(Segnalatemi le vostre stroncature di Storia d'Italia a rovescio, non siate timidi. Al limite vanno bene anche i complimenti).
Leonardo ha pubblicato "Storia d'Italia a rovescio", e l'ho comprato. Non mi sono comportato molto diversamente da quelli che avevano in testa altri editori, mesi fa. Però ho l'attenuante: Leonardo è tecnicamente un blog, ma il suo autore lo usa in maniera tutta sua, molto poco blogger. Innanzitutto è molto poco modaiolo, poi è logorroico, poi non ha granché di personale. Per certi versi, lui ha tenuto un blog per anni per allenarsi a scrivere un libro: l'ha scritto giorno dopo giorno e poi se l'è trovato fra le mani.
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mercoledì 29 novembre 2006
- compra Leonardo compra Leonardo compra
Non è che per caso non vi siete ancora ricordati di...
martedì 28 novembre 2006
- il fumo non previene l'alzheimer
Smoking ('s) for dummies
Ma voi lo sapevate che chi fuma ha meno probabilità di ammalarsi di alzheimer? No? Non lo sapevate? Meglio così. Perché non è vero. Il fumo non previene l’alzheimer.
Però c’è gente che ne è convinta. E non sono mica pochi, eh. Parecchi tra loro - non sorprendentemente - fumano.
Io l’ho scoperto la settimana scorsa, curiosando tra i commenti di Macchianera. Macchianera è il secondo blog in Italia per popolarità, secondo alcune classifica (il primo è Beppegrillo.it, ovviamente). Naturalmente questo non significa che un commento di Macchianera sia in qualche modo autorevole, anzi. Però è ben indicizzato.
Si parlava di anoressia (cosa c’entra? Nulla) e a un certo punto qualcuno ha tirato fuori questa storia. Io non l’avevo mai sentita, e l’ho trovata abbastanza inverosimile. All’inizio temevo che si trattasse di un’estrapolazione viziata di dati statistici: è chiaro che molti tabagisti non fanno in tempo ad ammalarsi di Alzheimer perché muoiono prima di altri malanni. Ci stavo anche scherzando sopra. È come sostenere che la Jihad islamica previene l’AIDS perché nessun kamikaze islamico è mai morto di AIDS.
Ma mi hanno obiettato che invece si trattava di un fatto noto, acquisito, comprovato da una serie di ricerche mediche. Hanno iniziato a citarmi testate di riviste anglosassoni di medicina. Naturalmente io non potevo leggermele. E continuavo a non fidarmi.
Allora ho fatto una cosa banale banale: una ricerca su Google. Che non è la Bibbia, come tutti sanno. È solo google. Digito: Alzheimer smoking. I primi tre risultati spiegano che il fumo non previene l’alzheimer. Il secondo riporta un’agenzia Reuters che parla di una ricerca condotta da un’università della California. Il terzo è un pezzo della BBC (che non è la Bibbia; però è la BBC) che riporta i risultati di una ricerca condotta dall’Università di Rotterdam nel 1998. Mi sembrava materiale recente e affidabile, per cui non ho perso tempo e ho scritto un pezzo sulla home di Macchianera. Ho scritto che non era vero che il fumo previene l’alzheimer, che si trattava di una stronzata. Apriti cielo.
Si sono offesi in parecchi. Per prima la persona che aveva pronunciato la “stronzata”. Io in realtà non intendevo tirarla in ballo. Mi premeva soltanto affermare con chiarezza, su Macchianera, che l’idea che il fumo prevenga l’alzheimer è una stronzata. La luna era assai più importante del dito. Sono stato senza dubbio brusco e probabilmente arrogante. Perché l’ho fatto?
Perché il fumo è una cosa seria, e il morbo di Alzheimer è una malattia orribile. Ma anche perché Macchianera è un blog molto popolare e molto indicizzato, e i commenti di un blog molto popolare sono il sottobosco ideale per le leggende urbane.
Vi ricordate la faccenda dell’olio di colza, l’anno scorso? Nacque proprio in un ambiente del genere. Un tale divulgò nei commenti di Beppe Grillo una sconcertante rivelazione: l’olio di colza poteva sostituire il gasolio nei motori diesel. Ne parla più nessuno? No, perché anche quella era una sostanziale stronzata. Il motore parte, ma i danni collaterali per il motore sono troppi. Però la notizia era sul sito di Beppe Grillo (molti credettero che fosse proprio di Beppe Grillo): tanta gente la credette degna di fede e si avvelenò il motore convintissima di risparmiare denaro e idrocarburi.
Ora immaginatevi qualcuno, magari un fumatore, che sente dire in un bar (o in una chat, od ovunque) che il “fumo previene l’alzheimer”. Magari vuol saperne di più. Fa una ricerca su google e trova… Macchianera. È un sito molto popolare. È esagerato, da parte mia, immaginare che qualcuno possa leggere un commento apparentemente innocuo e fidarsi? No, credo di no. I vizi sono insidiosi, lo sappiamo tutti. Siamo tutti perennemente in cerca di scuse per cedere. Un fumatore che scopre, su un sito ben frequentato, che il suo vizio può aiutarlo a non ammalarsi di alzheimer, avrà un motivo in più per non smettere. Salvo che in questo modo, secondo le conclusioni dei ricercatori di Rotterdam, potrebbe avere il doppio di possibilità di ammalarsi del morbo di Alzheimer.
La discussione è proseguita con toni molto accesi. Troppo. Alcuni, tra cui Filippo Facci (che agli eccessi della cosiddetta “crociata anti-fumo” ha dedicato un libro) hanno replicato citando fior di ricerche che secondo loro proverebbero il contrario. In realtà, per quanto ho potuto vedere, esse al massimo provano che l’assunzione di nicotina potrebbe prevenire l’alzheimer. Ma parlare di effetti positivi della nicotina non equivale a parlare di effetti positivi del fumo.
Sono stato accusato di non avere competenza medica (da persone che ne sono altrettanto prive). Infatti non ce l’ho, la competenza. Non l’ho nemmeno millantata. Ho attinto a fonti di divulgazione, con lo strumento più elementare del mondo: google. Con la convinzione che se davvero fumare prevenisse l’alzheimer, i divulgatori scientifici di mezzo mondo non si farebbero sfuggire la notizia. Pensare al contrario mi sembra un po’ troppo complottistico. Devo dire che comunque le poche persone che si sono qualificate come competenti hanno detto sostanzialmente la stessa cosa che ho detto io (sotto pseudonimo, però).
C'è chi ha insistito sul fatto che 'su Internet c'è tutto e il contrario di tutto', e persino le ricerche scientifiche direbbero 'tutto e il contrario di tutto'. E se anche fosse? Questo, come minimo, significherebbe che sull'idea del fumo anti-alzheimer non c'è consenso scientifico. E se il consenso non c'è, mi pare giusto ricorrere al principio di precauzione: nel dubbio non fumare.
C’è tuttora chi persiste a equivocare (non necessariamente in buona fede) tra nicotina e fumo. Io non trovo giusto mantenere un atteggiamento così ambiguo su Internet, e in particolare su un sito così ben indicizzato come Macchianera (in questo momento l’XML dei commenti di Macchianera è il terzo risultato su Google Italia per Alzheimer fumo). A un certo punto, di fronte a certi distinguo particolarmente sottili, ho scritto che “Internet è per scemi”. Non è una battuta.
Avete presente la collana “for dummies” (=”per scemi”)? In Italia ho visto soltanto i manuali di informatica. Negli USA invece impazzano manuali for dummies di ogni tipo. Vanno molto forte quelli di medicina e farmacologia, per ovvi motivi. La gente non vuole pagare i dottori e si cura da solo con un manuale “per scemi”.
Ora, Internet, con tutta la più buona volontà, è esattamente la stessa cosa: un enorme manuale “per scemi”. Per quanto voi possiate essere persone di giudizio, se volete veramente approfondire un problema in tutte le sfaccettature, studiate altrove. Se invece venite qui, state cercando risposte facili e sicure. E avete il diritto di averle. Per cui la domanda deve essere posta in modo chiaro e semplice: il fumo previene l’alzheimer, sì o no?
Io dico di no. In attesa (va da sé) che qualcuno mi dimostri il contrario.
Ma voi lo sapevate che chi fuma ha meno probabilità di ammalarsi di alzheimer? No? Non lo sapevate? Meglio così. Perché non è vero. Il fumo non previene l’alzheimer.
Però c’è gente che ne è convinta. E non sono mica pochi, eh. Parecchi tra loro - non sorprendentemente - fumano.
Io l’ho scoperto la settimana scorsa, curiosando tra i commenti di Macchianera. Macchianera è il secondo blog in Italia per popolarità, secondo alcune classifica (il primo è Beppegrillo.it, ovviamente). Naturalmente questo non significa che un commento di Macchianera sia in qualche modo autorevole, anzi. Però è ben indicizzato.
