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giovedì 30 giugno 2016

Tutti ne vogliono

Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some, Richard Linklater, 2016).

Nel crepuscolo dell'estate 1980, Jake ha 18 anni, una collezione di dischi in una scatola e una Oldsmobile 442 che lo sta portando dritto al college. Tutto sta per succedere, tutto deve succedere, per la prima volta. L'autoradio pompa i Knack, il sole del Texas splende sugli shorts delle ragazze. Qualcosa prima o poi andrà storto, ma perché dovrebbe succedere proprio in questo film? E se per una volta tutto filasse liscio, senza conflitti? Se Linklater volesse raccontare la storia più americana possibile nel modo meno meno americano possibile?

Per fortuna la sua missione non era mostrare come anche la generazione di Porky's avesse una profondità. Piuttosto rivivere quei magici quattro giorni in cui tutto sembrava possibile, e l'amicizia virile e la carriera sportiva e il sesso e l'amore sembravano frutti maturi sui rami dello stesso magico albero. Quel prezioso momento in cui stavi scegliendo chi diventare, che forma prendere, e in attesa di ricevere qualcosa dentro di te facevi il vuoto. Sempre con quel sorriso mezzo scemo di Blake Jenner, che intuisce come nulla che si possa prendere sul serio o sottogamba. Il nuovo compagno di dormitorio chiacchierino può essere un coglione o dirti la più profonda verità. Ha vent'anni ma potrebbe averne trenta. Sarà un campione di baseball o un fallito psicopatico. Tutto è un gioco, tutto è importante. Un tuo amico è diventato punk per scherzo e quello sarà il suo destino, tu invece passi in una mezz'ora dalla discoteca al locale country, e poi la festa del Dams con gli attori e i ballerini. Quello che diventerai, non è che dipende soprattutto dalla ragazza che ti risponderà al telefono? (continua su +eventi!)


Presentato come il seguito "spirituale" di Dazed and ConfusedTutti vogliono qualcosa funziona altrettanto bene come fratello maggiore di Boyhood: stavolta Linklater concentra tutto in quattro giorni di festa pigra e furiosa. Si beve un po', si sopporta il nonnismo dei compagni più grandi, si gioca a qualsiasi cosa (a baseball, a ping pong, a space invaders, a chi aspira più vapore da un bong). Si balla quel che c'è da ballare, e chi riesce a trovare un letto scopa. C'è anche l'amore ed è la nota più stonata, perché Linklater non ci risparmia il corteggiamento, e non ha pudore di mostrarci quanto possono essere ingenui e suonare falsi due diciottenni che cercano di conoscersi al telefono e trovare un pretesto per passare la notte assieme. Due soli adulti compaiono brevissimamente in tutto il film. Tutto grida privilegio, e mi domando onestamente se Linklater sia consapevole di quanto la sua età dell'oro sia stata un momento irripetibile - il Vietnam dietro le spalle, l'Aids ancora in sordina, nessuna recessione in vista. Tutti vogliono qualcosa è entusiasta e inconsistente al punto di irritare, e il ricordo di essere stati altrettanto entusiasti e inconsistenti non sempre aiuta. Però un bel film, già scomparso dalle sale di Cuneo. Il cinema più vicino ormai è il Greenwich Village di Torino (ore 21).

martedì 28 giugno 2016

Sia lodato Gesù Cristo, ma perché?

Ho scoperto che non ci posso fare niente: io sono i film che guardo, o meglio che ho guardato. Per esempio, se mi chiedi cos'è l'eroismo, ebbene, l'eroismo è pilotare un aeroplanino sul Rio delle Amazzoni, in una notte di tempesta, insultando la torre di controllo e rassicurando il passeggero ferito: tranquillo, quando sono sbronzo io sono immortale.



Se invece mi chiedi cos'è la vittoria, ecco, ho già provato a spiegarlo (non che abbia molto senso, comunque): "non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento".



Bud Spencer era un atleta e un clown, eppure ho scoperto che quel che mi prendeva di più dei suoi film non erano le coreografie a base di schiaffoni (ancora imbattibili). Ma il modo in cui ogni tanto gli scappava di fare l'eroe, e gli veniva naturale, come dovrebbe venire a ogni padre per quanto sudato e corpulento. La prossima volta che un ferito grave ci implorerà con lo sguardo di portarlo a Manaus, Bud Spencer non potrà più coprirci. Toccherà a noi, che non siamo immortali, in effetti nessuno lo è. Bisognerà farsene una ragione.

lunedì 27 giugno 2016

Non volete che votino gli imbecilli? Non votate.

Potrà essere capitato anche a voi di intercettare, nel rumore di fondo di questi giorni, un'ondata montante di rancore verso il suffragio universale e il suo difetto strutturale - la clausola per cui il voto di un imbecille conta quanto quello di una persona istruita, onesta, rispettabile, insomma quel tipo di persona che è convinta di non essere imbecille mentre fa questo ragionamento.

Per quanto posso, vorrei rassicurare i più giovani: non è veramente niente di nuovo sotto il sole, il problema della demagogia era già ben avvertito dai Greci classici. I sofisti avevano notato l'incostanza delle folle prima che diventassero masse; Tucidide ci ha scritto qualche versioncina che almeno agli studenti del classico dovrebbe risultare familiare. Qualche tempo più tardi Montesquieu affrontò il problema della corruzione del principio della democrazia con parole che si potrebbero benissimo usare oggi per distruggere il concetto di democrazia diretta alla Beppe Grillo, ma forse varrebbe la pena scrivere tutto questo con le maiuscole: LEGGI COME QUESTO ILLUMINISTA DISTRUGGE BEPPE GRILLO! Nel frattempo in Inghilterra, con tutti i limiti del caso, stavano trovando anche una soluzione al problema, magari imperfetta ma non priva di una sua rude bellezza: la democrazia parlamentare, coi suoi meccanismi di delega, e la conseguente professionalizzazione della politica. E non siamo ancora alla rivoluzione francese. Per dire di quanto siamo ignoranti e autoreferenziali, mentre crediamo di aver inquadrato il problema del giorno, anzi del mese o del secolo: gli ignoranti votano! Sì, a cominciare da noi. Oddio, nessuno ci obbliga.

