto: che musica ascolti, adesso? Che mestiere fai? Abiti sempre lì? Ti sposi? Ma certo che vengo, ci mancherebbe altro. Aspettate un bambino? Che bello.
Il pezzo che segue non c'entra niente, è una serie di frasi senza senso.
4 domande
Uno passa una mezza vita a combattere contro il concetto astratto e stucchevole di "generazione" –
– finché non si arrende: è proprio così. Siamo nati tutti nello stesso momento (più o meno una trentina di anni fa) e continuiamo più o meno a trovarci negli stessi luoghi. Se esiste altra gente (dovrà pur esistere) si muove in posti e in orari che non frequentiamo. Non frequentandoli, difficilmente riusciremo a riprodurci con loro. Continueremo a stare tra noi, e quando faremo dei figli, li faremo nello stesso momento (il che sta accadendo).
Certo, in trent'anni sono cambiati un poco i luoghi, l'abbigliamento, e (grazie al cielo) gli argomenti.
Dieci anni fa le domande erano: "cosa studi" e "che musica ascolti".
Si trattava di quesiti identitari: volevamo sapere chi eravamo. Chi ci preparavamo a diventare ("cosa studi?") e, nel frattempo, che stile di vita stavamo abbracciando (apprezzate l'economia del quesito: "che musica ascolti". Non hai bisogno di dirmi in che tipo di locale vai, come ti vesti, se ti piace o no ballare e cosa: se ti piacciono gli U2 ho già capito tutto questo e anche di più. La condivisione dei gusti musicali è l'equivalente umano dell'annusarsi canino).
Lentamente, ci siamo spostati al "ti stai laureando? / ti sei già laureato?"
Una domanda già un po' minacciosa. Dopo aver capito più o meno chi eravamo, e che musica ascoltavamo, abbiamo iniziato a sospettare che ci fosse gara tra noi. Per cui: come stai andando? Sei davanti a me o dietro? Non è necessariamente competitività o invidia. Si trattava anche di capire dove sono io: la mia posizione. Perché i sorpassi esistono, è inutile far finta di niente. Gente che fino a qualche tempo fa ti stava dietro, improvvisamente te li trovi che ti danno le spalle. Il minimo è fargli i complimenti. E si passano degli anni così, a fare complimenti e a incassarne. È un quadretto stucchevole, perché di solito chi fa i complimenti è sinceramente ammirato, sinceramente invidioso, sinceramente angosciato: e tutta questa invidia e ammirazione e angoscia va a sbattere contro un neolaureato (magari pure neoimpiegato) che fa spallucce. Come se laurearsi fosse la cosa più semplice del mondo.
Il problema è che è vero: laurearsi è la cosa più semplice del mondo. Quello che per il suo inseguitore sembra il traguardo della vita (cui seguiranno mesi di bisbocce e viaggi per il mondo) era solo una mediocre tappa di trasferimento, e il neolaureato lo sa. Lui sta già chiedendo a qualcun altro:
"Che lavoro fai / Dove abiti adesso?"
In realtà non siamo quella generazione di mammoni sfigati che qualcuno pensa: non è che fino alla laurea siamo tutti restati a casa dei genitori senza fare altro che studiare. Ma per molto tempo il domicilio e il lavoretto non sono stati veri argomenti di discussione. Non dicevano davvero nulla sulla nostra identità, e nemmeno sulla nostra posizione. Erano simpatici diversivi. Poi ti laurei e ti accorgi che la vita è tutta lì: un ufficio e un bilocale. A chi va bene. E a nessuno frega più di quel che ascolti in cuffia.
A quel punto – che per molti è coinciso con l'inizio di una fase critica della storia dell'umanità (l'11 settembre, il Berlusconi-bis, l'Euro, la Cina nel WTO, la crisi strutturale della piccola economia italiana, l'islamofobia dilagante ecc. ecc.) – a questo punto in città hanno iniziato ad aprirsi dei solchi.