Si parlava di anoressia (cosa c’entra? Nulla) e a un certo punto qualcuno ha tirato fuori questa storia. Io non l’avevo mai sentita, e l’ho trovata abbastanza inverosimile. All’inizio temevo che si trattasse di un’estrapolazione viziata di dati statistici: è chiaro che molti tabagisti non fanno in tempo ad ammalarsi di Alzheimer perché muoiono prima di altri malanni. Ci stavo anche scherzando sopra. È come sostenere che la Jihad islamica previene l’AIDS perché nessun kamikaze islamico è mai morto di AIDS.
Ma mi hanno obiettato che invece si trattava di un fatto noto, acquisito, comprovato da una serie di ricerche mediche. Hanno iniziato a citarmi testate di riviste anglosassoni di medicina. Naturalmente io non potevo leggermele. E continuavo a non fidarmi.
Allora ho fatto una cosa banale banale: una ricerca su Google. Che non è la Bibbia, come tutti sanno. È solo google. Digito: Alzheimer smoking. I primi tre risultati spiegano che il fumo non previene l’alzheimer. Il secondo riporta un’agenzia Reuters che parla di una ricerca condotta da un’università della California. Il terzo è un pezzo della BBC (che non è la Bibbia; però è la BBC) che riporta i risultati di una ricerca condotta dall’Università di Rotterdam nel 1998. Mi sembrava materiale recente e affidabile, per cui non ho perso tempo e ho scritto un pezzo sulla home di Macchianera. Ho scritto che non era vero che il fumo previene l’alzheimer, che si trattava di una stronzata. Apriti cielo.
Si sono offesi in parecchi. Per prima la persona che aveva pronunciato la “stronzata”. Io in realtà non intendevo tirarla in ballo. Mi premeva soltanto affermare con chiarezza, su Macchianera, che l’idea che il fumo prevenga l’alzheimer è una stronzata. La luna era assai più importante del dito. Sono stato senza dubbio brusco e probabilmente arrogante. Perché l’ho fatto?
Perché il fumo è una cosa seria, e il morbo di Alzheimer è una malattia orribile. Ma anche perché Macchianera è un blog molto popolare e molto indicizzato, e i commenti di un blog molto popolare sono il sottobosco ideale per le leggende urbane.
Vi ricordate la faccenda dell’olio di colza, l’anno scorso? Nacque proprio in un ambiente del genere. Un tale divulgò nei commenti di Beppe Grillo una sconcertante rivelazione: l’olio di colza poteva sostituire il gasolio nei motori diesel. Ne parla più nessuno? No, perché anche quella era una sostanziale stronzata. Il motore parte, ma i danni collaterali per il motore sono troppi. Però la notizia era sul sito di Beppe Grillo (molti credettero che fosse proprio di Beppe Grillo): tanta gente la credette degna di fede e si avvelenò il motore convintissima di risparmiare denaro e idrocarburi.
Ora immaginatevi qualcuno, magari un fumatore, che sente dire in un bar (o in una chat, od ovunque) che il “fumo previene l’alzheimer”. Magari vuol saperne di più. Fa una ricerca su google e trova… Macchianera. È un sito molto popolare. È esagerato, da parte mia, immaginare che qualcuno possa leggere un commento apparentemente innocuo e fidarsi? No, credo di no. I vizi sono insidiosi, lo sappiamo tutti. Siamo tutti perennemente in cerca di scuse per cedere. Un fumatore che scopre, su un sito ben frequentato, che il suo vizio può aiutarlo a non ammalarsi di alzheimer, avrà un motivo in più per non smettere. Salvo che in questo modo, secondo le conclusioni dei ricercatori di Rotterdam, potrebbe avere il doppio di possibilità di ammalarsi del morbo di Alzheimer.
La discussione è proseguita con toni molto accesi. Troppo. Alcuni, tra cui Filippo Facci (che agli eccessi della cosiddetta “crociata anti-fumo” ha dedicato un libro) hanno replicato citando fior di ricerche che secondo loro proverebbero il contrario. In realtà, per quanto ho potuto vedere, esse al massimo provano che l’assunzione di nicotina potrebbe prevenire l’alzheimer. Ma parlare di effetti positivi della nicotina non equivale a parlare di effetti positivi del fumo.
Sono stato accusato di non avere competenza medica (da persone che ne sono altrettanto prive). Infatti non ce l’ho, la competenza. Non l’ho nemmeno millantata. Ho attinto a fonti di divulgazione, con lo strumento più elementare del mondo: google. Con la convinzione che se davvero fumare prevenisse l’alzheimer, i divulgatori scientifici di mezzo mondo non si farebbero sfuggire la notizia. Pensare al contrario mi sembra un po’ troppo complottistico. Devo dire che comunque le poche persone che si sono qualificate come competenti hanno detto sostanzialmente la stessa cosa che ho detto io (sotto pseudonimo, però).
C'è chi ha insistito sul fatto che 'su Internet c'è tutto e il contrario di tutto', e persino le ricerche scientifiche direbbero 'tutto e il contrario di tutto'. E se anche fosse? Questo, come minimo, significherebbe che sull'idea del fumo anti-alzheimer non c'è consenso scientifico. E se il consenso non c'è, mi pare giusto ricorrere al principio di precauzione: nel dubbio non fumare.
C’è tuttora chi persiste a equivocare (non necessariamente in buona fede) tra nicotina e fumo. Io non trovo giusto mantenere un atteggiamento così ambiguo su Internet, e in particolare su un sito così ben indicizzato come Macchianera (in questo momento l’XML dei commenti di Macchianera è il terzo risultato su Google Italia per Alzheimer fumo). A un certo punto, di fronte a certi distinguo particolarmente sottili, ho scritto che “Internet è per scemi”. Non è una battuta.
Avete presente la collana “for dummies” (=”per scemi”)? In Italia ho visto soltanto i manuali di informatica. Negli USA invece impazzano manuali for dummies di ogni tipo. Vanno molto forte quelli di medicina e farmacologia, per ovvi motivi. La gente non vuole pagare i dottori e si cura da solo con un manuale “per scemi”.
Ora, Internet, con tutta la più buona volontà, è esattamente la stessa cosa: un enorme manuale “per scemi”. Per quanto voi possiate essere persone di giudizio, se volete veramente approfondire un problema in tutte le sfaccettature, studiate altrove. Se invece venite qui, state cercando risposte facili e sicure. E avete il diritto di averle. Per cui la domanda deve essere posta in modo chiaro e semplice: il fumo previene l’alzheimer, sì o no?
Io dico di no. In attesa (va da sé) che qualcuno mi dimostri il contrario.
giovedì 23 novembre 2006
- venere di caucciù
Just Tell That Kate Moss Ain’t Pretty
Ma al di là di ogni discorso serio in merito, a voi Kate Moss piace? sul serio? Ok, ve la mostrano in tutte le salse, la riconoscete, vi spiegano che è bella, più o meno la stessa trafila della Gioconda. Ma vi eccita? Vi ispira?
A me no. Kate Moss non mi piace. È secca, è cruda, è morta.
Se Kate Moss ci provasse con me, non ci starei.
Se Kate Moss insistesse con gentilezza, forse cederei; mai stato bravo a dir di no – ma chi l’ha detto che poi ce la farei? Forzato a commettere atti sessuali con Kate Moss, probabilmente mi sorprenderei a chiudere gli occhi e fantasticare sulla vicina di casa chiattona.
Se io e Kate Moss rimanessimo unici superstiti sul pianeta Terra, mi estinguerei. Meglio estinguersi da uomo.
Se smonti la vecchia Barbie di tua sorella, le riempi il bustino di ghiaccio tritato e le sbianchi il bel pigmento rosa, quello che ottieni è più o meno la proiezione plastica di quel che provo per Kate Moss.
E non me ne vergogno. Ci stamperei dei manifesti, se servisse a qualcosa. Maschi di tutto il mondo, ditelo forte e chiaro: Kate Moss è un mucchietto di ossa puzzolenti di Chanel che non ispira sesso a nessuno!
...Ma non serve a niente. Assolutamente. Alle bambine piace Kate Moss, Kate Moss è fatta per piacere alle bambine, e il parere del maschietto non c’entra. Non è il maschietto che costringe la bambina a mutilarsi a morte. La pulsione suicida che porta un’adolescente all’anoressia (sbandate bulimiche annesse) ha assai poco a che fare con l’altro sesso.
(Forse ha più a che fare coi bambolotti. Se passa di qui un esperto di età evolutiva, mi spieghi questa cosa: perché tra l’infanzia e l’adolescenza il bambino e la bambina devono trastullarsi con giocattoli e proiezioni omoerotiche? Perché il bambino deve passare dal bambolo di He-Man alle telecronache di wrestling? Perché la bambina deve diventare una stilista di Barbie e bambolotte consorelle? Era così anche in passato, o è una novità dell’era del caucciù? Non avrà per caso qualcosa a che fare col crollo demografico?)
Il percorso anoressico-bulimico è lastricato di caucciù, riviste patinate, corsi di danza. L’altro sesso è raramente interpellato: a volte è una proiezione remota, il più delle volte semplicemente assente. Del resto è noto: quando alcune di queste amebe ermafrodite, terminato il cursus honorum specifico (concorsi di bellezza, sfilate, ecc) tentano la strada della televisione (dove è ancora il maschio che comanda), devono necessariamente carrozzarsi con quegli attributi sessuali secondari che fino a quel momento erano inutili.
