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mercoledì 8 maggio 2024

La Madonna che veniva dal letame

8 maggio: Madonna di Pompei, immagine miracolosa

Le Madonne in giro per il mondo potrebbero dividersi in due fondamentali insiemi: le apparizioni e le raffigurazioni. Può essere difficile distinguerle perché il culto tende a eliminare la differenza: dove appare una Madonna, presto o tardi viene prodotta un'immagine, la quale in certi casi si lega all'apparizione al punto che i fedeli danno la sensazione di attribuire i miracoli più all'immagine che all'apparizione. Però in certi casi l'apparizione proprio non c'è, o viene inventata a posteriori (probabilmente è il caso della Vergine della Guadalupe): quello che all'inizio stimola il culto è una raffigurazione alla quale vengono attribuite proprietà miracolose. Una caratteristica peculiare di quasi tutte queste raffigurazioni è che sono in un qualche modo rovinate: a volte si tratta di relitti rinvenuti dal mare (come la Madonna Candelaria delle Canarie, o la Vergine dell'isola di Barbana). Si tratta di manufatti che sorprendono chi li trova, scolpiti o dipinti in stili sconosciuti che alludono a luoghi lontani e inimmaginabili – una madonna nera in Polonia, una bianca in Giappone. Il loro stesso rinvenimento ha qualcosa di miracoloso, un segno di Maria dallo spazio profondo. Questo spiega anche perché nell'età moderne questa tipologia di Madonne sia diventata più rara (senza sparire del tutto): man mano che il mondo si faceva più piccolo e interconnesso, scoprire madonne diverse e sconosciute diventava più difficile, tant'è che a partire dall'Ottocento Maria comincia a sentire l'esigenza di apparire direttamente ai fedeli. E però ogni tanto qualche Raffigurazione miracolosa continua a spuntare qua e là, sempre grazie ad avvenimenti fortuiti che scatenano un corto circuito: ad esempio a Sant'Anastasia (NA) un'immagine non molto riuscita della vergine si impone al culto dopo essere stata ammaccata da un giocatore di pallamaglio: un caso che sembra suggerirci che l'imperizia di un artista non basti. Perché un'immagine s'imponga alla venerazione deve intervenire qualche forma di danneggiamento più o meno volontario. Ed eccoci al caso della Madonna di Pompei. 

Una delle più famose madonne dell'Italia (e quindi della cristianità), ma anche di quelle più documentate: proprio alle pendici del Vesuvio, che è il vulcano più studiato del mondo, troviamo questa raffigurazione miracolosa di cui sappiamo apparentemente tutto: quando arrivò in loco (13 novembre 1875) e chi ne fondò il culto: il possidente Bartolo Longo, benefattore dai trascorsi bizzarri. Da giovane, ci raccontano gli agiografi, avrebbe aderito a una vera e propria setta satanica (o almeno satanica gli era parsa dopo essersene allontanato), diventandone un sacerdote e rimediandone una depressione causata forse anche dalla dieta che gli adepti si autoimponevano – sì, di tutti i satanisti al mondo Longo era riuscito a trovare quelli che digiunavano invece di gozzovigliare: che senso ha, vi chiederete, e forse se l'era chiesto pure lui, prima di incontrare i domenicani che lo avevano rapidamente convertito. 

Dove scopriamo che il satanismo
faceva almeno dimagrire.
Anche le religioni si possono dividere in due fondamentali insiemi: quelle che ti apprezzano così come sei, e quelle che ti propongono un percorso di conversione. Ma cosa vuol dire convertirsi, chiede il fariseo Nicodemo a Gesù: devo forse rientrare nel grembo di mia madre e rinascere? (Giovanni 3,4). Gesù risponde tirando in ballo lo Spirito, per cui non è che sia molto chiaro, ma la parola "conversione" forse dice tutto: non si tratta di svegliarsi diversi, ma di cambiare direzione al getto di vita che portiamo con noi. Longo era stato un satanista spiritato (o uno spiritista assatanato), e nel Rosario forse trova la stessa fissità, la stessa ossessività: un mantra di 150 formule da ripetere sempre uguali. Mentre le reciti, la mente lascia il corpo e riflette sul suo destino. Cosa farà Longo ora che ha scoperto la Via, la Verità, la Vita, e inoltre ha ereditato una cospicua rendita? Si darà alla beneficienza: il napoletano è una terra feconda non solo di nobili esempi, ma anche di territori che di quegli esempi hanno ancora un disperato bisogno. Di lì a poco lo Spirito lo mette in contatto con una contessa appena rimasta vedova, Marianna Farnararo De Fusco, che condivide con lui la missione al punto che Longo la sposa: in questo modo evita di dare scandalo, ma si ritrova anche ad amministrare un latifondo ai bordi degli scavi pompeiani, di cui forse intuisce le potenzialità turistiche. Decide pertanto di costruirvi un santuario alla Madonna del Rosario, e l'intuizione è più che azzeccata:  il santuario diventa in breve una meta di pellegrini da tutt'Italia che possono avvalersi delle infrastrutture che stanno nascendo intorno al sito archeologico – o forse è il sito archeologico che aumenta il numero di visitatori grazie alle infrastrutture cresciute intorno al santuario? Insomma, nel 1901 a Pompei arriva una fermata della Circumvesuviana; non sono ancora così tanti i santuari religiosi raggiungibili in treno. Tutto qui, e forse è un po' poco, perché la Madonna di Pompei nasce proprio nel periodo più innovativo del marianesimo, il mezzo secolo tra Lourdes e Fatima in cui la Vergine si dà un sacco da fare, con apparizioni sparse per i pascoli di tutta l'Europa cattolica. Ma a Pompei no: rispetto alle altre Madonne coeve, quella pompeiana è molto più fedele al pattern delle raffigurazioni miracolose. Longo non assiste ad apparizioni mariane, bensì si imbatte in un quadro che si rivela ben presto in grado di effettuare prodigi. Ma perché ciò avvenga, occorre che sia stato rovinato e poi restaurato: almeno questa è la storia che gli agiografi raccontano. 

A Longo nel 1875 non mancava certo la liquidità, e a Napoli avrebbe sicuramente potuto trovare pittori in grado di produrre madonne di ottima fattura; persino a Pompei, dove la fame di souvenir dei turisti cominciava a richiamare artisti da tutto il regno, specializzati nel riprodurre gli affreschi antichi. Invece il domenicano padre Radente spinge Longo a bussare al Conservatorio del Rosario di Portamedina, dove suor Maria Concetta De Litala custodisce un vecchio dipinto che si rivela una crosta impresentabile: tarme, strappi, e inoltre la santa a cui la Madonna porge il rosario non è la domenicana Caterina da Siena, ma Rosa da Lima. Longo vorrebbe lasciarla lì, ma suor Maria Concetta insiste e così finisce per caricarla sul carretto. Questo carretto, gli agiografi ci tengono a ricordarlo, di solito trasportava letame: probabilmente trasportava qualsiasi cosa ci fosse da trasportare, ma in un qualche modo è importante ai fini della leggenda ricordare che la Madonna è arrivata a Pompei su un carretto del letame, quella cosa da cui nascono i fiori, comprese le rose (mentre dai diamanti non nasce niente). Una volta giunta a destinazione, Longo la fa restaurare da più specialisti: se ne avesse fatta fare una nuova gli sarebbe sicuramente costata meno, ma a questo punto abbiamo capito che è fondamentale che la Madonna venga da lontano, e abbia trascorsi misteriosi. Rosa da Lima diventa Caterina, e in breve la corona della Madonna comincia ad adornarsi di gioielli veri, donati dai pellegrini per grazia ricevuta. Nel secondo dopoguerra sono stati rimossi, perché contribuivano a deteriorare un dipinto che ormai è un palinsesto. Ma insomma: dal letame le rose, dalle rose i diamanti.

Intorno al volto incoronato della vergine compare un'aureola di dodici stelle, ripresa dal celebre passo dell'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle"). Probabilmente l'autore dell'Apocalisse intendeva alludere alla Chiesa dei dodici apostoli o a Israele e alle sue dodici tribù; nel 1955 però una corona di dodici stelle viene proposta tra i bozzetti per il simbolo del Consiglio d'Europa: l'autore, Arsène Heitz, si dichiarerà in seguito fedele alla Madonna, ma probabilmente il richiamo alle dodici stelle era stato fortuito, se non pescato dall'inconscio. I membri del Consiglio d'Europa che approvarono il bozzetto ne ignoravano il riferimento mariano: e però per una coincidenza che delizia i commentatori cattolici, il bozzetto fu approvato proprio l'otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione. Invece domani è il 9 maggio, festa dell'Unione Europea, che dal Consiglio d'Europa riprese la bandiera.

lunedì 6 maggio 2024

Le classi differenziali esistono già


Le classi differenziali, vedo che se ne riparla. Se ne riparla per nessun motivo, o perché un tizio qualsiasi (un generale in congedo, ma poteva essere un doganiere in pensione, una commessa di tezenis in pausa pranzo) doveva trovare qualcosa da dire in campagna elettorale. Non che nessuno abbia veramente intenzione di spenderci qualcosa, che è l'unica cosa che dovremmo chiedergli, sempre: ah, vuoi istituire classi differenziali? E quanto ci costerebbero? Un po' brutale, mi rendo conto, ma è una domanda sufficiente a capire se chi chiacchiera ha intenzione di fare sul serio. Per cui in effetti è una domanda retorica: nessuno ha intenzione di fare sul serio. 

