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giovedì 25 gennaio 2018
Senza Sinistra Sulle Schede (Si Sopravvive) (Spero)
Lo sapete che la sinistra è in crisi? Lo è più o meno da sempre, almeno nella narrazione dei quotidiani. Lo è per definizione: mentre la destra fa paura, sempre sul punto di svoltare, la sinistra è divisa, disorientata, eccetera. Serve un esempio? Questo è appunto il mestiere del commentatore. Trovare ogni tot giorni un esempio diverso.
Lo spunto dell’ultima settimana: pare che sulle schede elettorali, per la prima volta dopo tanti anni (ma quanti?) non vedremo più la parola “sinistra”. In realtà qualche fortunato avrà modo di vederla ancora, nel bollino col quale si presenteranno insieme i principali partiti trotzkisti italiani, che sono appena due. Folklore a parte, le formazioni di sinistra che hanno qualche chance di sbarcare in parlamento (Potere al Popolo, Liberi e Uguali) hanno rinunciato a mettere nel simbolo la parola che comincia per S. Quanto al PD, com’è noto, la “S” l’ha rottamata ben prima che arrivasse Renzi: già nel 2007, quando gli allora Democratici di Sinistra si fusero con i post-democristiani e centristi della Margherita. Risultato: a 22 anni dalle elezioni del ‘96 (in cui il partito più votato in Italia risultò proprio quello dei DS) gli elettori italiani non troveranno “sinistra” sulla scheda. È un fatto grave?
No.
Ma è interessante notare come viene raccontato, con quell’attenzione per il bicchiere mezzo vuoto che è necessaria a chiunque voglia parlare di sinistra (e quindi di crisi). Si dà per scontato che qualsiasi novità debba coincidere con qualcosa di negativo: se non c’è più la parola “Sinistra” ci stiamo senz’altro perdendo qualcosa. Qualcosa che c’era già, e quindi senz’altro è qualcosa di antico, e di nobile. Qualcosa che non riusciamo più a recuperare perché siamo in crisi. Nota: questo modo di pensare è in assoluto l’atteggiamento meno “di sinistra” che si possa immaginare. L’attenzione maniacale alle tradizioni antiche o presunte tali è quello che ci si aspetterebbe dalla destra: ma appunto, in Italia la destra si racconta in tutt’un altro modo. È scaltra, si annida, prolifica nell’ombra e al momento giusto prenderà il sopravvento. Se la destra rinunciasse all’improvviso al suo nome, i commentatori non penserebbero che è in crisi. Sagacemente suggerirebbero che si stia mascherando per ottenere più consensi. Il problema in realtà non si pone, perché la destra ha usato raramente la parola “Destra” sui suoi bollini elettorali. E invece, la Sinistra, l’ha usata poi così spesso?
Neanche tanto... (continua su TheVision)
giovedì 18 gennaio 2018
Al di là del Partito del Piacere
C’è mai stata una campagna elettorale tanto simile a un saldo di fine stagione? Sarà che Berlusconi non ha più niente da perdere; sarà che il M5S ha più voglia di lanciare promesse assurde che di vincere (col rischio poi di doverle mantenere); sarà magari anche la stagione, la depressione post-natalizia; proprio mentre stiamo lentamente elaborando la delusione per non aver trovato sotto l’albero quello che desideravamo, ecco che arriva Di Maio con uno scrigno pieno di Reddito di Cittadinanza. Ma da dietro spunta Berlusconi e promette di togliere tasse per sei anni a chiunque ci assuma a tempo indeterminato, se le elezioni le vince lui. Quanto a Pietro Grasso, lui non vince di sicuro ed è un peccato, sennò potremmo tornare all’università gratis, magari riavere indietro i nostri vent’anni.
Intruppato in mezzo a questi favolosi personaggi da presepe, Matteo Renzi sembra l’imbonitore meno convinto. Si intuisce che anche lui vorrebbe partecipare al gioco; abolirci, che so, il canone in bolletta. Ma si trova inchiodato a un ruolo che non ha mai incarnato volentieri, ma che è il fardello di ogni leader italiano di Centrosinistra: il rappresentante del Principio di Realtà.