La donna “secondo il maschio” l’abbiamo sotto gli occhi da secoli: da Picasso a Giorgione su su fino alla Venere di Savignano. Se volete è un mostro deforme anche lei, una sovrastruttura maschilista, ecc ecc… ma non somiglia a Kate Moss. Kate Moss è un incubo tutto femminile, questo è il guaio. La prima generazione di donne ad affrancarsi dalle proiezioni maschili ha partorito Kate Moss. Teniamone conto, prima di chiedere ad altre bambine di altri mondi di togliersi il velo.
Non vorrei dover dire che c’è più libertà sotto un velo che in una strada tappezzata di Kate Moss. Sotto un velo fa caldo, questa è l’unica cosa che so dei veli. Ma immagino che possa fare comodo un riparo, quando Kate ti fissa dal cartellone.
***
Ciò che rende tanto angosciosa questa fine 2006, secondo me, è che ormai abbiamo sviluppato un’abilità spaventosa a discutere dei nostri problemi. Ma non abbiamo ancora sviluppato nessuna capacità di risolverli.
Passiamo da uno scandalo all'altro, e sono tutti gravi: la cocaina, il malaffare nel calcio, la camorra, il bullismo, l’anoressia. A volte arrestiamo anche i protagonisti. Qualche vittima sacrificale ogni tanto: Luciano Moggi, gli studenti di Torino. E qualcun altro che se la cava con un quarto d’ora di ignominia: la Gregoraci, Kate Moss. Però i problema li vediamo. Non siamo come gli struzzi, noi. Ci andiamo a sbattere in piena consapevolezza.
Parliamo anche di anoressia in tv! con Bruno Vespa e tre stilisti che garantiscono che la moda non c’entra per niente (“è un problema psicologico”). Gente che spesso in Italia si rifiuta di commerciare la taglia Quarantasei. Persone con nomi e cognomi su capi che non produciamo più, ma che vendono a peso d’oro. Alle nostre bambine. Li vediamo, li conosciamo, sappiamo l’entità del danno che ci arrecano, ma non riusciamo a fermarli. Del resto sono la nostra gloria, il Made in Italy.
Siamo cresciuti male, sarà questo. Da una parte la tv ci ha insegnato a cercare tutto il piacere nel nostro corpo: gonfiarlo, asciugarlo, trasformarlo nel nostro bambolotto di caucciù preferito. Dall’altra parte il Papa ci sconsigliava l’uso dell’unico pezzo di caucciù che ci avrebbe permesso di scoprire un po’ di piacere (protetto) in qualcun altro. Per fortuna le cose cambiano. O no? La tv si parla addosso, ma non cambia mai. Ormai fa quasi prima a cambiare idea il Papa. E ho detto tutto.
Ma al di là di ogni discorso serio in merito, a voi Kate Moss piace? sul serio? Ok, ve la mostrano in tutte le salse, la riconoscete, vi spiegano che è bella, più o meno la stessa trafila della Gioconda. Ma vi eccita? Vi ispira?
A me no. Kate Moss non mi piace. È secca, è cruda, è morta.
Se Kate Moss ci provasse con me, non ci starei.
Se Kate Moss insistesse con gentilezza, forse cederei; mai stato bravo a dir di no – ma chi l’ha detto che poi ce la farei? Forzato a commettere atti sessuali con Kate Moss, probabilmente mi sorprenderei a chiudere gli occhi e fantasticare sulla vicina di casa chiattona.
Se io e Kate Moss rimanessimo unici superstiti sul pianeta Terra, mi estinguerei. Meglio estinguersi da uomo.
Se smonti la vecchia Barbie di tua sorella, le riempi il bustino di ghiaccio tritato e le sbianchi il bel pigmento rosa, quello che ottieni è più o meno la proiezione plastica di quel che provo per Kate Moss.
E non me ne vergogno. Ci stamperei dei manifesti, se servisse a qualcosa. Maschi di tutto il mondo, ditelo forte e chiaro: Kate Moss è un mucchietto di ossa puzzolenti di Chanel che non ispira sesso a nessuno!
...Ma non serve a niente. Assolutamente. Alle bambine piace Kate Moss, Kate Moss è fatta per piacere alle bambine, e il parere del maschietto non c’entra. Non è il maschietto che costringe la bambina a mutilarsi a morte. La pulsione suicida che porta un’adolescente all’anoressia (sbandate bulimiche annesse) ha assai poco a che fare con l’altro sesso.
(Forse ha più a che fare coi bambolotti. Se passa di qui un esperto di età evolutiva, mi spieghi questa cosa: perché tra l’infanzia e l’adolescenza il bambino e la bambina devono trastullarsi con giocattoli e proiezioni omoerotiche? Perché il bambino deve passare dal bambolo di He-Man alle telecronache di wrestling? Perché la bambina deve diventare una stilista di Barbie e bambolotte consorelle? Era così anche in passato, o è una novità dell’era del caucciù? Non avrà per caso qualcosa a che fare col crollo demografico?)
Il percorso anoressico-bulimico è lastricato di caucciù, riviste patinate, corsi di danza. L’altro sesso è raramente interpellato: a volte è una proiezione remota, il più delle volte semplicemente assente. Del resto è noto: quando alcune di queste amebe ermafrodite, terminato il cursus honorum specifico (concorsi di bellezza, sfilate, ecc) tentano la strada della televisione (dove è ancora il maschio che comanda), devono necessariamente carrozzarsi con quegli attributi sessuali secondari che fino a quel momento erano inutili.
La donna “secondo il maschio” l’abbiamo sotto gli occhi da secoli: da Picasso a Giorgione su su fino alla Venere di Savignano. Se volete è un mostro deforme anche lei, una sovrastruttura maschilista, ecc ecc… ma non somiglia a Kate Moss. Kate Moss è un incubo tutto femminile, questo è il guaio. La prima generazione di donne ad affrancarsi dalle proiezioni maschili ha partorito Kate Moss. Teniamone conto, prima di chiedere ad altre bambine di altri mondi di togliersi il velo.
Non vorrei dover dire che c’è più libertà sotto un velo che in una strada tappezzata di Kate Moss. Sotto un velo fa caldo, questa è l’unica cosa che so dei veli. Ma immagino che possa fare comodo un riparo, quando Kate ti fissa dal cartellone.
***
Ciò che rende tanto angosciosa questa fine 2006, secondo me, è che ormai abbiamo sviluppato un’abilità spaventosa a discutere dei nostri problemi. Ma non abbiamo ancora sviluppato nessuna capacità di risolverli.
Passiamo da uno scandalo all'altro, e sono tutti gravi: la cocaina, il malaffare nel calcio, la camorra, il bullismo, l’anoressia. A volte arrestiamo anche i protagonisti. Qualche vittima sacrificale ogni tanto: Luciano Moggi, gli studenti di Torino. E qualcun altro che se la cava con un quarto d’ora di ignominia: la Gregoraci, Kate Moss. Però i problema li vediamo. Non siamo come gli struzzi, noi. Ci andiamo a sbattere in piena consapevolezza.
Parliamo anche di anoressia in tv! con Bruno Vespa e tre stilisti che garantiscono che la moda non c’entra per niente (“è un problema psicologico”). Gente che spesso in Italia si rifiuta di commerciare la taglia Quarantasei. Persone con nomi e cognomi su capi che non produciamo più, ma che vendono a peso d’oro. Alle nostre bambine. Li vediamo, li conosciamo, sappiamo l’entità del danno che ci arrecano, ma non riusciamo a fermarli. Del resto sono la nostra gloria, il Made in Italy.
Siamo cresciuti male, sarà questo. Da una parte la tv ci ha insegnato a cercare tutto il piacere nel nostro corpo: gonfiarlo, asciugarlo, trasformarlo nel nostro bambolotto di caucciù preferito. Dall’altra parte il Papa ci sconsigliava l’uso dell’unico pezzo di caucciù che ci avrebbe permesso di scoprire un po’ di piacere (protetto) in qualcun altro. Per fortuna le cose cambiano. O no? La tv si parla addosso, ma non cambia mai. Ormai fa quasi prima a cambiare idea il Papa. E ho detto tutto.
martedì 21 novembre 2006
- non smontare la Barbie di tua sorella
Alla corte della Donna Ragno
- Attenzione: Andropausa
Più o meno fino ai 12 anni, un maschietto non trova nella femmina nulla di realmente interessante. È una creatura insensata che gioca morbosamente con le bambole e si fissa la punta delle scarpine. Non ci si capisce nulla. Forse non c’è nulla da capire.
Quel che accade dopo i 12 anni è materia per gli endocrinologi. L’ormone insorge, avvampa, intorbida la consapevolezza. Non si tratta tanto di cercar di capire quanto di cercar di toccare. Ci si illude nel frattempo d’esser bestie razionali, di progredire anche nella conoscenza, e forse è così, ma forse anche no. Nel bene o male si comunica, ci si scrivono le mail, si fanno passeggiate assieme, si ha la sensazione di capirsi. Fino a un certo punto è anche bello, eh. E poi finisce.