In un primo tempo sembravano solo corrugamenti dell'asfalto, quel tipo di cose che fanno le radici degli alberi. Ma nessuno veniva a riasfaltare. E i solchi sono diventati crepe, e le crepe sono diventate profonde, e chi più chi meno ci siamo tutti cascati dentro; e siccome non siamo persone molto tragiche, siccome siamo cresciuti in anni di operetta, e la commedia ce l'abbiamo nel sangue, cosa si pretendeva che facessimo? Ci siamo semplicemente adoperati a rendere questa crepe più confortevoli. Ci abbiamo portato la nostra musica, la pergamena della nostra laurea, il nostro CV con tutti i lavoretti, e il contratto di affitto, e abbiamo fatto il possibile per non trovarci male, nella crepa.
Addirittura ogni tanto ancora usciamo – specie quando torna la bella stagione, e apre un posto nuovo. Nominalmente, si tratta ancora di uno spazio aggregativo "giovanile". Ma la domanda che gira non è più molto giovanile, infatti è:
"Che fine hai fatto?"
Che domanda è. Sono andato a stare in una crepa di fianco alla tua. Non si sta male, non mi lamento. Ovvero sì, potrei lamentarmi all'infinito, ma che senso ha. Era una bella giornata e siamo usciti, adesso non tiriamoci giù da soli con le nostre domande stupide. Piuttosto: che musica ascolti, adesso? Che mestiere fai? Abiti sempre lì? Ti sposi? Ma certo che vengo, ci mancherebbe altro. Aspettate un bambino? Che bello.
venerdì 3 marzo 2006
- la guerra tiepida
Piccoli petulanti pizzaioli
1. Un vecchio e un bambino si presero per mano, e andarono in un prato pieno di croci...
Belle queste croci bianche, disse il figlio.
Sono soldati che attraversarono l'oceano per difendere la nostra libertà, rispose il padre.
Come te, rispose il figlio?
No, figliolo, è diverso. Io ho attraversato i monti e mi sono imboscato in Isvizzera.
Ma papà, perché non sei rimasto anche tu a difendere la nostra libertà?, incalzò il figlio.
Per chi mi hai preso, per un comunista?, replicò sdegnato il padre.
Il figlio non chiese più niente.
2. È probabile che sui cimiteri del distretto elettorale di Ceppaloni sia imbattibile. Ma per il resto Mastella è una frana, non dovrebbero farlo parlare. Di cimiteri militari del Commonwealth è punteggiata la penisola. Ce n'è uno a Udine, uno a Bologna (bastava leggere 2025...), uno a Milano, dove non è troppo inverosimile che un giorno Luigi Berlusconi accompagnasse il figlioletto. E non importa che molti dei caduti a Bologna, ad esempio, fossero in realtà indiani o pachistani (abilissimi a strisciare nelle macchie dell'Appennino e accoltellare il tedesco in silenzio): sono pur sempre "soldati che attraversarono l'oceano per difendere la nostra libertà". Berlusconi è un bugiardo professionista, lo sappiamo. Sbugiardarlo richiede come minimo altrettanta professionalità.
3. I politici italiani che hanno avuto l'onore di parlare al Congresso americano sono stati: De Gasperi, Andreotti, Craxi e Berlusconi. Come dire che dopo il povero Alcide buonanima, gli americani non hanno più azzeccato un solo politico italiano di riferimento. Abbiamo avuto, nell'ordine: un colluso con la mafia; un corrotto morto latitante; un parolaio inconsistente. A questo punto tanto vale mandargli Panariello, tanto che importanza ha: era mattina e non l'ha visto nessuno (quando Aznar o Blair sono saliti in Campidoglio, c'era la diretta anche negli USA).
4. Sulla pronunciation, cerchiamo di essere equi. Pur senza quel magnifico "But no, but no" sfoggiato mi pare con Rasmussen, B. è comunque stato imbarazzante. Una lingua la sai parlare o non la sai parlare: se non la sai ti fai tradurre, come immagino faccia Chirac, e non credo che nessuno lo prenda per un provinciale. Sentire il mio rappresentante che parla di Europa e libertà nell'Assemblea più potente del mondo con l'accento di un pizzaiolo di Toronto m'intristisce, oggettivamente; m'intristirebbe anche se fosse Prodi (ma è B).