Però adesso c'è qualcosa di nuovo, dicono. L'insofferenza per i politici di professione, la "casta", l'"establishment". Ancora: la novità sta negli occhi di chi guarda, e di chi magari non ha mai dato un'occhiata ad altri momenti, altri Paesi: Giannini ce l'aveva coi partiti, Poujade ce l'aveva coi partiti, Mussolini ce l'aveva coi partiti. Hanno tutti avuto un po' di successo, chi per un quarto d'ora chi per vent'anni.

E internet? Perché qualcuno suggerisce che sia colpa di internet, che ha abolito i diaframmi - ora possiamo rispondere direttamente al politico sul suo blog, naturale che ci venga spontaneo immaginare di governare al suo posto, da casa, con un clic. Sì. A dire il vero la maggior parte della gente che frequento non usa internet per governare o anche solo fingere di farlo. Lo sport più diffuso nell'ambiente è guardare gli imbecilli. Abbiamo sempre saputo che esistevano, ma da un po' di tempo in qua non facciamo che ammirarli, linkarli, screenshottarli, e poi ammiccare coi compari: pensate che anche questi hanno il diritto di voto! Che roba, che vergogna. Dieci anni fa c'era il Grande Fratello, adesso la bacheca di FB. Non è neanche elitismo ormai, è una specie di bullismo benigno che affligge gente insospettabile. Molto spesso, lo si capisce, è gente che dai bulli le prendeva. Ora li guarda coprirsi di ridicolo sui social e ne gode, fortuna che tra i tasti c'è "Like" e non c'è "leva il diritto di voto a questo imbecille", probabilmente Zuck ci sta lavorando.

Ricapitolando: la demagogia è antica come la democrazia e l'ha già spesso stroncata sul nascere o in seguito; l'imbecillità è una costante della storia dell'uomo, ma prima di internet avevamo meno finestre per osservarla e forse era meglio così, l'imbecillità è ipnotica. La novità - perché secondo me una novità c'è - sta nella crisi. Non quella occasionale o ciclica, ma quella strutturale che sta affliggendo l'Occidente, e che ha tante concause e spiegazioni, ma io resto affezionato alla più banale di tutte: la Cina e l'India hanno tre miliardi di bocche da sfamare e ormai sono Paesi sviluppati. Serviranno ancora generazioni prima che il costo della vita in quei Paesi si alzi ai livelli dell'Occidente - a meno che l'Occidente non si inabissi, e forse questa sarà la soluzione. Nel frattempo la popolazione mondiale continua a crescere e a spostare l'equilibrio, e poi c'è il riscaldamento globale, insomma sarà molto complicato. Di fronte a questo scenario, diversi demagoghi occidentali hanno reagito in modi diversi ma non così dissimili: Trump vuole l'America "great again" e propone di risolvere costruendo un muro col Messico, come se non ci fosse già. Gli inglesi vogliono uscire dall'UE, così come gli scozzesi un anno fa erano tentati di uscire dal Regno Unito. In confronto da noi Bossi era lungimirante: chiedeva i dazi con la Cina quindici anni fa. Almeno aveva le idee chiare: invece i grillini non sanno bene cosa propongono (uscire dall'Euro?), ma sanno perché: bisogna dar fiato all'impresa italiana, crolli il mondo.

Quello che unisce Trump ai fautori del Leave e ai leghisti o ai grillini non è la polemica anti-establishment, che in fondo usano tutti, è come il giro di do a Sanremo (anche Renzi lo ha intonato). Se per un attimo smettiamo di considerarli imbecilli e ascoltiamo quel che vogliono in concreto, scopriremo che è molto chiaro e perfettamente comprensibile, vista la gravità della situazione. Vogliono alzare uno steccato che li protegga dalla competizione del Resto del Mondo. Vogliono un'America di nuovo Grande, una Britannia ancora impero, una Padania di nuovo rigogliosa di fabbrichette che si rimettano a macinare fatturati come se in Cina non sapessero ormai fare tutto quello che sappiamo fare noi a un quinto del prezzo. Siamo ovviamente liberi di considerarlo un rigurgito fascista, una nostalgia di anziani che non ha più senso cercare di convincere, o il riflesso istintivo del bambino che si rintana in un angolo mentre la casa crolla. Ma non è imbecillità. Non c'è nulla di stupido nel rintanarsi in un angolo mentre la casa crolla.

sabato 25 giugno 2016

Mia perfida Albione (torna subito qui)

I was born, lucky me
In a land that I love
Though I am poor, I am free.
When I grow I shall fight,
For this land I shall die,
Let her sun never set.

Non mi ricordo un momento in cui ho cominciato ad amare/odiare gli inglesi. Mi sembra di averlo sempre fatto, da quando non conoscevo che due o tre canzoni, il Big Ben e Oliver Twist. Col tempo ho imparato a conoscerli e li ho amati sempre di più, e li ho odiati sempre di più. Gli Smiths e la Thatcher, la moquette nei bagni e il Bill of Rights. Ho sempre tifato contro l'Inghilterra, sempre, perché è sempre bello vederla perdere e gli hooligans si meritano il peggio; ho sempre ammirato il modo in cui gli inglesi discutono di calcio e in generale di sport, e in generale di qualsiasi cosa. Ho sempre trovato disgustoso il modo in cui tenevano un piede nella UE e l'altro fuori, le tresche di Blair con Bush, la loro spocchia malgrado il trattamento speciale di cui hanno goduto dal '73 in poi. Non ho mai immaginato che l'Europa si potesse unire senza di loro. È proprio una cosa che non riesce a venirmi in mente. E adesso come mi sento.

Una volte da ragazzino feci l'errore di dare un ultimatum alla ragazza - o me o quell'altro, e lei ovviamente non scelse me, anche se sembrava la scelta più razionale (ma non è razionale aspettarsi che la gente faccia scelte razionali). Ed eccomi qui, dovrei chiedere sanzioni, gioire mentre la sterlina crolla, godere a vederti a strisciare, e invece eccomi qui che scalcio nel buio e mi domando se per caso non stai già cambiando idea. Perché nel caso, ecco, io ci sono. Puoi chiamare a qualsiasi ora, ho il telefono in carica, e in tasca un biglietto per Calais, tu di' solo una parola. Vengo a prenderti.

Non lasciarmi solo coi tedeschi.

