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sabato 8 giugno 2013

Diciamo "No" agli inestetismi della dittatura


Ssssst, sta creando.
No - i giorni dell'arcobaleno (Pablo Larraín, 2012)

È giusto vendere la democrazia come una cocacola? Se un dittatore ti propone un plebiscito e ti offre un quarto d'ora in tv, lo userai per lamentarti degli amici che ti ha sgozzato o per lanciare slogan rassicuranti a casalinghe e adolescenti? Il fine giustifica gli spot? René è un giovane pubblicitario che nel Cile del tardo Pinochet non se la passa poi male. Quando gli offrono di curare il prodotto più difficile e pericoloso - il "No" a Pinochet nel referendum che tutti immaginano truccato - l'orgoglio del professionista ha la meglio sulla prudenza. Venderà il No alla maggioranza dei cileni, anche a costo di svuotarlo di significato. Ma la vittoria non è un valore in sé? No arriva a Cuneo con un certo ritardo: era a Cannes l'anno scorso, è in lizza per l'Oscar al miglior film non USA, e ha ottime chances: racconta una storia che agli americani interessa, in quel genere a metà tra fiction e documentario che sta attirando sempre più interesse. Larraín non può contare sui production values nordamericani, ma il suo No non risulta affatto meno coinvolgente di un Lincoln, uno Zero Dark Thirty o un Argo. L'effetto vintage lo ottiene con l'espediente di girare con vecchie cineprese anni '80, che rendono quasi inavvertibile l'inserzione di documenti di repertorio: tanto che alla fine rimane la curiosità di sapere quali spot siano autentici e quali no. Lo stesso René da quel che ho capito è un personaggio di finzione, anche se non si direbbe (Gael García Bernal sempre molto bravo). Il film racconta una versione stilizzata dei fatti, e naturalmente in patria si è preso la sua parte di critiche da parte di testimoni che se li ricordano un po' diversi, un po' più complicati. La realtà è sempre più complicata.

Larraín di suo ci mette l’ambiguità politica (continua su +eventi!)è pur sempre figlio di due registi schierati con Pinochet; lui ne ha preso le distanze, ma il suo film sembra liquidare la vecchia generazione degli oppositori al regime come ruderi rancorosi che non hanno capito che la campagna elettorale è marketing, e che un jingle affollato di gente sorridente vende meglio di un tetro reportage sui morti e i torturati. Il film in realtà è molto più sottile di così, ma in Italia è arrivato nel momento giusto per subire una certa lettura: all’indomani del disastro del PD, preannunciato da un memorabile intervento Servizio pubblico di Roberto Saviano che ha spiegato quanto sia importante parlare del futuro e non fossilizzarsi sul passato; hanno tutti applaudito, e poi si sono rimessi a parlare della Trattativa Stato-Mafia. A me non dispiacerebbe concordare con Saviano quando esorta a lasciarsi alle spalle il passato – purché non si rispolveri quel vecchio slogan per cui le elezioni si vincono soltanto con contenuti positivi. Magari fosse così. È senz’altro così in momenti di crescita, come quello che stava attraversando il Cile negli anni Ottanta. René vive nell’euforia di quegli anni, è entusiasta del forno a microonde ma ha ancora un po’ paura che emetta radiazioni. Si sposta in skate e ha capito che il Cile è pronto per scrollarsi di dosso i generali come un rettile si libera di una pelle vecchia e inutile: ma non sa che animale c’è sotto, e non è affatto sicuro che gli piacerà, che valga la pena di festeggiare.

Ma anche la paura vende benissimo, nei momenti giusti. In periodi di stagnazione e crisi, per esempio: lo abbiamo sperimentato abbondantemente dai primi Novanta in poi. I leghisti con l’emergenza criminalità e le invasioni hanno messo insieme un bel gruzzolo di voti; anche Berlusconi non ha disdegnato di paventare l’avvento del comunismo, e Grillo continua a vendere paura un tanto al chilo, tagliata con qualche vaga formuletta di speranza: hai voglia a dire che non c’è mercato, la paura se guardi bene le elezioni le ha vinte. Il PD le ha perse, e senza dubbio non ha azzeccato la campagna, ma non perché abbia spaventato i suoi potenziali elettori con slogan rancorosi; “Smacchiamo il giaguaro” non era affatto uno slogan rancoroso, anzi era abbastanza allegro; purtroppo era anche irrimediabilmente brutto. René lo avrebbe liquidato così: brutto, proviamo qualcos’altro. È un professionista, questo è un altro messaggio del film. La comunicazione politica non è necessariamente la politica, bisogna affidarsi a specialisti; e ovviamente bisognerà pagarli un po’. Rischiate di uscire da “No” con qualche argomento a favore del finanziamento dei partiti, attenti. 
Un’ultima cosa sul doppiaggio italiano. La scelta di lasciare non tradotti (e senza sottotitoli) gli spot originali è incomprensibile, in un film che racconta una guerra di spot. E non è vero che lo spagnolo lo capiscono tutti. Sembra quasi che i doppiatori italiani non abbiano avuto il coraggio di accettare la commistione di fiction e documentario fino alle sue estreme conseguenze: anche l’orribile Pinochet è un personaggio del film, tanto più orribile quanto più cerca di trovare un volto rassicurante. Parla la stessa lingua di René, non è un invasore, non è un alieno. Se il film è doppiato, andava doppiato anche lui. Avete avuto quasi un anno di tempo, ecchediamine. Tanto valeva sottotitolarci una versione originale.  

No è al cinema Monviso di Cuneo oggi (sabato) e domenica, alle 21. Viva il cinema Monviso!

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