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martedì 29 agosto 2006

- sono tornato

"Cosa ti manca dell'America?"



Non lo so.
Ci devo ancora pensare bene.

domenica 20 agosto 2006

- the kindest, bravest, warmest, most wonderful people

Remote Manhattan

Per dirti che tipi sono i niuiorchesi: non si perdono uno show.

Oggettivamente, non possono.

Per prima cosa sono antennati, anche se non se lo ricordano più (quei bastoni di ferro sui tetti, ricordate? No). Poi sono tutti cablati. Il telecomando della tv via cavo è un affare in cui ti perdi, i canali non finiscono mai, se ti distrai c’è il rischio di non ritrovare mai più quello in cui ridanno la prima stagione dei Jefferson o le puntate della Casa nella Prateria inedite in Italia (ma se sei quel tipo di persona che riesce a vedere solo Law & Order, c’è anche il canale che dà solo Law & Order).
Volendo – e inserendo la carta di credito nella fessura – ci sono anche le donne nude, mi è parso di capire.
Se proprio va male, c’è Tivo: l’affare che salva i programmi su un disco rigido, cancellando automaticamente le pubblicità, si capisce.
E se malgrado tutto ciò non si trovasse niente di buono, c’è il DVD – perlomeno, credo che ci sia: non lo abbiamo chiesto, non volevamo sembrare retrogradi, ma qualche dvdnolleggio in giro s’è visto, quindi – ah, e poi c’è Internet. Wireless più o meno dappertutto. Mal che vada contenuti se ne trovano anche lì.
Se uno è proprio temerario, può persino andare al cinema. È un po’ più caro che da noi, ma c’è di tutto. Il festival del film brasiliano, la rassegna sul popolare cineasta madrileno, e qualsiasi film uscito negli Usa nell’ultimo semestre, direi. Compresi quelli che già trovi su cavo. Insomma, per perderti qualcosa devi impegnarti.

Così uno se li immagina un po’ scafati, questi niuiorchesi, salottari e selettivi. In fondo Manhattan è fatta a forma di telecomando, ogni block è un canale diverso e danno la sensazione di non finire mai. Finché non finisci a Bryant Park, tra la Quinta e la 42ma, la sera che proiettano all’aperto The Manchurian Candidate. Un film degli anni Sessanta, in bianco e nero, con Sinatra.

Secondo voi si fa vedere qualcuno? Un film in bianco e nero degli anni Sessanta, disponibile in ogni casa in vhs, dvd, cavo e tivo? Una cosa che persino in Italia svenderebbero in edicola con un quotidiano? Proiettato su un telone bianco stile Festa dell’Unità, con un’acustica impossibile (rimbalzante su grattacieli di 40 piani)?

Ebbene, i niuiorchesi sono fatti così. Per vedere the Manchurian Candidate con Sinatra, in bianco e nero e acustica pessima, proiettato alle nove di sera in Bryant Park, si appostano tra i cespugli sin dalle quattro del pomeriggio. Quando i poliziotti aprono i cancelletti, si gettano a occupare il verde coi tappeti. Dalle cinque alle nove, si inganna il tempo con chips e frappuccini. E quando finalmente parte la sigletta scema dell’iniziativa, ci si alza in piedi e ci si libera alla danza. I niuiorchesi sono fatti così.

Oppure erano tutti turisti. Comunque il parco era pieno, dalle cinque in poi.

mercoledì 16 agosto 2006

- bamba platonico

Non è che abbia molte buone notizie, io.
Vittorio Feltri, lui sì che ne ha.

E in certi giorni mi piacerebbe svegliarmi ed essere Vittorio Feltri – non fraintendetemi, non sono malato, o forse sì, la mia malattia è che ho sempre adorato i titoli e i titolisti, la capacità di riassumere tutto il bello e il brutto di una giornata in un titolo e regalarlo al lettore.

E scommetto che Vittorio Feltri ha avuto ottimi titoli per tutta la settimana (non lo so – non ho controllato), scommetto che è stata una settimana felice per lui, una di quelle settimane da fregarsi le mani, da andare a letto col sorriso stampato sul cuscino e da svegliarsi col medesimo sorriso, e che dire? Beato lui.