Non ho niente contro di loro, ma diciamo la verità: sono ottanta milioni e più, e di loro non mi è mai interessato un decimo di quello che mi interessavi tu. Vuoi mettere Goethe contro Dickens? Il Krautrock contro il progressive? Lo so che è stupido. Nessuno ha mai detto che la costruzione dell'identità europea sarebbe stata una cosa particolarmente intelligente. Io sono quel che mangio, quel che leggo, quel che ascolto e quel che guardo in tv, e soprattutto lì capisci che non c'è gara. Non dico che i tedeschi non s'impegnino - ogni tanto sbirciavo Cobra11, gli incidenti in autostrada li sanno coreografare - ma è proprio questo il punto, è proprio che vedi tantissimo che s'impegnano e il risultato è quel che è, nulla che preferirei a una vecchia puntata di The Prisoner. Sai cosa si salvava dell'ultimo film tedesco che ho visto al cinema? Emma Watson.

Non mi ricordo un momento in cui ho cominciato a sentir dire che il progetto europeo era fallito. Ricordo chiaramente che se ne parlava quando eravamo ancora in dodici. Fino a un certo punto, comunque, continuò a sembrarci inevitabile. Saremmo andati in erasmus, o col servizio volontario, avremmo incontrato altri giovani come noi, avremmo scoperto di avere più cose in comune che coi vecchi rimasti a casa. Certo, il muro di Berlino crollando cambiò gli equilibri e dal 2004 in poi forse nessuno ci ha più capito nulla. Forse l'Europa non è così inevitabile dopotutto. Forse i nostri figli penseranno dell'Inghilterra quel che pensavano i nostri nonni prima di partire, dio la stramaledica, perfida Albione, eccetera. Ma mi sembra impossibile.

In casa nostra almeno, con quei Coe e quegli Hornby sulle mensole. E l'autoradio che ogni tanto pesca Victoria dei Kinks, e se il passeggero più giovane mi chiede: perché fai V con le dita? Io rispondo: è il segno della vittoria, perché sai, noi vinceremo. Per quanto lunga e dura possa essere la strada.

giovedì 23 giugno 2016

Prima sfasci le vetrine, poi ti deridono, poi vinci, poi continuano a deriderti

Suffragette (Sarah Gavron, 2015).

Emmeline Pankhurst. "Fatti, non parole" era il suo motto.
Nel film esorta le proletarie a rompere le vetrine.
Rompono le vetrine per attirare l'attenzione dei media, fanno esplodere le cassette delle poste, resistono alle torture e rifiutano di nutrirsi in carcere. Hanno rinnegato le famiglie, gli affetti; hanno sacrificato la vita alla Causa. Sono... le suffragette inglesi di un secolo fa. Ridicolizzate in vita perché lottavano per il diritto di votare, snobbate in seguito perché il suffragio universale, una volta conquistato, sembrò quasi subito un diritto scontato. La regista Sarah Gavron partiva da un'idea forte: scrostare l'immagine rassicurante della suffragetta che ti offre un volantino e ti regala un dolcetto, e mostrare quanto toste fossero le attiviste del WSPU, disposte a farsi malmenare, imprigionare e nutrire a forza. La realizzazione però è talmente convenzionale da far sospettare un ripensamento, come se a un certo punto qualcuno avesse esitato a tirare le somme: chi ha bisogno di un film in cui le suffragette rompono le vetrine come i black bloc, cercano di attirare l'attenzione come le femen, e fanno esplodere cassette e intere case come gli anarco-insurrezionalisti? Sono pratiche fuori moda, nessuno le trova più eroiche ormai. Lo stesso suffragio universale non se la passa così bene (continua su +eventi!)

L'ultima battaglia di Emily Davison.

Peccato perché la storia da qualche parte c'era, e alcuni spunti di partenza erano fantastici - ad esempio a un certo punto il film mostra di sfuggita una suffragetta che spiega alle altre alcune mosse di autodifesa, ebbene, pare che una membra del WSPU fosse un'esperta di Ju Jitsu. La cosa muore lì, del resto sarebbe stato difficile far funzionare una scena in cui Carey Muligan o Helena Bonham Carter abbattono un bobby a colpi di Ju Jitsu. La Gavron non si accontenta della ricostruzione storica - quella ormai è a portata di qualsiasi produzione televiva - vorrebbe anche avere qualcosa da dire sul presente, al punto di rischiare l'anacronismo: l'astuto segugio di Scotland Yard che spia le mosse delle femministe ha un pallino per le fotografie, ne scatta tantissime alle manifestazioni e durante le cariche della polizia.

Un'altra occasione piuttosto persa è il taglio che dà alla scena della morte di Emily Davison. Perlopiù sconosciuta qui da noi, la Davison in patria è un personaggio leggendario, non tanto per i nove arresti o i ripetuti digiuni, ma per le circostanze in cui morì - travolta da un cavallo a un derby, e non da un cavallo qualsiasi: da quello del re. L'incidente le costò la vita, ma diede anche al suo movimento quella pubblicità che i suoi scioperi della fame non erano riusciti a ottenere: ma fu davvero un incidente? Se ne discute più o meno da allora. Aveva intenzione di farsi travolgere o voleva semplicemente attaccare una fascetta al cavallo, con uno slogan che chiedeva il voto alle donne? Era in grado dalla sua posizione di riconoscere il cavallo del re, o lo intercettò per pura (s)fortuna? Il film decide di sposare la tesi più semplice, facendo della Davison una militante suicida, che decide di sacrificarsi lì su due piedi, senza pensarci troppo. Forse il personaggio meritava più spessore.

