Beniamino Placido nella sua vita ha scritto moltissimo, come tutti i giornalisti del resto. Però a differenza di tante firme prestigiose del giornalismo italiano (a fine ’80 Placido era un’istituzione), non ci lascia molti libri. Se poi per “libro” s’intende “mattone cartonato con firma prestigiosa, da presentare nei talk e farci soldi soldi soldi”, Beniamino Placido non ci lascia proprio niente, e sì che avrebbe potuto: con poco sforzo e ottima resa. Invece no. I pochi libri pubblicati sono divertimenti – uno si chiama proprio così, “Tre divertimenti”, e riprende una serie di parodie che aveva buttato giù per l’inserto culturale di Repubblica. Cosucce a margine, perché Placido non si considerava uno scrittore di libri. I libri a volte restano, e forse lui di restare non aveva tutta questa voglia (che è una delle molle che ti spinge a firmare cartonati, o la Divina Commedia). Preferiva stare sul giornale, che oggi c’è e domani è buono per incartare il pesce. Immagine sua. Non saprei dire da dove l’ho presa (non ho una sola pagina di Placido in casa), ma è sua. Probabilmente il quaranta per cento di quello che butto fuori è roba sua.
Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.
Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.
Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).
Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’"anarchinfantilista" Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?
Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: "Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna". Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova - c'è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.
c'è un refuso: "lui al liceo aveva fatto finto" 5° paragrafo 5a riga
RispondiEliminaPosso sbaglaire, ma quella dell'incartare il pesce a me risulta di Luigi Pintor.
RispondiEliminaPosso confermare che l'idea di incartare il pesce nel giornale è di Luigi Pintor
RispondiEliminaCommovente il pezzo su Praz...
RispondiEliminaDa anglista (seria) mancata posso dire che uno dei libri di critica più originali e godibili è stato il suo "Le due Schiavitù" (Einaudi)recentemente citato da Baricco che se non fosse il fighetta che è potrebbe raccoglierne il testimone per il modo scanzonato e gradevolembnte divulgatorio di affrontare temi letterari e non. Certo che la sua rubrichetta su La Repubblica per molti hanni è stata la prima cosa che leggevo. Oggi ho "L'amaca" di Serra ma non mi fa lo stesso effetto.
RispondiEliminaChe la terra ti sia lieve, Beniamino
Maria Cristina
Ecco, grazie, non riuscivo a trovare titoli suoi da studioso.
RispondiEliminaAllora, probabilmente Pintor avrà parlato del giornale come di carta da pesce, esattamente come centinaia di altre persone, perché si tratta di un luogo comune. Io ho un ricordo abbastanza preciso di un pezzo in cui Placido, vent'anni fa, spiegava che il motivo per cui i quotidiani una volta si vendevano di più è che molta gente aveva più bisogno di carta per scopi diciamo impropri (pescivendoli, ferramente, eccetera). Che tra l'altro è in linea con le più recenti teorie sul declino del cartaceo: il fatto che si paghi per il supporto fisico (carta) e non per il contenuto, ecc.
C'era una serie tv USA degli anni 80 ("Lou Grant", ambientata appunto in un giornale) con dei bellissimi titoli di testa in cui la carta utilizzata per i giornali compiva un percorso quasi perfettamente circolare: come albero ospitava un uccellino cinguettante, diventava tronco, truciolo, pasta, carta da rotativa, giornale e poi finiva per accogliere le cacche di un altro uccellino in una gabbietta domestica. Anche peggio che incartare il pesce.
RispondiEliminaMi dispiace non poter leggere più i pezzi enciclopedici di Beniamino Placido (era sua una descrizione del baseball come metafora dello spirito pioneristico WASP?). Non lo conoscevo nemmeno come anglista, ma solo come ricompositore del puzzle culturale che la specializzazione moderna porta con sè, lasciandoci a farci luce ciascuno per sè con una sola candelina.
Ricordo che era riuscito persino ad incuriosirmi su un oscuro scritto rabbinico ("La tavola imbandita" di Joseph Caro, che ho cercato e mai trovato) che elencava le "nudità" pericolose per il pio. Ce n'era una particolarmente struggente per la malinconia che faceva scorgere nell'animo dello scrittore: "nudità è la voce di una donna che canta".