Proprio lui, che appena ieri era il più giovane: proprio a lui ora tocca il ruolo antipatico dell’adulto che fa due conti e scrolla la testa: mi dispiace, ma non ce lo possiamo permettere. Salvini vuole la flat tax? Un bel regalo ai ricchi, ma con che soldi? I Liberi e Uguali vogliono l’università gratis per tutti? Non sarebbe poi un’idea così fantascientifica, per esempio in Danimarca qualcosa del genere c’è, ma qui da noi manca la copertura (la Danimarca ci piace solo quando licenzia facile). Il Principio di Realtà, spiegava Freud, non è opposto al più infantile Principio del Piacere, ma ne è per così dire una versione più evoluta, modellata dalle stesse “pulsioni di autoconservazione dell’ego”: è come se per tutti noi venisse una specie di 7 gennaio della vita in cui capiamo che non possiamo alimentarci per sempre a torrone e pandoro. Dobbiamo in qualche modo accettare l’idea che esiste il diabete, esistono i lunedì, le tasse, i debiti e tutte queste cose orrende e insormontabili che compongono la dimensione chiamata realtà. Un momento del genere arriva persino per gli italiani, più o meno ogni otto/dieci anni: è l’unico momento in cui la sinistra ha qualche chance di vincere le elezioni. Peccato che dopo averle vinte non possa fare quasi nulla di sinistra...
mercoledì 10 gennaio 2018
Dell'Iran (non capiamo niente)
L’Iran non è mai quello che ti aspetti. Quando verso la fine di dicembre abbiamo iniziato a sentir parlare di proteste, la prima immagine che abbiamo messo a fuoco era quella di una donna giovane che si toglieva il velo e lo sventolava in una strada di Teheran. Semplice e perfetta. Per Roberto Saviano era “il simbolo della rivolta in Iran. Non una rivolta contro il velo ma contro l’obbligo del velo”.
Nel giro di poche ore abbiamo però scoperto che la foto, per quanto potente, non aveva a che fare con le proteste, che non erano nate a Teheran ma a Mashhad (seconda città dell’Iran) e che non sembravano riguardare il velo, ma i rincari dei prezzi e le difficoltà economiche causate da una crisi finanziaria. È una protesta molto diversa dall’Onda Verde del 2009, scriveva una settimana fa sul New York Times lo scrittore iraniano-americano Amir Ahmadi Arian. A protestare non è la classe media, ma quella metà della popolazione a cavallo della soglia della povertà (40 milioni di iraniani): “la folla dei mangiapatate”, come li definisce il giornalista dissidente Ebrahim Nabavi. È una classe sociale che non solo non ha il velo tra le proprie priorità, ma che osserva con rabbia crescente lo spettacolo dei giovani rampolli iraniani, la riccanza locale che ostenta un lifestyle ben poco islamico. “I giovani ricchi iraniani si comportano come una nuova classe aristocratica, inconsapevoli delle origini della loro ricchezza”, scrive Arian. Quel che è peggio è che la postano su Instagram, su account eloquenti come TheRichKidsOfTeheran (“Questo è RKOF, ti avvertono: se sei politicamente frustrato, scoreggiati altrove”). Altro che obbligo di portare il velo: qui c’è gente che posa in bikini a bordo piscina, semplicemente perché può permetterselo (continua su TheVision).
