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giovedì 30 novembre 2017
E se avesse vinto il Sì? Renzi sarebbe più tranquillo? (No)
Perché in effetti ha vinto il “No”: a quest’ora le cavallette dovrebbero essere passate da un pezzo. Qualcuno le ha viste? (Ho scritto un pezzo per TheVision: A un anno dal referendum la vittoria del No è stata un disastro solo per Renzi).Da parte sua Confindustria nel suo ultimo rapporto ha rivisto al rialzo le stime per il PIL italiano (nel 2017 +1,5%; nel 2018 +1,3). “A fine 2018 il PIL recupererà il terreno perduto con la seconda recessione (2011-13)”. Le esportazioni addirittura “volano”, il Made in Italy guadagna quote di mercato, “gli investimenti mostrano un vivace dinamismo”, l’occupazione sale dell’1,1% e di questo passo nel 2018 dovrebbe toccare i massimi storici. Non è tutto rosa e fiori, sia chiaro: l’Italia cresce, ma meno degli altri Paesi della UE; abbiamo quasi otto milioni di disoccupati, troppi dei quali sono giovani. Ma tutto sommato quest’anno Uno dal Referendum poteva andare molto peggio di così. Insomma forse l’anno scorso Confindustria aveva un po’ esagerato. Dopo Renzi non c’è stato il diluvio, ma un passaggio di consegne molto rapido e quasi indolore; Gentiloni gli è subentrato a Palazzo Chigi sostenuto più o meno dalla stessa maggioranza, che nei sondaggi risulta spesso più popolare di Renzi. Altri sondaggi danno il partito di Renzi dietro al M5S, a volte anche dietro Forza Italia. Insomma il 4 dicembre è stata davvero una catastrofe: magari non per l’Italia ma per Renzi e i suoi sostenitori.
La fatidica data va quindi ad aggiungersi al Catalogo delle grandi occasioni perdute del centrosinistra, un volume ormai cospicuo e straziante, che i lettori affezionati non riescono a non riaprire a intervalli regolari, ogni volta che sale quella tipica voglia di piangere sul latte versato – ah, se Bersani non avesse sostenuto il governo Monti. Ah, se il Prodi Due non fosse caduto per un voto. Ah, se Bertinotti non avesse fatto cadere il Prodi Uno. E così via, credo che si possa risalire almeno fino all’Aventino (quello del 1924, ma forse anche quello del 494 aC). Ah, se Renzi avesse vinto il referendum... In che Italia vivremmo adesso? Certo, la Storia non si fa coi Se. Ma in politica non c’è niente di male a sperimentare qualche “Se” ogni tanto. Chiamiamolo esercizio mentale. Se le cose dopo il No al referendum non sono andate malaccio, è lecito sospettare che con un Sì sarebbero andate ancora meglio. Renzi sarebbe rimasto al suo posto e… cosa sarebbe successo, poi? Se lo chiedi a un renzista, ti dipingerà uno scenario idilliaco: Renzi avrebbe finalmente governato indisturbato.
Più che un’ideologia il renzismo è un credo, un atto di fede. Chi lo professa è serenamente convinto che Renzi possa trasformare l’Italia in un Paese migliore. Per farlo, però, Renzi (come tutti i rivoluzionari) deve essere lasciato indisturbato per un impreciso periodo di tempo – niente compromessi, niente volgari coalizioni e ammucchiate, insomma niente democrazia parlamentare (che con l’Italicum si proponeva neanche tanto velatamente di superare). Renzi si realizzerà soltanto nel momento della vittoria totale; e siccome il tizio non è mai riuscito a farsi votare da più di 11 su 50 milioni di elettori italiani, vale la pena di domandarsi se si realizzerà mai. La prospettiva renziana sul post-referendum dipendeva molto da questo assunto: una volta vinto il referendum, Renzi sarebbe diventato super-popolare e imbattibile. Di lì a poco Mattarella (che Renzi fortissimamente volle al Quirinale) avrebbe probabilmente sciolto le camere, di modo che già nella primavera 2017 avremmo avuto la possibilità di votare e di veder trionfare un governo Renzi Due completamente monocolore. Che prospettiva esaltante (per un renziano).
