Maestri di vita (14): Gianna
Gianna in realtà non si chiamava così, ma facciamo finta che.
Gianna una volta disse una cosa che non mi dimenticherò mai. Ma andiamo con ordine.
Un giorno io cominciai a pensare che la solitudine è un destino, che una persona porta con sé dalla nascita. Non ha nulla a che fare coi vestiti che uno indossa, o col peso e l’altezza, e nemmeno con l’alito, per quanto uno possa lavarsi i denti; oppure invece no, ha a che fare con tutte queste cose, ma le determina: non si è soli perché si veste da sfigato, ma ci si veste da sfigati perché si è soli, e nessuno ci ha mai spiegato i vestiti da indossare e la corretta igiene orale. È un circolo vizioso che comincia alla scuola materna, forse anche prima, e non c’è modo di evadere. Neanche cambiando città: ovunque vai, la solitudine ti precede. È come un araldo che si fa strada suonando un campanaccio: “Udite, udite! Sta arrivando Davide, è un solitario, emarginatelo”.
Queste cose io cominciai a pensarle seriamente, una mattina del settembre 1987: era il secondo giorno nella nuova scuola, e in classe quasi nessuno si conosceva. Ognuno, quel mattino, aveva scelto il banco secondando l’istinto. Orbene, c’erano 26 banchi in coppie di 2, e 25 ragazzini. Come un ballo della scopa infernale.
Io però ero stato uno dei primi ad arrivare, perciò pensavo che da un punto di vista strettamente statistico avrei avuto meno possibilità di restare solo. Mi sbagliavo. Evidentemente il mio araldo mi aveva preceduto. (“Qui si sederà Davide: mi raccomando, lasciatelo solo, lui preferisce così”). Io credevo molto all’imprinting, guardavo ai miei compagni come a tante oche di Lorenz, così al suono di quella campana pensavo che le cose si fossero decise per sempre: sei coppie maschili, sei coppie femminili, e uno sfigato. Avrei passato cinque anni così, amen.
Poi, dopo cinque minuti, la porta si aprì ed entrò Gianna, trafelata. Borbottò qualcosa su un treno che era arrivato in ritardo, e senza neanche guardare venne a sedersi di fianco a me. Questo, capite, cambiava tutto: dodici coppie omo e una coppia etero. E l’unico maschietto con una femmina di fianco ero io. Ecco che il destino mi dava un’opportunità incredibile: avrei saputo sfruttarla bene? Avevo cinque ore per fare una buona impressione. Ma come si fa buona impressione sulle ragazze? Non lo sapevo. Non lo sapevo assolutamente.
Per la verità, non è che fossi vissuto sulla luna: alle medie di cose ne avevo imparate. Per esempio, sapevo come si fanno incazzare. Ma non era certo questo il caso. Sapevo anche come innamorarmi di loro, prendermi delle sbandate storiche in totale solitudine. Avevo anche imparato come reagire con assoluta indifferenza a semi-esplicite richieste di attenzione, cosa di cui mi rimprovererò per tutta la vita. Ma tutto questo ora non mi serviva. Ora dovevo cercare di convivere con una ragazza. Dovevo dimostrare che poteva trovarsi a suo agio di fianco a me. Come fare?
Gianna era sottile, scura di carnagione, e stava dormendo. Non le era bastato perdere il treno. Il caschetto castano basculava incerto sulle spalle, e rischiava di piombare sul banco da un momento all’altro. Quando finalmente si svegliò del tutto, ebbe fame. Ogni tanto dal suo corpo partivano strani brontolii udibili sin dalla cattedra, tanto che la prof d’inglese commentò. Io non avevo mai sentito lo stomaco di una ragazza brontolare. La scuola media superiore si stava rivelando densa di sorprese.
Quanto a me, non credo che riuscii a interagire con successo il primo giorno, ma scoprii presto che la cosa non era importante. Il mattino dopo le coppie erano ormai fatte, e io ero di nuovo l’unico maschietto solitario, finché Gianna non arrivò: aveva perso il treno di nuovo. Gianna continuò a perdere il treno per tutto l’anno, anzi, perse il treno per tutti i cinque anni del liceo sperimentale. Vorrei ringraziarla qui di nascosto per aver ignorato così sistematicamente le lamentele dei docenti, e aver continuato a scegliere le pigre ferrovie di Sassuolo invece di una più rapida autocorriera. Fu grazie a questa sua scelta di vita che io imparai come si condivide il posto di lavoro con una ragazza. Lezione importante, una delle più importanti che ho imparato quell’anno (molto più importante delle declinazioni del latino, per esempio).