Ci aspettavamo un movimento per i diritti civili, per la libertà di espressione, e invece questi mangiapatate se la prendono per cose proletarie come il carovita. Pensavamo che le protagoniste delle dimostrazioni fossero le donne, ansiose di togliersi il velo, e invece a dominare la scena sono gli iraniani delle aree rurali, ostili verso chi il velo può permettersi di toglierlo, in barba alla shari’a. Speravamo che gli smartphone li avrebbero aiutati a coordinarsi e a comunicare con l’estero (via Telegram e Signal), e invece salta fuori che molto spesso si riducono a uno spaventoso catalizzatore di invidia sociale (via Instagram). Ci aspettavamo una protesta civile, nonviolenta, come l’Onda del 2009, e abbiamo una massa scomposta e forse manovrata dalla frangia ultraconservatrice: l’ex presidente Ahmadinejad sarebbe agli arresti con l’accusa di aver “incitato alla rivolta”. Durante i suoi mandati le cooperative di credito avevano attirato i piccoli risparmiatori, offrendo interessi inverosimili e mandandoli sul lastrico: quando il governo del successore Rouhani ha tentato di normare il settore il sistema è crollato come un castello di carte e ora chi ha perso tutto se la prende con i politici.
Le cose probabilmente sono ancora più complicate di così, soprattutto ora che la protesta è arrivata a Teheran ed è diventata più interclassista. Azar Nafisi (l’autrice di Leggere Lolita a Teheran) su Repubblica domenica scorsa ha ribadito che le donne sono “sempre in prima fila”, e che “stanno portando avanti questa campagna contro il velo”, anche se “non è contro il velo e basta che si battono. È in nome della libertà di scelta…” Anche la Nafisi è un’esule, vive negli USA: uno dei motivi per cui facciamo fatica a raccapezzarci su quanto accade in Iran è che molte delle informazioni filtrano attraverso i contatti – complicati – mantenuti da parte di chi è fuggito. I corrispondenti esteri sono pochi e faticano a uscire da Teheran, che come tutte le capitali non è la città più adatta a capire quel che succede nel Paese profondo.
In una situazione del genere è abbastanza normale che ciascuno proietti sul mistero dell’Iran le proprie ombre: e il velo in questi casi è sempre la prima cosa di cui si parla, il dettaglio più appariscente. Può darsi che non sia l’attuale priorità dei manifestanti che scendono nelle strade a rischio della propria vita: ma di sicuro è una nostra priorità, di occidentali globalizzati che con le donne velate nei luoghi pubblici hanno appena cominciato a convivere, perlomeno in Italia. Forse per gli iraniani il velo è davvero un simbolo, di sicuro lo è per noi. Ed è di noi che stiamo parlando quando crediamo di parlare dell’Iran. Una popolazione povera che protesta contro un brusco rincaro dei prezzi (contro la fame, insomma) è qualcosa di lontano dalla nostra quotidianità, dalla nostra sensibilità. Un gruppo di donne che vuole sfilare a testa scoperta è molto più facile da capire.
L’Iran moderno è un Paese isolato che comunica per lo più attraverso i suoi dissidenti. Gran parte di loro facevano parte di una classe media che forse è quella che ha maggiormente sofferto l’avvento del regime oscurantista degli ayatollah. È lo spicchio sociale descritto con straordinaria efficacia in Persepolis, il fumetto e libro di Marjane Satrapi – anche lei esule, in Francia. La Teheran in cui cresce la protagonista è una città che partecipa alla rivoluzione del 1979 con entusiasmo. La famiglia di Marjane è relativamente benestante (la giovanissima protagonista scopre di discendere da una famiglia di principi); uno dei suoi zii è un dissidente comunista, scarcerato durante la rivoluzione e prontamente riarrestato quando i pasdaran prendono il potere. Di fronte alla notizia che gli islamici hanno stravinto le elezioni, reagisce con la flemma del materialista storico: l’Iran è un Paese di contadini – dice – è normale che votino per gli uomini di religione. La Satrapi non potrebbe raccontare la storia di quei contadini, e quel che rende Persepolis una storia straordinariamente onesta ed efficace è proprio il fatto che nemmeno ci prova: il suo è il punto di vista di una figlia della borghesia che durante gli anni della guerra assiste alla perdita dei propri privilegi. È un milieu che tenta di risollevarsi il morale organizzando feste clandestine in cui si può ancora ballare la disco e bere alcolici: fuori, in strada, pattugliano ragazzini fanatici talmente giovani che non riescono a farsi crescere la barba – l’età media della popolazione non raggiunge i 30 anni.