Ma le cose difficilmente sarebbero andate così. Per pensare a uno scenario del genere, non bisogna soltanto credere in Renzi, ma anche che la democrazia contemporanea preveda l’annichilimento dell’avversario. I nemici di Renzi (Berlusconi, Grillo, Bersani, Salvini, insomma tutti), una volta sconfitti al referendum, avrebbero dovuto accettare una resa incondizionata e ritirarsi a vita privata. In democrazia accade spesso il contrario: l’avversario sconfitto non scompare, ma incattivisce. Dietro a Berlusconi, Grillo, Bersani e Salvini ci sono quattro fette di elettorato che difficilmente Renzi avrebbe potuto erodere in pochi mesi - se vi ricordate i toni della campagna di un anno fa si erano fatti piuttosto accesi. Renzi era già l’uomo da battere prima del referendum: dopo il 4 dicembre gli agguati trasversali si sarebbero intensificati. Uno in particolare era già predisposto sul cammino di Renzi: il 25 gennaio del 2017 la Consulta avrebbe dichiarato incostituzionale la legge elettorale inventata da Renzi e Berlusconi al Nazareno, il cosiddetto “Italicum”, e in particolare l’istituzione del ballottaggio nel caso nessuna lista avesse sorpassato il 40% dei suffragi.
In realtà già a dicembre l’Italicum era considerato dagli stessi renziani una legge sorpassata, da modificare al più presto. Non per una serie di obiezioni costituzionali più che fondate, ma perché ormai i sondaggi avevano chiarito che l’Italicum, per come era stato disegnato, rischiava di consegnare una solida maggioranza parlamentare al Movimento Cinque Stelle. Possiamo anche immaginare che Renzi, ebbro del successo appena ottenuto col referendum, decidesse di giocarsi il tutto per tutto in inverno con l’Italicum: ma difficilmente Mattarella avrebbe sciolto le camere a Natale (e in tal caso, comunque, si sarebbe aperta una fase di incertezza politica non molto diversa da quella prospettata da Confindustria in caso di vittoria del No). Più probabilmente, Renzi avrebbe atteso la primavera per rassegnare le dimissioni: e a quel punto la bocciatura dell’Italicum non lo avrebbe mortificato, anzi. Dopo aver vinto il Referendum – quindi dopo aver ottenuto più del 50% dei voti su un quesito costituzionale – Renzi avrebbe senz’altro immaginato di poter ottenere più del 40% dei suffragi alle elezioni anticipate. E quindi? E quindi ci avrebbe portato a votare in primavera.
E avrebbe vinto?
Non possiamo saperlo, ma dobbiamo immaginare a cosa sarebbe successo a quel punto in Italia: di che cosa si sarebbe discusso nei mesi tra la campagna referendaria e quella elettorale. Ma visto che negli ultimi mesi il centrodestra ha puntato tutto sulla cosiddetta emergenza dei rifugiati, azzardiamo un’ipotesi: Berlusconi e Salvini avrebbero fatto la stessa cosa. Storicamente la Lega e Forza Italia insistono sempre sul tema della sicurezza, in campagna elettorale. Bossi proponeva di sparare ai barconi più di dieci anni fa; Berlusconi è meno drastico ma ha sempre chiamato il suo popolo a raccolta contro la minaccia esterna, i comunisti, i musulmani che vogliono invaderci, eccetera. A Renzi sarebbe rimasto il ruolo ingrato di difensore dell’accoglienza: dopotutto fu il suo governo ad accettare la missione Frontex, che prevede che le navi che pattugliano il Mediterraneo portino i profughi in Italia. Renzi sarebbe andato alle elezioni in primavera non solo come l’uomo da battere, ma come l’uomo di Frontex e dello Ius Soli. Avrebbe vinto? Secondo me no, non ce l’avrebbe fatta. Forse avrebbe prevalso su un Berlusconi ancora intorpidito e un Grillo poco intenzionato a governare; forse avrebbe avuto persino il mio voto; ma non avrebbe raggiunto il 40% dei voti. E quindi?
E quindi ci saremmo trovati un altro governo di coalizione, come quello che ci aspetta, probabilmente, nel 2018. Forse avremmo risparmiato un anno. Forse il Pd non si sarebbe spaccato. Ma di sicuro avremmo vissuto un’altra stagione di incertezza, e Confindustria ce l’ha già spiegato: ai mercati l’incertezza non piace.
domenica 26 novembre 2017
Dylan ama, Dylan ruba
Questi cosiddetti esperti della musica di Bob Dylan... Non credo che ne sappiano nulla, che abbiano la minima idea di chi sono e cosa rappresento. Lo so che credono di avercela, il che è ridicolo, esilarante e triste. Il fatto che gente del genere abbia passato così tanto tempo pensando... a chi? A me? Fatevi una vita, per favore. Nessuno dovrebbe pensare così tanto a qualcun altro. Non state onorando la vostra vita. La state buttando via (Dylan nel 2001 al Times, a proposito di me).