Le buone notizie di Vittorio Feltri, in sostanza, si riducono ad una sola: l’Islam ci odia.
Ci invidia, perché da noi si sta meglio. Allora ci invade.
Noialtri Bamba, come direbbe Vittorio, cerchiamo di reagire pacificamente. Ma non c’è nulla da fare e Vittorio lo sa.

Se andiamo ad aiutarli in casa loro, ci sgozzano (e Vittorio ci fa un titolo).
Se li accettiamo in Italia, li rispettiamo, riconosciamo i loro diritti, diamo un lavoro alle loro figlie, magari poi ce ne innamoriamo, loro la sgozzano (E Vittorio ci fa un titolo).
Se da bamba facciamo finta di niente, perché un delitto estivo non può servirci a giudicare un’intera comunità di migranti; se portiamo pazienza in attesa che passi una generazione, che si crei una classe media di emigrati integrati, come in Gran Bretagna, embè? Quella classe media continuerà a covare rabbia e frustrazione e cellule di Al Quaeda che si faranno esplodere negli aeroplani. Per la gioia di Vittorio che ci farà un altro articolo. (E magari si scomoda anche Oriana, per l’occasione, con un opuscoletto in 2-3 volumi).

Quindi capite, a un certo punto uno si stanca di fare un bamba. Oggi per esempio io vorrei essere Vittorio Feltri.
E se m’impegno, magari.

Being Vittorio F.

Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri.

Ce l’ho fatta. Ecco, ho il mio cravattone, camicia a quadri e la pipa. Sono Vittorio Feltri, finalmente i capelli stanno al loro posto.
E sono abbastanza soddisfatto. È solo un peccato che tutti questi delitti e attentati di matrice islamica scoppino sempre in agosto, quando giornali se ne vendono così pochi. D’altro canto, se io sono Vittorio Feltri, di giornali ne vendo pochi tutto l’anno, quindi, chi se ne frega?

Io sono Vittorio Feltri. Gli altri sono dei Bamba. Non capiscono che pericolo sia l’Islam. Io invece lo so. L’Islam ci odia.
È un bel problema. I Bamba non hanno la soluzione.
Io, invece?
Io sono Vittorio Feltri. Questa è la mia soluzione. Purtroppo è una soluzione per pochi. Voialtri bamba potete, al massimo, comprare Libero, dove leggerete Vittorio Feltri che vi dice che l’Islam vi odia, cosa che tra l’altro probabilmente è vera, specie se l’Islam è il dirimpettaio marocchino che vi vede uscire di casa con Libero sottobraccio.

Io sono Vittorio Feltri e la mia fortuna l’ho fatta. E meno male che a un certo punto ho scoperto questa cosa dell’Islam che ci odiava, perché diffamare Di Pietro o i listati Mitrokhin non rendeva altrettanto, proprio no.

Però, insomma, io sono solo Vittorio Feltri, ed è inutile che mi stiate così col fiato sul collo a chiedermi cosa si dovrebbe fare contro l’Islam, che ci odia. Se vi siete comprati Libero, avete già fatto molto. Per il resto, non lo so. Chiudere le frontiere. Che sono già abbastanza chiuse, lo so. E voi chiudetele di più. Come? Booooh, io non amo entrare nei dettagli, io sono un titolista. L’essenziale è combattere il multiculturalismo, questa religione dei Bamba. E il multiculturalismo si combatte con, con, con, con le copie del mio giornale, Libero. Io sono Vittorio Feltri.
Ce l’ho con le moschee. Chiudete le moschee. E dopo ci saranno le moschee clandestine, più difficili da monitorare, lo so benissimo, non sono un Bamba, sono Vittorio Feltri. Un Bamba platonico.

Come se ne fregasse più di tanto, a me. Io sono un giornalista, non ho mica doveri verso i posteri. L’unico postero verso il quale avevo dei doveri l’ho già sistemato in un giornale. È mio figlio, e passerà la vita a scrivere battutine contro i Bamba. Proprio come me. Questa è la nostra soluzione al problema. Mi rendo conto che è per pochi.