In una delle scene più rivelatrici, una conoscente di Marjane, costretta a chiedere un visto per far operare suo marito all’estero, scopre con orrore che il funzionario che glielo può concedere – l’uomo che ormai ha diritto di vita o di morte su suo marito – è il suo ex lavavetri. Per lo spettatore progressista occidentale è un po’ il momento della verità: fino a che punto saresti pronto ad accettare una rivoluzione? E se il ribaltamento degli assetti sociali portasse il tuo lavavetri su un gradino più alto del tuo? Dal nostro punto di vista è difficile accettare che quella del 1978-1979 sia stata una vera rivoluzione, dal momento che ha condotto l’Iran a un regime teocratico e oscurantista. Per il ceto borghese delle città è stato senz’altro un passo indietro: ma per il popolo delle campagne? Ogni tanto un quotidiano italiano ripubblica foto di donne iraniane prima della rivoluzione, a capo scoperto e vestite nelle tinte sgargianti che negli anni ‘60 e ‘70 potevano andare di moda anche da noi. Il messaggio è chiaro: la Persia dello Shah era un Paese in procinto di diventare una democrazia occidentale, gli ayatollah hanno interrotto quello che ci sembra il progresso naturale delle cose. Ma quelle foto selezionano una classe sociale ben precisa, la borghesia cittadina: nelle campagne, e nei ceti più umili, il velo resisteva. Possiamo considerarlo un simbolo religioso, e odiarlo per la sottomissione che implica, ma è anche un simbolo sociale: è la campagna (tradizionalista, clericale) che vince sulla borghesia cittadina e sulle sue velleità cosmopolite. Appena sentiamo che l’Iran si rivolta, speriamo che c’entri in qualche modo il velo: vorremmo che fosse una protesta moderna, una campagna sui diritti civili, come quelle che combattiamo in occidente e che ormai coincidono con l’agenda progressista di qualsiasi partito di centrosinistra.
Lo zio marxista di Marjane forse direbbe che abbiamo perso la coscienza di classe, e che ci siamo dimenticati che anche l’obbligo del velo è una sovrastruttura. Che le donne smetteranno di indossarlo quando conquisteranno un potere contrattuale che nella società iraniana ancora non hanno, e che conseguiranno quest’ultimo dopo aver conquistato il lavoro e il diritto di voto: perlomeno nelle nostre campagne è andata così. Allo zio, però, potremmo rispondere che le cose si sono rivelate più complesse; per esempio si è scoperto che la Storia non va necessariamente in una direzione. Si pensava che una rivoluzione sociale diretta dal clero sciita fosse un controsenso, ma è un controsenso che va avanti da 40 anni, ormai. Forse più che di progresso bisogna parlare di adattamento all’ambiente, e che finché funziona, il regime degli ayatollah ha dimostrato di sapersi adattare. Un giorno comunque finirà, perché tutto finisce: possiamo sperare che finisca presto, anche se da qui ci è impossibile capire come.
venerdì 5 gennaio 2018
I giornalisti italiani non parlano ai ventenni
Buon Anno a tutti – capita anche a voi che i nuovi calendari diano le vertigini? Certi anni hanno dei nomi che da bambino associavo più ai film di fantascienza che alla possibilità di arrivarci vivo. Prendi “2018”, poteva essere il titolo giusto per un romanzo sui sopravvissuti della Terza Guerra Mondiale, non l’anno in cui cambio un lavoro o decido di comprare una macchina nuova (nemmeno volante). Ma forse la vera vertigine è notare come certe cose anche futili restino al loro posto, mentre tutto il resto (giorni, settimane, mesi, governi, legislature) accelera. Per esempio la settimana scorsa, sulla prima del Corriere, mi è capitato di leggere la parola “Tafazzi”. Ancora. Possibile?