Quando? Mah diciamo che a un certo punto dei trenta, finisce. L’ormone ha scollinato; la donna, pur continuando ad essere appetibile, smette d’un tratto d’esser comprensibile (lo è mai stata?). Un giorno come un altro ti trovi davanti a una vetrina, o al cinema, e ti trovi davanti… una creatura insensata che gioca morbosamente con gli accessori e si fissa la punta delle scarpine. Et voilà, il cerchio della non-conoscenza è chiuso.
- Gli uomini e le donne sono uguali (ma sono diversi)
Non si tratta di superiorità, signore e signorine. Si tratta di alterità, pane per i denti delle professioniste dei gender studies. Del resto non sarà vero anche per voi? Per un certo periodo di tempo ci siamo trovati comprensibili, ma adesso è finita. Si può andare ancora d’accordo? Magari sì, ma sarà una contrattazione quotidiana: se tu mi accompagni a vedere Spider Man, io verrò a vedere Marie Antoinette. Tu fingerai di credere agli assunti intellettuali del mio ex bambolotto di plastica preferito (dai grandi poteri derivano grandi responsabilità) e io fingerò di credere agli assunti intellettuali della tua Barbie alla Corte del Re Sole; e non farò molta fatica, visto che più o meno è la stessa musica: dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sembra proprio che i nostri coetanei americani non sappiano dirci altro. Ehi, sveglia ragazzi, non siete sempre per forza così potenti: ogni tanto perdete anche le guerre. Sì, anche voi.
- Come dei simbolici Big Jim
Però su qualcosa avete ragione: in occidente abbiamo un problema coi nostri bambolotti. Piuttosto di separarci da loro, li intellettualizziamo. Per cui ok, Marie Antoinette è la versione intellettuale di Barbie e le 12 principesse danzanti: contiene tutta una serie di metafore politiche ed esistenziali che ci farà discutere per una settimana. Anzi, mi sbilancio. Questo film ci sopravviverà, e di parecchio.
Un giorno Marie Antoinette sarà materia di studio per un popolo di un colore e di una lingua diverso dal nostro. Un signore punterà il righello sull’acconciatura di Kirsten Dunst e dirà: vedete, all’inizio del Ventunesimo secolo gli Occidentali si sentivano così. Una casta chiusa, incipriata e segregata dalla massa degli oppressi. Vecchi ruderi, puttanieri o beghine; oppure giovani signori patiti di caccia e di biliardo, ma tutti assolutamente consapevoli della propria inutilità. Da qualche parte nella campagna d’occidente, masse di selvaggi incatenati coltivavano i pomodori e realizzavano i prodotti di haute couture che Marie e le sue amichette erano condannate a consumare in grande quantità. Per far girare l’economia. L’Altro, il Lavoratore, l’Operaio, è sempre più invisibile. Sofia Coppola non riesce nemmeno a inquadrarlo in piena luce. Solo il chiasso, un chiasso spaventoso, che sale lentamente, più forte di qualsiasi playlist, un muro d’odio che ci attende da qualche parte lungo questa strada. Lo sappiamo.
- Quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni
Il limite dell’intellettualizzazione del bambolotto è appunto questa: puoi coprirlo di sfighe e autocoscienze finché vuoi, ma il messaggio di Spider Man resta sempre “wow, che figo arrampicarsi su per i grattacieli”. Allo stesso modo, puoi scalfire Marie con mille chiavi di lettura intellettualissime e concettualissime, ma l’unica che fa scattar la serratura è: “wow, che figo essere principessa! Quante scarpe, quanti dolci, quanti cortigiani chiacchieroni!” C’è anche Ken versione stallone svedese.
Eppure, sotto sotto, Marie sarebbe una ragazza alla buona (anche Peter Parker vorrebbe soltanto essere un nerd del dipartimento di chimica, come no). In un attimo di stanchezza rilancia la moda dell’Arcadia (il Twee del Settecento). Le dame di corte si travestono da pastorelle, mungono le vacche e leggono Rousseau. Ma è solo un attimo. Può Peter Parker ignorare il suo destino di salvatore del mondo? Può Marie realmente resistere a quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni? Ok, la mezz’ora di approfondimento è finita. Si riparte col bambolotto.
- She’s got the worst taste in music
E fosse solo un bambolotto, il problema dei trentenni. Il guaio è che col tempo i giocattoli si accumulano. Il più pernicioso è l’Ipod: ci ha trasformati tutti in dj solipsisti da strapazzo, non necessariamente bravi. Sofia Coppola, per esempio, sotto i colonnati di Versailles è libera di ascoltare gli Strokes, ma è una cosa sua e unicamente sua: perché vuole impormela? O devo, anche qui, pescare una metafora? Posso anche provarci, ma non rischio di intellettualizzare eccessivamente una selezione random? “Gli anacronismi sono voluti”, ci mancherebbe altro. Ma oltre a fare i pugni con ogni buon gusto, funzionano? Vent’anni fa a Milos Forman bastava giocare un po’ coi parrucchini di Amadeus per farlo sembrare una rockstar neoromantica; invece Marie Antoinette cosa sarebbe? Una punk, perché balla Siouxsie? A questo punto facciamo come al tempo delle mele: ognuno venga al cinema con le cuffiette sue. Libero di trovare ogni sorta di accostamento. Saranno tutti originali e ci assomiglieranno.
- “La morte di una persona è una tragedia”
Il bambino chiede “come va a finire?”, la bambina: “che numero portava la principessa?”
Se vent’anni dopo la bambina porta il bambino al cinema a vedere un film storico, quest’ultimo non riconosce la Storia. Ogni spunto narrativo sembra trasformato in tappezzeria. Tutto è superficie, atmosfera. La Du Barry (magistralmente interpretata da Asia Argento, l’orgoglio del cinema italiano all’estero) ridotta a mignottona figurante: ma come? era la principale protagonista del mobbing di corte, l’altoparlante che mise in giro tante frottole che la rivoluzione avrebbe amplificato.
E ancora il bimbo si domanda: perché chiudere il film proprio là dove la storia di Marie comincia a farsi interessante? Quella notte a Versailles, per esempio, il linciaggio fu sfiorato davvero di poco. E poi? La gente esce dal cinema con la sensazione che Marie sia già sul primo gradino del patibolo. Per niente: stava andando a regnare da sovrana costituzionale alle Tuilleries, nel bel mezzo di Parigi, dove senza dubbio si sarebbe annoiata di meno. Gli ultimi mesi di vita della regina sono un incubo, però Marie li vive da donna adulta. Non è una Claretta Petacci che segue l’uomo della sua vita fino in fondo; è una degna rappresentante dell’ancien régime che tradirà il suo giuramento ai francesi, venderà il suo popolo allo straniero (suo fratello) e tenterà la fuga travestita. Certo, se oggi ci commuove Saddam Hussein, figurarsi una madre di famiglia. A dimostrazione del vecchio proverbio: uccidere una persona è una tragedia (specie se la persona in questione è una principessa, un despota, insomma un Vip); affamare un popolo è solo statistica.
- Dopo di me, il diluvioMettiamola così: io non ho visto Marie Antoinette. Non ne ero capace. Probabilmente è un bel film. Il futuro è delle donne, che leggono di più, hanno più gusto per gli accostamenti e meno inclinazione per i giocattoli pericolosi, armi e motori. Tra due secoli qualche ricercatrice scoverà la cache del mio blog e non ci troverà niente di interessante. Le schiferà il template.
Nel frattempo io continuo ad aver bisogno di donne: amiche, fidanzate, mamme, non potrei vivere senza queste presenze che non capisco. Passo la mia vita in una tappezzeria incomprensibile, ignorando tutto quello che sarebbe importante sapere, chi lo sa? Forse Marie Antoinette sono io. Perciò m'inchino a tutte voi, abbiate pietà. Non sono cattivo. Sono solo cresciuto in un mondo un po' così.
- Attenzione: Andropausa
Più o meno fino ai 12 anni, un maschietto non trova nella femmina nulla di realmente interessante. È una creatura insensata che gioca morbosamente con le bambole e si fissa la punta delle scarpine. Non ci si capisce nulla. Forse non c’è nulla da capire.
Quel che accade dopo i 12 anni è materia per gli endocrinologi. L’ormone insorge, avvampa, intorbida la consapevolezza. Non si tratta tanto di cercar di capire quanto di cercar di toccare. Ci si illude nel frattempo d’esser bestie razionali, di progredire anche nella conoscenza, e forse è così, ma forse anche no. Nel bene o male si comunica, ci si scrivono le mail, si fanno passeggiate assieme, si ha la sensazione di capirsi. Fino a un certo punto è anche bello, eh. E poi finisce.
Quando? Mah diciamo che a un certo punto dei trenta, finisce. L’ormone ha scollinato; la donna, pur continuando ad essere appetibile, smette d’un tratto d’esser comprensibile (lo è mai stata?). Un giorno come un altro ti trovi davanti a una vetrina, o al cinema, e ti trovi davanti… una creatura insensata che gioca morbosamente con gli accessori e si fissa la punta delle scarpine. Et voilà, il cerchio della non-conoscenza è chiuso.