D’altro canto, a ognuno il suo mestiere. Io faccio il giornalista, non cambio il mondo, mi limito a sghignazzarci sopra. Se avessi il potere di risolvere i problemi, non saprei che farmene.
Una volta in Italia diedero questo tipo di potere a un giornalista. Non ci fece una buona figura. Ognuno deve stare al posto suo.

Prendete il gestore di questo blog. Io, Vittorio Feltri, sono autorizzato a rivelarvi che è un Bamba. Lui ha questa idea, che le cose potrebbero andare meglio: che gli islamici potrebbero diventare un po’ più occidentali e gli occidentali un po’ meno stronzi. Questa idea lui la chiama Speranza. Perché è un Bamba.

In realtà non è una speranza. È l’unica cosa che ha. Non potrebbe vivere pensando che il mondo continui ad andare così. Con l’Islam che spara addosso il suo odio e noi che lo perfezioniamo e glielo rimandiamo indietro in confetti esplosivi. Così no. Così no. Non si può vivere, non si può scrivere, non si può programmare un futuro. L’unica soluzione è la speranza.

Ma la speranza, quando è l’unica cosa che resta, non è più una speranza. È solo l’altra faccia della disperazione. Questo Bamba, come molti altri Bamba, non è pacifista o multiculturalista o blablabla per capriccio. È pacifista o multiculturalista o blablabla per disperazione.

Cazzi suoi. Io non ho bisogno di speranze, ho tutto quello che mi serve. Ho il cravattone, la pipa, un giornale, un mestiere. Sono Vittorio Feltri. E voi siete i Bamba. E per oggi chiudo.

mercoledì 9 agosto 2006

- scoop

(Che io sappia, in Italia Scoop, l'ultimo film di Woody Allen, non è ancora uscito. Io l'ho visto, e in questo pezzo riesco a parlarne senza spiegarvi esattamente come va a finire. Credo).


Siete un pubblico speciale, e vi amo.


Allen è un grande cineasta che sta invecchiando. Non stiamo neanche a discutere. Ha fatto molti film: alcuni belli, altri sopravalutati. In ogni caso ha finito di farli più o meno dieci anni fa. Da dieci anni non ha probabilmente nulla da dire: sta solo invecchiando.

Il punto è che sta invecchiando bene: che un suo film, magari bruttino, magari con poco o nulla da dire, regge comunque il confronto con quello che passa in cinema, e in tv. I suoi dilemmi morali possono suonare banali, ma almeno sono dilemmi, almeno sono morali. Allen può essere noioso, ma non è che in giro ci sia roba molto più eccitante; può essere vecchio, ma non è che i giovani si stiano dando molto da fare. Senza parlare dei vecchi come lui. Anzi parliamone. Prendiamo un Altman: ci sarà un motivo per cui Altman passa in estate, praticamente inosservato, e Allen si conserva per l’autunno, quando la gente torna al cinema? Prendiamo un qualsiasi autore dell’età di Allen: ha ancora cose da dire? Riesce a dirle meglio di lui?

È inutile cercare di difendere i suoi ultimi film. Inutile anche arrampicarsi sulla suo presunto risorgimento londinese - come se Allen riuscisse davvero a descrivere le città e le campagne in cui ambienta le sue operette. La questione è molto meno artistica e molto più umana: c’è chi colleziona modellini, chi scrive un libro, chi tiene un blog. Quest’uomo sta cercando semplicemente di mettere un film all’anno tra sé e la morte, perché è quello che ha sempre fatto, perché è quello che sa fare meglio. A lungo andare, è chiaro, il pubblico pagante diventa sempre più una variabile indipendente e irrilevante. La buona notizia (per noi? Per lui?) è che quel giorno è ancora lontano. L’appuntamento annuale col film di Allen è ancora piacevole – in mancanza di meglio, certo. Si vive in mancanza di meglio.