Detto questo, devo riconoscere che per essere un sixty-something, Berlusconi non se la cava neanche male. Insomma, non conosco nessun sessantenne italiano con una pronuncia migliore della sua. Allora forse il problema non è della pronuncia, ma dell'età. Già. Dovremmo eleggere rappresentanti più giovani (peccato che siano più fessi, in media).
5. Il discorso in sé era talmente vago che quasi quasi lo sottoscrivo in toto (a parte l'aperture a Putin, ovvio). Il fatto è che per quanto guitto, B. è sempre un po' ragionevole degli opinion-leader al suo seguito: al Congresso ha fatto presente che in breve ci saranno al mondo 6 miliardi di poveri e 2 miliardi di privilegiati. Naturalmente la ricetta proposta (il libero mercato) è una patacca: però almeno mette a fuoco la questione, negando esplicitamente il conflitto di civiltà. (A volte mi chiedo se questo spaventoso conflitto di civiltà contro il quale io polemizzo continuamente – e non solo io – non sia alla fine un mostro marginale, confinato su qualche blog e giornalino di opinione più o meno presentabile. Una comoda sponda per argomenti che comunque rimbalzano subito da un'altra parte).
6. L'atlantismo di Berlusconi è un grosso bluff, che nessuno gli vede per pietà. Quando si è trattato di mettere nero su bianco il proprio sostegno agli Usa, B. ha nicchiato per mesi. Al vertice delle Azzorre non c'eravamo: c'era il Portogallo (ospite), la Spagna, il Regno Unito; c'erano ovviamente gli USA; ma B. no.
Come dice Ciampi, il contingente italiano è arrivato in Iraq solo "a guerra finita" e "su invito dell'Onu", ecc. ecc.. Un malizioso potrebbe dire: siamo arrivati a guerra vinta (vecchia consuetudine italiana) e a pozzi aperti. In ogni caso, la presenza italiana è minuscola, e non ci fa onore: come m'imbarazza il pizzaiolo di Toronto al Congresso, così mi sento disturbato dall'idea che con soli tremila uomini noi ci riteniamo in diritto di mantenere un'opzione dell'Eni sui pozzi petroliferi di Nassiryia. È possibile non vedere la sproporzione enorme tra quello che abbiamo fatto noi e quello che hanno fatto gli angloamericani? Loro hanno, insomma, invaso tutto il Paese, esportato la democrazia in massa. Noi abbiamo addestrato un po' di poliziotti…
7. Eppure anche la nostra omeopatica presenza in Iraq, col tempo è diventata strategica. Dopo il ritiro spagnolo ci bastano tremila uomini per essere forse il terzo contingente in Iraq (di sicuro il secondo europeo). Perciò, anche se siamo in pochi (e abbiamo pretese forse esagerate), gli angloamericani hanno effettivamente bisogno di noi per evitare che l'Iraq sembri una nazione occupata militarmente da una sola potenza nemica. L'altra faccia della medaglia, è che ci bastano tremila uomini per esporre tutta l'Italia a ritorsioni terroristiche. Ora, pur essendo pavido di carattere, e lesto al panico, credo che al Terrore occorra reagire con fermezza. Ma non capisco che senso abbia esporsi al Terrore solo col piedino. Tanto il Terrore è Terrore, per definizione fanatico e integralista: se ha deciso di colpirci, ci colpirà. Ma allora tanto valeva spendersi di più, fare la guerra sul serio. Oppure non fare nulla, e non esporsi neppure. Quello che non sopporto è la guerra tiepida, tutta questa ipocrisia governativa "sì, siamo con gli americani, però non abbiamo partecipato alla guerra, però siamo loro alleati, però non combattiamo ma educhiamo la polizia, ecc.". Come se Al Zarqawi e compagnia s'interessassero dei dettagli. Se davvero avevamo paura di Al Zarqawi, ce ne stavamo a casa. E se non abbiamo paura di lui, dovremmo combatterlo a fronte alta.