Per prima cosa, è inutile strafare. Bisogna essere sé stessi, anzi, diventare sé stessi, perché a 15 anni uno non è ancora niente. Se lei non ha voglia di parlare, non disturbarla. Se si mette a scherzare col maschietto che sta davanti a te, ignora le punture che ti trafiggono al petto. Se si addormenta, scuotila, con dolcezza: te ne sarà grata. Se poi si riaddormenta, non insistere troppo. Se in aprile basta sbirciare dalle maniche della maglietta per vedere il reggiseno (coi cuoricini), non girarti: non puoi fare il guardone con una persona che hai di fianco continuamente.
Se invece ogni tanto ti viene in mente qualcosa di divertente da dire, aspetta, scegli il momento giusto, e dilla sottovoce. Se lei non la troverà divertente, non se ne accorgerà nessuno.
Ma se lei si metterà a ridere come una forsennata, con la risata che aveva Gianna, che sembrava svegliarsi in quel momento ed esplodere in una cascata sghignazzante: se riesci a farla ridere, sarai il maschietto più felice della terra, perciò, presta attenzione. Come si costruisce una battuta? Come si racconta una storia? Datti da fare, ragazzo. Non emarginarti, non farti mettere in un angolo anche stavolta.
Gianna fu la prima compagna di quella classe a mostrare di gradire la mia compagnia, e io le sarò eternamente grato. Dopo di lei vennero tanti altri: Gigi che mi disegnava piselli sul diario, Ghigo che in un giorno di sciopero mi portò dal mitico Notari a provare le chitarre elettriche, Mega così detto dalle dimensioni delle cazzate che diceva, Zanna con cui misi su un complesso, Alberto che fa il giornalista, Carol che in quarta m’invitò a prendere una pizza per discutere le rispettive scelte ideologiche, Silvia che adesso ha una bambina, e tanti altri, e alla fine scoprii che stavo bene più o meno con tutti. Con gli anni i maschietti vennero duramente selezionati, rimanemmo solo in sei. Era un liceo quasi totalmente femminile, e saper interagire con le ragazze era importantissimo. Tutta la mia vita, a dire il vero, si è svolta in luoghi a preponderanza femminile. Non so se sia un destino o un caso, e non sempre mi sono trovato così bene. Ma quei cinque anni sono stati davvero i più belli della mia vita, e le ragazze hanno giocato un ruolo molto importante.
Racconto questo perché è l’otto marzo, e volevo ringraziare in un qualche modo tutte le donne che in un periodo della vita hanno dovuto sedersi di fianco a me.
Può darsi che in futuro questa storia risulterà incomprensibile. L’idea di far lavorare insieme maschietti e femminucce nell’età della crescita non ha un gran fondamento scientifico: è una di quelle stramberie pedagogiche del tardo Novecento, che i nipotini della Moratti non tarderanno a smantellare. È giusto che i poveri stiano in classe coi poveri, i ricchi coi ricchi, i bianchi coi bianchi e i maschi coi maschi. È più sano, e anche per i prof è più facile lavorare. I ragazzi arriveranno a vent’anni senza aver mai interagito con una ragazza: no problem: stiamo già pensando di riaprire i casini, per il corso accelerato. Cosa c’è di strano? Una volta si faceva così, no? Siamo noi quelli strani, maschietti che non vogliono fare i maschioni e femminucce che non si rassegnano a fare le casalinghe. Uno scherzo della storia. Ma non durerà.
Non era più l’87, era già passato qualche anno, quando Gianna disse questa cosa, che non scorderò mai. Non la disse a me, ma a una nostra compagna nell’intervallo. Io passavo di lì per caso. Disse: “se penso che devo convivere con me stessa per tutta la vita…”
Non ci avevo mai pensato, eppure anch’io sono nella stessa situazione. Ormai mi conosco, e tante cose di me non le sopporto. Ma le devo sopportare: ogni giorno devo portarmi in giro, ascoltarmi quando parlo, e tante volte non faccio che dire le solite cose. È una gran palla, Gianna aveva ragione.
Fortuna che ci sono le ragazze, che tollerano di sedersi al tuo fianco, che accettano la tua compagnia, che ti costringono a tirare fuori da te stesso qualcosa di nuovo e divertente: e che a volte ti spiegano la vita. Io sono un maschietto del tardo novecento, sono cresciuto con le ragazze e ci sto bene. A volte la mia donna non la capisco proprio. Ma quando ride, per una cosa che ho detto, io sono felice. Anche ora.
e gianna che fine ha fatto? se leggi questo blog (tutti dovrebbero) dai tue notizie!
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