Io la vedo così: nei grandi film della sua maturità (Io e Annie, su tutti), Allen ha tratteggiato, con ironia, l’autoritratto di uno sfigato immaturo. Non importa che questo ritratto fosse abbastanza impietoso e a tratti persino tragico: non importa perché la generazione di Allen ci ha riso sopra, trasformandolo in una macchietta indulgente, e prendendolo ad esempio per procrastinare a mai la propria maturità. Bei film, pessimo risultato.

Oggi però succede l’inverso. Se coi suoi migliori film è stato una pessima guida per una generazione di immaturi boccaloni, coi suoi peggiori film ci sta dando ottime lezioni su un problema che ci interessa tutti: come invecchiare decentemente. Qui non si tratta, insomma, di avvertire che Scoop è il suo miglior film dai tempi di. Potrebbe anche essere. E chi se ne frega. Qui si tratta solo di apprezzare il modo in cui Allen sta invecchiando in Scoop. Fotografarsi è sempre difficile, e fotografarsi da vecchi lo è ancora di più. Bene, nessuno che io ricordi ci è riuscito con la stessa grazia di Allen in Scoop.

Per prima cosa, è uno sfigato. Un ciarlatano mediocre. Ha qualche illuminazione, ma non riesce a servirsene. Niente famiglia, niente figli, nulla gli sopravvivrà. Entra nella storia controvoglia, ne esce per manifesta incapacità, nel più ridicolo e prevedibile dei modi. Ma per un’ora, lui e Scarlett si sono improvvisati padre e figlia, divertendosi un mondo. E divertirsi è tutto. Stare coi giovani. Cercare di salvarli. L’importante è non riuscirci.

Quindici anni fa Allen era ancora un signore di mezza età che cercava di riscattare il suo matrimonio salvando la Keaton da un diabolico assassino, nel Misterioso Omicidio a Manhattan. E non importa quante strizzate d’occhio, citazioni e understatement ci fossero in quella scena finale: in fin dei conti, Diana era pur sempre la donna salvata che diceva al suo eroe: ti amo. (Gratta gratta, le trame di Allen sono reazionarie, chi lo ha detto? Io, credo). Una scena così, in Scoop, avrebbe potuto esserci. Ma non c’è. Allen non è il vecchietto idiota che cerca di correre la maratona a sessant’anni. Per salvare un amore, una famiglia, una splendida ragazza, occorre cuore ma anche fiato, e non ne ha più: quel che è bello è che se ne rende conto. Scarlett dovrà farcela da sola.

E Allen? Vedi la scena finale: Allen continuerà a recitare la stessa scena per l’eternità. I soliti mediocri giochi di prestigio, il solito monologo sconnesso in cui garantisce di amare l’ennesimo pubblico sconosciuto ed estraneo, di amarlo sul serio: le cose cretine che si dicono a fine serata, quando si avrebbe voglia di andare via ma ancora non si può, e pur non amando veramente nessuno non si vuole essere scortesi. Allen non è mai stato scortese. Farà ancora molti film bruttini, facendo il possibile per non annoiare, per non strafare, per dare scena a belle donne (e begli uomini, direi). E noi li andremo a vedere, perché Fellini è morto, Kubrick è morto, e Spielberg non può farne più di due a stagione. E i giovani si facciano avanti, non è certo Allen a impedirglielo.

venerdì 4 agosto 2006

- viaggiano i perdenti - piu' adatti ai mutamenti

New York, NY
Io (ma potrei anche dire, ed era ora, Noi) andiamo a stare li', per un paio di settimane.
Non possiamo ospitare nessuno - regolamento di condominio - ma se siete nei pressi, scrivete, si va a prendere un frappuccino al pomodoro frizzante, cose cosi'.

Aggiungo che a NY gli alberghi sono assai cari, ma per fortuna su internet c'e' la possibilita' di concludere affari interessantissimi con tutti gli niuiorchesi che subaffittano d'estate, su siti che non ho nessuna intenzione di consigliarvi - piu' tardi arriva la massa dei vacanzieri italiani meglio e', sorry.

giovedì 3 agosto 2006

- XXX hot girls inside

Sex lime

Per dirti come è strano il mondo: apri uno yogurt. Non è molto virile, lo so.
Ma non hai tempo di cucinare, hai solo 5 minuti per mangiare, gli snack ti fanno paura e nel frigo comunitario della biblioteca c’è spazio, appena, per uno yogurt. Al sapore di Lime Cake, torta al Lime. Voi avrete le vostre idee sul Lime: per me, è solo una variante gay del maschio limone. Comunque mi piace.