- Gli uomini e le donne sono uguali (ma sono diversi)
Non si tratta di superiorità, signore e signorine. Si tratta di alterità, pane per i denti delle professioniste dei gender studies. Del resto non sarà vero anche per voi? Per un certo periodo di tempo ci siamo trovati comprensibili, ma adesso è finita. Si può andare ancora d’accordo? Magari sì, ma sarà una contrattazione quotidiana: se tu mi accompagni a vedere Spider Man, io verrò a vedere Marie Antoinette. Tu fingerai di credere agli assunti intellettuali del mio ex bambolotto di plastica preferito (dai grandi poteri derivano grandi responsabilità) e io fingerò di credere agli assunti intellettuali della tua Barbie alla Corte del Re Sole; e non farò molta fatica, visto che più o meno è la stessa musica: dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sembra proprio che i nostri coetanei americani non sappiano dirci altro. Ehi, sveglia ragazzi, non siete sempre per forza così potenti: ogni tanto perdete anche le guerre. Sì, anche voi.
- Come dei simbolici Big Jim
Però su qualcosa avete ragione: in occidente abbiamo un problema coi nostri bambolotti. Piuttosto di separarci da loro, li intellettualizziamo. Per cui ok, Marie Antoinette è la versione intellettuale di Barbie e le 12 principesse danzanti: contiene tutta una serie di metafore politiche ed esistenziali che ci farà discutere per una settimana. Anzi, mi sbilancio. Questo film ci sopravviverà, e di parecchio.
Un giorno Marie Antoinette sarà materia di studio per un popolo di un colore e di una lingua diverso dal nostro. Un signore punterà il righello sull’acconciatura di Kirsten Dunst e dirà: vedete, all’inizio del Ventunesimo secolo gli Occidentali si sentivano così. Una casta chiusa, incipriata e segregata dalla massa degli oppressi. Vecchi ruderi, puttanieri o beghine; oppure giovani signori patiti di caccia e di biliardo, ma tutti assolutamente consapevoli della propria inutilità. Da qualche parte nella campagna d’occidente, masse di selvaggi incatenati coltivavano i pomodori e realizzavano i prodotti di haute couture che Marie e le sue amichette erano condannate a consumare in grande quantità. Per far girare l’economia. L’Altro, il Lavoratore, l’Operaio, è sempre più invisibile. Sofia Coppola non riesce nemmeno a inquadrarlo in piena luce. Solo il chiasso, un chiasso spaventoso, che sale lentamente, più forte di qualsiasi playlist, un muro d’odio che ci attende da qualche parte lungo questa strada. Lo sappiamo.
E siccome lo sappiamo, e non possiamo farci nulla, che si fa?
1-2-3: shopping!
1-2-3: shopping!
- Quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni
Il limite dell’intellettualizzazione del bambolotto è appunto questa: puoi coprirlo di sfighe e autocoscienze finché vuoi, ma il messaggio di Spider Man resta sempre “wow, che figo arrampicarsi su per i grattacieli”. Allo stesso modo, puoi scalfire Marie con mille chiavi di lettura intellettualissime e concettualissime, ma l’unica che fa scattar la serratura è: “wow, che figo essere principessa! Quante scarpe, quanti dolci, quanti cortigiani chiacchieroni!” C’è anche Ken versione stallone svedese.
Eppure, sotto sotto, Marie sarebbe una ragazza alla buona (anche Peter Parker vorrebbe soltanto essere un nerd del dipartimento di chimica, come no). In un attimo di stanchezza rilancia la moda dell’Arcadia (il Twee del Settecento). Le dame di corte si travestono da pastorelle, mungono le vacche e leggono Rousseau. Ma è solo un attimo. Può Peter Parker ignorare il suo destino di salvatore del mondo? Può Marie realmente resistere a quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni? Ok, la mezz’ora di approfondimento è finita. Si riparte col bambolotto.
- She’s got the worst taste in music
E fosse solo un bambolotto, il problema dei trentenni. Il guaio è che col tempo i giocattoli si accumulano. Il più pernicioso è l’Ipod: ci ha trasformati tutti in dj solipsisti da strapazzo, non necessariamente bravi. Sofia Coppola, per esempio, sotto i colonnati di Versailles è libera di ascoltare gli Strokes, ma è una cosa sua e unicamente sua: perché vuole impormela? O devo, anche qui, pescare una metafora? Posso anche provarci, ma non rischio di intellettualizzare eccessivamente una selezione random? “Gli anacronismi sono voluti”, ci mancherebbe altro. Ma oltre a fare i pugni con ogni buon gusto, funzionano? Vent’anni fa a Milos Forman bastava giocare un po’ coi parrucchini di Amadeus per farlo sembrare una rockstar neoromantica; invece Marie Antoinette cosa sarebbe? Una punk, perché balla Siouxsie? A questo punto facciamo come al tempo delle mele: ognuno venga al cinema con le cuffiette sue. Libero di trovare ogni sorta di accostamento. Saranno tutti originali e ci assomiglieranno.
- “La morte di una persona è una tragedia”
Il bambino chiede “come va a finire?”, la bambina: “che numero portava la principessa?”
Se vent’anni dopo la bambina porta il bambino al cinema a vedere un film storico, quest’ultimo non riconosce la Storia. Ogni spunto narrativo sembra trasformato in tappezzeria. Tutto è superficie, atmosfera. La Du Barry (magistralmente interpretata da Asia Argento, l’orgoglio del cinema italiano all’estero) ridotta a mignottona figurante: ma come? era la principale protagonista del mobbing di corte, l’altoparlante che mise in giro tante frottole che la rivoluzione avrebbe amplificato.
E ancora il bimbo si domanda: perché chiudere il film proprio là dove la storia di Marie comincia a farsi interessante? Quella notte a Versailles, per esempio, il linciaggio fu sfiorato davvero di poco. E poi? La gente esce dal cinema con la sensazione che Marie sia già sul primo gradino del patibolo. Per niente: stava andando a regnare da sovrana costituzionale alle Tuilleries, nel bel mezzo di Parigi, dove senza dubbio si sarebbe annoiata di meno. Gli ultimi mesi di vita della regina sono un incubo, però Marie li vive da donna adulta. Non è una Claretta Petacci che segue l’uomo della sua vita fino in fondo; è una degna rappresentante dell’ancien régime che tradirà il suo giuramento ai francesi, venderà il suo popolo allo straniero (suo fratello) e tenterà la fuga travestita. Certo, se oggi ci commuove Saddam Hussein, figurarsi una madre di famiglia. A dimostrazione del vecchio proverbio: uccidere una persona è una tragedia (specie se la persona in questione è una principessa, un despota, insomma un Vip); affamare un popolo è solo statistica.
- Dopo di me, il diluvioMettiamola così: io non ho visto Marie Antoinette. Non ne ero capace. Probabilmente è un bel film. Il futuro è delle donne, che leggono di più, hanno più gusto per gli accostamenti e meno inclinazione per i giocattoli pericolosi, armi e motori. Tra due secoli qualche ricercatrice scoverà la cache del mio blog e non ci troverà niente di interessante. Le schiferà il template.
Nel frattempo io continuo ad aver bisogno di donne: amiche, fidanzate, mamme, non potrei vivere senza queste presenze che non capisco. Passo la mia vita in una tappezzeria incomprensibile, ignorando tutto quello che sarebbe importante sapere, chi lo sa? Forse Marie Antoinette sono io. Perciò m'inchino a tutte voi, abbiate pietà. Non sono cattivo. Sono solo cresciuto in un mondo un po' così.
giovedì 16 novembre 2006
- leggete Gomorra
Gomorra, Italia
Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l'aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c'è di così pericoloso proprio in questo libro?
Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all'assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. "Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione".
Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.
In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.
- Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.
- Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.
- Infine: l’omertà. Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.
Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.
Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l'aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c'è di così pericoloso proprio in questo libro?
Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all'assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. "Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione".
Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.
In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.
- Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.
- Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.
(Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakehoder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo le loro aziende?)La monnezza ci ha portato in Europa (del resto, avverte Saviano, i padri della nazione sono i palazzinari, altro che Parri ed Einaudi). La città del sole e del mare si è riciclata in pattumiera del mondo, per creare ricchezza che andrà a fruttare altrove: nel nord operoso, o nella Scozia del clan La Torre o sulla costa spagnola, ovunque i boss decideranno di reinvestire e riciclare in imprese, spesso alla luce del sole.
- Infine: l’omertà. Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.
Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.
lunedì 13 novembre 2006
- "se non picchiate il down vi faccio un regalo"
Un lavoro da uomini da persone
Una volta esisteva il Servizio Militare, ora non più. Ma esiste, ancora, la Scuola Media.