Anche la leader del movimento, Emmeline Pankhurst, è resa da Meryl Streep in modo impeccabile ma un po' freddo: una che inneggia più o meno alla lotta armata, per dileguarsi svelta appena arrivano i bobby. Invece il personaggio di Carey Mulligan, la protagonista, è inventato: uno di quei ruoli abbruttenti che sembrano obbligatori per le attrici di livello internazionale (la smorfietta vezzosa ormai simile a un'emiparesi facciale alla Stallone). È l'operaia che all'inizio non sa cosa sia il suffragio e poi, a furia di essere accostata a queste amiche pericolose, picchiata con loro, arrestata con loro, finisce per radicalizzarsi. Suffragette è alla Sala Polivalente di Piasco giovedì e venerdì alle 21:10.

martedì 21 giugno 2016

Roma, dove sei? Eri con me

Davvero non so se ringraziare i fantasiosi cittadini romani, da millenni sempre disponibili a sperimentare qualsiasi novità, sia un Eliogabalo o una papessa o un duce, per la straordinaria occasione che hanno colto di vedere il bluff dei Cinque Stelle. Perché Parma evidentemente non bastava, né sarebbe bastata Livorno, e persino Torino: ci voleva l'urbe, il foro dei fori, la cloaca massima, per inghiottirsi tutte le buone intenzioni lastricate qua e là. Per mostrare che il M5S non ha la bacchetta magica bisognava offrire in ostaggio due o tre milioni di persone, una roba da fantascienza distopica, una responsabilità che io non mi sarei mai preso e nemmeno voi, e i romani invece sì: sono pazzi i romani, incredibili, e io non so se ringraziarli.

O maledirli. Perché ci siamo già passati, perché già sappiamo cosa ci aspetta nei prossimi mesi, specie nella mediasfera che mantiene le redazioni nella capitale: può darsi che uno o duecentomila migranti provi ad arrivare in Italia, e che il Regno Unito seceda dall'Europa, ma sarà difficile sentirne parlare. Le stesse olimpiadi passeranno in secondo piano rispetto all'esigenza inderogabile dei nostri cronisti segugi di inchiodare la neosindaco alle sue responsabilità: ricordiamo che il predecessore andava tutti i giorni in prima pagina con una sosta vietata o con uno scontrino, e che qualche sguaiato spindoctor del Pd sta già minacciando misteriosi esposti in procura. Si parlerà di Roma tutti i giorni, come peraltro a Roma hanno sempre ritenuto giusto che sia; si parlerà di tramvieri che scioperano, di funerali rom e di tassisti e camionbar e non avrà nessun importanza che a 58 milioni di non-romani caschino le palle; il mondo come è noto ruota intorno al raccordo.

Poi verrà l'autunno, il referendum, e se la Raggi sarà riuscita a combinarne una veramente grossa, un cratere da qualche parte entro le mura aureliane, Renzi se la può ancora giocare. Ora come ora sembra la sua unica chance, e mi costa un certo sforzo non concludere che se la sia cercata - il famoso complotto per far vincere i grillini. È quello che avrebbe fatto un giocatore più smaliziato di lui - e meno sicuro delle proprie forze: dopotutto è da un anno che la situazione è chiara. A un giocatore più lucido non sarebbe servito altro tempo per saltare alle conclusioni: se la spinta propulsiva delle Europee si è esaurita - e si è esaurita, Renzi undici milioni di voti non li prende più - se le magnifiche sorti progressive del Jobs act e dell'abolizione dell'Imu non creano né occupazione né ricchezza - e lo si poteva capire con largo anticipo, la crisi dell'impresa italiana è strutturale - a questo punto cosa resta da fare? L'unica è chiamare il bluff del contendente, costringerlo a sporcarsi le mani con la politica, magari nel luogo più difficile e più sotto i riflettori che c'è. Un giocatore più razionale lo avrebbe fatto, ma Renzi forse no: troppo innamorato di sé stesso, troppo sicuro di piacere a tutti, troppo incantato dalla sua stessa narrazione, Renzi forse Roma non voleva perderla, o almeno non voleva dare l'impressione di non provarci nemmeno.

Il risultato è stata una campagna avvilente, specie dopo il primo turno, o almeno così è sembrata a questa distanza: tra spot per immaginarie olimpiadi e campagne di diffamazione, certi pretoriani hanno dato il peggio di sé e hanno dimostrato che il livello settato dalla Casaleggio e Associati si può ulteriormente abbassare. Il che fa sospettare che il M5S non abbia soltanto vinto una città, ma anche la battaglia per l'egemonia. A Roma si fronteggiavano due o tre populismi ed è naturale che abbia vinto il più sincero, quello che ancora non si è sporcato le mani. È lecito immaginare che tra qualche mese avrà le mani sozze come gli altri - ci sono precedenti millenari - ma a quel punto non si vede perché il favore della plebe debba tornare al Pd e non spostarsi sul Nuovo Movimento Che Verrà Più Onesto del Precedente. Ovvero, ho il sospetto che questo Pd, ridotto a un comitato elettorale di un tizio che tutto fa tranne andare alle elezioni, stia assomigliando sempre più a un guscio vuoto. Il M5S per contro è un oggetto ancora respingente, ma contiene energie vitali. Ha mostrato di sapersi riorganizzare dopo una sconfitta, di aver imparato dagli errori; ha sviluppato e imposto un gruppo dirigente. Certo, sia Parma che Livorno dimostrano che è impossibile fare politica vera senza uscire dall'ortodossia grillina, ma è proprio questo che rende Roma e Torino da qui in poi laboratori straordinariamente interessanti. Le tensioni che ne deriveranno possono distruggere il M5S, ma anche trasformarlo in qualcosa di diverso: per quanto mi riguarda sarà una buona notizia in entrambi i casi. E quindi insomma in bocca al lupo a tutti, ne avremo bisogno.