Mi fa pensare a Placido come un grande apprezzatore, anzi cercatore di nudità, pronto a cogliere le cose nascoste, scostarne i veli e a scorgerne la bellezza per un attimo anche inutile, come è inutile la bellezza. Forse per questo preferiva offrire piccoli scorci quotidiani che l'indomani sarebbero stati riciclati e perduti.
"Today's newspaper wraps tomorrow's fish" gode, in inglese, di attribuzioni a Pulitzer e Singer (il cantore degli shtetl, non il magnate delle macchine per cucire). I tedeschi sostengono invece che il pensiero originale sia di Goethe... e la verità non la sapremo mai. Detto questo, la mia primissima traduzione (un libraccio, un vero libraccio) fu recensita da Placido con interesse e tenerezza, e io quasi svenni di gioia perché, pur senza nominarmi, mi aveva virgolettata.
RispondiEliminaho letto per lunghi anni beniamino placido, lo trovavo divertente senza essere frivolo (come p.e. enzo biagi che scriveva anche su sorrisi e canzoni).
RispondiEliminaho ricercato qua e là delle cose e le trovo attualissime (anche il pezzo su piperno lo trovo stra-attuale e per niente ingeneroso, anzi).
perché lui (e altri) scriveva delle cose intelligenti e leggibili anche millanta anni fa, a differenza di altri che ci hanno ammorbato per decenni e poi (chissà come e perché) hanno cominciato a scrivere cose decenti, spesso molto meno bene (v. sofri)
immagino che, stante l'alzheimer di massa, siano molti quelli che s'ispirano (o copiano più o meno inconsciamente) a placido, riuscendo a sembrare originali e brillanti
Che meraviglia questo pezzo, Leo! Io e te sappiamo bene, e come noi tanti altri, quanto quel luogo comune infame su Praz sia stato e sia tuttora vivo e operante. Grazie di averlo ricordato. E' una delle tante (non la maggiore, ma nemmeno la minore) vergogne dell'università italiana, un luogo dove dovresti trovare degli intelletti funzionanti, mentre il primo discrimine evidente tra un intelletto funzionante e uno rotto o fallato sin dall'origine, è proprio la superstizione.
RispondiEliminaDa anni non leggevo Beniamino Placido, ma finché aveva la sua rubrica era uno dei pochi motivi per acquistare "La Repubblica". Non ci avevo mai pensato, ma in effetti ci ha insegnato sicuramente moltissimo sulla scrittura, sull'essere brevi e divertenti ma non superficiali, e sul trovare collegamenti fra i temi più disparati. A te poi con ottimi risultati, direi.
RispondiEliminacomunque ha scritto "la TV col cagnolino", anno 1993 o giù di lì. lo lessi all'epoca e non mi dispiacque.
RispondiEliminaspero pubblicheranno una raccolta di quello che ha scritto: i pezzi sono già tutti nell'archivio di repubblica, non sarebbe mica tantissimo il lavoro da fare
Un ricordo per due meriti extracritici ed extraletterari:
RispondiElimina— la migliore battuta — perlomeno la mia preferita, via — mai pronunciata nell'intera cinematografia morettiana (nel ruolo del critico teatrale in Sono un autarchico: "Ho riletto di recente il Manifesto del partito comunista, e francamente l'ho trovato un po' kitsch");
— la memorabile interpretazione del direttore de l'Unità in un fotoromanzo di classe uscito in allegato al Male alla fine degli anni Settanta: Due cuori e una flebo.
Ho avuto il piacere di conoscerlo e di lavorarci vicino (non insieme, magari), al Salone del Libro, ormai 15 anni fa. Una delle persone più curiose e gentili mai incontrate.
RispondiEliminaChissà che davvero qualcuno non ristampi tutto, adesso: a me i suoi pezzi fanno l'effetto di quelli di Bianciardi, li leggi e dopo due righe pensi siano stati scritti stamattina con riferimenti volutamente passé.