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lunedì 8 marzo 2010

Bisogna saper pppp


Stavolta vince mica.
Il bello è che lo sa.
Il brutto è che gli sta bene.

Ho una teoria #13, con un argomento inedito: Berlusconi!
Si commenta di là.

Il capo si è fatto sentire. Dopo aver lasciato per mesi il suo nuovo partito in balia di galoppini riottosi e pasticcioni, all'ultimo momento è intervenuto a salvarlo dall'inevitabile figuraccia. Il PdL si presenterà alle elezioni in Lazio e in Lombardia, malgrado non abbia rispettato le regole: si presenterà, perché il capo ha voluto così, e quel che il capo vuole è legge, pardon, decreto attuativo. Ma vincerà? Non è detto. La mobilitazione democratica degli ultimi giorni potrebbe riportare alle urne una parte dell'elettorato di sinistra fin qui tiepido nei confronti del PD. Il capo probabilmente ha calcolato anche questo. Ma forse la cosa non lo preoccupa più di tanto.

Ho una teoria: forse stavolta a Berlusconi non dispiacerebbe perdere un po'. O al limite pareggiare – il che equivale a una sconfitta, quando ormai si possiede il campo e buona parte degli arbitri. I pasticci di Lazio e Lombardia non sono semplici casi di disorganizzazione, ma indizi del cupio dissolvi, della neanche tanto inconfessabile voglia di autodistruzione che circola al vertice del PdL. Vittorio Feltri già da un po' parla di partito da rifare, di sconfitta probabile; ne parla col tono sgamato a cui erano abituati i lettori di Libero, salvo che ora scrive su un quotidiano della famiglia Berlusconi. Il Giornale non ha pudore a definire il PdL come un “partito di matti” (Sallusti, 1/3/10), a  indicare la necessità di un “azzeramento” dopo le elezioni. Una purga del genere sarebbe difficile da somministrare in caso di vittoria; viceversa, una sconfitta la renderebbe inevitabile. Lo stesso decreto salva-liste avrebbe un senso simbolico: Polverini e Formigoni devono capire che è solo la benevolenza del capo a tenerli ancora in gioco a Roma e Milano. Un'umiliazione per i sottoposti più riottosi (e per le regole della democrazia, il che non guasta mai). L'obiettivo stavolta non sarebbe tanto vincere, quanto liberarsi di quei planetoidi che ruotano intorno al re-sole del PdL sulle orbite più eccentriche: i finiani, gli uomini di Formigoni, e chissà quante altre meteore invisibili dalla nostra distanza.

Certo, immaginare un Berlusconi che sappia perdere, che addirittura programmi di farlo, richiede un certo sforzo d'immaginazione. L'uomo non ha mai mostrato molta sportività nelle sconfitte: non si contano le occasioni in cui ha lamentato i brogli, i golpe, i riflettori spenti che impedivano al suo partito o alla sua squadra la meritata vittoria. È vero, quando gioca non sa perdere. Ma a volte  semplicemente non gioca. Si disinteressa del risultato, si mostra distratto e incostante (come ben sanno i tifosi rossoneri); si smarca al punto che la sconfitta finale non sarà attribuile a lui, ma ai collaboratori che non hanno saputo servirlo. Può darsi che qualche sondaggio riservato gli abbia fatto capire che non è nemmeno il caso di sporcarsi le mani: qualche spot lo girerà, una leggina salva-ritardatari l'ha fatta scrivere, ma il suo nome stavolta non è stampato in cima alle liste. Meglio non rovinare l'immagine di eterno vincente. Probabilmente non ruberà la scena ai candidati: quando è il turno dei perdenti, il capo cede volentieri la ribalta ai sottoposti.

Le amministrative sono le consultazioni più sacrificabili
. Storicamente sono sempre state le più difficili per il centrodestra, i cui avversari godono di un maggior radicamento nelle amministrazioni locali. E allora tanto vale non spendersi più di tanto, anche perché si è già visto cosa accade al centosinistra quando gli si lascia vincere le amministrative.

Accadde nel 2005: Berlusconi governava da quattro anni, quando il suo consenso fu bruscamente messo in discussione da un risultato che sembrava storico. Tutte le regioni d'Italia, fatta eccezione per le roccaforti del lombardoveneto e della Sicilia (e per il piccolo Molise) passarono all'Unione, rinata sulle ceneri dell'Ulivo. Il risultato soffiò sul centrosinistra un'insidiosa ventata di ottimismo. La candidatura (non proprio freschissima) di Romano Prodi non incontrò ulteriori ostacoli; il progetto del PD, viceversa, rimase bloccato; il complicato sistema di alleanze DS-Margherita-cespugli tutto sommato sembrava funzionare. Per qualche tempo Berlusconi sembrò l'uomo del passato. A rileggerle, certe analisi del periodo, suonano surreali: si parla di un leader ormai avviato sulla via del tramonto; di un centrodestra smarrito, incapace di trovare un successore all'altezza. Il sostanziale pareggio dell'anno successivo fu una doccia fredda per molti: cos'era successo? Semplicemente, Berlusconi aveva deciso che voleva tornare a vincere. Cosa che nel 2007 non gli riuscì per poco, e che gli capitò comunque due anni più tardi. La sconfitta del 2005 gli era servita per riorganizzare idee e risorse, mentre nell'Unione ci si accomodava sugli allori. Oggi come ieri, una vittoria alle amministrative potrebbe portarci a ripetere lo stesso errore: illudere i militanti e i vertici del PD che si può vincere così, senza esagerare col rinnovamento, piazzando ai soliti posti i soliti uomini (la candidatura di Errani alla presidenza della regione Emilia è tuttora a rischio annullamento), confidando nella stanchezza dell'avversario, nel suo cupio dissolvi. Ma Berlusconi ormai dovremmo conoscerlo: proprio quando sembra spacciato, si rialza più arzillo che mai. È un vecchio pugile che ha bisogno di prendere qualche botta ogni tanto per sentire l'adrenalina e ricordarsi che è sul ring. Ma una botta non fa primavera: ben altro ci vorrà per mandarlo al tappeto una volta per tutte.