È stato Gramellini. Dovendo definire l’autolesionismo dei senatori Pd – che hanno contribuito a far mancare il numero legale sull’ultima votazione per lo ius soli – ha deciso di evocare “il ritorno di Tafazzi”. Questa è forse una buona notizia: almeno è un “ritorno”, insomma, pare che per un po’ Tafazzi non sia stato tra noi. Non solo, ma delle venti righe che ha a disposizione, il giornalista decide di spenderne almeno un paio a spiegare di chi si tratti: per fortuna il personaggio non merita veramente più di questo. “Tafazzi era l’omino di uno sketch televisivo interpretato da Giacomo Poretti che si martellava il basso ventre a bottigliate”: davvero niente da aggiungere, a parte che gli stessi autori (Aldo, Giovanni e Giacomo) lo definivano “lo zero comico assoluto”, e lo utilizzarono per lo più in brevissime gag nella trasmissione Mai dire Goal tra 1995 e 1996. Ci siete? parliamo di una macchietta che si prendeva a bottigliate nelle palle in alcuni sketch andati in onda ventidue anni fa. Ventidue anni fa.
Com’è che ne stiamo ancora parlando?
La vertigine.
Quello che sta facendo Gramellini – quello che Gramellini è bravissimo a fare – si può definire “riferimento alla cultura pop”. Ha due precise funzioni: (1) creare complicità con chi condivide la stessa cultura pop e (2) tagliare fuori tutti gli altri. In effetti di solito questi riferimenti hanno una precisa dimensione generazionale, e tendiamo a riservarli alle conversazioni tra amici. E forse dovrebbe lusingarmi il fatto che io possa ridere a una battuta del giornalista, ti ricordi di quando Giacomo si martellava le palle su Italia1? Ahah, che metafora della sinistra, a quasi un quarto di secolo di distanza. Sul serio, cosa c’è di male? Tafazzi ha 2340 risultati su Google, “tafazzismo” e “tafazzista” sono entrati nella Treccani senza destare un decimo delle polemiche riservate a “petaloso” (che nella Treccani ancora non c’è). Cos’è che mi infastidisce così tanto (a parte l’immagine di Giacomo in calzamaglia?)
C’è che gli amici che ridono cominciano a diradarsi. I quotidiani cartacei hanno perso il 50% dei lettori in dieci anni – aumentando, nel frattempo, appena del 4% su web. Le indagini sulla lettura ci confermano che la percentuale degli italiani che legge un libro oscilla da un decennio intorno al 40%. Dunque, non solo molta gente della mia età ha smesso di leggere libri e giornali, ma moltissima gente più giovane di me non ha mai iniziato. Quand’è l’età giusta per imparare a leggere un giornale? Io al liceo lo compravo. Non è che capissi tutto, ma potevo farcela. E un ventenne di oggi ce la può fare, visto quello che ci viene scritto sopra? Me lo domando spesso.
E quando leggo “il ritorno di Tafazzi” in prima pagina, mi rispondo: No. I ventenni del 2018, quando Tafazzi si sbottigliava le palle su Italia 1, non erano nemmeno nati. Non è una questione di comprensione del testo – alla fine se uno ha pazienza di leggere due righe il giornalista è pure disposto a condividere con il giovane lettore la fondamentale nozione di storia della tv degli anni ‘90 – ma chi ce l’ha quella pazienza? Se io avessi vent’anni oggi, e uno smartphone in tasca, al primo “Tafazzi” cliccherei altrove. Non saprei chi sia e nemmeno m’interesserebbe. Nome già sentito, roba da vecchi. Perlomeno ai miei tempi ragionavamo così, ogni volta che fiutavamo qualche riferimento a commedie italiane in bianco e nero o dialoghi di western con John Wayne – c’è puzza di vecchio qui, filare. A meno che nel frattempo la soglia di attenzione degli adolescenti non sia aumentata – ahahah, NO (continua su The Vision, dopo la foto di Mentana).