8. In questi giorni sono molto impegnato e l'idea anche solo di scaricare e sfogliare l'enciclopedia programmatica dell'Unione mi butta giù. Da qualche parte nelle 200 pagine ci sarà anche l'exit strategy dall'Iraq. Immagino che abbia tempi più brevi di quella prevista da Berlusconi. Se fosse così mi sembrerebbe giusto: l'elettorato di riferimento dell'Unione non ha mai voluto la guerra. In realtà nessun elettorato la voleva, tranne forse quello di Capezzone. A proposito di Capezzone, anche il suo film sulla "Comunità delle democrazie" dovrebbe essere sospeso dalle sale diciamo fino al 9 aprile: non perché non sia immaginifico e ben girato, ma perché rischia di farci perdere voti, e i voti sono molto importanti, vero?
Quando parliamo di ritirarci dall'Iraq, diamo per scontato che l'Italia sia in Iraq. Non è proprio così. 2-3000 militari italiani da un Paese di 25 milioni di abitanti occupato da 140.000 militari USA non sono davvero una gran cosa. Ognuno può avere la sua opinione sulla Guerra in Iraq, ma non c'è dubbio che il nostro aiuto agli americani sia già oggi piuttosto esiguo. E interessato, per di più.
Capisco le ragioni di chi dice che non si può abbandonare l'Iraq nel caos. Nei fatti l'Iraq è nel caos: sciiti e sunniti continueranno a scontrarsi per anni. 3000 italiani, però, non cambiano di molto la situazione.
3000 italiani sono importanti come moneta di scambio tra Berlusconi e Bush (io mantengo formalmente la presenza italiana nella coalizione dei volonterosi, e tu mi fai una marchetta elettorale). 3000 italiani sono importanti perché ci espongono agli attacchi terroristici. 3000 italiani, secondo me, possono andarsene anche domani, e l'Iraq resterà il problema che era prima. Certo, gli USA avranno perso un altro piccolo petulante alleato.
Secondo me se ne faranno una ragione.
1. Un vecchio e un bambino si presero per mano, e andarono in un prato pieno di croci...
Belle queste croci bianche, disse il figlio.
Sono soldati che attraversarono l'oceano per difendere la nostra libertà, rispose il padre.
Come te, rispose il figlio?
No, figliolo, è diverso. Io ho attraversato i monti e mi sono imboscato in Isvizzera.
Ma papà, perché non sei rimasto anche tu a difendere la nostra libertà?, incalzò il figlio.
Per chi mi hai preso, per un comunista?, replicò sdegnato il padre.
Il figlio non chiese più niente.
2. È probabile che sui cimiteri del distretto elettorale di Ceppaloni sia imbattibile. Ma per il resto Mastella è una frana, non dovrebbero farlo parlare. Di cimiteri militari del Commonwealth è punteggiata la penisola. Ce n'è uno a Udine, uno a Bologna (bastava leggere 2025...), uno a Milano, dove non è troppo inverosimile che un giorno Luigi Berlusconi accompagnasse il figlioletto. E non importa che molti dei caduti a Bologna, ad esempio, fossero in realtà indiani o pachistani (abilissimi a strisciare nelle macchie dell'Appennino e accoltellare il tedesco in silenzio): sono pur sempre "soldati che attraversarono l'oceano per difendere la nostra libertà". Berlusconi è un bugiardo professionista, lo sappiamo. Sbugiardarlo richiede come minimo altrettanta professionalità.