La Scuola Media (inferiore) è l'esperienza più borderline che la maggior parte delle persone abbiano la possibilità di compiere nel corso della loro esistenza. Con l'aggravante che dura il triplo di un servizio di leva standard, e si sperimenta in una fase già delicatissima della propria crescita. E uno a volte si chiede perché. Perché esiste la Scuola Media? Siamo sicuri che sia stata disegnata su misura per le esigenze dei prepuberali? La risposta è no. Non siamo sicuri di un bel niente. Ereditiamo la scuola dei nostri padri, che l'avevano ereditata dai nonni, ogni tanto facciamo qualche piccola Riforma che crea più casini che altro. Il risultato di tutti questi piccoli sforzi è la Scuola Media Statale, il piccolo consultorio di quartiere. Un'esperienza non per tutti - anche se forse il problema è proprio quello: il problema è che ci passano tutti.
E' la Scuola dell'Obbligo, ci avete pensato? Obbligo. Ci va il ragazzino minuscolo abusato dai genitori. Ci va il ragazzo maiuscolo che sta cominciando ad abusare a sua volta di qualcun altro.
Ci siate andati anche voi, ma non ve ne ricordate molto bene. Gran parte degli shock che avete ricevuto sono stati coperti da una pietosa copertina che Sigmund Freud chiamò Rimozione. Ogni tanto, se vi chiedete: ma perché sono fatto così male?, provate un attimo a concentrarvi sulla vecchia scuola media del quartiere. Forse no, ma potreste anche scoprire qualcosa.
Io, ogni volta che ci penso, mi ci annego. Ero un ragazzino tutto sommato normodotato, ma mi sembra di aver vissuto nove vite in una volta. Ero nel bronx, ma anche in una campana pressurizzata. Sono stato rapito dagli alieni varie volte, ed essi alieni mi hanno spiegato ogni cosa che so, a differenza dei prof che spesso mi ritrovavano la testa conficcata nel sottobanco.
"Ma dove sei quando ti parlo? Si può sapere dove sei?"
Non si è mai saputo.
In questo far west mentale che è la scuola media, tra bullismo, sopraffazioni e dissociazioni, genitori che menano i figli e meriterebbero di essere menati dagli insegnanti, in questa terra di nessuno tra l'adolescenza e la follia, io ho deciso di lavorare, perché? A volte mi chiedo: perché? Perché non riuscivo più a correggere bozze, ecco perché. Ma ho bisogno come tutti di motivazioni più alte, perciò di fronte a certe notizie e a certe situazioni preferisco incidere sulla mia lavagna morale un inno a Me Stesso:
Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro Da Uomini Veri
Poi ci rifletto un attimo, e con la penna rossa mi correggo:
Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro DaUomini Veri Donne e Uomini Veri, insomma, persone vere.
E mi piace questa cosa, mi fa sentire John Wayne, e non mi frega se guadagno meno di uno sportellista di banca, vuoi mettere la libertà di cavalcare nelle praterie della malattia mentale e domare i bronchi dodicenni, senza nemmeno la possibilità di frustarli, ma solo in virtù delle tue dubbie doti psicotiche, volevo dire, psicologiche?
Ci farò una maglietta un giorno: Non mi puoi fare male, perché insegno nella Scuola Media. Io sono una persona vera, vivo nel mondo vero, quello dove i down non sono gli eroi da fiction televisiva, ma persone difficili che a volte sanno di ammoniaca e prendono i calci (to kick a man when he's down). Non dico che mi piace, ma è vero. Il mondo è così.
Ed è per questo che me la rido, ah-ah, quando mi mostrano le statistiche sugli impiegati più sottoposti a stress e malattie psichiche. Indovinate un po', sono gli insegnanti. Di scuola media, forse? Meglio non indagare.
Io so di essere sano di mente - a parte quel triennio un po' discutibile a cavallo degli anni Ottanta, del resto i rapimenti alieni ti segnano. Dov'ero rimasto? Ah già. So di essere sano, ma so anche che la possibilità di incontrare un professore insano, alla Scuola Media di oggi, è piuttosto alta.
Quanto alta? Così a occhio direi un insegnante insano ogni duecento. Però attenti, perché magari è un insegnante precario che gira di scuola in scuola, e quindi la possibilità che un giorno incontri i vostri figli non è poi così bassa. Io stesso ricordo di essere stato implorato (da un dirigente scolastico che non specifico) ad accettare una supplenza che, in caso di mio rifiuto, sarebbe andata di diritto a un matto/a (e come si faceva a sapere che era matto/a? Mah. Voci. Magari tutte calunnie, è un brutto mondo, appunto. Ma è vero).
E' la Scuola Media che fa impazzire i prof? Non necessariamente - anche se aiuta. A volte li attira già predisposti a sbroccare. Credo che sia questo il caso della mia collega molisana arrivata da pochi giorni a Milano e già colta in atteggiamenti promiscui con cinque alunni - a nome di tutta la categoria, grazie per averci fatto passare un tranquillo week end di panico e autocoscienza (questo articolo è indecente)
Il Preside, in tv, ci tiene a sottolineare che quella lì manco la conosce, è stata pescata da una graduatoria a cui possono accedere cani e porci purché laureati, non fa parte della storia dell'istituto, ecc. ecc. ecc. Intendiamoci, io al suo posto avrei fatto lo stesso.
Anzi, già che c'ero avrei potuto imbastire una bella polemica sui tagli alle scuole. Perché una scuola di Milano è costretta a raschiare sul barile dei prof non preparati e borderline? Forse perché non ci sono i soldi per assumerne di migliori? Forse perché la paga è comunque cattiva, per cui i prof preparati e sani di mente preferiscono fare gli sportellisti? Forse. Però questo è solo una parte del problema.
In realtà quello che è successo a Milano può succedere ovunque (e probabilmente è già successo), con prof supplenti o prof di ruolo. Perché per accedere all'insegnamento serve un titolo di studio e (a volte) un concorso, ma non è previsto nessun tipo di accertamento psicologico: tutto quello che ti chiedono è un ridicolo "certificato di sana e robusta costituzione", tre righe scritte da un dottore in tre minuti di colloquio (fanno 20 euro, grazie). Lo stesso certificato vale sia per i supplenti che per gli insegnanti di ruolo. Che io sappia non sono previsti accertamenti successivi, per cui è possibilissimo che uno impazzisca in seguito. Per dire, potrebbe anche capitare a me: un giorno caccio un urlo a un cretino in quarta fila che gioca con un aeroplanino, un settore del cervello entra in risonanza con la sonda che gli alieni hanno lasciato lì, e mi trasformo in una belva inumana che appende gli alunni agli attaccapanni (non a norma 626). Sono sicuro che in questo caso il preside in tv dirà che non mi conosce, ero appena arrivato e non aveva la possibilità di verificare il mio stato mentale. Il che, dopo tutto, è vero.
Ne ho già parlato, e mi ripeto: in questo mondo assai difficile, l'insegnante è solo. Le sue abilitazioni gli servono a entrare a scuola, ma non a lavorarci. Nessuno sa spiegargli quello che deve fare. Non c'è un metodo condiviso, non ci sono tecniche certificate, non c'è un bel niente di niente, per cui in certe situazioni impazzire il minimo. Ci sarebbe da chiedersi perché non impazziamo tutti. E forse è così: siamo pazzi tutti, ma grazie al cielo la più parte delle volte è una pazzia socialmente utile. Invece appartarci con gli studenti per fare sesso con loro, ci appartiamo per insegnargli la grammatica. Ma il motivo ultimo che ci spinge a farlo è sempre lo stesso: la follia.
Una volta esisteva il Servizio Militare, ora non più. Ma esiste, ancora, la Scuola Media.
La Scuola Media (inferiore) è l'esperienza più borderline che la maggior parte delle persone abbiano la possibilità di compiere nel corso della loro esistenza. Con l'aggravante che dura il triplo di un servizio di leva standard, e si sperimenta in una fase già delicatissima della propria crescita. E uno a volte si chiede perché. Perché esiste la Scuola Media? Siamo sicuri che sia stata disegnata su misura per le esigenze dei prepuberali? La risposta è no. Non siamo sicuri di un bel niente. Ereditiamo la scuola dei nostri padri, che l'avevano ereditata dai nonni, ogni tanto facciamo qualche piccola Riforma che crea più casini che altro. Il risultato di tutti questi piccoli sforzi è la Scuola Media Statale, il piccolo consultorio di quartiere. Un'esperienza non per tutti - anche se forse il problema è proprio quello: il problema è che ci passano tutti.
E' la Scuola dell'Obbligo, ci avete pensato? Obbligo. Ci va il ragazzino minuscolo abusato dai genitori. Ci va il ragazzo maiuscolo che sta cominciando ad abusare a sua volta di qualcun altro.
Ci siate andati anche voi, ma non ve ne ricordate molto bene. Gran parte degli shock che avete ricevuto sono stati coperti da una pietosa copertina che Sigmund Freud chiamò Rimozione. Ogni tanto, se vi chiedete: ma perché sono fatto così male?, provate un attimo a concentrarvi sulla vecchia scuola media del quartiere. Forse no, ma potreste anche scoprire qualcosa.
