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giovedì 11 marzo 2004

Descrizione di una battaglia
(bozza)

La democrazia dei movimenti. Come decidono i Noglobal. A cura di Paolo Ceri, Rubbettino, 2003

Non so se si possa dire, dei saggi di sociologia, che “si leggono in un fiato”: fatto sta che io l’ho letto davvero in un fiato, questo saggio di sociologia: e questo vorrà dire qualche cosa. Almeno due.
La prima è che, evidentemente, si tratta di un testo molto leggibile, scorrevole e non prolisso: fatto tanto più lodevole in quanto non si tratta di un saggio solo, ma di una raccolta di piccoli saggi composti da sette autori diversi (quasi tutti giovani ricercatori), diretti da Paolo Ceri. Il risultato però è un quadro d’insieme armonico: un testo scientifico che funziona anche come opera divulgativa.
La seconda cosa è più personale. Il libro sarò anche leggibilissimo: ma se l’ho letto d’un fiato è anche perché avevo bisogno di leggerlo. Non si divorano testi scientifici per pura curiosità: qui c’era qualcosa di più. In questo libro stavo cercando qualcuno che mi raccontasse la mia Storia. Perché, non la conoscevo già? Non più di quanto non la conosca il combattente nel mezzo della battaglia. (Nessuno ti spiega quel che succede nel mezzo della battaglia: questa verità, ben nota a Fabrizio Del Dongo e alle generazioni attraversate da guerre mondiali, noi l’abbiamo scoperta solo da Genova in poi).
Quello che cercavo in questo libro era – per dirla con una parola che improvvisamente, oggi, si comincia a sentire in riunioni e assemblee – una narrazione. La riorganizzazione delle mie esperienze, frammentarie, confuse, contraddittorie, in un racconto. Possibilmente a lieto fine – ma in fondo mi contentavo di meno. Mi sarebbe bastato trovare un senso a tutto quello che era successo e che tuttora ci succede. Mi contento di poco?

C’è stato un periodo – 2001, 2002 – in cui ho partecipato a molte assemblee, riunioni, cortei, organizzati da una serie di sigle diverse, ponendomi spesso una domanda non retorica: ma il Movimento è democratico? Ce lo siamo chiesti in molti. In teoria sì: il Movimento nasceva proprio dall’esigenza di rinnovare la democrazia, di scuotere gli apparati decisionali delle istituzioni politiche, di trovare o creare nuovi luoghi di partecipazione alle decisioni. In pratica, però, in quei mesi si trattava di partecipare ad assemblee con ordini del giorno fittissimi di iniziative e contro-iniziative, e in fondo non c’era nulla da decidere: o si aderiva, o non si aderiva. Chi stilava l’ordine del giorno, chi teneva il microfono in mano (e sceglieva a chi darlo), rischiava grosso: se si metteva troppo in luce poteva essere accusato di tentato leaderismo. Accusa pesantissima. D’altro canto, non si poteva nemmeno perdere tempo a decidere un meccanismo di rotazione dei portavoce, o un metodo formale per raggiungere le decisioni; parole come “delega” e “rappresentazione” erano bandite; e soprattutto: non c’era tempo. C’erano troppe cose da fare.
(C’era, naturalmente, un “gruppo di lavoro sulla democrazia interna”, ma non riusciva mai a inserirsi all’ordine del giorno [vedi questo vecchio pezzo]).