3. I politici italiani che hanno avuto l'onore di parlare al Congresso americano sono stati: De Gasperi, Andreotti, Craxi e Berlusconi. Come dire che dopo il povero Alcide buonanima, gli americani non hanno più azzeccato un solo politico italiano di riferimento. Abbiamo avuto, nell'ordine: un colluso con la mafia; un corrotto morto latitante; un parolaio inconsistente. A questo punto tanto vale mandargli Panariello, tanto che importanza ha: era mattina e non l'ha visto nessuno (quando Aznar o Blair sono saliti in Campidoglio, c'era la diretta anche negli USA).
4. Sulla pronunciation, cerchiamo di essere equi. Pur senza quel magnifico "But no, but no" sfoggiato mi pare con Rasmussen, B. è comunque stato imbarazzante. Una lingua la sai parlare o non la sai parlare: se non la sai ti fai tradurre, come immagino faccia Chirac, e non credo che nessuno lo prenda per un provinciale. Sentire il mio rappresentante che parla di Europa e libertà nell'Assemblea più potente del mondo con l'accento di un pizzaiolo di Toronto m'intristisce, oggettivamente; m'intristirebbe anche se fosse Prodi (ma è B).
Detto questo, devo riconoscere che per essere un sixty-something, Berlusconi non se la cava neanche male. Insomma, non conosco nessun sessantenne italiano con una pronuncia migliore della sua. Allora forse il problema non è della pronuncia, ma dell'età. Già. Dovremmo eleggere rappresentanti più giovani (peccato che siano più fessi, in media).
5. Il discorso in sé era talmente vago che quasi quasi lo sottoscrivo in toto (a parte l'aperture a Putin, ovvio). Il fatto è che per quanto guitto, B. è sempre un po' ragionevole degli opinion-leader al suo seguito: al Congresso ha fatto presente che in breve ci saranno al mondo 6 miliardi di poveri e 2 miliardi di privilegiati. Naturalmente la ricetta proposta (il libero mercato) è una patacca: però almeno mette a fuoco la questione, negando esplicitamente il conflitto di civiltà. (A volte mi chiedo se questo spaventoso conflitto di civiltà contro il quale io polemizzo continuamente – e non solo io – non sia alla fine un mostro marginale, confinato su qualche blog e giornalino di opinione più o meno presentabile. Una comoda sponda per argomenti che comunque rimbalzano subito da un'altra parte).
6. L'atlantismo di Berlusconi è un grosso bluff, che nessuno gli vede per pietà. Quando si è trattato di mettere nero su bianco il proprio sostegno agli Usa, B. ha nicchiato per mesi. Al vertice delle Azzorre non c'eravamo: c'era il Portogallo (ospite), la Spagna, il Regno Unito; c'erano ovviamente gli USA; ma B. no.
Come dice Ciampi, il contingente italiano è arrivato in Iraq solo "a guerra finita" e "su invito dell'Onu", ecc. ecc.. Un malizioso potrebbe dire: siamo arrivati a guerra vinta (vecchia consuetudine italiana) e a pozzi aperti. In ogni caso, la presenza italiana è minuscola, e non ci fa onore: come m'imbarazza il pizzaiolo di Toronto al Congresso, così mi sento disturbato dall'idea che con soli tremila uomini noi ci riteniamo in diritto di mantenere un'opzione dell'Eni sui pozzi petroliferi di Nassiryia. È possibile non vedere la sproporzione enorme tra quello che abbiamo fatto noi e quello che hanno fatto gli angloamericani? Loro hanno, insomma, invaso tutto il Paese, esportato la democrazia in massa. Noi abbiamo addestrato un po' di poliziotti…
7. Eppure anche la nostra omeopatica presenza in Iraq, col tempo è diventata strategica. Dopo il ritiro spagnolo ci bastano tremila uomini per essere forse il terzo contingente in Iraq (di sicuro il secondo europeo). Perciò, anche se siamo in pochi (e abbiamo pretese forse esagerate), gli angloamericani hanno effettivamente bisogno di noi per evitare che l'Iraq sembri una nazione occupata militarmente da una sola potenza nemica. L'altra faccia della medaglia, è che ci bastano tremila uomini per esporre tutta l'Italia a ritorsioni terroristiche. Ora, pur essendo pavido di carattere, e lesto al panico, credo che al Terrore occorra reagire con fermezza. Ma non capisco che senso abbia esporsi al Terrore solo col piedino. Tanto il Terrore è Terrore, per definizione fanatico e integralista: se ha deciso di colpirci, ci colpirà. Ma allora tanto valeva spendersi di più, fare la guerra sul serio. Oppure non fare nulla, e non esporsi neppure. Quello che non sopporto è la guerra tiepida, tutta questa ipocrisia governativa "sì, siamo con gli americani, però non abbiamo partecipato alla guerra, però siamo loro alleati, però non combattiamo ma educhiamo la polizia, ecc.". Come se Al Zarqawi e compagnia s'interessassero dei dettagli. Se davvero avevamo paura di Al Zarqawi, ce ne stavamo a casa. E se non abbiamo paura di lui, dovremmo combatterlo a fronte alta.