Le classi differenziali, uno di quegli argomenti che su questa pagina si ripropone sempre uguale – a riprova che nulla cambia, tranne me, e di sicuro non in meglio. Era uno dei punti su cui mi piaceva aprire fronti interni coi progressisti; poi siamo diventati così pochi che ho lasciato perdere, e tuttavia.

La gente ha sempre questo problema quando pensa alla scuola, che di solito pensa alla scuola che ha fatto lui. E in Italia siamo tutti vecchi, per cui pensiamo alla scuola che abbiamo fatto 40 anni fa. Era una scuola con tanti difetti, studiavamo "le guerre puniche tre volte", ma era già molto inclusiva, una delle scuola più inclusive al mondo, le classi differenziali erano state abolite, i ragazzi con disabilità erano integrati nelle classi e sostenuti da opportune figure di sostegno, e tutti eravamo sostanzialmente d'accordo che non solo riuscivano a integrarsi ma portavano alle classi qualcosa di più. Non era un modello perfetto ma era un modello per tutti i versi preferibile alle scuole differenziali.

Poi sono successe cose e molti non ne sono accorti, o hanno fatto finta di.

La cosa più importante è che sono arrivati molti bambini da famiglie di origine straniera che in casa non parlavano italiano. È stato un processo graduale ma rapido, e non uniforme ma a macchie di leopardo: per cui in certe zone no e in altre sì, in certi quartieri no e in altri sì. La scuola pubblica come ha reagito al problema? La scuola pubblica si è messa a cercare dappertutto risorse per l'alfabetizzazione, e un po' ne ha trovate, soprattutto presso gli enti locali che erano abbastanza vicini al problema da porselo anche loro. Al ministero invece no, non hanno proprio capito la cosa. L'importante era non creare classi differenziali perché le classi differenziali erano brutte, fine. Quando si faceva notare che una classe media col 50% di studenti ancora da alfabetizzare era, nei fatti, una classe differenziale, la risposta illuminata del ministero era: caliamo la quota, d'ora in poi non si possono fare più classi sopra il 20%, massimo 30%. Che è letteralmente proporre brioches a chi non ha il pane, una cosa che Maria Antonietta non ha mai fatto, ma Maria Stella Gelmini sì, e tutti i ministri successivi. Non ci hanno mai spiegato come restare in quota (fare più classi? Dove? Con chi? eliminare fisicamente gli alunni in eccesso? Produrne altri?): la mia scuola è in deroga da allora. 

Il risultato di tutto ciò è che il ragazzo disabile che oggi entra in una classe, a volte non entra in una classe che può trarre giovamento nel rapportarsi con la sua diversità, ma in un circo di fenomeni che sono già diversi per i fatti loro. Non irrelatamente, nel frattempo è esploso il fenomeno dei Disagio Scolastico Certificato: ovvero una serie di disagi che possono (non necessariamente) essere certificati da uno specialista e che per quanto Galli della Loggia ne sia ormai convinto, non prevedono l'assistenza di un insegnante di sostegno (altrimenti ne avremmo ormai 4 per classe), ma un piano di studio personalizzato. 

Quindi ora un insegnante, non dappertutto, soltanto in certe realtà, più facilmente urbane e settentrionali, si trova in una classe con 5-6 studenti che necessitano di un piano di studio personalizzato, 1-2 studenti disabili con sostegno e altri 5-6 studenti che non è che capiscano sempre quando parli in italiano. Tutto questo solo nella scuola pubblica, perché appena vai in una privata il problema scompare: non sono tenuti a ricevere quote di stranieri o disabili o disagiati. Il che significa che nel quartiere con la scuola privata il disagio si concentrerà ulteriormente nelle scuole pubbliche limitrofe, e se lo fai presente al ministro lui dice ok, diminuiamo la quota disagio, l'avete diminuita? No? Va bene allora diciamo che siete in deroga.

In mezzo a tutto questo un generale, ma potrebbe anche essere un capitano dei pompieri, un incantatore di serpenti, una pornocasalinga, si sveglia che è primavera e dice: servirebbero classi differenziali. E tutti a dire boooooh, ma come ti permetti, la scuola dell'inclusione, cosa direbbe Don Milani. Don Milani, che non brillava per diplomazia, temo che vi avrebbe mandato a cagare non più tardi del 2010. Gli unici a non booooohare sono guarda un po', i genitori, che la scuola la stanno vedendo un po' più da vicino e senza le lenti rosa della nostalgia. Tra loro anche i genitori di origine straniera che ci terrebbero al fatto che i loro ragazzi l'italiano lo imparassero un po', o al limite l'inglese, la matematica: ma in certe situazioni non è previsto, in certe situazioni è previsto che loro figlio fissi la parete per cinque ore senza nessun sostegno o nessuna risorsa per l'alfabetizzazione. Questa è la diversità che portano alla classe, questo è il prezzo che devono pagare per la vostra ipocrisia. 

Le classi differenziali esistono già: sono le classi dei quartieri difficili. E a questo punto ci starebbe bene una di quelle formule da youtuber o telegrammista impazzito, del tipo: lo Stato non vuole farvelo sapere. Tranne che non è vero: lo Stato ci tiene molto a farcelo sapere; lo Stato che non ha fondi da devolvere nel recupero degli studenti in difficoltà, ne getta a pioggia in strumenti come l'Invalsi che servono semplicemente a ricordarci che esistono scuole di serie A, B e Zeta. L'insegnante curriculare deve essere educato a considerare gli alunni disagiati come un disturbo, un ostacolo insormontabile tra l'Eccellenza che dovrebbe perseguire e la realtà in cui dovrebbe sbrigarsi a cercare una professione meglio remunerata. Negli ultimi anni siamo riusciti a mettere insieme il peggio della cultura cattolica (una generale diffidenza verso la cultura e le iniziative individuali) col peggio del calvinismo (un culto dell'élite che si autovaluta e si trova sempre molto meritocratica). L'idea ancora non esplicitata, ma tra un po' ci arriveremo, è che la scuola non serve a formare, ma a separare chi ha talento da chi proprio non ce la deve fare e dev'essere scaricato il prima possibile. In mezzo a tutto questo, un tizio si presenta le elezioni e invece di proporre qualche altra sciocchezza come legalizzare la prostituzione (è già legale), si fa venire in mente l'idea delle classi differenziali: che esistono già. È più furbo degli altri, o è solo meno ipocrita? Non lo so, non ha nessuna importanza. 

Potessi replicargli, gli chiederei semplicemente quali risorse ha intenzione di gettare sul piatto perché è l'unica cosa che mi interessa ormai, la vita mi ha reso cinico e venale: i soldi: intendi costruire scuole in più, aule in più, risorse per le classi differenziali? Docenti opportunamente formati, e come, e con che fondi? Dicci quanti soldi ci dai o stattene zitto finché non ti viene in mente una cifra, grazie.

mercoledì 1 maggio 2024

Il primo maggio è di Giuseppe

1° maggio: San Giuseppe Artigiano

Il primo maggio lo hanno inventato i lavoratori, non è chiaro quando ma più probabilmente nell'Ottocento e negli USA, durante le battaglie sindacali per le otto ore. Anche i lavoratori italiani cominciarono a festeggiarlo a fine secolo. La repubblica lo riconobbe come festa nazionale nel 1949, e a quel punto la Chiesa si pose il problema: cosa festeggiare? 

https://www.farebene.info/pio-xii-papa-acli/


Che non era affatto un problema futile od originale, anzi. Reinventare le feste è quello che la Chiesa ha fatto sin dall'inizio, prendendo una celebrazione ebraica (la Pasqua) e cambiandone il senso. Più tardi è successo con la festa del Sole Vincitore sulle tenebre, tre giorni dopo il solstizio d'inverno, divenuta il Natale di Gesù. Nel giro di qualche secolo quasi tutte le feste precristiane sono state trasformate in un qualche modo: si è salvato solo il Carnevale. Gli studiosi la chiamano inculturazione, ed è interessante notare che comporta sempre un compromesso con il rito pre-esistente: se nel tal giorno gli allevatori erano soliti sacrificare a un qualche dio gli agnelli che non aveva senso lasciar crescere, non valeva la pena di interrompere bruscamente l'abitudine: meglio insistere sul concetto che Gesù Cristo era l'agnello di Dio. Se i fedeli erano soliti inchinarsi al sole sorgente prima di entrare in Chiesa, inutile mettersi a litigare contro l'usanza pagana: meglio costruire le chiese orientate a oriente, così l'inchino l'avrebbero fatto davanti a Dio. Una fontana sacra poteva restare sacra: bastava consacrarla a Dio o a un santo che si degnava di apparire al pastore assetato. E così via. (Questo spiega anche l'aggressività della gerarchia cattolica nei confronti di Halloween, che in teoria sarebbe sempre Ognissanti: ma nel successo delle ritualità consumistiche che arrivano dal mondo anglosassone, i preti non possono non riconoscere un tentativo molto efficace di inculturazione. Hanno antenne lunghe per queste cose, che a noi laici sembrano sciocchezze ma che in effetti lasciano segni secolari e millenari).    