Il nuovo secolo avrebbe dovuto portarci i telefonini coi tasti più piccoli, Berlusconi di nuovo a palazzo Chigi, e un brutto disco di Dylan. I segni nell'aria c'erano tutti: la gente aveva davvero bisogno di più tasti sui telefoni. Tutti non facevano che messaggiarsi, passavano il tempo a premere anche tre volte un tasto per trovare la lettera giusta (nessuno si fidava del t9, ammesso ci fosse già). Quando non venivano investiti agli incroci erano loro stessi a investire qualcuno, era un'emergenza sociale, i giornalisti erano preoccupatissimi. Quanto a Berlusconi, beh, il suo principale contendente era Rutelli. La vittoria del Polo della Libertà era data per inevitabile, e anche Dylan probabilmente stava per uscire con un brutto disco. Anche solo per una questione di statistica. Berlusconi vince un'elezione su due, Dylan ha mai fatto tre dischi belli di fila? Il dylanita alla soglia del 21esimo secolo ormai lo sapeva: ogni capolavoro ha un suo prezzo. Se il prezzo di Oh Mercy era stato Under the Red Sky, cosa potevamo aspettarci dopo Time Out of Mind? I segni dell'imminente catastrofe c'erano tutti. Aggiungi questa circostanza inquietante: non si trovava più nessuno in giro disposto a parlare male di Bob Dylan. Time Out, col suo Grammy per il Miglior Disco, aveva segnato il discrimine da "solito stronzo" a "venerato maestro". Improvvisamente stava simpatico a tutti. Quando Curtis Hanson, il regista di LA Confidential, gli chiede una canzone per il suo nuovo film, Dylan non si fa pregare e offre un brano pregevole, Things Have Changed, in cui gioca col suo personaggio con una disinvoltura inedita per lui (se il ritornello è davvero un disincantato riferimento a The Times They Are-A Changin'):
La gente è matta, i tempi son strani,
io sto fuori dal giro, ho legate le mani:
una volta mi sarei preoccupato,
ma è tutto cambiato.
Con Things Have Changed Bob Dylan vince l'Oscar per la miglior canzone. Se lo meritava? In lizza c'era anche Björk, era l'anno di Dancer in the Dark. Può anche darsi che il 2000 non avesse niente di meglio da offrire, ma fa un certo effetto pensare che i giurati dell'Academy trent'anni prima non avessero notato Knockin' on Heaven's Door - non dico una statuetta, ma almeno una nomination. È che nel 2000 Dylan, senza sforzo apparente, è diventato molto più premiabile. Ormai è un'icona al di sopra delle polemiche: sfoggiarlo in salotto fa fine e non impegna. A questo punto servirebbe proprio un disco brutto - anzi no, qualcosa di peggio. Qualcosa che, nelle mani di Dylan, fosse una garanzia di disastro: un film.