Io, ogni volta che ci penso, mi ci annego. Ero un ragazzino tutto sommato normodotato, ma mi sembra di aver vissuto nove vite in una volta. Ero nel bronx, ma anche in una campana pressurizzata. Sono stato rapito dagli alieni varie volte, ed essi alieni mi hanno spiegato ogni cosa che so, a differenza dei prof che spesso mi ritrovavano la testa conficcata nel sottobanco.
"Ma dove sei quando ti parlo? Si può sapere dove sei?"
Non si è mai saputo.
In questo far west mentale che è la scuola media, tra bullismo, sopraffazioni e dissociazioni, genitori che menano i figli e meriterebbero di essere menati dagli insegnanti, in questa terra di nessuno tra l'adolescenza e la follia, io ho deciso di lavorare, perché? A volte mi chiedo: perché? Perché non riuscivo più a correggere bozze, ecco perché. Ma ho bisogno come tutti di motivazioni più alte, perciò di fronte a certe notizie e a certe situazioni preferisco incidere sulla mia lavagna morale un inno a Me Stesso:
Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro Da Uomini Veri
Poi ci rifletto un attimo, e con la penna rossa mi correggo:
Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro Da
E mi piace questa cosa, mi fa sentire John Wayne, e non mi frega se guadagno meno di uno sportellista di banca, vuoi mettere la libertà di cavalcare nelle praterie della malattia mentale e domare i bronchi dodicenni, senza nemmeno la possibilità di frustarli, ma solo in virtù delle tue dubbie doti psicotiche, volevo dire, psicologiche?
Ci farò una maglietta un giorno: Non mi puoi fare male, perché insegno nella Scuola Media. Io sono una persona vera, vivo nel mondo vero, quello dove i down non sono gli eroi da fiction televisiva, ma persone difficili che a volte sanno di ammoniaca e prendono i calci (to kick a man when he's down). Non dico che mi piace, ma è vero. Il mondo è così.
Ed è per questo che me la rido, ah-ah, quando mi mostrano le statistiche sugli impiegati più sottoposti a stress e malattie psichiche. Indovinate un po', sono gli insegnanti. Di scuola media, forse? Meglio non indagare.
Io so di essere sano di mente - a parte quel triennio un po' discutibile a cavallo degli anni Ottanta, del resto i rapimenti alieni ti segnano. Dov'ero rimasto? Ah già. So di essere sano, ma so anche che la possibilità di incontrare un professore insano, alla Scuola Media di oggi, è piuttosto alta.
Quanto alta? Così a occhio direi un insegnante insano ogni duecento. Però attenti, perché magari è un insegnante precario che gira di scuola in scuola, e quindi la possibilità che un giorno incontri i vostri figli non è poi così bassa. Io stesso ricordo di essere stato implorato (da un dirigente scolastico che non specifico) ad accettare una supplenza che, in caso di mio rifiuto, sarebbe andata di diritto a un matto/a (e come si faceva a sapere che era matto/a? Mah. Voci. Magari tutte calunnie, è un brutto mondo, appunto. Ma è vero).
E' la Scuola Media che fa impazzire i prof? Non necessariamente - anche se aiuta. A volte li attira già predisposti a sbroccare. Credo che sia questo il caso della mia collega molisana arrivata da pochi giorni a Milano e già colta in atteggiamenti promiscui con cinque alunni - a nome di tutta la categoria, grazie per averci fatto passare un tranquillo week end di panico e autocoscienza (questo articolo è indecente)
Il Preside, in tv, ci tiene a sottolineare che quella lì manco la conosce, è stata pescata da una graduatoria a cui possono accedere cani e porci purché laureati, non fa parte della storia dell'istituto, ecc. ecc. ecc. Intendiamoci, io al suo posto avrei fatto lo stesso.
Anzi, già che c'ero avrei potuto imbastire una bella polemica sui tagli alle scuole. Perché una scuola di Milano è costretta a raschiare sul barile dei prof non preparati e borderline? Forse perché non ci sono i soldi per assumerne di migliori? Forse perché la paga è comunque cattiva, per cui i prof preparati e sani di mente preferiscono fare gli sportellisti? Forse. Però questo è solo una parte del problema.
In realtà quello che è successo a Milano può succedere ovunque (e probabilmente è già successo), con prof supplenti o prof di ruolo. Perché per accedere all'insegnamento serve un titolo di studio e (a volte) un concorso, ma non è previsto nessun tipo di accertamento psicologico: tutto quello che ti chiedono è un ridicolo "certificato di sana e robusta costituzione", tre righe scritte da un dottore in tre minuti di colloquio (fanno 20 euro, grazie). Lo stesso certificato vale sia per i supplenti che per gli insegnanti di ruolo. Che io sappia non sono previsti accertamenti successivi, per cui è possibilissimo che uno impazzisca in seguito. Per dire, potrebbe anche capitare a me: un giorno caccio un urlo a un cretino in quarta fila che gioca con un aeroplanino, un settore del cervello entra in risonanza con la sonda che gli alieni hanno lasciato lì, e mi trasformo in una belva inumana che appende gli alunni agli attaccapanni (non a norma 626). Sono sicuro che in questo caso il preside in tv dirà che non mi conosce, ero appena arrivato e non aveva la possibilità di verificare il mio stato mentale. Il che, dopo tutto, è vero.
Ne ho già parlato, e mi ripeto: in questo mondo assai difficile, l'insegnante è solo. Le sue abilitazioni gli servono a entrare a scuola, ma non a lavorarci. Nessuno sa spiegargli quello che deve fare. Non c'è un metodo condiviso, non ci sono tecniche certificate, non c'è un bel niente di niente, per cui in certe situazioni impazzire il minimo. Ci sarebbe da chiedersi perché non impazziamo tutti. E forse è così: siamo pazzi tutti, ma grazie al cielo la più parte delle volte è una pazzia socialmente utile. Invece appartarci con gli studenti per fare sesso con loro, ci appartiamo per insegnargli la grammatica. Ma il motivo ultimo che ci spinge a farlo è sempre lo stesso: la follia.
martedì 7 novembre 2006
- compra Leonardo compra Leonardo compra
Tra le nuove uscite della collana ScrittoMisto spicca "La storia d'Italia a rovescio" di Leonardo, uno dei blogger più acuti, riflessivi e longevi della blogosfera italiana (Pandemia)
Soprattutto soprammobile
La gente vuole scrivere i libri.
Uno può scrivere dieci cartelle al giorno, ma finché non hai scritto un libro non sei nessuno. Sei un giornalista, orrore, un pubblicista, pfui, o ancor peggio, un blogger. Quanti lettori hai? Due, tre, venticinque? Ah, ne hai trecento? Al giorno? Ma non importa. Non sei nessuno, perché non hai scritto un libro.
La gente vuole scrivere i libri. Se ci pensate, è curioso. È un’esigenza che sfida le leggi più elementari dell’economia, perché la maggior parte degli aspiranti scrittori non solo non si fa illusioni sui guadagni, ma per pubblicare è disposta a pagare.
Questo, almeno fino a dieci anni fa era comprensibile. E se non avessi appunto perso Il pendolo di Foucault (quel polpettone erudito che anticipava e dava una descrizione sociologica del fenomeno Codice-da-Vinci prima ancora del fenomeno medesimo) potrei adesso qui incollarvi una di quelle folgoranti paginette sugli Scrittori a Proprie Spese che per riscattare la propria mediocrità vengono risucchiati da editori senza scrupoli in un gorgo di acquisti d’invenduti. È una storia triste, ma almeno dovrebbe essere una storia vecchia. Adesso c’è Internet! Ci sono i blog, che ti riscattano la mediocrità gratis!
E invece no. Non possiedo statistiche sull’editoria italiana, ma a occhio mi pare che le tipografie continuino a stampare tonnellate d’invenduto. La gente non vuole scrivere i blog, quella è roba per adolescenti in foia, o trentenni in foia, o al limite politici. La gente vuole scrivere i libri, sono i libri che ti fanno scrittore. Perché?
Perché il libro, in sé, è un’invenzione geniale. Lasciate perdere la scrittura, quella c’era da prima (si scorreva sui rotoli di pergamena) e ci sarà anche dopo (si scrolla su Internet). Ma il libro. Internet non ucciderà il libro, rassicuratevi. Il libro vivrà in eterno, o almeno finché vivranno uomini e donne desiderosi di circondarsi di soprammobili: e vivrà precisamente perché non c'è soprammobile più elegante di un libro. Un libro è eloquente (quante parole contiene); allo stesso tempo è allusivo (quanti parole non dice, a lasciarlo in scaffale), e si aggiunga che come soprammobile è anche estremamente comodo: un parallelepipedo si impila e si spolvera con una relativa facilità.
Un oggetto compatto, e allo stesso tempo friabile. Si apre in centinaia di punti diversi, non esiste nulla di così sorprendente in natura. In fondo ogni libro è un pop-up, ogni pagina è una finestra su un mondo un po’ diverso. L'inventore di sottilissimi fogli rettangolari di carta fissati da un solo lato è un genio assoluto, paragonabile soltanto all'inventore della ruota: per quanto le innovazioni tecnologiche la possano rendere più resistente o più morbida, nessuna invenzione renderà la ruota più rotonda di quello che è: allo stesso modo nessuna rivoluzione tecnologica può rendere il libro più eloquente, più allusivo, più comodo.