Come il Natale, come la Pasqua, anche il Primo Maggio doveva in un qualche modo venire assorbito dal cristianesimo: o meglio, la Chiesa doveva opporre alla liturgia socialista qualcosa di non troppo diverso, ma decisamente cattolico. Così San Giuseppe, che aveva già la sua giornata di rappresentanza il 19 marzo, fu convocato per la prima volta da Pio XII nel 1955, per un turno straordinario, in quanto San Giuseppe Artigiano. E pensare che non sappiamo neanche esattamente che lavoro facesse: il termine greco che compare nei Vangeli, tekton, poteva indicare un umile falegname ma anche un carpentiere o addirittura un impresario edile. La scelta di definirlo "artigiano", in un discorso pronunciato davanti ai rappresentanti delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), indicava una precisa scelta di campo: più che alla classe operaia, Pio XII guardava ai professionisti, al tessuto di quella che oggi chiamiamo Piccola-Media-Impresa: un manto di orgogliosi imprenditori presso sé stessi, la maggior parte dei quali nel 1955 dovevano ancora estinguere il mutuo sulla casa e le rate sulla macchina, dopodiché sarebbero definitivamente divenuti refrattari a qualsiasi scossa rivoluzionaria.

Giuseppe non è l'unico né il primo santo del martirologio a essere ricordato come lavoratore. In Spagna per esempio ha un certo seguito Sant'Isidro, contadino: il quale però è famoso proprio perché, fermandosi ogni tanto a pregare, lavorava un po' meno degli altri (senza che il datore di lavoro riscontrasse un calo di prestazioni). Si trattava comunque di figure di secondo piano: Giuseppe era l'unico personaggio universalmente noto, che potesse meritarsi una giornata di astensione dal lavoro. Ma proprio mentre scrivo questa cosa mi viene in mente San Paolo di Tarso, che oltre a predicare si considerava un gran lavoratore (aveva probabilmente ereditato un'attività di produzione di tende dai genitori, che forse erano fornitori dell'esercito romano). Paolo, quello che ai Tessalonicesi che aspettando il ritorno di Gesù da un momento all'altro avevano smesso ogni attività, scrisse seccamente: Chi non lavora non mangia. Anche lui sarebbe stato un buon patrono dei lavoratori, ma Pio XII scelse Giuseppe. Tra tanti santi, proprio quello noto per non aver mai detto una parola: almeno nei vangeli, dove il datore di lavoro gli impone un matrimonio e poi un trasferimento in Egitto, insomma dispone di lui come un vero padreterno, e del resto lo è.

lunedì 29 aprile 2024

Caterina e l'anorexia mirabilis

29 aprile - Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d'Italia (1347-1380).

Tiepolo

[2012] Caterina Benincasa è la patrona d'Italia che gli italiani non conoscono. La schiaccia il confronto con la popolarità trasversale dell'altro patrono, Francesco d'Assisi, al punto che fuori da Siena molti la confondono con Chiara, l'amica e confidente di Francesco e fondatrice delle Clarisse. Caterina invece è tutta un'altra storia, un altro ordine (le domenicane mantellate), un altro secolo (il quattordicesimo), un altro mondo che non conosciamo altrettanto bene, forse non lo conosciamo poco. Per dire, la Rai non ci ha ancora fatto una fiction. Una fiction non si nega a nessuno, Filippo Neri ne ha avute già due. Caterina ancora niente, c'è solo un film del 1957 che nessuno ha più voglia di guardare, tant'è che su Youtube è gratis. Uno pensa: per forza, è una contemplativa, non c'è niente da raccontare. Non è proprio così. Caterina una sua storia ce l'ha. Persino appassionante, ma un po' deprimente, ecco.

Tanto per cominciare, Caterina è figlia della peste nera, l'epidemia più orribile mai abbattutasi sul continente. Questo però spiega solo fino a un certo punto un dettaglio singolare della sua biografia, l'avere avuto cioè 24 tra fratelli e sorelle. Per molte famiglie la prolificità fu un modo di reagire a un morbo che svuotò interi villaggi e quartieri (a Firenze la popolazione si ridusse forse di più della metà, ma il giovane Boccaccio se la cavò e più tardi ci ambientò il Decameron). Ma quando arriva la peste Lapa Benincasa di figli ne aveva già messi al mondo 24: metà erano morti in giovane età, cosa perfettamente in linea con le statistiche (morì subito anche Giovanna, la sorella gemella di Caterina), ma per gli standard dell'epoca la famiglia era comunque numerosa.




Questo non significa che Caterina fosse destinata al chiostro per risparmiare i soldi della dote, come qualche malizioso lettore sta già immaginando. Va bene, lo abbiamo letto tutti Manzoni, ma molto spesso nelle vite delle sante si presenta l'esatto contrario: la famiglia vorrebbe destinare la figlia riottosa al matrimonio, e lei non vuole. Del resto giudicate voi, tra una vita di castità e meditazione e una spesa a rincorrere una decina di pargoli nella contrada dell'Oca, quale fosse la più attraente. Il caso della 16enne Caterina è reso più drammatico dal fatto che il promesso sposo fosse il vedovo della sorella più grande, Bonaventura. Caterina aveva cominciato a vedere Gesù a cinque anni, e aveva fatto voto di castità a sette, ma soprattutto aveva assistito all'agonia della sorella, morta di parto, e non doveva avere molta stima per il cognato. Memore dell'esempio di Bonaventura, che per punirlo delle sue scarse attenzioni si infliggeva lunghi digiuni, Caterina rifiutò di mangiare finché i genitori non cedettero e il matrimonio andò a monte.

Il disturbo alimentare di Caterina, quello che gli studiosi oggi chiamano anorexia mirabilis, nasce in questa situazione: Caterina non possiede nemmeno il suo corpo, ma sa come tenerlo in ostaggio, e detta le condizioni. Si taglia i capelli ed entra nelle domenicane, ma come terziaria, restando dunque nella casa dei genitori. Impara a leggere e a scrivere: le sue opere di misericordia e le sue prime lettere ai potenti del mondo attirano l'attenzione, chi è questa ragazzina che tratta i grandi uomini alla pari? I domenicani, che per farla entrare in un ordine di solito riservato alle pie vedove hanno chiuso un occhio, temono uno scandalo e la invitano al Capitolo Generale di Firenze per interrogarla. Là Caterina fa l'incontro che le cambia la vita: Raimondo da Capua, dottore in teologia, a cui la ragazza prodigio viene affidata una volta certificata la sua ortodossia. In principio diffidente, Raimondo imparerà ad apprezzare le doti di Caterina, soprattutto dopo essersi salvato dalla nuova ondata epidemica del 1374, racconta, grazie alle preghiere di lei. Raimondo sarà per tutta la sua vita il confessore di Caterina, il suo manager, e dopo la morte il suo biografo. Chissà se senza questo sodalizio con la santa avrebbe fatto tanta carriera.

Nel 1376, a 29 anni, Caterina è la protagonista di una missione diplomatica toscana ad Avignone: si tratta di convincere il Papa (a cui aveva già scritto tante lettere) a tornare a Roma, dopo 70 anni di cattività, e già che c’è a bandire una crociata. La crociata è un chiodo fisso di Caterina: l’unico mezzo per fare la pace nella cristianità, esportando la guerra al di là del mare. La missione è in parte politica, in parte propaganda: papa Gregorio XI sta già pianificando il suo arrivo in Italia, ma vorrebbe prima stroncare la Repubblica di Firenze, che guida la rivolta delle città pontificie anche dopo che il Papa ha scomunicato i suoi governanti e (cosa ben più grave) dichiarato decaduti i crediti dei suoi banchieri. Caterina e Raimondo vengono a offrire la pace, ma Gregorio non si fida del tutto e i fatti gli daranno ragione. D’altro canto, Caterina è già famosa in mezza Europa come mistica e taumaturga: può un Papa dirle di no? Ad Avignone Gregorio XI la riceve con mille onori, e intanto la fa pedinare: ma le sue spie non trovano nessuna ragione di scandalo.


Benvenuto di Giovanni: Il ritorno a Roma di Gregorio XI (scortato da Caterina, che in realtà prese una strada diversa).

Io sono un maschio del XXI secolo, non posso fare moltissimo per modificare questa mia impostazione, e così non posso impedirmi di pensare che con Caterina Gregorio parlasse di mistica e di crociate immaginarie, e con Raimondo di cose pratiche, del tipo: cosa offre Firenze? Cosa vuole in cambio? Forse è questo il problema con Caterina, che rende la sua storia più difficile da raccontare di quella di Francesco e di altri. È una donna di 29 anni, che tratta con gli uomini, nel XIV secolo. Posso anche accettare che sapesse scrivere meglio di tutti, (c’è chi continua a pensare di no, che dettasse soltanto), ma che facesse politica… non ce la faccio, chiedo perdono, non mi sembra plausibile: trovo più verosimile persino Giovanna d'Arco che vince le battaglie in testa a una cavalleria di uomini. Quando nel 1940 Pio XII la proclama patrona d’Italia, è facile che avesse in mente proprio una specie di Giovanna d’Arco italiana, meno inquietante perché non prende mai in mano la spada, al massimo digiuna: però la situazione è simile, una ragazza che salva la patria dalle manacce degli uomini (ovviamente per Pio XII salvare la patria consisteva nel riportare il Papa a Roma). Un motivo simile avrà portato Giovanni Paolo II a promuoverla patrona d’Europa, ma l’Europa di patroni ne ha tanti (Benedetto, Cirillo, Metodio, la Madonna del Rosario, e altri che non so) e probabilmente quando si incontrano litigano, stavolta ci incontriamo nel cielo sopra Bruxelles o nel cielo sopra Strasburgo? Cirillo probabilmente esige la traduzione simultanea di tutti i discorsi in paleoslavo, un casino. Tanto alla fine della fiera comandano i tedeschi, per lo più luterani: con loro, come dire, non ci sono santi. Ma stavamo parlando della missione mistico-diplomatica di Caterina.