sabato 18 giugno 2016

Perdere Roma per vincere cosa

"Ciao Leonardo".
"Ciao, scusami".
"Di cosa?"
"Insomma, ti piombo così in casa senza preavviso e..."
"Ma figurati, è anche casa tua".
"Ma hai capito chi sono io?"
"Certo".
"Io sono te".
"Quel taglio non ti dona".
"Non capisci... io non sono semplicemente una copia di te stesso, io..."
"Tu vieni dal futuro".
"Da cosa lo hai capito?"
"Sei più brutto".
"Mi dispiace".
"Ma figurati, è colpa mia. Dovrei cominciare una dieta sul serio, uno di questi giorni".
"Lo dici sempre".
"Già".
"Senti, avrei tante cose da dirti su di noi, ma il tempo stringe, in tutti i sensi, e non è questo il motivo per cui sono qua. Se ho calcolato bene dovrebbe essere..."
"Diciotto giugno 2016".
"Sta per avvenire la singolarità. Tra poche ore avverrà qualcosa che avrà un effetto..."
"...catastrofico sulla storia dell'umanità?"
"Come hai fatto a capire?"
"Di solito i viaggi nel tempo si fanno per motivi importanti".
"Non ti ricordavo tanto sveglio".
"Mi hai sempre sottostimato".
"Forse. Senti, nel mio presente siamo disperati. Le speranze di cambiare qualcosa sono minime, pure bisogna tentare in ogni modo. Tra poche ore a Roma..."
"...si apriranno i seggi per il ballottaggio".
"Già..."
"E vincerà la Raggi".
"Ma la vuoi piantare? Sono io quello dal futuro".
"Hai ragione, scusa, il fatto è che..."
"Lo sai che sei insopportabile? Te l'hanno mai detto che sei insopportabile?"
"In tanti, ma se lo dici tu è diverso".
"Dunque. Cosa stavo dicendo. Vincerà la Raggi, con un largo margine, e questo avrà ripercussioni fatali".
"Bene. Cioè, no, male".
"Vuoi tirare a indovinare queste ripercussioni?"
"Beh, immagino che la città, governata da un pugno di incapaci eterodiretti, andrà al collasso".
"Proprio così".
"Salvo che è già al collasso, cioè, non credo che uno si metta a collaudare i viaggi nel tempo per dirmi che il traffico sulla Prenestina..."
"Un'epidemia di peste ti può bastare?"
"Ecchecazzo, la peste?"
"Ora non ricordo bene, ma credo che già ai tuoi tempi si chiacchierasse del fatto che c'erano parecchi topi, laggiù".
"E quindi insomma alla fine il Movimento Cinque Stelle è crollato?"
"Il che?"
"Il Movimento Cinque Stelle, quello che governava Roma..."
"Ah già, me l'ero praticamente dimenticato. Nessuno ne parla più".
"E Renzi?"
"Renzi guida un esecutivo di emergenza con poteri speciali".
"Insomma, perdere a Roma è stato davvero un investimento".
"Non scherzare, per favore. Centinaia di migliaia di morti".
"Poi ha vinto le elezioni, immagino".
"Non... non si fanno più".
"Non si fanno più?"
"Un plebiscito ogni tanto".
"Ahi".
"E in più la peste".
"Ok, insomma, ho chiaro il messaggio, il me del futuro dice che bisogna votare Giachetti passaparola".
"Siamo disperati".
"Sì, sì, certo".
"Non ti sento molto empatico".
"Hai ragione, scusa, è che... come faccio a spiegarti senza turbare il continuum spazio-tempo..."
"Guarda che sono io quello dal futuro".
"Lo so".
"Sono io che turbo il continuum".
"Lo so, però vedi... è appena stato qui il mio io del futuro".
"Eh? Sono io il tuo io del futuro".
"Di un altro futuro".
"Stai scherzando?"
"È per questo che non sono affatto sconvolto, vedi... tu sei già il secondo, oggi, comincio a farci l'abitudine. Lui veniva dal futuro in cui io e te a questo punto ci facevamo un selfie, poi un video, li mettevamo su fb, si attivava un passaparola pazzesco e alla fine Giachetti vinceva le elezioni".
"Fantastico!"
"Con poteri speciali per sterminare i topi".
"Quindi ha funzionato!"
"Anche troppo".
"In che senso?"
"Un mix di veleno per roditori filtrerà nelle condutture idriche e renderà l'urbe inabitabile".
"Perché adesso che cos'è?"
"Non scherzare. È una cosa seria. Miliardi di danni. Migliaia di morti".
"Sempre meglio della peste".
"Pare di no, visto che hanno deciso di inventare la macchina del tempo e a mandare il me stesso del futuro ad avvisarmi, un'ora e mezza prima che arrivassi tu".
"Aspetta. Aspetta. Qualcosa non va".
"Lo dici a me? Mi state facendo perdere un pomeriggio. E a me Roma neanche piace".
"Io non dovrei essere qui".
"Cioè bella, per carità. Ma non ci vivrei".
"Concentrati. Se tu davvero hai ricevuto una visita da quel me stesso del futuro... il futuro è cambiato".
"Già".
"Giachetti ha vinto le elezioni e io... non dovrei essere qui".
"In effetti quell'altro non era sicurissimo che saresti arrivato. Nel suo futuro i cronoviaggi sono una cosa nuovissima, non si è ancora capito come funzionano".
"Anche nel mio".
"Dunque tu arrivi da una linea temporale che in teoria non esiste più, perché è stata cambiata".
"Appunto".
"Ma forse non è affatto cambiata. Forse alla fine ha vinto la Raggi".
"E allora non sarebbe dovuto arrivare quell'altro".
"Infatti a un certo punto si è dissolto e... scusa, chiamano al citofono".
"Chi è?"
"Perdio, no".
"Un altro di noi?"
"Dice che bisogna assolutamente evitare che al ballottaggio vinca la Meloni".
"La Meloni?"
"Deve aver sbagliato linea temporale".
"Eh, diglielo".
"Parlagli tu che sei più esperto... ma senti, ma proprio me dovete venire a disturbare, tutti quanti? Dovreste pure saperlo che giugno è un casino".
"Ssst, non capisco cosa sta dicendo quell'altro".
"Ci sono gli esami, gli invalsi, mi ha appena chiamato il Caf che c'è da riaprire la dichiarazione dei redditi, e adesso pure cambiare il futuro. Non posso fare tutto io sempre".
"Vuoi star zitto? Sembra che abbiamo fatto un casino".
"Voi lo avete fatto. Io oggi non ho combinato niente".
"Ancora no, ma... senti, se ho ben capito quel che sta succendendo ora io mi dissolverò".
"Meno male".
"E sarò sostituito da una versione di me che ha le istruzioni per trapiantare un nuovo cuore a Berlusconi".
"Che c'entra Berlusconi, adesso?"
"Pare che in una linea temporale fino a qualche tempo fa abbastanza improbabile, Berlusconi sia l'unico in grado di sconfiggere la tirannide di un Renzi-re-dei-topi geneticamente modificato".
"Ah, ok, sto sognando".
"Mi sento mancare... concentrati, ti prego".
"Dimmi almeno chi ha vinto l'europeo".
"L'Ibernia".
"La che?"
"Forse abbiamo sottovalutato l'effetto papillone".
"Intendi l'effetto farfalla?"
"Cos'è una farfalla?"
"Ora mi sveglio".