Dopo qualche mese è diventato evidente che l’emergenza non sarebbe mai finita. Non solo perché vivevamo in tempi eccezionali – in pochi mesi Genova, l’11 settembre, la guerra in Afganistan, la Palestina… – ma soprattutto perché quest’idea dell’“emergenza”, del calendario fitto, era diventata parte integrante del nostro modo di pensare, di agire, e di rimandare il problema della democrazia. Ma non potevamo rimandarlo per sempre. E così, a un certo punto, lo abbiamo affrontato. C’è stata una lunga stagione costituente, burrascosa e incostante, che ha attraversato gran parte del Movimento: i saggi del libro documentano le fasi alterne di questa stagione della Rete di Lilliput, Attac, i Forum Sociali. In tutti e tre i casi abbiamo assistito a qualcosa di simile: i gruppi che avevano fondato e ‘organizzato’ questi movimenti (e che avevano portato avanti le iniziative nei giorni dell’emergenza) sono stati contestati. Non si contestavano le persone, né quello che avevano fatto fino a quel momento. Si contestava il solo fatto che ci fosse da qualche parte un tavolo di portavoce, un direttorio, un “governo”. Così Lilliput ha rifiutato il ruolo di coordinamento del Tavolo Intercampagne; così Attac ha vissuto una forte dialettica tra consiglio direttivo e comitati locali; così il Forum Sociale Italiano, che doveva costituirsi, non è mai nato. “Rappresentanza”, “delega”, “portavoce”, rimanevano parole tabù. Tabù era diventato anche prendere una decisione per alzata di mano. Dal saggio di Francesca Veltri scopro finalmente in cosa consistesse quel famoso “metodo del consenso” adottato da Lilliput. È un sistema piuttosto complesso che consente a un’assemblea di arrivare a decisioni comuni senza votazioni e scontri interni (grazie anche all’ausilio di assistenti neutrali, detti “facilitatori”). Pare che funzioni, ma richiede molto tempo. E del resto Lilliput sembra aver deciso di prendersi tutto il tempo che vuole (“all’interno di Lilliput sta prendendo piede l’idea di rifiutare totalmente la presa di posizioni a carattere urgente, considerate incompatibili con la specifica struttura del movimento”). Si passa così dall’emergenza infinita al rifiuto del solo concetto di emergenza. Dal calendario fitto al calendario vuoto: perché no? Ma si può ancora chiamare Movimento, qualcosa che non si dà più nessun tipo di scadenze? Si “muove” ancora?

Il grande dibattito sulla democrazia attraversò anche il nostro piccolo forum sociale. Finalmente il gruppo di lavoro sulla democrazia interna poté relazionare. Ci furono i consueti diverbi, risolti probabilmente con il metodo del consenso o qualche altra pratica sfibrante – e alla fine anche il nostro Forum ebbe il suo regolamento scritto. La sua democrazia formalizzata.
Dopodiché accadde qualcosa di un po’ inquietante: io – che mi ero sempre lamentato della mancanza di democrazia del forum – smisi per un po’ di andarci. Non mi appassionavo più.
Ma non è successo solo a me. Le assemblee hanno cominciato a svuotarsi. Attenzione: non le riunioni operative, non i banchetti nelle strade, non i cortei: le assemblee. I luoghi dove, in teoria, la democrazia avrebbe dovuto essere partecipata. E invece sembrava che nel 2002 gran parte degli attivisti fossero ancora interessati a seguire iniziative e marciare dietro striscioni, e sempre meno a partecipare alle decisioni. L’Assemblea Nazionale di Lilliput, nel gennaio 2001, mi sembra un caso tipico: per la prima volta il “Metodo del Consenso” viene utilizzato in un’assemblea su scala nazionale, e… pare proprio che funzioni! Ma funziona anche perché quell’assemblea nazionale in realtà è piuttosto ridotta: si presentano soltanto 300-400 persone. E gli altri? Ricordiamo che Lilliput non accetta il concetto di delega. O meglio: gettata dalla finestra, la “delega” viene recuperata dalla finestra col nome più rassicurante di “fiducia”. Ma è davvero un passo avanti? Non è anche un segno di stanchezza? Dopo aver rifiutato meccanismi formalizzati di rappresentanza, molti lillipuziani si sono limitati a “fidarsi” dei compagni che avevano il tempo, o la voglia, di recarsi alle assemblee. Lilliput è solo un esempio: la stessa cosa è accaduta un po’ ovunque.

Dal 2002 in poi credo che tutte le assemblee si siano, non dico svuotate, ma ‘asciugate’: dove prima c’erano trecento persone ora ce ne sono cinquanta, dove ce n’erano cinquanta ora ce ne sono dieci, ecc.. Chi è rimasto?
In molti casi sono rimasti gli uomini dello stato d’emergenza. Quelli che nella prima fase tenevano il microfono, stilavano l’ordine del giorno, si assumevano la responsabilità delle iniziative. Quelli che rischiavano di passare per verticisti, e in certi casi lo erano davvero. Quelli che in molti casi hanno assistito alla stagione costituente con una smorfia di fastidio. Ma come mai hanno resistito proprio loro? Non era finita, l’era delle emergenze? E perché loro non si sono stancati, e gli altri sì? Avrei tanto voluto che qualcuno me lo spiegasse. Anzi, no, che me lo raccontasse. (Continua)

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