Ha successo. Il più grande successo della sua vita. Quando finalmente scriveranno la fiction su Caterina, questo sarà il momento in cui suoneranno le campane, partirà la canzone, qualche bambino piangerà, e anche qualche omaccione, sì, a fare Raimondo chiameranno qualche attore molto bello e in questa scena gli spruzzeranno le lacrime finte. Sulla strada del ritorno Caterina guarisce i malati, stronca la peste di Varazze, ormai è una santa in terra. Nel mondo dei maschi, intanto, le cose vanno come sempre a rotoli. I fiorentini decidono che dopotutto la guerra continua. Da Roma, la Roma cadente in cui Gregorio si è appena reinstallato, il papato manda Raimondo in ambasciata, poi Caterina; i fiorentini reagiscono dando fuoco alle proprietà dell’ordine domenicano. Caterina reagisce alla sua maniera: smette di mangiare. Nel frattempo Gregorio muore: questo ritorno a Roma non gli aveva portato molta fortuna dopotutto.
La testa di Caterina è a Siena
(anche un suo dito).
Il corpo è a Roma, meno un piede
che è a Venezia e una costola,
 attualmente in Belgio.

Il conclave è un disastro. Quando capiscono che l’orientamento dei cardinali è quello di nominare un francese – un altro? I romani assalgono il collegio al grido “Romano lo volemo – o almanco italiano”. Terrorizzati, i porporati scelgono un napoletano, Urbano VI, persona competente ma non molto diplomatica, pentendosene quasi subito: qualche mese dopo la maggioranza di loro si ritrova a Fondi, tra le paludi pontine per nominare un ginevrino gradito al re di Francia, Clemente VII. Quando lo scopre, Urbano ovviamente scomunica tutti. È lo scisma d’Occidente, e si consuma davanti agli occhi di Caterina: proprio lei che per anni aveva messo in guardia il vecchio Papa dal pericolo di uno scisma, se si ostinava a restare ad Avignone. Lei prende il partito di Urbano, dichiara i cardinali di Fondi “diavoli incarnati”, e continua a digiunare, una Gandhi antilettera. Quando Raimondo parte per una missione a Parigi, lo saluta consapevole che non si vedranno più. Muore a 33 anni: le stimmate, che aveva ricevuto anni prima, diventano visibili soltanto dopo la sua morte (l’esatto contrario di quel che è successo a Padre Pio). Raimondo diventerà presto Maestro generale dell’Ordine domenicano; lo scisma proseguirà per 40 anni, dividendo l’Europa occidentale tra osservanza romana e avignonese, con papi antipapi e scomuniche incrociate. Su questo in una fiction credo che sorvolerei, ma per fortuna non scrivo le fiction (per fortuna di chi le guarda, intendo: massimo rispetto a chi scrive le fiction).

Caterina è anche una grande scrittrice, passionale e sanguigna, che pochi leggono: il suo genere, la mistica, non è esattamente per tutti. Duecento anni prima di Teresa d’Avila, in Caterina ci sono già le estasi e i viaggi interiori, tanto da far pensare che il barocco sia una questione di genere più che di secolo. Io resto un maschio del XXI secolo (cresciuto tra l’altro nel secolo precedente), e a leggere certe cose mi impressiono: quando scrive a Raimondo che desidera “vederlo affogato e annegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio”, non so cosa pensare; basta voltar pagina perché il sangue di Cristo diventi sangue vero, quello di un condannato a morte di cui Caterina si prende cura nelle sue ultime ore, dicendogli cose così: Confortati, mio dolce fratello, che presto andremo alle nozze: tu ti bagnerai del sangue dolce del Figliuolo di Dio, e io ti aspetterò nel luogo della giustizia. E va davvero ad aspettarlo là: per immedesimarsi mette il collo sul ceppo; nel frattempo “prega e costringe” Maria a ottenere giustizia per l’uomo. A quel punto sente una punta d’invidia: tra pochi minuti il galeotto salirà in cielo e gusterà il dolce sangue di Cristo, mentre lei resterà in terra a occuparsi di cose terrene, politica e diplomazia con risultati non sempre soddisfacenti. E quando lo decapitano, lei riceve la testa nelle mani, esclamando “Io voglio”. L’odore di sangue la inebria, non ha intenzione di lavarlo via.

Poi egli gionse, come uno agnello mansueto, e, vedendomi, cominciò a rìdare, e volse che io gli facesse el segno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: Giuso alle nozze, fratello mio dolce, ché testé sarai alla vita durabile! Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo, e chinàmi giù e ramentàli el sangue dell’agnello: la bocca sua non diceva, se non «Gesù» e «Caterina», e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà, dicendo: Io voglio!

[…] Risposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potei sostenere di levarmi el sangue, che m’era venuto adosso, di lui. Oimè, misera miserabile, non voglio dire più: rimasi nella terra con grandissima invidia.


domenica 28 aprile 2024

Pierre Chanel e la danza del martirio

28 aprile: San Pierre Chanel (1803-1841), patrono dell'Oceania


C'è una danza che a Tonga si impara a scuola, una coreografia in cui uomini e donne si danno il ritmo picchiando i bastoni che impugnano. Si chiama Soke o Eka e proviene dall'isola di Futuna, da cui molti abitanti arrivarono a Tonga tra Otto e Novecento portando con sé, oltre alla danza ancestrale, il cattolicesimo a cui si erano convertiti nel 1842. Gran parte delle parole che si cantano sono incomprensibili da generazioni; tuttavia a un certo punto si accenna a due "gentiluomini" che sbarcano sull'isola con l'arcobaleno alle spalle. Gli antropologi non hanno ancora capito se si tratta di una danza di guerra (si fa coi bastoni) o di fertilità (i due gentiluomini potrebbero aver portato l'agricoltura a Futuna). I padri maristi, dal canto loro, la tagliano corta: la Soke sarebbe stata inventata dai futunesi per ricordare il martirio di Pierre Chanel, patrono dell'Oceania, nel 1841: sarebbe dunque una danza di memoria e di espiazione, perché Pierre Chanel l'ha ucciso un futunese, Musumusu. Prima di convertirsi. 

Benché sin dai tempi del seminario Pierre Chanel avesse sognato di fare il missionario in isole lontane, inizialmente la parrocchia più esotica che il vescovo di Belley potesse offrirgli era un sobborgo di Ginevra, comunque quasi a quaranta km dalla casa dei genitori. E quando i genitori stessi si presentarono dal vescovo a protestare, Pierre tranquillizzò il vescovo con un'affermazione che può lasciare perplessi: "Quanto più mi avvicinassi ai miei genitori, tanto più mi allontanerei dal buon Dio". I genitori di Pierre erano buoni cristiani, ma per Pierre Dio era da cercarsi il più possibile lontano da casa, e alla fine la spuntò: proprio all'ordine a cui si era aggregato (i padri maristi), fu offerta l'opportunità di evangelizzare le isole più sperdute della Polinesia occidentale, prima che vi arrivassero i protestanti.
 
Pierre faceva parte della prima squadra che partì nel 1837 dalle Havre su un bastimento che per arrivare nel Pacifico doveva doppiare Capo Horn. Dopo uno sfortunato tentativo di insediarsi nell'arcipelago delle Tonga, Pierre sbarca nell'isola di Futuna, dove per un po' la situazione sembra promettente: uno dei due re che si spartiscono l'isola, Niuliki, prende Pierre sotto la sua protezione e sembra incuriosito dall'atteggiamento mite del sacerdote. Probabilmente spera che tenendolo vicino a sé potrà ingraziarsi i francesi e in generale gli europei che ogni tanto fanno scala presso l'isola. Pierre da parte sua adotta un atteggiamento di estrema apertura, risparmiando agli indigeni lezioni di morale e mostrando la condotta cristiana soprattutto con l'esempio. È un approccio moderno che però all'inizio non sembra funzionare: mentre nella vicina isola di Wallis il collega sta già battezzando centinaia di fedeli, a Futuna il cristianesimo stenta ad attecchire. Pierre fa quello che può, cerca di essere gentile con tutti, e imparare qualche parola al giorno. Le annota su un taccuino che diventerà la sua pubblicazione più importante, un tesoro inestimabile per gli oceanisti; ma prima dovrà ovviamente morire. 

Col tempo Niuliki diventa diffidente; forse gli giunge notizia di altre isole dove il cristianesimo ha soppiantato le religioni tribali e messo in crisi i re autoctoni. Nel frattempo un suo figlio che frequenta troppo Pierre ha deciso di battezzarsi. Così nell'aprile del 1841 Niuliki cede all'insistenza del suo vicario Musumusu, che guida un commando alla missione di Pierre. Sorpresi al sorgere del sole, i catecumeni vengono malmenati; Pierre, ferito mortalmente a un braccio e alla testa, continua a ripetere "malie fai" ("bene per me") finché Musumusu, indispettito, non gli fracassa la testa con una zappa. I suoi resti vengono sepolti in una fossa semplice, ma ora che è morto il prete sembra dare più fastidio che da vivo.