8. In questi giorni sono molto impegnato e l'idea anche solo di scaricare e sfogliare l'enciclopedia programmatica dell'Unione mi butta giù. Da qualche parte nelle 200 pagine ci sarà anche l'exit strategy dall'Iraq. Immagino che abbia tempi più brevi di quella prevista da Berlusconi. Se fosse così mi sembrerebbe giusto: l'elettorato di riferimento dell'Unione non ha mai voluto la guerra. In realtà nessun elettorato la voleva, tranne forse quello di Capezzone. A proposito di Capezzone, anche il suo film sulla "Comunità delle democrazie" dovrebbe essere sospeso dalle sale diciamo fino al 9 aprile: non perché non sia immaginifico e ben girato, ma perché rischia di farci perdere voti, e i voti sono molto importanti, vero?
Quando parliamo di ritirarci dall'Iraq, diamo per scontato che l'Italia sia in Iraq. Non è proprio così. 2-3000 militari italiani da un Paese di 25 milioni di abitanti occupato da 140.000 militari USA non sono davvero una gran cosa. Ognuno può avere la sua opinione sulla Guerra in Iraq, ma non c'è dubbio che il nostro aiuto agli americani sia già oggi piuttosto esiguo. E interessato, per di più.
Capisco le ragioni di chi dice che non si può abbandonare l'Iraq nel caos. Nei fatti l'Iraq è nel caos: sciiti e sunniti continueranno a scontrarsi per anni. 3000 italiani, però, non cambiano di molto la situazione.
3000 italiani sono importanti come moneta di scambio tra Berlusconi e Bush (io mantengo formalmente la presenza italiana nella coalizione dei volonterosi, e tu mi fai una marchetta elettorale). 3000 italiani sono importanti perché ci espongono agli attacchi terroristici. 3000 italiani, secondo me, possono andarsene anche domani, e l'Iraq resterà il problema che era prima. Certo, gli USA avranno perso un altro piccolo petulante alleato.
Secondo me se ne faranno una ragione.
mercoledì 1 marzo 2006
- radicalchoc
Dal balcone
Cosa fai lì. Vieni dentro
Vuole parlare Signora?
Ho visto che è qui in giro e fa domande. Io ho visto tutto.
Sì, il marocchino pestato, sì.
No, no, non siamo stati noi a chiamare il centotredici. La vicina. Ha fatto bene.
Adesso, certo, tutti a dire povero marocchino, e cos'hanno fatto al marocchino. Signora, vuole sapere cosa dico io? Io spero che muoia, quel marocchino. Che è una vergogna. Ubriaco tutto il giorno.
Cosa dici, smettila.
Smettila tu. No, Signora, non dicevo a lei. È mia moglie qui nascosta.
Sta sempre in casa nascosta, ma cosa crede. È solo che ha paura. Le donne hanno paura, qui. C'è tutta questa gente che ruba che spaccia che beve. Ubriachi la domenica mattina, è una vergogna. Io ho vergogna, del posto dove vivo.
Dov'ero io? Signora, io cercavo di dormire. È festa, no, la domenica? Una volta era festa, qui.