E infatti ecco il film - anche a questo il dylanita è ormai rassegnato: quando le cose cominciano ad andare troppo bene, di solito Dylan fa un passo più lungo della gamba che spesso si traduce in un film (o un aborto di). Ai tempi di Blonde on Blonde stava cercando di montare Eat the Document (non c'è mai riuscito); la Rolling Thunder Revue terminò col botto di Renaldo and Clara; il primo millennio di Dylan termina con Masked And Anonymous, un film scritto da Dylan in collaborazione con Larry Charles, al suo debutto dietro la macchina da presa. Charles era uno degli autori di Seinfeld: in seguito avrebbe firmato i film di Sacha Baron Cohen. Masked non è purtroppo il film divertente che avremmo potuto aspettarci da lui. Si capisce che Dylan ci ha lavorato davvero - ogni personaggio, più che dialogare, sembra intonare un monologo, attaccare una strofa. Qualsiasi tentativo di alleggerire i contenuti è demandato ai membri dell'incredibile cast: Jeff Bridges (Dylan lo minaccia spaccando una bottiglia di Jack Daniels), Penelope Cruz, John Goodman (sempre il migliore), Jessica Lange, Luke Wilson, Val Kilmer (a un certo punto si dimentica la parte ma Charles continua a girare), Chris Penn, Mickey Rourke, Christian Slater, e ne ho senz'altro dimenticati. Tutta gente che recita al minimo sindacale o quasi, per la gloria di stare sul set col grande Bob Dylan. Quindici anni prima sarebbe stato impensabile. Quel che ricordo meglio di Masked è l'ambientazione caotica, un set che sembra ricavato all'ultimo momento nella periferia di una guerra civile. Se non siamo nel Terzo Mondo, stiamo per entrarci. Bob Dylan è Jack Fate, un burbero cantautore che un tempo era un mito (sì, lo stesso personaggio di Hearts of Fire) che si ritrova senza sapere bene perché sul palco di un equivoco concerto di beneficenza ("Se vuoi far venire un cantante, gli devi dare una Causa o un Premio", dice l'impresaria Jessica Lange). La storia è un pretesto per contemplare un mondo devastato e dispensare qualche massima di saggezza; c'è anche il tempo per cantare un paio di canzoni con la sua band, ma la maggior parte della colonna sonora è composta da cover dei suoi brani anche in lingue straniere, tra cui una memorabile My Back Pages in giapponese, mentre il contingente dylanita italiano è rappresentato da ben due brani. Uno è di De Gregori, e non sorprende, l'altro è Come una pietra scalciata degli Articolo 31, e sorprende eccome.
Il Dylan dei primi Duemila, tra Things Have Changed e Masked And Anonymous, sembra ormai vivere in una bolla autoreferenziale: tutti gli vogliono bene purché lui continui a interpretare sé stesso, e per una volta lui sembra non volerli deludere. Con Masked si cristallizza anche l'immagine del "vecchio Dylan", che sul set del video di Things si aggirava ancora un po' smarrito mentre ora sembra disegnato a tavolino da un team di stylist molto attenti a valorizzare il brand: il cappello Stanton e i baffetti sottili devono diventare rapidamente dettagli iconici, come la bombetta e il baffo di Chaplin. È lo stesso Dylan che ci guarda intenso dalla copertina del nuovo disco (ancora un bianco e nero vintage) che compare finalmente nei negozi nel giorno meno adatto al mondo, l'undici settembre 2001. Immaginatevi i crocchi di gente nei multistore che guardano le Twin Towers crollare in diretta sui primi maxischermi piatti. I dylaniti aggirano la folla, sovrappensiero: devono comprare il nuovo cd, e chissà che ciofeca sarà. Stavolta non c'è scampo - ormai son più di dieci anni che non fa un disco davvero brutto, stavolta dev'essere la volta. Per dire, chi è il produttore? Jack Frost? Jack chi?
Jack Frost, nel folklore anglosassone, è una specie di folletto della brina, l'entità invernale che disegna cristalli alle finestre. Dylan ha già cominciato a usare questo pseudonimo negli anni Ottanta, ogni qualvolta si è assunto l'onere di produttore - mai da solo però. Bob Dylan, si sa, non è capace di prodursi da solo. A malapena riesce a riascoltarsi. Bob Dylan, meno tempo passa in sala di registrazione, meglio è. Bob Dylan ha bisogno di qualcuno che lo segua passo passo. Bob Dylan è il peggior critico di sé stesso: un disco prodotto da Dylan/Frost non può che essere una catastrofe. E ora che lo sappiamo, coraggio, ascoltiamo "Love and Theft".
E scopriamo che è uno dei più bei dischi di Bob Dylan.
(Non sto scherzando stavolta).
Tweedle-dee Dum and Tweedle-dee Dee,
they’re throwing knives into the tree.
Two big bags of dead man’s bones,
got their noses to the grindstones...
(Continua sul Post)
venerdì 24 novembre 2017
Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?
E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.
Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.
Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.
Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.
Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killer“satanico”; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).
E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.
Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.
Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.
A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).
Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.
Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40
*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
lunedì 20 novembre 2017
Italo Calvino è un troll dal Cremlino?
Come se non ne producessimo già noi in abbondanza.