I giovani italiani non leggono i giornali, né su carta né altrove, e forse non li leggeranno mai. È colpa di Gramellini che si ostina a scrivere “Tafazzi” come andava di moda vent’anni fa? No. Credo che più che una causa rappresenti un sintomo. C’è una generazione di giornalisti che ai potenziali giovani lettori ha consapevolmente volto le spalle; ha fatto due calcoli e si è resa probabilmente conto che la fatica di trovare un nuovo linguaggio per recuperare i venti-trentenni non li ripagherebbe del rischio di perdere l’unica (semi)solida certezza: il pubblico ultracinquantenne.
Questi calcoli li possiamo fare anche noi: non sono difficili. Solo un po’ deprimenti. Durante le feste qualcuno è stato così gentile da allungarmi un link a un sito che non solo mi ha ragguagliato sulla data della mia probabile morte (quella più o meno l’avevo già calcolata), ma anche sulla mia posizione rispetto al resto della popolazione mondiale o nazionale. Dunque.
La cosa interessante è che mentre sono entrato a far parte già da un po’ del terzo più vecchio della popolazione mondiale, in Italia farò ancora parte per qualche anno della metà più giovane – il che è molto indicativo di quanto sia sbilanciata verso l’alto l’età media di noi italiani.
Ma che senso ha parlare di me? Stavamo parlando di Gramellini, che invece si trova qui:
Insomma ha appena scollinato, e questo spiega in parte il suo successo – è come se dalla sua terrazza Gramellini dominasse tutta la vallata che dalle vette dei Cinquanta-e-qualcosa declina lentamente verso i Novanta. Tutti quei declivi li conosce a memoria: sono il paesaggio che ha avuto davanti a sé da quando è nato. Conosce ogni sentiero e ogni modo di dire, sa dove si nasconde il Tafazzi e il Sarchiapone e ogni altra bestia fantastica dell’immaginario dei suoi lettori. Si trova nella posizione ottimale per echeggiare la porzione della popolazione italiana che i giornali ancora li legge.
La discesa non diventerà particolarmente ripida ancora per un pezzo; quanto agli abitanti della vallata a sinistra, tentare di raggiungerli non vale probabilmente la fatica di aggiornarsi. È viceversa ai venti-trentenni che viene chiesto lo sforzo di decifrare gli oscuri riferimenti alla cultura pop del secolo scorso: per fortuna c’è Google, oppure si può dare un’occhiata alla tv – specialmente alla Rai, che da questo punto di vista non è venuta meno alla sua missione di servizio pubblico: negli anni ‘60 insegnava l’italiano agli analfabeti, oggi in prima serata con il suo programma di punta (Techetechetè) insegna gli anni ‘60-’70-’80 a chi ha avuto la tremenda sfortuna di essere nato dopo.
Il grafico non è utile soltanto per mostrarci quando moriremo: ci fornisce anche una previsione ragionevole sul momento in cui auspicabilmente non sentiremo più parlare di “Tafazzi” e “tafazzismo” – più o meno verso il 2040. A quel punto Gramellini sarà sugli 80, che già oggi in Italia per un editorialista è un’età ragguardevole ma non eccezionale: Scalfari ne ha 93, Sartori ne aveva 90 quando si arrabbiò perché al Corriere gli toglievano i corsivi dalla prima pagina senza il suo permesso
Non è invece affatto facile capire cosa succederà, nel frattempo, nel mondo dell’informazione in lingua italiana: che riferimenti culturali condivideremo quando i babyboomers andranno in pensione (tardi) e non sarà più indispensabile comunicare con loro e attraverso loro? Esisterà una lingua comune che i millennial italiani possano adoperare o finiranno per usare anche loro “tafazzi” come sinonimo colorito per “masochista”, anche quando si sarà del tutto persa l’immagine terribile di Giacomo sbottigliantesi i testicoli? Non saprei. So che prima o poi dovremo preoccuparcene – il 2040 in fondo è tra poco più di vent’anni.
(La vertigine).