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giovedì 16 febbraio 2017

L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)

Moonlight (Barry Jenkins, 2016).

Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.

Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?

Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.

Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)


C'è anche Janelle Monàe,
di mestiere è una cantante matta,
ma qui fa una particina quasi normale.
Come il Gus Van Sant del periodo di Elephant Paranoid Park,  Jenkins sembra convinto che il cinema debba sostanzialmente puntare un faretto su dei ragazzi, senza complicazioni sociologiche e psicologiche che ci turberebbero la contemplazione di questi teneri esserini che non sanno mai cosa dire e fanno i broncetti. Sin da quando attira l'attenzione della macchina da presa fuggendo dai suoi compagni nella prima scena, Chiron non sembra vittima di una società o di un pregiudizio, ma del destino: è nato "faggot", non gli resta che scappare o nascondersi o rispondere alla violenza - unica possibilità di sopravvivere. I suoi stessi avversari non hanno motivazioni né storia, sembrano lì dall'eternità per torturare il prossimo: non è il bullismo, è la natura.
Non è che Moonlight non abbia i suoi pregi (una fotografia d'altri tempi, che tratta con rispetto anche lo sfacelo suburbano), ma è curioso che abbia messo d'accordo praticamente tutti. È un film minimale ed è forse una certa sobria economia di mezzi e di campi che ci fa temporaneamente dimenticare che la storia è quella che hai sentito in un migliaio di rap diversi: man, il mio quartiere era il più duro, mia madre si sballava, sono dovuto diventare grande in fretta (man) e adesso guarda che bei pantaloni che ho, invidioso? Non nego che tutta questa roba sia degna d'interesse antropologico, ma è davvero la stessa lagna da vent'anni, man. L'unica cosa un po' insolita, appunto, è l'omoerotismo, ma somministrato con puritana parsimonia - è un film che tratta il pene come una questione irrisolta e abbastanza astratta, irriferibile e invisibile: lo si può tranquillamente programmare in prima serata. Adele non era così - è anche una questione di gusti, mi rendo conto, ma nel 2016 se vuoi fare un film tutto su due persone che vogliono toccarsi, perché non le inquadri mentre si toccano davvero? Di cosa hai paura? Di non vincere un Oscar e tornare a fare il carpentiere? No, man, ti capisco, e poi in fondo non è la mia roba, boh, guarda, rispetto. Moonlight è al cinema Vittoria di Bra (20:00, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (20:00).

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