Li abbiamo sospettati, li abbiamo sognati, ci abbiamo scherzato sopra, e adesso sappiamo che esistono: i “troll russi” hanno veramente creato dei meme per influenzare la campagna elettorale americana. Alcuni erano così efficaci che sono rimbalzati persino da noi: ricordate la ragazza velata che consulta indifferente il cellulare sullo sfondo del tragico attentato di Westminster? A osservarla bene, la ragazza non sembrava affatto serena o indifferente (qualche giorno dopo avrebbe partecipato, nello stesso luogo, a una manifestazione di solidarietà alle vittime dell’attentato). Aveva tutto sommato l’espressione che potrei avere io sulla scena di un disastro, mentre cerco in rubrica il numero dei miei per rassicurarli - impressione confermata dallo stesso fotografo. Eppure per qualche giorno la foto rimbalzò in rete come esempio dell’indifferenza di tutti i musulmani d’Europa e d’Occidente. Ma chi era stato il primo a farla circolare? Un account twitter apparentemente e fieramente texano, @SouthLoneStar, aveva twittato di una “donna musulmana che cammina disinvolta vicino a un uomo che muore mentre guarda il suo telefono”. Oggi @SouthLoneStar non esiste più; nel frattempo è stato inserito in una lista di 2700 account che secondo una commissione del Congresso Usa sarebbero stati appositamente aperti a San Pietroburgo per diffondere in Occidente odio e disinformazione.
Come se non ne producessimo già noi in abbondanza.
Se è davvero un meme russo, potrebbe essere il primo ad avere avuto un certo successo anche in Italia. Qui da noi la foto è apparsa qua e là nelle bacheche corredata da un’eloquente didascalia (NO IUS SOLI) che chiunque non seguisse da vicino e con una certa esperienza la politica italiana farebbe fatica a decifrare - insomma, è più probabile che la didascalia sia stata aggiunta in Italia, magari da un islamofobo in buona fede. Non ne mancano. Purtroppo cercare queste cose su internet è difficile - buffo, su internet trovi informazioni su tutto, tranne che sulle informazioni che girano su internet. Quelle possono essere continuamente modificate, cancellate (la Stampa ha appena scoperto che da Beppegrillo.it spariscono parecchie pagine). In un qualche modo riesco a risalire a un personaggio televisivo che per quanto bizzarro non è senz’altro un troll (sul suo profilo twitter si qualifica “Medico Psichiatra, psicoterapeuta, criminologo, Primate Metropolita Chiesa Ortodossa Italiana”). Quest’ultimo a sua volta non ha fatto che ritwittare un altro tizio sconosciuto dal profilo molto peculiare - ma a questo punto forse è il caso di aprire una parentesi: siccome è ormai dimostrato che in mezzo a noi ci sono professionisti del fake, gente che li sparge per mestiere, c’è un modo per riconoscerli?
Propongo alcuni criteri empirici.
- Un professionista non potrà evitare di tradire un minimo di professionalità. Questo è il suo punto debole, visto che deve produrre contenuti apparentemente rozzi, amatoriali, involuti. I troll russi scrivevano schifezze, ma secondo l’inchiesta del Congresso rispettavano un orario di ufficio. Le persone che non stanno su internet per lavorare non parlano sempre dello stesso argomento: i professionisti sì. Se un tizio twitta tutti i giorni contenuti sullo stesso argomento, molto probabilmente lo sta facendo di mestiere.
- Un professionista ha tempo per fare cose che il semplice passante non avrebbe mai tempo di fare. Ok, un meme si fa in cinque minuti, ma il 90% degli utenti di facebook o whatsapp non perderebbero nemmeno quei cinque minuti - se glielo offri già pronto lo ripostano con gioia, ma farselo in casa è troppo sbattimento. Insomma un tizio che si inventa molti meme forse non lo sta facendo gratis.
- Un dettaglio dissonante - non so come spiegare. Il professionista che si finge dilettante commetterà sempre un errore stupido a un certo punto. È come nei vecchi film di guerra, quando il nazista interroga l’americano in fuga e lui gli risponde in un tedesco perfetto, poi alla fine gli fa: “thank you”, l’eroe risponde “you’re welcome”, ed è fottuto.
Il tizio che ha fatto circolare il meme NO IUS SOLI soddisfa questi tre criteri? Twitta tutti i giorni contenuti xenofobi, sullo stesso argomento: molto spesso sono meme; il suo nome è preso dal personaggio di una serie di racconti di Isaac Asimov, l’avatar su Twitter è una foto di Italo Calvino (ma come banner ha la bandiera degli Stati Confederati). Ecco, secondo me il fotoritratto di Italo Calvino davanti alla bandiera confederata è un dettaglio molto dissonante. C’è una strategia dietro? Oppure c’è un tizio che vuole sembrare autorevole e ha preso la prima foto di “italiano autorevole” che ha trovato su google, ignorando che si tratta di un italiano ancora molto riconoscibile - e che con la xenofobia davvero non ha molto a che spartire? È come se un alieno cercasse di mimetizzarsi tra di noi italiani travestendosi da Giuseppe Garibaldi.