martedì 14 giugno 2016

Il Terzo Reich in miniatura

Colonia (Colonia Dignidad, Florian Gallenberger, 2015)



11 settembre 1973: a Santiago del Cile, durante il golpe del generale Pinochet, un fotoreporter tedesco (Daniel Brühl) scompare. Emma Watson, la sua ragazza, si prende una settimana di ferie (fa la hostess) e indaga. Una pista la conduce alla Colonia Dignidad, una specie di enclave nazista sulle Ande, una comunità cristiana integralista governata col pugno di ferro da un predicatore bavarese ricercato in patria per pedofilia. Il luogo ideale dove torturare i detenuti politici - pare che anche Mengele si sia rifugiato lì per un po'. Ovviamente il luogo è un incubo totalitario, un lager con tanto di recinto elettrizzato. Ovviamente uomini e donne sono separati, guardati a vista, istigati a spiarsi e torturarsi a vicenda. Il piano di Emma è vestirsi da suorina, bussare al cancello, chiedere di entrare a far parte della congregazione, sopportare frustate e privazioni finché non le riesce di trovare Daniel, e poi scappare insieme in un qualche modo.

Ci riesce.

E vabbe', un po' implausibile, ma se è tratto da una storia vera...

Il vero cancello della Colonia.
Salvo che non è una storia vera. O meglio: lo sfondo è tragicamente autentico. La Colonia Dignidad è esistita davvero (e in un qualche modo esiste tuttora). Il suo fondatore molestava davvero i bambini: Pinochet usò davvero la colonia per nascondere e torturare un numero imprecisato di oppositori; l'ambasciata tedesca occidentale era davvero al corrente; persino il transito di Mengele è in qualche modo documentato. È una storia pazzesca che meritava senz'altro un film. Ma per il film serviva una storia in primo piano, e quella girata dal pur talentuoso Gallenberger è un disastro, una specie di compendio di tutte le ingenuità da evitare in un film d'azione (continua su +eventi!)

C'è un regime del terrore in cui basta chiedere in giro e tutti sanno dove sono nascosti i desaparecido. C'è una comunità segregatissima che accoglie la povera Emma sulla fiducia, non le guarda nemmeno i documenti. Lì tutti si controllano, tutti si spiano, eppure Emma riesce a uscire dal dormitorio quando le va. Siccome questa cosa durante una rilettura dev'essere sembrata un po' assurda, gli sceneggiatori si sono inventati il turno di notte delle pelapatate: cioè in questa colonia ci sono talmente tante patate che bisogna pelarle anche di notte, un'ottima scusa per uscire e scuriosare in giro. L'evasione sembra impossibile, salvo che sotto la montagna di patate c'è una botola che, indovina!, conduce alla sala delle torture e poi direttamente fuori, e fuori c'è senz'altro una strada e un camionista che può dare uno strappo fino a Santiago - 400 km, bazzecole. Poi c'è un inseguimento finale con colpo di scena all'aeroporto, come in Argo, ma senza ritmo. Alla fine prevale un senso di pena per i due comprimari, che ce la mettono tutta per tenere il film a galla.

Gallenberger è un valido narratore per immagini, ma non riesce mai a coinvolgerci in quello che succede: le scene iniziali sul golpe nelle strade di Santiago sono impeccabili ma freddissime, Emma e Daniel sembrano due turisti attirati dal folklore rivoluzionario in un orrendo viaggio organizzato. C'è una scena in cui lei va a cercare i vecchi compagni di lui, li trova che si stanno organizzando per passare in clandestinità, e si scandalizza perché non rischiano la vita per cercare Daniel: nei giorni in cui spariscono centinaia di cileni, per Emma conta solo il suo ragazzo tedesco. L'eurocentrismo dà meno fastidio quando ci trasferiamo nella colonia, un universo concentrazionario di cui sarebbe interessante capire il senso. Ma anche lì qualcosa non funziona: il leader, che dovrebbe essere straordinariamente carismatico, passa il tempo a insultare e picchiare e molestare e non c'è modo di capire come si sia conquistato tanto potere sui suoi sudditi: il suo carisma è dato per scontato, né spiegato né messo in scena. Di buono c'è che alla fine del film viene voglia di saperne di più. Colonia è al Monviso di Cuneo oggi (martedì) alle 21.

lunedì 13 giugno 2016

L'uomo che volle farsi Presidente (ma solo per due mandati)

A me il presidenzialismo di Renzi non piace, per due motivi: (1) è un presidenzialismo, una cosa che non mi piaceva ai tempi in cui la proponevano Craxi e Almirante; in seguito l'hanno proposta Berlusconi e Pannella e io non ho mai davvero ritenuto necessario cambiare idea. (2) è timido. Almeno Craxi e Almirante certe cose le dicevano ad alta voce: vogliamo l'elezione diretta del presidente della repubblica, vogliamo l'uomo forte e decisionista. Renzi da una parte si atteggia a uomo forte - salvo che non ci ha il fisico e gli scappano figure da bulletto alla sagra, ma passi - dall'altra insiste che la repubblica italiana gli piace così, fondata sul lavoro e parlamentare, ha solo bisogno di potare qualche ramo secco e poi vedrete che roba, vedrete. Vediamo.

L'ultimo numero lo ha fatto l'altro ieri: intervistato da Eugenio Scalfari, si è detto pronto a firmare una proposta di legge che limiti "a due i mandati del premier". L'ispirazione è molto probabilmente il Ventiduesimo emendamento alla Costituzione USA, che consente a un presidente USA di essere rieletto solo per un secondo mandato. Anche in Francia è stato approvato un limite del genere, soltanto nel 2008. Nella Federazione russa il limite è previsto solo per due mandati consecutivi, ragion per cui tra il terzo e il quarto mandato di Putin ce ne fu uno di Medvedev. In tutti questi casi, il limite riguarda figure elette direttamente dal popolo. Non risultano invece, che io sappia (ma segnalatemele voi) leggi che limitino i mandati di un capo del governo in una repubblica parlamentare: probabilmente perché una figura del genere non è eletta dal popolo, ma dal parlamento, che può indurlo a dimettersi in qualsiasi momento.

