Nel novembre del 1913 l'avvocato Mohandas Karamchand Gandhi organizzò una marcia di protesta di lavoratori indiani in Sudafrica, durante la quale fu arrestato almeno tre volte, e infine condannato a nove mesi di reclusione. In questa e in numerose altre circostanze (Gandhi entrò e uscì di galera per tutta la sua vita), l'avvocato non si difese invocando una qualche libertà di opinione. Di solito, davanti ai giudici, si dichiarava colpevole. "I miei affari migliori li ho sempre fatti dietro le sbarre", diceva. Di ritorno in India si consolidò una prassi: lui protestava, gli inglesi lo incarceravano, lui digiunava, gli inglesi lo liberavano.
Quando nel 1967 la Corte Suprema bocciò il ricorso del reverendo Martin Luther King e stabilì che doveva tornare in prigione a Birmingham, Alabama, a causa di quelle manifestazioni non autorizzate che aveva organizzato quattro anni prima, MLK scrisse che la sentenza gli sembrava stabilire un precedente pericoloso, ma che comunque in prigione ci sarebbe tornato volentieri. “Il nostro obiettivo, quando pratichiamo la disobbedienza civile, è richiamare l'attenzione su un'ingiustizia o su una legge ingiusta che vogliamo cambiare": e non c'è niente che richiami l'attenzione meglio di subire una detenzione - specie quando non hai mai fatto o detto niente di violento in vita tua. È il caso dell'avvocato Gandhi, del reverendo King, ma non è il caso dello scrittore Erri De Luca, che di cose violente ne ha pur fatte e dette, molto prima di giustificare i sabotaggi dei No Tav; De Luca che in seguito sembra aver cercato in qualche modo di minimizzare la questione, spiegando che "sabotaggio" può voler dire tante cose, non tutte illegali; De Luca che comunque ha detto che, se sarà condannato, andrà in prigione e non chiederà un appello, il che gli fa onore.
Invece, sapete chi secondo me non gli sta facendo onore? Tutti quelli che credono di difenderlo invocando la libertà di espressione. Come se fosse un vignettista qualsiasi, un innocuo autore satirico. Tutti quelli che di fronte all'evidenza (c'è uno scrittore che dice che la TAV è una truffa, e che sabotarla è giusto), si distraggono: e invece di porsi il problema del TAV, di addentrarsi nei noiosi raffronti tra costi e benefici, si mettono a osservare il prestigioso dito di Erri De Luca. Con una specie di reverenza che in realtà è un'offesa: lui è uno scrittore, un intellettuale, e quindi può dire quello che vuole. Apologia di reato? Non si dovrebbe applicare agli scrittori. Istigazione a delinquere? Solo se chi istiga non ha pubblicato almeno un romanzo.
Io non ho un'opinione molto sicura sulla TAV. Mi piacerebbe andare a Parigi in treno in giornata, ma sospetto fortemente che questo mio capriccio costerebbe troppo ai contribuenti italiani: che tutte queste spese non saranno ammortizzate se non dalla generazione dei miei figli o nipoti; che nel frattempo l'unico affare lo avranno fatto appaltatori e appaltanti. Più che dei giornali italiani tendo a fidarmi della Corte dei Conti francese; mi lascia perplesso il voltafaccia di quel senatore Pd che per anni ha difeso la TAV finché improvvisamente si è accorto che costerà almeno il doppio di quel che gli avevano sempre detto. Non sono un sabotatore, non invito ai sabotaggi, ma non escludo che un domani i sabotatori della TAV siano ricordati in una luce diversa. Non credo che siano avidi lettori di Erri De Luca, e che le dichiarazioni di quest'ultimo li abbiano particolarmente spronati - trovo quasi ingenua la fede del Pubblico Ministero nella letteratura italiana contemporanea: nella capacità degli scrittori italiani di stimolare, se non un dibattito, almeno qualche atto vandalico. Ma da quello che avevo capito da piccolo la disobbedienza civile si pratica così: si individua un'ingiustizia, una stortura della legge; si attira l'attenzione; ci si fa arrestare. Non si invoca la libertà di espressione, o l'appartenenza a un qualche albo professionale.
Se Gandhi avesse piagnucolato che i suoi inviti alla rivolta erano da intendersi come poesia e non prassi, sarebbe rimasto un perfetto sconosciuto. Se Martin Luther King avesse reclamato il diritto di dire qualsiasi cosa perché era un pastore battista, ci sarebbe sembrato un fanatico. Se pensate che esista un mestiere che ti consente di dire quel che ti pare senza pagarne le conseguenze, avete ragione: ma non si chiama intellettuale. Si chiama buffone di corte. Spero che De Luca non lo sia.
Bravo, finalmente qualcosa di stimolante su cui ragionare
RispondiEliminaSei senza cuore...
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