Apri lo yogurt e inizi a scucchiaiare, distratto, finché ti accorgi che stai cercando di leggere una cosa. (Deformazione professionale. Nulla di scritto resterà non letto).
Stai fissando la stagnola – la stagnola che funge dal coperchio agli yogurt, avete presente, quella che fino ai 16 anni è consentito leccare in società. Tu ne hai più del doppio, quindi mentre mangi fissi i resti di yogurt che colano dalla stagnola. Colando, lasciano intravedere una parola. girls.
No anzi, ggirls.
No, anzi, vu vu vu gggirls eccetera. Un sito. Un sito di donnine. La pubblicità di un sito di donnine. Stampigliata sul lato interno del coperchio di stagnola di uno yogurt. Al sapore di torta al Lime. Acquistato in Connecticut, USA, nel 2006 dC, Terzo pianeta dal Sole, braccio periferico della Via Lattea, universo.

In questo stesso universo, qualcuno (qualcuno che ha studiato), ha preso un sito di donnine nude, uno yogurt alla torta di lime, e ha pensato che poteva funzionare. Non un sacchetto di patatine. Non la linguetta di una lattina di birra light. Non un barattolo di ravioli. Uno yogurt alla torta di lime.

Ma non funziona, vero?
Scusate. Adesso che ci penso. Mi è venuto in mente che. Devo controllare una cosa su un sito. Ci sentiamo domani forse.

mercoledì 2 agosto 2006

- f*** you, NY

Non dovrebbe essere un italiano a dirlo, tuttavia: coi cellulari, gli americani, si devono dare una regolata.

Io lo giuro, croce sul cuore che possa morire, in 20 giorni non c’è stata una che è una sola conversazione che non sia morta sullo squillo di cellulare. Non una.

Probabilmente non stavo dicendo nulla di importante, ma invece fossi per rivelare il Senso della Vita, eh? Ebbene Caroline, Eddie, Steve, Ju, Pablo, il Senso della vita consiste nel fatto che…

Drin.

No, macché Drin! Le polifoniche, ci hanno! Le polifoniche.

Uno cerca di razionalizzare. Non succederà la stessa cosa anche da noi? Solo che è meno facile accorgersene perché, appunto, a conversare ci abbiamo rinunciato da un pezzo. La novità non è tanto essere negli USA, ma aver lasciato a casa il cellulare.

Ma un momento. Le cassiere dei drugstore? Gli impiegati agli sportelli? E’ il quarto in due giorni che secco perché deve interrompere una comunicazione personale.

­- Scusi, eh, volevo sapere quanto verrebbe un abbonamento dei treni per…
Ti sbatte il volantino in faccia e riprende a spiegare la ricetta degli spaghetti alle polpette dentro. Ma che ti vadano di traverso.

E' che da noi ogni novita' arriva sempre accompagnata da qualche sano anticorpo scettico. Appena arrivato, il cellulare produsse il suo stereotipo negativo, il truzzo da cellulare. Qui no. Non c'e' nessuna vergogna, nessun limite fissato dalla decenza, in effetti forse non c'e' il senso della decenza. Lo stereotipo e' positivo, e' Veronica Mars che con un cellulare riesce a farti i raggi X e li scansiona subito al laptop per forwardarli all'FBI.

Il rovescio della medaglia, è che i telefoni pubblici sono sprofondati nella più deregolata e disservizievole anarchia. Hai un quartino? Te lo mangio. Compri una tessera prepagata? Per usarla ti serve il quartino. Al quarto tentativo prende la linea uno stronzo del consumer care molto seccato perché l’ho interrotto al cellulare con la fidanzata.
“Il suo numero di Carta di Credito, please”.
“Eh? Sto solo cercando di telefonare…”
“Lo so. Per metterla in contatto col numero richiesto mi serve il suo numero di Carta di Credito, please”.
“Ma ho appena pagato una prep…”
“Ci-dispiace-questo-servizio-non-è-disponibile, ho bisogno del suo numero di Carta di Credito! Ha capito! La tua Carta di Credito! Voglio sapere che numero ha!!! Parla la mia lingua? Mi capisce?”
“No”.
Mette giù lui.