E insomma va così. Renzi insiste che la repubblica parlamentare va bene com'è, che anche la sua riforma costituzionale non sbilancerà i poteri in direzione dell'esecutivo - e però sembra il primo ad avere qualche dubbio, se suggerisce di limitare i mandati: proprio come se il nuovo capo del governo post-riforma avesse le stesse prerogative di un presidente degli USA o della Francia. Un bel lapsus: dice che vuole un tetto di due mandati, ma cos'è un "mandato" quando si parla di un presidente del consiglio dei ministri della repubblica italiana? In teoria è l'incarico, quello che ti conferisce il presidente della Repubblica e che deve ottenere un voto di fiducia in parlamento - ma in tal caso potrebbe durare anche pochi giorni! Addirittura un parlamento potrebbe giocare con la carriera politica di un leader, sfiduciandolo una prima volta, rioffrendogli l'incarico e poi gestendolo con la pistola alla tempia: al primo sgarro sei finito, non puoi più fare il capo del governo, c'è una legge che dice così - che legge geniale. Molto probabilmente Renzi non intende questo.

È più facile che per "mandato" intenda "legislatura": ovvero che dia per scontato che il parlamento eletto con l'italicum non potrà che esprimere un capo del governo, e non potrà che sostenerlo per cinque anni filati. In queste situazioni senz'altro capita di confondersi: anche perché tra sei anni, quando si rieleggerà anche un presidente della Repubblica, un parlamento così ben allineato non potrà che obbedire alle consegne di chi gestisce la maggioranza, e quindi insomma al Quirinale da qui in poi dovrebbero andarci dei tranquilli notai.

Questo perlomeno è il progetto. A quelli a cui non piace, a quelli che lo trovano inquietante, Renzi è pronto a offrire un contentino: la repubblica, spiega, me la date solo per due mandati: poi ve la ridò indietro. Come se il nostro principale problema fosse lui, Matteo Renzi. E invece no: il vero problema è che prima o poi (anche molto prima, se va avanti così) al suo posto ci sarà qualcun altro: e che a quel qualcun altro si rischia di fare un po' troppo spazio. Non è niente di personale, Matteo Renzi: ce l'avevamo col culto dell'uomo forte prima di te. Ce l'avevamo con Craxi e Almirante, con Berlusconi e Pannella, e adesso capita di avercela con te. Il presidenzialismo non ci piace, tutto qui. Se tu almeno avessi avuto il coraggio di proporcelo, ti avremmo detto di no. Quel coraggio non l'hai avuto: ci tocca dirti di no lo stesso.

sabato 11 giugno 2016

Shane Black e il portaceneri gigante

The Nice Guys (Shane Black, 2016).

Ryan Gosling è un mentecatto. Tanto per cambiare, già. Ryan Gosling è un ex sbirro che ha già dato il suo meglio, e da quel che ci è dato di capire, anche quel meglio non era un granché. È uno di quei personaggi che all'inizio dei vecchi film sonnecchiano sulla loro scrivania di detective privati, tra cicche e bicchieri vuoti, in attesa che arrivi un ispettore o una bionda fatale a svegliarli, a ributtarli nella mischia. All'inizio del film effettivamente Ryan sta dormendo immerso in una vasca da bagno, in giacca e cravatta, ma lo sveglierà sua figlia perché da qualche tempo in qua il regista Shane Black ha deciso che vuole portare al cinema anche la nuova generazione, e l'unico sistema che gli è venuto in mente è piazzare minorenni nelle sue storie - anche in quelle hard-boiled ambientate nel mondo della pornografia californiana. Funziona? Insomma. Ma è un trucco talmente vecchio che sembra quasi fresco, come certe barzellette che ti ricordi improvvisamente dopo trent'anni.



Shane Black a un certo punto dev'essersi creduto un autore, uno che ha una cifra stilistica tutta sua e la persegue a dispetto di logiche commerciali o del buon senso. Forse. È un'ipotesi, neanche la più triste. Sempre la California, fragile e letale - macchinoni che precipitano dentro villette prefabbricate - sempre gli stessi personaggi fragili e perdenti che però in un qualche modo alla fine portano a casa il risultato. Gente a cui è invariabilmente successo qualcosa di brutto e non ci vuole più pensare, piuttosto ci beve sopra fino a morirne. A metà di un film non memorabile, Ryan Gosling si ritroverà seduto a fumare sul trampolino di una piscina vuota, ingombra di mozziconi. Questo cos'è, gli chiederà Russel Crowe, un portaceneri gigante? Ho la sensazione che sarà l'unica scena che mi ricorderò del film (continua su +eventi!)

Shane Black ha gusto per i dialoghi surreali, ma non è Tarantino; sa costruire una scena d'azione ma non è Tony Scott; ha un po' di sincera nostalgia per la California anni '70 ma non ci sguazza come P. T. Anderson. Ma ci sono quei piccoli momenti in cui riesce a mostrarti la disperazione in un'immagine - un uomo in un portaceneri gigante, oppure una bambina seduta in un prato, con una torcia, che racconta una storia a delle bambole che non esistono più, ecco, quelle piccole spine nel cuore Shane Black le sa conficcare. Magari sarebbe diventato un autore davvero, se Hollywood si fosse fidata un po' di più. Magari non ci ritroveremmo davanti a un prodotto che sembra pensato apposta per l'estimatore di Shane Black (ma siamo così tanti?): un catalogo di situazioni che non erano originalissime neanche quando le usava in Arma Letale, nell'Ultimo boy scout, in Kiss Kiss Bang Bang e... basta, via, non è che abbia scritto tutti questi film Shane Black. Magari lui stesso avrebbe cose più interessanti da dirci, ma a questo punto è come il vecchio amico che ritroviamo in un bar, uno da cui vogliamo sentire esattamente le stesse storie, la stessa barzelletta, non perché ci faccia ridere ma perché ci consola sapere che si è rincoglionito almeno quanto noi. 

