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lunedì 12 luglio 2004

Pilipino War

Non siamo un gruppo etnico di sguatteri al servizio del bianco,
perciò…


Tanto per partire da un pregiudizio (del resto, da cosa si dovrebbe partire?): i filippini sono orientali che a volte assomigliano ai latini, come schiavi e padroni finiscono sempre un po' per somigliarsi. Guardali mentre discutono, accrocchiati al parco. Guardali mentre piangono, e urlano, in tv. Hanno i taglio d'occhi dei cinesi e dei giapponesi, gente indecifrabile, ma loro no, loro paiono decifrabilissimi.

Questo è naturalmente un pregiudizio, nato per essere sfatato. Cosa so veramente, io, dei filippini? Niente. Mai conosciuto davvero un filippino. La mia famiglia non ha mai potuto permettersene uno. Ma già una frase così è indicativa.

I filippini sono una democrazia – una delle tante dell'Estremo Oriente – e democraticamente hanno deciso che ritireranno le truppe dall'Iraq. Anche un po' spagnolescamente, diciamolo: perché c'è un ostaggio in ballo. Tutta la comprensione possibile nei confronti dell'ostaggio, dei famigliari, dei governanti a cui è toccata la non facile scelta.

Dopodiché i rapitori, non paghi, hanno preteso di più: il ritiro immediato e incondizionato. E a quel punto il governo filippino ha detto no. Una cosa, anche questa, di retrogusto vagamente latino: sulla sostanza possiamo discutere, ma le apparenze no, le apparenze sono sacre. Adelante, insomma! con juicio.

In realtà il problema è più complesso di così. I filippini non si possono ritirare dall'Iraq. Gli effettivi, quelli sì, e abbastanza presto: sono una cinquantina. Ma in Iraq ci sono già 4000 "lavoratori civili". E secondo me la notizia è questa. In Iraq ci sono 4000 filippini che nessun governo ha invitato, e che nessun governo può ritirare. Un bel contingente. Ma perché sono là? E cosa ci stanno facendo?

In mancanza di dati, possiamo solo far lavorare i nostri (pre)giudizi. C'è il fiorente mercato della security, o dei contractors, o dei mercenari – a seconda del punto di vista. Personalmente faccio fatica a credere che 4000 filippini si diano in massa a questo tipo di professioni. Ma appunto, questo è un pre-giudizio tutto mio. Magari i filippini sono bravissimi guardaspalle. Di sicuro non danno nell'occhio.

La prima cosa che viene in mente, invece, è che i filippini facciano tutta una serie di lavori non particolarmente pericolosi (con l'avvertenza che qualsiasi lavoro in questo momento è pericoloso, in Iraq) ma spiacevoli, che nessuno mai si sente di fare – quella che sembra essere, pregiudizialmente, la missione del filippino nel mondo. E complimenti alla voglia di fare e al coraggio. Però si deve stare davvero male, nelle Filippine, se 4000 sono già emigrati in un posto così poco sicuro come l'Iraq.

Ma se fanno quel tipo di lavori, c'è qualcosa che non va. Perché uno dei principali problemi dell'Iraq attuale è la disoccupazione. Gli iracheni stanno a spasso per le strade (o chiusi nelle loro case), e in giro ci sono già 4000 filippini che hanno trovato lavoro. Come può succedere una cosa del genere?

Una prima spiegazione può essere che gli occupanti (stavo per dire americani, ma ehi! ci siamo anche noi) si fidano più di un uomo delle pulizie filippino che di un iracheno. Hanno gli occhi a mandorla, hablano espanol, sono cattolici (c'è anche un 5% islamico, veramente…), non hanno l'aria di gente che si fa saltare in aria. Questo è triste, ma comprensibile.

Una seconda – dettata indubbiamente dal pregiudizio – è che già in questo momento, con Bagdad a ferro a fuoco, il costo del lavoro filippino in Iraq sia competitivo. La democrazia sta arrivando, ma la globalizzazione è già arrivata, con buona pace delle donne di pulizia irachene. E questo sì che è un grosso problema. Molto più grosso del contingente militare filippino in Iraq. A un anno dalla liberazione, non solo gli iracheni sono meno sicuri di prima (e prima non erano affatto sicuri); non solo vivono in un clima di guerriglia endemica; ma si trovano anche a competere con gente disposta a lavorare in condizioni peggiori, e per paghe inferiori. Per di più sono cattolici (oddio, sì, c'è un 5% islamico).

Allora io, se fossi non Al Zarkawi, non Bin Laden, ma il primo ministro Allawi, o il Presidente George W. Bush, chiederei il ritiro dei filippini: non degli effettivi, ma proprio dei lavoratori di fatica. Per una volta ragionerei da leghista: l'Iraq agli iracheni! Prima diamo un lavoro e una paga a quelli olivastri coi baffi e dopo, quando hanno tutti un'occupazione e non pensano più alla rivoluzione, soltanto dopo, apriamo la frontiera a quelli con gli occhi a mandorla e i nomi spagnoli. La globalizzazione può attendere, eccheccavolo.

Basterebbe vedere cos'è successo in Israele: sembra assurdo, ma di lavoratori dall'estremo oriente (Thailandia, soprattutto) ne sono arrivati anche lì, dove in teoria si sta già fin troppo stretti. E hanno preso il lavoro a chi? Ai palestinesi. Che costavano più di loro, ed erano meno docili. Vuoi per il carattere, vuoi per la storia, vuoi per la cultura. Vuoi perché stavano cominciando a sindacalizzarsi. A un certo punto, la forza lavoro dei palestinesi non è stata più così indispensabile per Israele. Il processo di pace si è interrotto poco dopo. L'esasperazione palestinese durante e prima la Seconda Intifada era dovuta soprattutto ai blocchi, che impedivano ai palestinesi di lavorare regolarmente in Israele. (E certo, hanno impedito anche ad alcuni palestinesi di andare a esplodere sui bus israeliani. E' una dura guerra, quella tra le cause e gli effetti).

Fare discorsi di questo tipo – ma farli seriamente, con cifre e statistiche – significherebbe rimettersi a parlare di economia, di costo del lavoro, di profitti e di sfruttati, e un po' meno di religione, di civiltà, di razza. Purtroppo stamattina io non ci riesco (chi vuole, può dare un'occhiata a questo rapporto) posso solo a lavorare di pregiudizi. Cifre ne ho poche, in realtà solo quella di sopra: 4000 civili filippini, in Iraq. Secondo me è incredibile. E secondo voi?

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