Vieni via, vieni via, che vergogna.
Idris ho sentito che lo chiamano, come quel negro in tv, ma è diverso questo, è marocchino. Beve e non fa un cazzo. Già l'altro giorno è venuta l'ambulanza a prenderlo – e lui ha fatto il matto, dicono che ha rotto una bottiglia contro l'ambulanza. Io stavo in fornace. Questa settimana ho il turno di notte.
Ma lui è sempre qua. Dorme qua, sulla scala. E mia moglie non esce più.
Se stava nel Palazzo Verde, prima? Non so, non credo. Ci stava anche brava gente lì. Regolari, col mutuo. Lui non credo che è regolare. È una boccia persa, dicono qui. Lo sa cosa vuole dire Boccia Persa, Signora?
Vieni via, ci sono le telecamere
Io sono a letto che cerco di dormire – quando arriva mia moglie e mi dice C'è la polizia. Allora vengo qui, proprio qui sul balcone. E da qui vedo i poliziotti, due vestiti uno in borghese, e per terra quel marocchino, nudo, quasi nudo, una vergogna. E intorno i curiosi. Sì, anche come-si-chiama, il marmista. Quello che ha preso il video.
L'ubriaco resta sdraiato per tre minuti e non si vuole alzare. Poi i poliziotti giustamente si sono stancati. Le ha prese, sì, le ha prese, io spero che muoia. È una boccia persa, ubriaco tutto il giorno.
Il pugno? No, io da qui non l'ho visto il pugno a un poliziotto. Ma è naturale, voglio dire, gli ubriachi fanno queste cose. Un marocchino che beve e tira pugni ai poliziotti, non ha più interesse a vivere. È peggio di un terrorista, Signora. Almeno un terrorista sa ancora cosa fare della sua vita.
Ma cosa stai dicendo, vieni via
Io sono di qui, Signora. Vent'anni che lavoro in fornace e i miei figli e mia moglie devono vivere in un quartiere di marocchini ubriachi che pisciano sulle nostre macchine. Scriva questo sul giornale. Io non ho mai fatto male a nessuno in vita mia, ma perché un ubriacone marocchino deve pisciare sulla mia macchina ogni giorno? Faccio male a dire che lo voglio morto? Signora aspetti che un marocchino ubriaco venga a dormire sulle sue scale, poi mi dirà. Promette che verrà a dirmelo.
Ahmed, per amor del Cielo
Mi chiamo Ahmed. Di dove sono? Signora, sono di Sassuolo. Di S a s s u o l o. Vent'anni di fornace e le mi chiede di dove sono. Ma cosa cazzo crede lei.
Ahmed!
Che siamo tutti cugini, noi marocchini. Che devo parlare bene di un ubriaco che mi piscia la macchina tutte le mattine. Io spero che muoia, signora. È una vergogna per tutti. Lo scriva sul giornale. Guardi che io lo leggo il giornale, lo sa. A volte lo compro anche.
Signora, mi dispiace. Ha bevuto. Non lo regge tanto bene.
Zitta. Sta zitta. Sto parlando alla Signora.
Io voglio leggere sul giornale che i marocchini di questa via vogliono più polizia. Cosa devo fare per farmi sentire? Mi faccio saltare in aria? Un marocchino che salta in aria ci va sul giornale, sì?
Non siamo cugini. Non siamo cugini. Dello stesso paese, sì. Ma noi siamo regolari. Dica questo. Che vergogna.
Zitta. Sta Zitta.
Cosa fai lì. Vieni dentro
Vuole parlare Signora?
Ho visto che è qui in giro e fa domande. Io ho visto tutto.
Sì, il marocchino pestato, sì.
No, no, non siamo stati noi a chiamare il centotredici. La vicina. Ha fatto bene.
Adesso, certo, tutti a dire povero marocchino, e cos'hanno fatto al marocchino. Signora, vuole sapere cosa dico io? Io spero che muoia, quel marocchino. Che è una vergogna. Ubriaco tutto il giorno.