L'assassinio è avvenuto davanti a troppi testimoni, prima o poi i francesi ne verranno informati: come la prenderanno? Quando i francesi effettivamente arrivano (ma è già il 1842), scoprono che la maggior parte dei futunesi è già pronta a convertirsi: tra loro Musumusu, che chiede di essere sepolto davanti alla porta della chiesa, affinché i cristiani lo calpestino se vogliono entrare. Per i credenti, è l'ennesima dimostrazione di come la fede fiorisca dal martirio: per gli storici, un tentativo di ingraziarsi la potenza europea già intravista come egemone, acuito dall'eterna rivalità tra i due regni in stato di guerra perenne. In uno dei luoghi al mondo più lontani dalla casa dei genitori, Pierre Chanel è divenuto il primo martire cattolico della Polinesia (per ora anche l'unico) e il patrono di tutto il continente oceanico. Se di solito i martiri ispirano quadri e sculture, Pierre è probabilmente l'unico a poter vantare di aver ispirato una danza tribale. A dirla tutta aveva anche dato il nome a un vino neozelandese, finché i padri maristi che lo producevano non hanno perso una causa con l'omonima griffe francese, che aveva deciso anche lei di produrre bordeaux. 

giovedì 25 aprile 2024

La stella a sei punte, e chi la fischia


Quel minimo non dico di saggezza, ma di astuzia che avrei dovuto metter da parte in tanti anni che scrivo in pubblico, mi suggerisce di aspettare che sia la sera di questo 25 per scrivere qualcosa; perché anche se tira un'aria tremenda, come non si sentiva da vent'anni, può persino darsi che non succeda niente. O se lungo un corteo succede qualcosa, e qualcuno in strada ci rimane, dipenderà molto da che bandiera portava. Qualcuno qui si ricorderà di Genova, e di quanto sarebbero state diverse le cose se invece di cadere il ragazzo fosse caduto il poliziotto. Dunque sarebbe meglio aspettare, che non c'è nessuna fretta alla fine. Sì.

2015

Scrivo comunque qualcosa. Che al 25 aprile molti vadano per litigare è cosa nota, più o meno dallo spaventoso diluvio del 1994 (prima una festa antifascista non dava così fastidio, o forse un certo fastidio sentiva da solo la necessità di contenersi). Col tempo è inevitabile che anche un certo tipo di provocazione diventi parte della celebrazione: ad esempio almeno a Milano i fischi alle bandiere della Brigata Ebraica sono ormai parte della liturgia. Mi sembra di avere già annoiato qualche lettore sull'argomento: la Brigata Ebraica non fu propriamente un gruppo partigiano, ma un'unità delle forze armate britanniche che combatté in Italia nel 1944/1945, composta da circa 5000 volontari dell'Organizzazione Sionista Mondiale, perlopiù provenienti dalla Palestina Mandataria. Non tantissimi, ma molte bande partigiane erano anche più piccole. Che senso ha fischiarli? In Italia in quegli anni combatterono indiani e brasiliani e non credo che nessuno fischierebbe una bandiera indiana o brasiliana; ma non credo nemmeno che nessuno senta la necessità di sventolarla. Chi porta in corteo quella bandiera (molto simile a quella di Israele, al punto che è inevitabile confonderla), vuole ribadire il concetto che il sionismo è una forza antifascista, e collaborò alla liberazione dal nazifascismo. Il che è legittimo. Chi fischia quelle bandiere sta obiettando al concetto: il che è sempre stato altrettanto legittimo, vista la situazione dei Territori Occupati; e lo è molto di più quest'anno, dopo la tragedia di Gaza. 

Tutto questo è ormai da anni un gioco delle parti: chi viene con la bandiera della Brigata (o con la bandiera di Israele) si aspetta di essere fischiato, e ci tiene che i fischi vengano il più possibile amplificati in tv, e forse è questo è un po' più grave dei fischi: il modo in cui un'esperienza nobile come quella dei volontari sionisti contro il nazifascismo viene annualmente strumentalizzata da un po' di gente che vuole semplicemente litigare il 25 aprile; questo perenne impugnare Israele e il sionismo come un pretesto per polemiche che con Israele c'entrano poco o niente, e che finirebbero per danneggiarne la reputazione, se Netanyahu gliene avesse lasciata una. Alcuni sono radicali e vabbe', coi provocatori professionali è inutile discutere. Alcuni saranno ebrei e posso capire che la presenza sempre più massiccia di bandiere palestinesi li sgomenti. Ma questa è la situazione: ottant'anni fa il sionismo era un movimento che combatteva attivamente contro l'occupazione nazista, oggi è l'ideologia che ha trascinato Israele nella catastrofe morale di Gaza. 

In questi giorni chi non perde tempo a leggere i giornali italiani ha saputo che tutte ormai tutte le grandi nazioni europee (l'Italia no) hanno riaperto i finanziamenti all'UNRWA, visto che Israele non riesce in nessun modo a provare che si tratti di un'organizzazione terroristica; nel frattempo le stragi di civili proseguono, e l'IDF apre le fosse comuni alla ricerca dei cadaveri degli ostaggi che non ha mai dato l'impressione di rivolere vivi. Chi sventola una stella di David, oggi, volente o nolente, sta mettendo sotto il naso alla gente il simbolo di questo sionismo; non quello che diede il suo contributo contro la lotta nazifascista. I simboli non sono neutrali, una bandiera italiana nel 1848 non significava la stessa cosa che nel 1936 o nel 2024. Non è responsabilità di un comitato antisemita se oggi una bandiera israeliana, agli occhi di una discreta fetta della popolazione mondiale, rappresenta un governo e un esercito razzista e genocida. Una trappola è scattata, potremmo discutere a lungo su chi l'ha tesa a chi: ma è scattata, e oggi il sionismo è un'ideologia odiosa persino a diversi ebrei in tutto il mondo. E sarà così ancora per molto, per quanto tempo? Credo che dovremo attendere almeno una generazione: quella che oggi impugna le bandiere si è raccontata troppe bugie per poterle rinnegare. L'unica speranza è che non abbiano educato con troppa attenzione i loro figli.

martedì 23 aprile 2024

Antiabortisti, è primavera

 


Anti abortisti, non siate così tristi, 
c'è tanta vita fuori, nei prati tanti fiori,
nei parchi tanti amori.
Ma che ci andate a fare,
nei consultori?

Scegliete la vita,
mangiatevi una pita, 
o un gelato, non è un peccato.

Ballate forte, sentite il ritmo, nella notte
Lasciate i dubbi, guardate in alto, toccate il cielo,
Ascoltate il cuore, splende il sorriso, è un nuovo giorno.
Muovete i passi, al suono dei tamburi, vibra l'amore.
Danze nel vento, girate in tondo, l'eco del tempo,
Celebrate la vita, tra note e risate, in ogni angolo.

Antiabortisti, non siate così tristi,
lasciate le polemiche, nessuno ama le prediche, 
là fuori il mondo è in fiore, provate a far l'amore,
se non ne siete esperti, beh
i consultori sono tutti aperti.
I consultori sono ancora aperti.

lunedì 22 aprile 2024

Dodici lettere, la prima è A


Stavo pensando di copiaincollare anch'io il monologo di Scurati; ma ho aspettato qualche ora e nel frattempo è rimbalzato in lungo e in largo. Anche se resta l'impressione che una volta in più il dibattito sia fuori fuoco, che si parli più del tentativo di censura (maldestro, come tutto quello che fa questo governo) che di quello che Scurati ci stava dicendo. 

Scurati ci sta dicendo che Matteotti fu ucciso dai fascisti, e sembra scontato; che Mussolini ne fu il mandante, e crediamo che sia un dato acquisito; che fu complice attivo di tutto l'orrore nazista, e che la cricca al governo queste cose fa proprio fatica ad ammetterle. Il che lo stesso Scurati ha potuto dimostrare proprio in questa occasione; forse è dai tempi di Galileo che a uno scrittore italiano non riusciva così rapidamente un esperimento.  

Scurati scrive: "Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell'ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via". Questa cosa forse ormai è più curiosa che importante; ma resta parecchio curiosa. Pensate a quante cose aa Meloni ha dovuto rinnegare per montare sulla seggiola dov'è adesso. Parlava di uscire dall'Euro, e ora fa carte false per ottenere i fondi UE. Faceva l'occhiolino a Putin, e ora è sdraiata sulla linea della Nato. Poi, certo, su tante cose è coerente; ma il sospetto è che se i sondaggi le dicessero che gli italiani vogliono più forza lavoro dai Paesi in via di Sviluppo, lei andrebbe ad abbracciare i migranti sulle spiagge, è fatta così. Non dico che rinnegherebbe sua madre, o perlomeno non riesco a immaginare una situazione in cui rinnegare sua madre potrebbe darle un vantaggio. Di parole ne ha dette tante, tutti ne dicono tante, ma ce n'è una sola che non riesce a pronunciare anche se le converrebbe da tutti i punti di vista, e quella parola è A....

An.....

Antifa....

Niente, non ce la farà. Tizi apparentemente più scafati di lei ce la fecero; bisogna anche ammettere che sulla seggiola ci si è seduta lei, e non loro. 


domenica 21 aprile 2024

Dio è perfetto, quindi c'è

21 aprile – Sant’Anselmo d’Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).

[2012] C’è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?” 

E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l’ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l’ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. 

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra le due superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po’ scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?”

