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lunedì 16 novembre 2015

Divorzio all'israeliana



Viviane (Gett: Le procès de Viviane Amsalem, Ronit e Shlomi Elkabetz, 2013)

In Israele sposarsi è più difficile di quanto sembra: il matrimonio civile non è previsto. Il divorzio, poi, se sei membro di una comunità più osservante di altre, può essere quasi impossibile. Viviane vive separata dal marito da anni, in una dépendance nel cortile di casa. La vita col marito è impossibile, ma lui non vuole concedere il divorzio e la corte di rabbini a cui Viviane si rivolge non può costringerlo. La causa di separazione si trascinerà per più di cinque anni.

Simon Abkarian è una misuratissima, sublime
faccia da schiaffi.
In Viviane ci sono almeno due film interessanti. Il primo è quello di denuncia, che si presenta sin dalle prime scene senza sfumature: c'è un'ingiustizia, c'è una vittima eroica che combatte con tutte le sue forze, c'è un'evidente iniquità nella legge, tre giudici parziali che non la vogliono vedere e non hanno altra scelta che applicarla, un marito ottuso e geloso che ne approfitta senza sforzo. Tutto è già definito, nero su bianco, nei dialoghi iniziali, e anche a noi spettatori non resta che accomodarci dalla parte in cui Ronit e Shlomi Elkabetz hanno deciso di farci sedere. Non possiamo che detestare il flemmatico marito, e tifare per Viviane, parrucchiera autosufficiente (personaggio ispirato alla madre dei registi) - l'unica persona a portare un po' di colore in quella sala: una traccia delle stagioni che fuori da quelle finestre sbarrate stanno passando senza che nulla cambi. Siamo già parecchio indignati e il film è cominciato da pochi minuti. I registi hanno tutta l'aria di volerlo ambientare tutto in una candida ma angusta sala di tribunale, e il fantasma del Noioso Film A Tema si sta pericolosamente concretizzando. Scopriamo nel frattempo che in Israele un rabbino può sospendere una patente (ma il marito non l'ha mai presa per paura di dover guidare il sabato) e una carta di credito (ma l'unico conto in banca del marito è quello cointestato alla moglie); può persino incarcerare il marito che si rifiuti di comparire - ma non può costringerlo a recitare la terribile frase di assenso, "a partire da questo momento... sei permessa a qualunque uomo"


Siccome il tribunale è veramente piccolo e dimesso, è impossibile non pensare agli spazi ancora più sacrificati del palazzo di giustizia iraniano di Una separazione, il grande film di Asghar Farhadi (continua su +eventi!) Lì per lì il paragone sembra impietoso: Farhadi è molto più sfumato, riesce a distribuire torti e ragioni con equilibrio acrobatico, mira più in altro della semplice denuncia: vuole mostrarci quanto è complessa la realtà e quanto è difficile raccontarla... anche perché Farhadi in Iran probabilmente un semplice film di denuncia non potrebbe farlo. Questa necessità di mirare un po' più in alto, o almeno un po' più a lato, che è una nota costante di tanto cinema iraniano, lo ha reso un po' più universale e commerciabile all'estero, ma ne ha senz'altro smussato i toni. In Israele invece ai fratelli Elkabetz era consentito mirare a qualcosa di concreto e ne hanno approfittato, costruendo un film che in patria ha creato un dibattito intenso su un argomento scottante, ma che al pubblico italiano non risulterà altrettanto interessante (peraltro i nostri tribunali civili riescono a essere lentissimi anche senza l'ausilio dei rabbini).

Se malgrado queste premesse la visione si rivela un'esperienza piacevole, al punto che due ore di tribunale religioso scorrono che è un piacere, è perché dentro Viviane c'è un altro film, che usa il tema politico per scavare più in profondità. I registi non hanno semplicemente chiuso uno spaccato minuscolo del loro Paese in una stanza, ma nella stessa stanza hanno scelto di girare tutto in soggettiva: ogni ripresa riflette il punto di vista di un personaggio presente in sala. Il tribunale diventa un palcoscenico in cui siamo ammessi a guardare la scena dagli occhi della corte, dei testimoni, degli imputati. Il montaggio ci tiene continuamente sul chi vive con scelte imprevedibili: i dialoghi sono studiati al millimetro, alternando dramma e commedia. Gli attori sono tutti credibili e Ronit Elkabetz - che firma il film col fratello - dà un corpo a un personaggio commovente.
Viviane è l'esempio di come una scelta formale rigorosa può trasformare un film di denuncia in un oggetto molto più complesso e affascinante. Lo si potrà finalmente vedere al Lux di Busca mercoledì 19 e giovedì 20 novembre, in occasione della rassegna d'autunno.
Buona visione!

1 commento:

  1. Senza contare che "L'Osservatore Romano", quando il film uscì lo scorso inverno, in un editoriale consigliò la visione ai padri sinodali che di lì a qualche mese si sarebbero dovuti riunire a discutere di famiglia, matrimonio e sessualità

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