E soprattutto: su nessun altro soprammobile di casa vostra starebbe bene il nome vostro – o d’un vostro amico – in caratteri cubitali. E invece sul dorso d’un libro un nome ci sta proprio bene, e più sta in grande meglio è. La gente scrive i libri perché sul dorso ci può mettere il nome. Non è che voglia venderti un soprammobile col suo nome – se non ce la fa, al massimo te lo regala.
Io però non te lo regalo mica, caro lettore, il libro con il mio nome sulla copertina. E non voglio neanche chiederti se per favore me lo compri. Poche cerimonie tra noi due: da quanto mi leggi? Due mesi? Sei? Tre anni? Cinque? Per tutto questo tempo mi hai letto gratis.
È chiara la situazione? Quel che ti chiedo di riscattare non è la mia mediocrità (mediocrità?), ma un tuo debito. In questi anni hai comprato tanti libri e giornali che non hai nemmeno letto. Hai pagato il canone Rai. Hai pagato per tante cose molto meno interessanti, meno divertenti e meno riuscite. Ma per Leonardo non hai mai pagato un soldo, mai. Da molto tempo in qua non ti sorbisci nemmeno più il piccolo banner pubblicitario. Come l’aria, il sole, l’amore, così anche Leonardo l’hai avuto gratis et amore dei, e soprattutto perché nessuno è riuscito ancora a fartelo pagare. Ma finalmente, grazie alla favolosa équipe di Scrittomisto, le cose stanno per cambiare. La Storia d’Italia a rovescio sta per uscire, anzi è già uscita, addirittura Rillo l’ha già comprata, e tu che fai? Vuoi arrivare per ultimo?
Del libro cosa c’è da dire. Come tutti i libri di Scrittomisto (mi pare) è nato da un blog, ma cerca finché può di sembrare un libro vero (la parola b*** è quasi bandita). Il materiale è effettivamente già comparso su questo sito negli ultimi cinque anni – ma siete sicuri di averci fatto caso? Ne ho scritto di roba, qui, e più crusca che farina, diciamolo.
L’idea era quella di raccontare la storia recente a rovescio: dalle elezioni del 2006 a quelle del 2001, proprio come se la stessi raccontando a un lettore di blog, che capita su leonardo per caso leggendo il pezzo più recente e poi si mette a scorrere l’archivio. Non è un best of, che non sarei proprio in grado di fare. Non è, ahimè, nemmeno una vera Storia d’Italia: i buchi sono tanti, e si vedono (ma in cento pagine provateci voi). È un libro, un soprammobile elegante, un’idea regalo per le festività natalizie che incombono, ormai. Comprarlo non mi renderà ricco (io sono già ricco dentro) ma vi farà sentire un po’ meno scrocconi nei miei confronti.
Se poi lo ficcate in doppia fila interna sullo scaffale più in alto non mi offendo. Tanto la bottega, qui, è sempre aperta. E prima o poi ripasserete.
E' più forte di voi.
Soprattutto soprammobile
La gente vuole scrivere i libri.
Uno può scrivere dieci cartelle al giorno, ma finché non hai scritto un libro non sei nessuno. Sei un giornalista, orrore, un pubblicista, pfui, o ancor peggio, un blogger. Quanti lettori hai? Due, tre, venticinque? Ah, ne hai trecento? Al giorno? Ma non importa. Non sei nessuno, perché non hai scritto un libro.
La gente vuole scrivere i libri. Se ci pensate, è curioso. È un’esigenza che sfida le leggi più elementari dell’economia, perché la maggior parte degli aspiranti scrittori non solo non si fa illusioni sui guadagni, ma per pubblicare è disposta a pagare.
Questo, almeno fino a dieci anni fa era comprensibile. E se non avessi appunto perso Il pendolo di Foucault (quel polpettone erudito che anticipava e dava una descrizione sociologica del fenomeno Codice-da-Vinci prima ancora del fenomeno medesimo) potrei adesso qui incollarvi una di quelle folgoranti paginette sugli Scrittori a Proprie Spese che per riscattare la propria mediocrità vengono risucchiati da editori senza scrupoli in un gorgo di acquisti d’invenduti. È una storia triste, ma almeno dovrebbe essere una storia vecchia. Adesso c’è Internet! Ci sono i blog, che ti riscattano la mediocrità gratis!
E invece no. Non possiedo statistiche sull’editoria italiana, ma a occhio mi pare che le tipografie continuino a stampare tonnellate d’invenduto. La gente non vuole scrivere i blog, quella è roba per adolescenti in foia, o trentenni in foia, o al limite politici. La gente vuole scrivere i libri, sono i libri che ti fanno scrittore. Perché?
Perché il libro, in sé, è un’invenzione geniale. Lasciate perdere la scrittura, quella c’era da prima (si scorreva sui rotoli di pergamena) e ci sarà anche dopo (si scrolla su Internet). Ma il libro. Internet non ucciderà il libro, rassicuratevi. Il libro vivrà in eterno, o almeno finché vivranno uomini e donne desiderosi di circondarsi di soprammobili: e vivrà precisamente perché non c'è soprammobile più elegante di un libro. Un libro è eloquente (quante parole contiene); allo stesso tempo è allusivo (quanti parole non dice, a lasciarlo in scaffale), e si aggiunga che come soprammobile è anche estremamente comodo: un parallelepipedo si impila e si spolvera con una relativa facilità.
Un oggetto compatto, e allo stesso tempo friabile. Si apre in centinaia di punti diversi, non esiste nulla di così sorprendente in natura. In fondo ogni libro è un pop-up, ogni pagina è una finestra su un mondo un po’ diverso. L'inventore di sottilissimi fogli rettangolari di carta fissati da un solo lato è un genio assoluto, paragonabile soltanto all'inventore della ruota: per quanto le innovazioni tecnologiche la possano rendere più resistente o più morbida, nessuna invenzione renderà la ruota più rotonda di quello che è: allo stesso modo nessuna rivoluzione tecnologica può rendere il libro più eloquente, più allusivo, più comodo.
E soprattutto: su nessun altro soprammobile di casa vostra starebbe bene il nome vostro – o d’un vostro amico – in caratteri cubitali. E invece sul dorso d’un libro un nome ci sta proprio bene, e più sta in grande meglio è. La gente scrive i libri perché sul dorso ci può mettere il nome. Non è che voglia venderti un soprammobile col suo nome – se non ce la fa, al massimo te lo regala.
Io però non te lo regalo mica, caro lettore, il libro con il mio nome sulla copertina. E non voglio neanche chiederti se per favore me lo compri. Poche cerimonie tra noi due: da quanto mi leggi? Due mesi? Sei? Tre anni? Cinque? Per tutto questo tempo mi hai letto gratis.
È chiara la situazione? Quel che ti chiedo di riscattare non è la mia mediocrità (mediocrità?), ma un tuo debito. In questi anni hai comprato tanti libri e giornali che non hai nemmeno letto. Hai pagato il canone Rai. Hai pagato per tante cose molto meno interessanti, meno divertenti e meno riuscite. Ma per Leonardo non hai mai pagato un soldo, mai. Da molto tempo in qua non ti sorbisci nemmeno più il piccolo banner pubblicitario. Come l’aria, il sole, l’amore, così anche Leonardo l’hai avuto gratis et amore dei, e soprattutto perché nessuno è riuscito ancora a fartelo pagare. Ma finalmente, grazie alla favolosa équipe di Scrittomisto, le cose stanno per cambiare. La Storia d’Italia a rovescio sta per uscire, anzi è già uscita, addirittura Rillo l’ha già comprata, e tu che fai? Vuoi arrivare per ultimo?
Del libro cosa c’è da dire. Come tutti i libri di Scrittomisto (mi pare) è nato da un blog, ma cerca finché può di sembrare un libro vero (la parola b*** è quasi bandita). Il materiale è effettivamente già comparso su questo sito negli ultimi cinque anni – ma siete sicuri di averci fatto caso? Ne ho scritto di roba, qui, e più crusca che farina, diciamolo.
L’idea era quella di raccontare la storia recente a rovescio: dalle elezioni del 2006 a quelle del 2001, proprio come se la stessi raccontando a un lettore di blog, che capita su leonardo per caso leggendo il pezzo più recente e poi si mette a scorrere l’archivio. Non è un best of, che non sarei proprio in grado di fare. Non è, ahimè, nemmeno una vera Storia d’Italia: i buchi sono tanti, e si vedono (ma in cento pagine provateci voi). È un libro, un soprammobile elegante, un’idea regalo per le festività natalizie che incombono, ormai. Comprarlo non mi renderà ricco (io sono già ricco dentro) ma vi farà sentire un po’ meno scrocconi nei miei confronti.
Se poi lo ficcate in doppia fila interna sullo scaffale più in alto non mi offendo. Tanto la bottega, qui, è sempre aperta. E prima o poi ripasserete.
E' più forte di voi.