E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l’ho visto, Dio non c’è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l’ho visto non l’ho visto”.
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l’inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l’ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d’Aosta, che non è che c’entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull’esistenza di Dio. Peccheremmo di un'ingenuità non molto diversa da quella di Anselmo bambino, il quale, crescendo ad Aosta, aveva ipotizzato che Dio si trovasse sulla vetta di qualche montagna. Ma poi quelle montagne le aveva pure passate, era stato abate a Le Bec e arcivescovo a Canterbury; e noi abbiamo viaggiato ben più di lui. L’universo che abbiamo in mente, da cinquant’anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c’è, è un po’ più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? 

Un altro ricordo che ho delle elementari è un certo tipo di rissa verbale, abbastanza codificata, che si utilizzava molto nei primi anni, prima che prendesse il sopravvento la forma di comunicazione adulta, il turpiloquio. L’impossibilità di ricorrere a un patrimonio condiviso e comprensibile di parolacce stimolava la nostra creatività e ci costringeva a concepire combattimenti virtuali violentissimi, ancorché puramente verbali: per esempio se io dicevo “e io ti picchio con un bastone” tu mi rispondevi “e io allora ti picchio col martello”, il che mi dava l’aggancio per rispondere “e io ti picchio con due martelli”, ma a questo punto il dato numerico creava un’infinita possibilità di rilanci… senonché tu chiudevi la partita con la formula fissa “e io sempre uno più di te”. Molto prima che la maestra di matematica ci iniziasse al concetto di infinito, l’esigenza insopprimibile di insultarci ci aveva già portato a scoprire l’Infinito Più Uno, il sempre-uno-più-di-x. Non lo sapevamo, magari ci stavamo soltanto litigando per l'accesso a un pennarello, ma in quel momento avevamo evocato a giudice della nostra contesa il Dio del Proslogion di Anselmo, “Colui di cui non si può pensare il maggiore”.

Il ragionamento è abbastanza famoso: se penso a Dio come all’essere perfetto, esso non può esistere soltanto nel mio pensiero, perché non sarebbe più perfetto (sarebbe infatti più piccolo di me, contenuto nel mio cervellino). No: se è perfetto deve esistere al di fuori: quindi Dio c’è. Facile.

Un po’ troppo facile, effettivamente, e lo stesso Anselmo come pensatore si era dimostrato capace di ragionamenti ben più sottili. Ma qui si trattava di dover dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza osservazioni empiriche, proprio perché Dio viene prima di ogni altra cosa.

È questo, soprattutto, ad allontanarci da Anselmo. Almeno il cosmonauta della barzelletta aveva dovuto farsi sparare in orbita, guardarsi un po’ in giro, scansare la teiera di Russel. Per fare un razzo in grado di sottrarsi alla gravità ci sono voluti tre-quattro secoli di osservazioni, esperimenti, teorie, da Newton a Von Braun. Per capire come funziona il corpo umano abbiamo dovuto sezionarlo, osservarlo, inventare il microscopio, immaginare il dna a doppia elica, sperimentare muffe e altri farmaci, e tante cose ancora ci sfuggono. Anche solo per scoprire l’America abbiamo dovuto mandare centinaia di marinai, un sacco di navi, un sacco di soldi. E invece per scoprire l’esistenza di Dio bastava concentrarsi e ragionare – magari Anselmo non ha neanche buttato giù uno schema, uno schizzo, nel medioevo non credo che si facessero gli scarabocchi mentre ci si concentrava, con quel che veniva la pergamena all’oncia. Niente cannocchiali, niente microscopi, neanche un po’ di inchiostro, niente. Insomma, savio Anselmo, possibile che tu con il solo ausilio del tuo cervello abbia trovato dentro di te qualcosa che sta fuori? Non ti accorgi della contraddizione che non lo consente? Non hai letto Gaunilone?

Gaunilone era un monaco delle parti di Tours, famoso per aver attaccato Anselmo in un breve opuscolo dal nome bellissimo, Pro Insipiente (“Dalla parte dello scemo”). L’“insipiente”, lo scemo del titolo, è lo Stolto del Salmo 14, che dice in cuore suo: "Non c'è Dio". Anselmo aveva cercato di confutarlo a posteriori e a priori; Gaunilone al contrario non riteneva necessarie confutazioni: in Dio bisogna crederci e basta: che senso avrebbe, un atto di fede, se non facesse che confermare quello che già ci dice la ragione? Di Gaunilone sappiamo veramente poco, ma – potenza dei nomi propri – io me lo sono sempre immaginato come un monaco gaudente, gaio, garrulo, gargantuesco, anche belloccio, perché no, un ganimede, sempre col calice in mano, mentre scuote la testa e dice ad Anselmo: ma che ci credi sul serio, che basta pensare a una cosa perché essa esista? Allora io adesso mi metto a pensare furiosamente a un’isola ricca di ogni ben di Dio, e questa isola – puf – si mette a esistere? Ma Anselmo non si smonta, anzi aveva già previsto questa obiezione. Gaunilone, un conto è un’isola, un conto è Dio. Un’isola può essere un luogo pieno di virtù, con palme, bambù, eccetera... ma non è un luogo perfettissimo. Solo Dio è perfettissimo. E siccome è perfettissimo, esiste: se non esistesse, sarebbe meno che perfettissimo, vedi? Più facile di così.

La querelle tra Gaunilone e Anselmo è andata avanti per alcuni secoli, più o meno fino a Kant (gauniloniano di ferro) e Hegel (anselmista convinto). Alla fine della fiera è la solita eterna lotta tra tolemaici e copernicani: se pensi che dentro di te ci sia un’idea di Dio, un barlume di Dio, alla fine l’universo è ancora una cosa che gira intorno a te (con Dio motore immobile al di fuori). Se tutto quello che è razionale è reale, immagina pure un’isola, da qualche parte ci sarà. Nel frattempo i gauniloni hanno di che brindare: la scienza continua a ingrandire l’universo e a rimpicciolirne i suoi abitanti. Anselmo, per dire, non conosceva i batteri (e anche Hegel ne aveva un’idea assai vaga). Noi sappiamo di essere molto meno che un batterio davanti a un eventuale Dio: chissà che idee si fa il batterio di noi, ma decisamente noi esistiamo al di là delle sue idee batteriche su di noi. Però gli anselmiani non si rassegnano. Se esistono infiniti universi, esisterà anche quello con l’isola esatta precisa immaginata da Gaunilone. E quello in cui ti ho spaccato la testa col bastone.

“E in un altro universo io te l’ho spaccata col martello”.
“E in un altro io te l’ho spaccata con due martelli”.
“E io sempre uno più di te!”
“Ah, qui ti volevo! Pensi di avere esaurito gli universi? E allora senti questa: sempre due più di te!”
“E io sempre tre più di te”.
“E io sempre un miliardo più di te”.
“E io sempre un miliardo di miliardi più di te”.
“E io sempre un infinito più di…. eHI! Lo hai visto? Che cos’è stato?”
“Non so, sembrava un fulmine”.
“All’inizio. Ma poi è diventato piccolo piccolo”.
“Una scintilla”.
“Una lucciola”.
“Le lucciole non esistono”.
“Sì esistono una volta le ho viste”.
“Ma valà giura”.
“Giuro una volta che sono andato a rane nella burana con mio fratello”.
“Non ci credo che hai preso le rane”.
“No ma ho visto le lucciole”.
“Magari in un universo quella lucciola è Dio”
“Magari in questo universo”.
“Giura di non dirlo a nessuno”.

mercoledì 17 aprile 2024

La madonna spallonata

 18 aprile: Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA).

Com'è che oggi non crediamo più nei miracoli? Di solito si dà la colpa all'illuminismo, ma è stato parecchi secoli fa e in generale non diamo l'impressione di essere così illuminati. Potremmo persino avere perso la nostra fede per il motivo contrario: non perché siamo diventati troppo razionali, ma perché di miracoli in giro ce ne sono troppi, siamo assuefatti, prendi le madonne che piangono sangue. Una madonna che piange sangue una volta sola è un evento eccezionale, che fa sensazione e orrore. Oggi però c'è questa necessità di produrre tutto in serie, ed ecco che abbiamo più madonne che piangono, alcune anche a intervalli regolari, al punto che prima o poi raccogliere un po' di quel materiale ematico e analizzarlo diventa inevitabile – ma molto prima che arrivino i risultati delle analisi, è la nostra capacità di meravigliarci che è se n'è andata per sempre. Una volta non era così, una volta bastava una sola goccia di sangue su un'immagine sacra per causare sbigottimento generale e devozione secolare, Prendi la Madonna dell'Arco. Ma prendila con cautela. Non è veramente il caso di scherzare, con la Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA). C'è chi ci ha rimesso i piedi, e peggio.