Sono in un Ed-Norton-allo-specchio-nella-25ma-Ora state of mind. Un giorno, con molta calma, amerò New York, ma non oggi.
Stasera sogno di un grattacielo che piano piano s’inclina, un difetto strutturale, si appoggia a un altro grattacielo e scatabreaaaaaang! Tutti giù a domino. E piangi, piangi, bambino del romanzo di J. S. Foer. Che la mamma ti compera un tamburino.
Quel tipo di fantasie che faceva il giovane Osama quando capì che le bionde ci stavano – e di malagrazia – solo per via dei petrodollari.

martedì 1 agosto 2006

- it's wonderful

La questione della lingua

E con la lingua, in America, come va con la lingua, eh? Eh?

Va molto bene.

Il mio inglese è wonderful. Me l’ha detto una insegnante di conversazione. Proprio così wonderful. Me lo confermano un po’ meno tutti. Chi dice very good, chi dice really good. Io ringrazio.
Poi si mettono a parlare e non ci capisco nulla.

Quando sei in Inghilterra, ti danno dell’Americano.
Sbarchi in America, e loro han quasi l’aria di scusarsi: bello il tuo inglese, ma noi parliamo così. Al massimo ti fanno il grande favore di parlarti espanol.
E’ inutile chiedergli di parlare più lentamente, perché non lo sanno fare. Come a chiedere a un cinese di non cantare mentre parla: ma se smette di cantare le parole perdono il significato.


Nella mia Scuola Media di paese ci si poteva permettere una sola prof di inglese, e quindi per andare in una classe di inglese serviva il sorteggio (i ricchi non si erano ancora accorti di quanto l’inglese fosse importante – o forse non c’erano ricchi, ancora).

Io fui sorteggiato, e ricordo, ero felice come una Pasqua. Avrei imparato l’inglese! Di lì a un anno, due anni, tre? avrei compreso i testi delle canzoni! Quando Sting cantava (in falsetto), io avrei capito quel che cantava. Era mai possibile?

Imparare un’altra lingua mi sembrava qualcosa di magico. Come un sesto senso, impossibile da spiegare a chi non lo ha. Come fai a spiegare a un cieco alla nascita cos’è la vista? Avrei capito cosa dicono gli americani. Sembrava impossibile, e invece era vero!

Invece era impossibile.
16 anni sono passati da allora: una licenza media, una maturità (linguistica) ottima, qualche viaggio, e adesso è tempo di rassegnarsi. Non li capirò mai.
Ho anche fatto il traduttore! Traducevo libri! Mi ero messo nel mercato come traduttore dal francese, salvo che quel mercato non esiste praticamente piu', i francesi hanno smesso di scrivere libri interessanti. E allora mi sono buttato sull'inglese, una scuola di umilta' incredibile. C'e' sempre una parola importantissima che tu non avevi mai sentito, c'e' sempre un modo di dire che ti spiazza.
Ma in fondo quando traduci non e' cosi' importante sapere l'inglese, l'importante e' saper scrivere in italiano. So che ci sono intere biblioteche accademiche sull'Ubersetzungtheorie che mi smentirebbero, ma si fottano.

Il problema, con gli americani, e' solo uno: cosa-c-stanno-dicendo-a-me-in-questo-preciso-momento?

L’unica cosa che mi riesce per ora è sommergerli io per primo di parole, prima che loro possano accorgersi che io non li capisco quando m’interrompono. Questo mi viene abbastanza bene. La mia coinquilina ha preso quest’abitudine, a tarda sera, di versarmi da bere e osservarmi parlare. Ogni tanto dice qualcosa e io dico yeah, yeah, e continuo. Si diverte.
Se non squilla il cellulare possiamo andare avanti fino alle due.
Di solito squilla.