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giovedì 18 settembre 2003

L’anno prossimo a Ponte Alto

Non pretendo che tutto questo interessi a nessuno, ma

Ho sentito dire che una volta lo facessero al Parco Ferrari, il Festival: io non me ne ricordo.
Modena Nord, invece, sembra ieri. E invece sono secoli. Quando vennero gli Iron Maiden? Io non ero nell’età di comprendere e di volere. Gironzolavamo intorno alle transenne e dovevamo essere ben buffi, quando un tizio ci chiese se volevamo del fumo. Ci arrampicammo su un’impalcatura e salimmo sulla tettoia di un capannone, il palco da lassù era una lucina lontana. Ma avevamo dimostrato del coraggio. Nostro zio ci aspettava a casa di Gloria per la mezzanotte.
L’anno dopo Virus aveva preso una brutta piega, nel casotto del nonno stava mettendo a punto delle bottiglie Molotov. Virus non era arrivato al terrorismo attraverso un percorso politico, a 14 anni era un dinamitardo puro: il suo disegno strategico era: “quando vengono i Deep Purple al Festival, saliamo sul capannone dell’anno scorso e tiriamo la molotov sul pubblico!”. La leggenda nera del gruppo britannico (chitarristi incendiari che danno fuoco a tutto e scappano in elicottero, smoke on the water and fire in the sky) aveva eccitato le nostre giovani menti.
Oddio, “menti” era una grossa parola.
Probabilmente la molotov non sarebbe esplosa, ma probabilmente avrebbe potuto rompere la testa a un povero metallaro, e in cima a tutti questi probabilmente resta il fatto che tre giorni prima del concerto Ciano venne a dirci che avevano finito di riverniciare la canonica di San Possidonio: l’ipotesi di recarsi nottetempo con un paio di bombolette e scrivere un mucchio di cazzate vinse sull’opzione Deep Purple. Ne abbiamo fatti di danni a quindici anni, ma poteva andarci anche peggio.

Ci ha salvato, forse, l’aver messo su un complesso: l’idea iniziale mia era spaccare un sacco di chitarre, ma poi l’evidenza che le chitarre costano ci mise per la prima volta di fronte a un qualche principio di realtà.
A quel tempo non si può nemmeno dire che andassimo al Festival: ci fermavamo ai baracconi. (A Modena le giostre si chiamano “baracconi”, magari è così in tutta Italia, ma non ne sono sicuro e nessun dizionario mi può aiutare). Ricordo molto bene un aggeggio infernale a forma di pozzo petrolifero che faceva il giro della morte, e io rinchiuso lì dentro volevo davvero morire, sentivo dietro di me Giai che bestemmiava per la prima volta della sua vita, ma io dissi solo: “ora basta”, proprio come un bambino stanco, “ora basta”, e invece continuò.
Mi posso aiutare con la musica: Listen to the beat, the beat of the sun, sun. Mano Negra, 1989. Voi non lo direste, ma per me è una canzone da autoscontro.
In realtà non eravamo neanche ragazzi da baracconi, ma in tre o in quattro facevamo il filo alla Gloria che stava nell’ultima casa di campagna, di fianco all’Inceneritore. Il secondo live del complesso lo registrammo sotto il portico di casa sua. Ho ancora la cassetta. Io ero una specie di integralista della scala pentatonica.
(Se l’avessimo saputo, che nei pressi c’era il Circolo Anarchico la Scintilla, magari ci saremmo avventurati sulla riva del Naviglio per sentire la Paolino Paperino Band: oppure lo sapevamo benissimo e non ne avevamo il coraggio, possibile).

Quindi dev’essere proprio il 1989: l’anno dopo non uscivo più con Giai, mi aveva bruciato la chitarra in una stufa a legna. Passarono alcuni anni di intensa vita parrocchiale, e in quanto privo di patente non è che potessi dire: “ragazzi, dai, andiamo al Festival!”. Stavo nei sedili dietro e mi ciucciavo la cassetta di Ligabue, che so a memoria.

E così
un altro sabato è andato così…


Ligabue è un genio, anche se non tornerò mai a un suo concerto. Ne ho visti due nel 1991 e mi bastano. Il primo in giugno in una piazzetta di Nonantola (ci andai in bicicletta!), il secondo gratis in settembre al Festival dell’Unità, ma in mezzo era successo qualcosa: non avevo più voglia di vedere un concerto. Specie di Ligabue. Dopo due pezzi andai a leggere fumetti in libreria. Mi aveva stancato il rock, i cappelli da cowboy e le scale pentatoniche, stare in piedi pigiati per due ore o sopra una panchina mi sembrava un’idiozia, e Bar Mario era un pezzo da sedicenni (I was 17). Quando poi vennero gli Heroes do Silencio, l’ostilità si tramutò in cinico disprezzo. Io e Jan decidemmo che il biondo visigoto appollaiato su un amplificatore stesse declamando “Pulivapor”, e tutta sera continuammo a cantare “Pulivapor!, Pulivapor!” con cipiglio da gruppo hard rock iberico. Tuttora se ci incontriamo e ripensiamo agli Heroes do Silencio, torna l’irresistibile ritornello di quella sera (“Puuuuulivapor, puuulivapor!”), in cui voltammo pagina sui nostri gusti musicali.