Non sappiamo esattamente chi l'abbia dipinta, non prima del Quattrocento. Non doveva trattarsi di un grande artista ma forse è proprio l'asimmetria del volto della vergine ad avere ispirato la leggenda. Quanto alla macchia scura sulla guancia sinistra, ecco, lì avrebbe pianto dopo essere stata colpita da una palla, quando ancora non si trovava al centro di un santuario dedicato al proprio culto, ma un'umile immaginetta in un'edicola votiva sotto l'arcata di un antico acquedotto romano. Era il lunedì di pasquetta del 1450. Bisogna considerare che la pallonata non fu accidentale, ma inferta da un giocatore di pallamaglio infuriato per aver perso una partita a causa di un rimbalzo fortuito su un tiglio lì nei pressi. La pallamaglio è l'antenato comune del croquet e del golf, che avrebbe avuto origine a Napoli o perlomeno i napoletani ci credono molto, e si gioca perlopiù con palle di legno che possono probabilmente lasciare un segno su un muro, se vi sono lanciate contro con una certa forza. Possiamo insomma supporre che la macchia sia il risultato dell'ammaccatura del quadro, ma l'idea che la vergine si sia presa una pallonata sulla guancia fa impressione. Durante il processo-lampo si appurò che il colpevole aveva anche bestemmiato la vergine, motivo per cui sarebbe stato impiccato a quello stesso tiglio, il quale si sarebbe seccato nel giro di un giorno – questo dettaglio oggi viene interpretato da alcuni come una presa di distanza della Madonna da una punizione tanto brutale, ma nel Cinquecento probabilmente serviva a sottolineare l'empietà del condannato.

Ancora più cruento è il secondo miracolo, avvenuto 139 anni dopo, sempre a pasquetta. Nella piazza non si giocava più a pallamaglio, ma evidentemente doveva esserci mercato. Marco Cennamo vuole accendere un cero alla Madonna, che lo ha salvato da una brutta malattia agli occhi. Lo accompagna la moglie, Aurelia Del Prete, che però si è appena comprata un maialino e non lo può mica lasciare in giro, e poi insomma è Sant'Anastasia, mica Lourdes (che ancora non esiste), ci sono le bancarelle, nessuno si formalizza se ti presenti davanti alla Madonna con un porcellino in braccio. Il porcellino però scappa, Aurelia si mette a rincorrerlo per tutta la piazza bestemmiando, probabilmente la gente ride, Aurelia è conosciuta in paese come un tipo nervoso e nell'occasione dà di matto sul serio: quando il marito cerca di calmarla, gli prende il cero e lo calpesta. Ma cosa fai, le dice Marco, ma guarda che ci rimetti i piedi. Aurelia non ci sente, è troppo arrabbiata. Torna a casa, si mette a letto, i piedi le fanno male. Li perderà l'anno dopo, sempre a Pasquetta. Le si staccheranno dal resto del corpo, e sono ancora custoditi nel santuario. Una versione della leggenda però sostiene che prima dell'orribile miracolo Aurelia avesse portato una copia in cera dei suoi piedi alla Madonna, per ringraziarla di averla guarita da una brutta ferita: i piedi custoditi nel santuario potrebbero essere appunto quelli di cera, un bizzarro ex voto (ma neanche così bizzarro, se uno ha presente certi santuari) che avrebbe ispirato la macabra leggenda. Il senso resta chiaro: una pallonata può scappare, un maialino può farti arrabbiare, ma se insisti e bestemmi per il gusto di bestemmiare, la Madonna dell'Arco non ti perdona.

domenica 14 aprile 2024

Altri 100 minuti


Arrivo tardi, ma lo voglio lasciare scritto: quello che ha fatto Alberto Nerazzini lunedì scorso, con la sua inchiesta sulle narcomafie di Roma e Velletri, è qualcosa di clamoroso e prezioso. Oltre a raccontarci una storia complicatissima che negli ultimi anni era scomparsa dietro l'orizzonte, è anche una lezione su come dovrebbe funzionare un'inchiesta televisiva, e su quanto funziona bene quando funziona. Tante cose che ormai diamo per scontate, che una volta sembravano tv d'assalto e adesso infastidiscono, Nerazzini si ricorda ancora andrebbero fatte. 

Disturbare i personaggi della storia per strada, o al telefono, ad esempio, è una pratica che di solito mi fa cambiare canale all'istante: colpa di Iene, di Striscia, di un'estetica che punta tutto sul mettere alla berlina il personaggio preso a bersaglio, e ti propone di trovare divertente il suo imbarazzo. Forse solo Nerazzini si ricorda che può servire a costruire un racconto a farci immedesimare in un personaggio: questo reporter che si aggira per Roma e dintorni a piedi o in automobile, con una giacca a righine che fa impazzire la videocamera. Non possiamo cambiare più canale, non fosse altro perché siamo preoccupati per lui. 

Come i detective delle storie seriali, ha un suo stile, il suo modo di appoggiare battute che può fare solo lui ("eh, ma dipende da quale Porsche...") e che forse serve un po' di abitudine per capire. Come quei detective, alla fine fa rapporto a un superiore, trova una soluzione decente a un mistero, sipario. Nella vita vera sarebbe promosso, diventerebbe famoso, tutti i canali se lo disputerebbero: ma purtroppo siamo nella tv italiana. Lunedì c'è un'altra puntata e io spero di trovarlo di nuovo, per più tempo possibile. 

sabato 6 aprile 2024

Il santo col falcastro in testa

6 aprile: San Pietro da Verona (1205-1252), martire patrono degli inquisitori

Forse perché non potevano vantare un fondatore carismatico come altri Ordini, i domenicani sembrano essere quelli che hanno più puntato sulla riconoscibilità, sia collettiva (il loro saio bianconero è un vero e proprio brand), sia individuale: quando ne incontri uno su una pala d'altare, lo indovini praticamente sempre. Se ha le ali, per esempio, è San Vincenzo Ferrer (5 aprile); se ha il rosario è San Domenico stesso; ma il più riconoscibile di tutti è senz'altro San Pietro da Verona – non capita a tutti i santi, di morire con un falcetto conficcato in testa. I domenicani ne vanno giustamente fieri, al punto da aver conservato la stessa arma del delitto (il cui nome più preciso sembra essere "falcastro").

L'agguato di cui Pietro fu vittima, nel bosco di Seveso, è uno dei fatti di cronaca più noto del XIII secolo, anche perché le circostanze in cui fu commesso permisero all'ordine domenicano il controllo completo sulla narrazione della vicenda. Non solo il compagno di Pietro, Domenico, sopravvisse per qualche ora alle ferite riportate, il che gli consentì di rendere testimonianza dell'accaduto: ma a fare sensazione fu soprattutto il pentimento dei due sicari. Uno dei due, Albertino Porro, si pentì ancora prima dell'agguato e corse a dare l'allarme; mentre Pietro da Balsamo, che materialmente fessurò il cranio di Pietro da Verona con una lama (tecnicamente un falcastro) e ne trafisse il petto con un pugnale, fuggito dal carcere di Milano, si lasciò ritrovare in un convento di Forlì, preferendo probabilmente alla giustizia secolare quella dei domenicani che in cambio di un solenne pentimento lo convertirono (e rinchiusero a vita) (ma una volta morto lo venerarono come beato: si festeggia il 28 aprile).


L'assassino raccontò di non essere che un povero contadino che aveva accettato denaro dai catari lombardi per far fuori il loro nemico numero uno. I domenicani decisero di credergli, e ottennero rapidamente l'incriminazione del capo della comunità milanese: anche lui al processo penale preferì la conversione e il perdono dei domenicani. Contro i catari, Pietro da Verona usava soprattutto le armi della persuasione, come raccomandato dal maestro Domenico di Guzman: e però sia a Firenze che in Lombardia, dopo il passaggio di Pietro tra catari e cattolici erano scoppiate battaglie che si erano concluse, di solito, con la violenta affermazione di questi ultimi. Pietro per altro era probabilmente considerato un traditore dai catari, visto che lui stesso raccontava di essere nato da genitori aderenti a quella fede.


È molto raro che un inquisitore, invece di ammazzare qualcun altro, muoia per difendere il proprio credo: non sorprende perciò che Pietro da Verona sia stato proclamato il patrono della categoria, anche se era appena stato nominato inquisitore dal papa (solo per questo, temo, non aveva ancora fatto in tempo a bruciare nessuno). È probabile che molte notizie intorno a Pietro siano state ricostruite dopo il suo martirio, che in mano ai domenicani divenne una straordinaria arma propagandistica: per esempio 
che a Firenze abbia fondato la prima opera assistenziale, (la Misericordia) e sia stato il padre spirituale dei sette fondatori dell'ordine dei Servi di Maria; che abbia diffuso il rosario in Italia – responsabilità che altri riconducono al maestro Domenico, ma probabilmente il rosario si recitava già. Che "Credo" sia stata sia la sua prima parola da fanciullo, sia la prima preghiera che imparò a memoria a sette anni (magari per infastidire i genitori eretici), sia l'ultima che avrebbe sussurrato agonizzante. Un dettaglio toccante che però i pittori non sapevano come dipingere: finché qualcuno non si inventò la scena di Pietro morente che scrive "Credo" sul suolo con un dito intinto nel sangue. Per quanto nei secoli successivi i pittori si siano adoperati a dipingere domenicani col falcastro in testa, forse il ritratto più toccante lo dipinse il confratello Beato Angelico, senza falcastro ma con la ferita esposta, e il dito a chiudere le labbra, come se dicesse: io per difendere le cose che dicevo mi sono fatto ammazzare; tu pensaci un attimo, prima di dare aria ai denti.

venerdì 5 aprile 2024

Israele uccide chi vuole, quando vuole, ovunque vuole; e dovremmo smetterla di farci domande


Sembra successo tutto in un giorno, che per qualche perverso motivo è stato il primo aprile 2024.

Fino a tutto il marzo di quest'anno potevamo ancora essere convinti che:

– I giornalisti avessero ogni diritto di documentare quello che avviene in un teatro di guerra. 

– I volontari delle ONG che portano aiuti nelle zone di guerra – col consenso delle forze belligeranti – fossero tutelati, prima ancora che da qualche codicillo internazionale, da un principio di buon senso e di umanità.