The Nice Guys è al City Plex di Alba alle 22:20; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:15 e alle 22:45; all'Impero di Bra alle 22:30; all'Italia di Saluzzo alle 20:00 e alle 22:15; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.

giovedì 9 giugno 2016

Come ci si ammazza in Padania

All'onorevole Buonanno, leghista, è capitata la sorte che non augurerei al peggior nemico, che in effetti potrebbe essere lui. Sparato ad alta velocità, cuore fragile di una pallottola di lamiera, Buonanno è morto tamponando un compagno di strada sulla corsia di sicurezza, come potrebbe capitare al miglior guidatore in un momento di stanchezza o distrazione. Perché è così che vanno le cose: a diciott'anni superi un test, ritiri una patente e da quel momento puoi girare armato, anzi sei tu stesso l'arma. Non con quelle cose ridicole che tengono gli americani nel cassetto, e i politici sventolano in tv per speculare sull'ansia di chi è stato svaligiato. Parliamo di ordigni enormi, quintali di ferro o alluminio che possono passare da zero a 150 km/h con la lieve pressione di un piede. Possono ucciderti in ancora meno tempo e non è lo scenario peggiore. Possono fare di te un assassino. Succede tutti i giorni.

L'onorevole Buonanno, leghista, si mostrava preoccupato per la criminalità e non aveva nemmeno tutti i torti - probabilmente sta aumentando, com'è logico in tempo di recessione. I furti in casa soprattutto, e non c'è bisogno di sottolineare come questa categoria di reati influisca più d'altre sulla percezione della sicurezza del ceto medio proprietario. D'altro canto, gli omicidi consumati a scopo di furto o rapina, nel 2014, sono stati 27. Nello stesso anno le vittime di incidenti stradali sono state 3381. Nel Duemila erano ancora più del doppio. Una cosa giusta e di sinistra che ha fatto Berlusconi: mettere il tutor in autostrada (o se l'ha fatta Prodi, almeno Berlusconi non l'ha tolto). Una cosa scema e di destra che ha fatto Matteo Renzi: il reato di omicidio stradale.

Non si muore più in strada come una volta, ma si muore ancora tanto e lo sappiamo. È l'unica vera guerra della mia generazione: abbiamo tutti uno o due amici al camposanto a cui non portiamo più i fiori. Buonanno non era un mio amico, ma era come minimo un compagno di autostrada, due o tre volte statisticamente potremmo esserci sorpassati. Sono vicino al dolore dei suoi cari: non mi costa fatica, è lo stesso dolore che mi accompagna tutti i giorni. Là fuori ci si ammazza, ed è successo anche a gente a cui volevo bene, un po' più spesso di quanto pensavo di poter tollerare. È un problema molto più grosso di tanti altri problemi che ci fanno discutere, che ci spingono a prendercela contro una minoranza o contro un ceto politico e votare un onorevole piuttosto di un altro.

domenica 5 giugno 2016

Muhammad Ali non è andato in Vietnam perché analfabeta, dice Riotta che se ne intende (di analfabeti)

Se per caso vi stavate chiedendo: è possibile scrivere un brutto pezzo su Muhammad Ali? Un combattente incredibile, un attore nato, uno che sembra non aver mai lasciato un microfono senza aver detto qualcosa di buffo o interessante? Uno che ha perso un titolo mondiale a tavolino per una questione di principio, uno che il suo pezzo di secolo se l'è vissuto da protagonista? Se per caso vi stavate chiedendo: può un giornalista italiano sbagliare persino un coccodrillo su Muhammad Ali?, ebbene, sono ovviamente domande retoriche. Ecco il buon Gianni Riotta.


Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»).
Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita.

Ora: secondo voi Riotta lo sa che gli obiettori di coscienza e i riformati sono due categorie diverse? Che se davvero fosse stato "esentato per aver fallito i test", Muhammad Ali non avrebbe avuto bisogno di obiettare, farsi arrestare, farsi condannare, perdere la licenza di pugile, perdere il titolo mondiale, appellarsi alla Corte Suprema? E non c'è nessuno alla Stampa che lo sappia, che possa avvertirlo, correggerlo, e magari già che c'è spostare quelle due o tre virgole, cambiare quei due o tre verbi che non si comportano in italiano come Riotta pretenderebbe (punire qualcuno di qualcosa?)

Di tutti gli aneddoti citati da Riotta, quello dei test falliti e dell'IQ basso è di gran lunga il meno noto: in un pezzo di mille parole, cinquanta servono a ricordare che Ali non era una cima. In effetti no, non ci teneva nemmeno troppo a sembrarlo (tra le sue frasi celebri: "Ho detto che sono il migliore, non che sono il più intelligente". In sociologia il fenomeno per cui le persone tendono a definirsi "migliori" ma non "più intelligenti" è chiamato Muhammad Ali Effect). Però cercare di desumere la sua intelligenza dal test della visita di leva è abbastanza ingeneroso - forse Riotta ignora quante risposte sballate davano i suoi coetanei al test dei Tre Giorni. Ali, di cui tanti hanno lodato l'intelligenza tattica sul ring e fuori, potrebbe anche aver tentato nel 1964 di falsare i test di scrittura e spelling per non andare in guerra e continuare a pugilare. Perché magari davvero non era una cima: ma nemmeno così scemo da preferire il Vietnam al titolo mondiale dei pesi massimi.

Quello che Riotta non dice, o forse non ha capito (o è stato tagliato in fase di pubblicazione), è che nel 1965 l'esercito abbassò gli standard minimi, e Muhammed Ali ridivenne arruolabile: a quel punto si rifiutò pubblicamente di obbedire agli ordini e diventò quello che tuttora chiamiamo obiettore di coscienza - il più famoso del mondo. Un esempio straordinario non solo per gli afroamericani, non solo per gli statunitensi. Se un uomo che si guadagnava da vivere pestando a sangue Sonny Liston si rifiutava di andare in guerra, l'obiezione non era più un atto di viltà. Diventava l'esatto opposto: una prova di coraggio. Va bene. Invece secondo Riotta non c'è andato perché ha fallito i test, scriveva a stento, firmava libri che non sapeva leggere e si arrangiava imparando un po' di versetti a memoria. Le cose non stanno esattamente così, ma si capisce quanto fascino deve avere questo Ali dislessico e disgrafico per Gianni Riotta: o non è vero che nei monumenti dei grandi uomini ognuno cerca di intravedere il proprio riflesso? Non sarà una coincidenza che tra le mille cose che poteva dire di Ali, gli sia venuto in mente che aveva difficoltà di scrittura, e firmava libri lo stesso?

"Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore". Sì, prof Riotta, appunto: crescere, maturare, sbagliare, ma anche correggersi. Correggersi. O al limite farsi correggere da qualcuno; ci sarà bene qualcuno nei pressi che può dare una mano. Continuo a trovare incredibile che non ci sia.