L’anno dopo, la patente, che mi costò inenarrabili sforzi, mi diede l’autonomia che agognavo: fine delle serate sul sedile posteriore, era il tempo della libertà, della solitudine, dell’angoscia. Se hai appena imparato a guidare, parcheggiare intorno al Festival è un incubo. Ci misi due ore, sudai sette camice in retrosterzo, e al ritorno mi si gelò il sangue, vedendo il bianco di un biglietto sotto il tergicristallo. Non era una multa (sarebbe stata la prima): diciamo che era un consiglio da amico.

IMPARA-A-PARCHEGGIARE
FIGLIO-DI-PUTTANA


L’ultima goccia nel vaso della mia disperazione. Non so neanche che ci fossi andato a fare, al Festival. In realtà non conoscevo nessuno, non sapevo nulla, ero appena venuto al mondo con la mia Golf del ‘74. Mi accostai al bancone della Sinistra Giovanile e chiesi… chiesi una Bud (si pronuncia Bad)
“Io… ehm… una bad”.
“Eeeeeeh?”
“Sì, una birra in bottiglia, una…”
“Aaaaaah, una bbud!”
“Sì, ecco”.

Manco una birra, riuscivo a ordinare.
Le uniche persone che conoscevo erano Glauco e Ric, perché erano molto alte e nelle assemblee di Istituto svettavano. Dopo le occupazioni della Guerra del Golfo avevano deciso di mettere su un circolo, e volevano che io facessi il Delegato Letteratura. Non so il perché.
“Allora, quand’è che vieni a fare il Delegato Letteratura?”
Per quanto ridicola, questa richiesta era l’unica prova della mia esistenza a Modena. Il Liceo era finito, L’Università partiva in novembre, Giovanna era in Canada e non le mancavo. Che angoscia. Che solitudine. Che fatica parcheggiare. La vita cominciava sempre più a somigliare a una fregatura.

Al ’93 risale il mio interesse per la programmazione culturale, un recital di Riondino con le sue canzoni brasileire che mi avevano fatto ridere in tv cinque anni prima e mi avrebbero fatto ridere un po’ meno nello stesso posto tre anni dopo. A volte non vorresti avere tutta questa memoria. E poi una sua canzone seria, torrenziale, su Mani Pulite, perché nel 1993 eravamo nell’occhio del ciclone. Ma cosa dirò ai miei nipoti, quando mi chiederanno di Mani Pulite?
“Mah, la vita continuava, la gente andava al Festival ad applaudire Greganti, tutto regolare”.

Il terremoto venne piuttosto l’anno dopo.
In spiaggia, d’estate, si sentivano le cannonate da Spalato: un circolo di volontari di Camposanto era riuscito ad appaltare lo stand gelateria Sammontana, e i proventi andavano in Bosnia. Così, quando ci chiederanno: “tu dov’eri mentre bruciavano Sarajevo”, io e Jan potremmo anche rispondere “facevamo i coni al Festival dell’Unità”. Non era così facile come potrebbe sembrare: la nocciola, per esempio, era durissima, la vaniglia estremamente liquida, amalgamarle era impossibile, il cono ti crepava nelle mani.

“Mi fa nocciola e vaniglia, per favore?”
“La nocciola non c’è”.
“Come non c’è, e quella lì”.
“Quella… quella non è proprio nocciola, cioè… è ancora dura, vede… (la percuote con la spatola), bisognerebbe aspettare un po’. Con la vaniglia, se vuole un consiglio, ci sta bene la stracciatella”.
“Ma qui non c’è uno che sa fare i gelati?”
“Ci sono io, signora”.

Una sera qualcuno mise in giro la voce che avremmo dovuto fare un cono a Bobo Maroni, Ministro degli Interni. Ma non venne mai.
Infine, quello fu l’anno di Montanelli, che radunò la folla che di solito è riservata al comizio del segretario.
Montanelli sul maxischermo del Festival di Modena è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Cosa possiamo sapere del nostro futuro, se in quello di Montanelli c’era una folla di ex comunisti osannanti? Io avevo sempre litigato coi genitori democristiani, coi professori ciellini, con gli amici forzisti, ma soprattutto con la parte di me stesso che era cresciuta leggendo Montanelli. Ed ecco che io e mio padre ci trovavamo a far la croce sullo stesso simbolo, e Montanelli parlava al Festival tra applausi e ovazioni. Avevamo perso, ma avevamo perso tutti assieme. Non siamo mai più stati così uniti.
Sembrava che nulla sarebbe stato come prima. (Continua parecchio)

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