Cosa dici, smettila.
Smettila tu. No, Signora, non dicevo a lei. È mia moglie qui nascosta.
Sta sempre in casa nascosta, ma cosa crede. È solo che ha paura. Le donne hanno paura, qui. C'è tutta questa gente che ruba che spaccia che beve. Ubriachi la domenica mattina, è una vergogna. Io ho vergogna, del posto dove vivo.
Dov'ero io? Signora, io cercavo di dormire. È festa, no, la domenica? Una volta era festa, qui.
Vieni via, vieni via, che vergogna.
Idris ho sentito che lo chiamano, come quel negro in tv, ma è diverso questo, è marocchino. Beve e non fa un cazzo. Già l'altro giorno è venuta l'ambulanza a prenderlo – e lui ha fatto il matto, dicono che ha rotto una bottiglia contro l'ambulanza. Io stavo in fornace. Questa settimana ho il turno di notte.
Ma lui è sempre qua. Dorme qua, sulla scala. E mia moglie non esce più.
Se stava nel Palazzo Verde, prima? Non so, non credo. Ci stava anche brava gente lì. Regolari, col mutuo. Lui non credo che è regolare. È una boccia persa, dicono qui. Lo sa cosa vuole dire Boccia Persa, Signora?
Vieni via, ci sono le telecamere
Io sono a letto che cerco di dormire – quando arriva mia moglie e mi dice C'è la polizia. Allora vengo qui, proprio qui sul balcone. E da qui vedo i poliziotti, due vestiti uno in borghese, e per terra quel marocchino, nudo, quasi nudo, una vergogna. E intorno i curiosi. Sì, anche come-si-chiama, il marmista. Quello che ha preso il video.
L'ubriaco resta sdraiato per tre minuti e non si vuole alzare. Poi i poliziotti giustamente si sono stancati. Le ha prese, sì, le ha prese, io spero che muoia. È una boccia persa, ubriaco tutto il giorno.
Il pugno? No, io da qui non l'ho visto il pugno a un poliziotto. Ma è naturale, voglio dire, gli ubriachi fanno queste cose. Un marocchino che beve e tira pugni ai poliziotti, non ha più interesse a vivere. È peggio di un terrorista, Signora. Almeno un terrorista sa ancora cosa fare della sua vita.
Ma cosa stai dicendo, vieni via
Io sono di qui, Signora. Vent'anni che lavoro in fornace e i miei figli e mia moglie devono vivere in un quartiere di marocchini ubriachi che pisciano sulle nostre macchine. Scriva questo sul giornale. Io non ho mai fatto male a nessuno in vita mia, ma perché un ubriacone marocchino deve pisciare sulla mia macchina ogni giorno? Faccio male a dire che lo voglio morto? Signora aspetti che un marocchino ubriaco venga a dormire sulle sue scale, poi mi dirà. Promette che verrà a dirmelo.
Ahmed, per amor del Cielo
Mi chiamo Ahmed. Di dove sono? Signora, sono di Sassuolo. Di S a s s u o l o. Vent'anni di fornace e le mi chiede di dove sono. Ma cosa cazzo crede lei.
Ahmed!
Che siamo tutti cugini, noi marocchini. Che devo parlare bene di un ubriaco che mi piscia la macchina tutte le mattine. Io spero che muoia, signora. È una vergogna per tutti. Lo scriva sul giornale. Guardi che io lo leggo il giornale, lo sa. A volte lo compro anche.
Signora, mi dispiace. Ha bevuto. Non lo regge tanto bene.
Zitta. Sta zitta. Sto parlando alla Signora.
Io voglio leggere sul giornale che i marocchini di questa via vogliono più polizia. Cosa devo fare per farmi sentire? Mi faccio saltare in aria? Un marocchino che salta in aria ci va sul giornale, sì?
Non siamo cugini. Non siamo cugini. Dello stesso paese, sì. Ma noi siamo regolari. Dica questo. Che vergogna.
Zitta. Sta Zitta.