– I messaggeri fossero sacri. Lo sono da millenni; è un principio che nell'era contemporanea è stato formalizzato nella definizione di immunità diplomatica. Gli ambasciatori risiedono in sedi extraterritoriali che anche nelle fasi più cruente di una guerra o di un bombardamento non sono mai stati obiettivi militari. 

Poi è arrivato il primo aprile, Netanyahu ha annunciato che Al Jazeera non avrà più diritto di operare in Israele (e nei territori che Israele evidentemente occupa), nel mentre che l'esercito israeliano bombardava una sede diplomatica iraniana a Damasco e prendeva di mira, uccidendoli, sette cooperatori internazionali a cui aveva dato il permesso di circolare nella Striscia di Gaza. E a questa organizzazione che prende di mira i giornalisti, prende di mira i cooperatori internazionali, prende di mira i diplomatici, e non lo nega, anzi ormai lo rivendica come suo specifico diritto, noi cosa diremo? La accuseremo di terrorismo, visto che ci terrorizza? La pregheremo di non proseguire quello che un tribunale internazionale ha più volte in questi mesi definito un genocidio? Nel frattempo l'amministrazione Biden le venderà qualche altro jet di guerra di ultima generazione; armi forse un po' esagerate finché l'obiettivo è desertificare la Striscia; ma la speranza ormai evidente è che scoppi presto una guerra diretta con l'Iran; del resto se bombardi un'ambasciata non è che serva un esperto decifratore di messaggi. 

E se sembra un po' esagerato aggiungere che domani potrebbe accadere a voi, a me, a noi, a chiunque muova un dito a favore di qualcuno che Israele considera suo nemico, mettiamola semplicemente così: è già successo. L'IDF ha ucciso Saifeddin Issam Ayad Abutaha, ha ucciso Zomi Frankcom; ha ucciso Damian Sobol, Jacob Flickinger, John Chapman, Jim Henderson e James Kirby. Ha ucciso Rachel Corrie e centinaia di giornalisti: lo ha evidentemente fatto per avvertire noi e chiunque altro voglia mettere il naso nel massacro dei palestinesi, e questo avvertimento noi lo abbiamo ricevuto forte e chiaro; altrettanto forte e chiaro sentiamo la necessità di ritrasmetterlo, non per un sussulto di coraggio ma perché magari qualcuno intorno a noi non si è ancora reso conto, non si è ancora spaventato abbastanza. 

Tutto questo somiglia sempre più all'inizio di una fine. La fine di un certo diritto internazionale, come ci eravamo illusi che funzionasse perlomeno da Yalta in poi; un ordine internazionale basato sull'idea, forse illusoria, forse consolatoria – che le guerre fossero uno stato di eccezione, e che la pace fosse l'equilibrio a cui le nazioni cercavano di tendere. Che tutto ciò dovesse infrangersi, di tutti i luoghi al mondo, proprio a pochi chilometri da Gerusalemme, è un'evidenza carica di una sinistra ironia.
E allo stesso tempo tutto questo non sembra avere un vero senso storico; tutto intorno l'umanità si evolve vorticosamente, le stagioni e i paesaggi cambiano, miliardi di persone nascono e diventano adulte in un mondo che di Gerusalemme si infischia e se ne infischierà sempre più. Persino quello tra Nato e Ucraina, dal punto di vista di cinesi e indiani, è un conflitto poco più che regionale, tra vecchie superpotenze rancorose; chissà cosa ne pensano di quel vecchio contenzioso su una piccola città del Medio Oriente che si trascina ormai da duemila anni. 

Non è vero che stiamo impazzendo tutti per Gerusalemme: in primis sta succedendo agli americani, e non da ieri. Può darsi che Israele alla fine non sia che una concrezione esotica dei loro sogni, delle loro aspirazioni bibliche e messianiche; la conseguenza estrema di un certo modo di concepire la politica come prosecuzione della guerra tra comunità organizzate in gruppi di pressione. Tutto questo che a tanti anche in Europa sembrava un modello, da Tocqueville in poi (ma anche Tocqueville forse andava letto con più attenzione) a un certo punto ha prodotto Bush, ha prodotto Fox News, ha prodotto l'ultrasionismo contemporaneo, ha prodotto Trump. Può persino darsi che abbia prodotto la stessa guerra in Ucraina, che una diplomazia più saggia avrebbe potuto evitare? Non lo so. Quel che so è che è ingiusto prendersela con gli israeliani per quello che fanno, e che possono fare semplicemente perché qualcuno lo consente a loro e soltanto a loro: chi altro potrebbe sognare di prendere di mira ambasciate, volontari e giornalisti, e farla franca. Va a finire che davvero il vecchio Bob ci aveva azzeccato, con quella canzone neanche troppo ispirata: Israele è solo il bullo del quartiere. Dietro a ogni bullo – Bob questo non ce lo diceva – c'è un boss che lascia fare, finché un giorno forse si stancherà, o non si troverà invischiato in guai ben più grandi. Quel giorno, ammesso arrivi, non è stato il primo aprile.

venerdì 29 marzo 2024

Tajani e il bambino nel forno


Stavo appunto riflettendo, senza molto costrutto, sul disastro di Gaza e a cosa posso paragonarlo, per cercare di spiegarlo a me stesso e agli altri; e a come, guardando i volti rapiti dei volontari israeliani che sembrano divertirsi un mondo mentre trasformano una città in un cumulo di macerie che nessuno forse avrà più la capacità di smaltire, mi sia affiorata alle labbra la parola: Pogrom. Un improvviso sussulto di violenza, nei confronti di una minoranza percepita come ostile; dove la diffidenza secolare improvvisamente viene portata a combustione: e la scintilla è molto spesso la propaganda. 

Volantini che additano i nemici dello Zar o della Rivoluzione; leggende nere su bambini scomparsi, dati per sgozzati a scopo alimentare; uno potrebbe anche osservare che non c'era bisogno di raccontare cose del genere per sobillare gli israeliani contro Hamas; eppure le leggende sono state raccontate lo stesso, e qualche effetto lo hanno sortito. Stavo riflettendo su questo, e su quanto bisognerà insistere, in futuro, sulla nuvola di disinformazione che si abbatté su di noi nell'autunno 2023: storie incredibili e francamente poco plausibili, spacciate per vere da testate prestigiose e persone esperte e intelligenti. Ora che ormai nessuno le riprende, bisognerà ricordare che per settimane e mesi sono state ripetute con foga sempre maggiore, e hanno offerto a chi era sul campo una scusa e un'ispirazione per commettere crimini di guerra.

Sarà complicato dover riferire di leggende come quella del bambino cotto dai miliziani nel forno a micro-onde, pregando gli interlocutori di credere che è successo davvero – non che un bambino sia stato cotto dai miliziani, ma che fior di giornalisti opinionisti e ufficiali dell'esercito ci abbia voluto credere; e mentre penso a queste cose nell'altra stanza è rimasta accesa una tv, e sento il ministro Tajani spiegare a Bruno Vespa che i miliziani di Hamas hanno messo un bambino vivo nel forno. "Avrà visto le immagini". Con Vespa che risponde: lo so, lo so (qui al minuto 14). Eppure le immagini non le ha viste nessuno. Non ci sono. È una storia messa in giro dai primi soccorritori, che però non hanno mai fornito prove.

 Il poeta Refaat Alareer è stato preso di mira e ucciso, con la sua famiglia.

Ora, questo è curioso. Continuo a imbattermi in persone che sostengono di avere "visto le immagini". Su twitter più o meno un mese fa, una tizia aveva visto un miliziano estrarre il feto da una vittima sbudellata, benché l'episodio fosse stato denunciato come falso mesi prima dalla stessa stampa israeliana. Hanno filmato gli stupri! dicono. Lo hanno fatto i miliziani per vantarsi, e li hanno visti tutti. E quindi i video dove sono? Boh, però li hanno visti tutti. Viene il sospetto che qualcosa, tra sette e otto ottobre, sia stato veramente trasmesso. Immagini di repertorio, o fiction spacciata per vera a un pubblico sotto choc. Ma forse semplicemente basta saper usare le parole giuste, mentre in primo piano scorrono fotogrammi che la memoria ricombina a suo piacimento. 

Sia come sia, ormai è primavera. L'Onu ha chiesto un Cessate il Fuoco e per la prima volta gli USA si sono astenuti. Ma ancora per il nostro Ministro degli esteri, Hamas è l'organizzazione che mette i bambini nel forno. C'è un repertorio di vecchie leggende e nuove fake news che ha convinto soldati e civili della necessità di sconfiggere un nemico disumano, a ogni costo. Ora che il disastro si è compiuto, dovranno continuare a crederci, o smettere di credere in sé stessi.  La seconda opzione è più difficile e dolorosa; la prima comporta una fuga dalla realtà che non può portare molto lontano.

Un giorno potrebbero raccontare ai vostri figli che il Nemico sta stuprando e mangiando le sue vittime; e questi racconti avranno una funzione istigatrice e una funzione descrittiva. Serviranno a giustificare i crimini di guerra e offriranno qualche spunto fantastico su come commetterne. Magari Vespa non ci sarà più (anche se ormai ne dubito), ma ce ne sarà un altro. L'unico antidoto che riesco a immaginare è lo studio del passato, delle leggende e delle evidenze. E un po' di senso morale, certo.