Naturalmente posso sbagliarmi. Non farebbe molta differenza: l’autore dopotutto è la cosa meno interessante di un meme. Un contenuto virale funziona soltanto se trova il terreno adatto: è uno strumento che serve a dire alle persone quello che vogliono sentirsi dire. Quindi che senso ha definire un meme “fake”? Esiste un meme autentico? Un meme razzista avrebbe successo se non ci fosse un pubblico razzista? Il Washington Post ha scoperto che la “fabbrica di troll” russa ha speso centomila dollari in un mese per pubblicare contenuti virali su Facebook durante la campagna elettorale USA? Wow, chissà quanti meme riesci a pubblicare con centomila dollari. Nel frattempo però i comitati elettorali di Trump e Hilary Clinton spendevano su Facebook 81 milioni di dollari. Se davvero i troll russi sono riusciti con una cifra tanto inferiore a fare l’ago della bilancia in qualche Stato del Midwest in bilico, beh, direi che si meritano di manovrare il presidente del mondo (c’è da dire che il meme di @SouthLoneStar non è nemmeno stato sponsorizzato).
Ma supponiamo che quei centomila dollari siano il budget fisso mensile che il Cremlino butta su Facebook: nel 2010 lo stesso Washington Post aveva scoperto che l’esercito americano aveva appena sborsato dieci milioni di dollari per finanziare la creazione di siti web pro-USA in tutto il mondo. La propaganda, insomma, costa, e gli USA ci hanno sempre investito massicciamente, sin dai tempi della radio. Che i russi ci provino è naturale, oserei dire legittimo. Resta da dimostrare che abbiano consapevolmente agito per sostenere Trump: a quanto pare pubblicavano anche contenuti antirazzisti e antitrumpiani. Quello che è stato osservato è che i messaggi trumpiani e razzisti trovavano un terreno migliore su cui attecchire. Insomma, se la storia ha una morale è che quando i toni si fanno accesi, e i memi sostituiscono le discussioni, la destra vince sulla sinistra. Può essere una riflessione utile a chi pensa in buona fede di mutuare a sinistra le strategie virali della destra (vedi alcune disavventure mediatiche dei renziani): se fin qui non ha funzionato, forse c’è un motivo. Attento quando usi un meme: potrebbe essere il meme a usare te.
sabato 18 novembre 2017
Dylan senza Penelope
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"Certe cose nella vita è troppo tardi per impararle" (Highlands).
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Così entro in un ristorante, e indovina chi mi trovo davanti: la donna della mia vita. Cioè, di una. Delle mie donne. Delle mie vite.
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Caro lettore, se mi hai seguito fin qui (e complimenti), sai più o meno cosa ci aspetta. Dopo un lunghissimo viaggio in un arcipelago di mostri e batterie elettroniche, il nostro Eroe è finalmente pronto per tornare a casa. In realtà è già lì da due o tre dischi, prudentemente travestito da anziano bluesman. Solo i cani e la nutrice l'hanno riconosciuto: lui si aggira tra le colonne e i jukebox che un tempo erano suoi, a stento tollerato dagli altri ospiti del palazzo, che non sanno di mangiare e bere a sue spese. Ma ora è tempo che si riveli. Il servo Lanois è già stato istruito; le porte del palazzo sono state sprangate, le armi nascoste; ora il nostro Eroe con una scusa si farà consegnare una chitarra, e non ce ne sarà più per nessuno. Bob Dylan, il vero Bob Dylan è tornato. Ci ha messo parecchio ad arrivare - a proposito, quanto? se consideriamo il 1975 di Blood on the Tracks e Desire, beh, ha già superato il record di 20 anni di Ulisse; a volte sembrava quasi arrivato, ma poi una tempesta o un Dio lo risospingevano lontano. Stavolta è qui davvero, e non fa prigionieri.
Anche ai Grammy, una strage. Disco dell'anno. Migliore performance vocale. Migliore album di folk contemporaneo. Non era mai successo - ma nel '97 è quasi un atto dovuto, è un onore più per i Grammy che per Bob Dylan. I critici sono prostrati a terra, supplicano pietà, chiedono perdono per aver dubitato anche solo per un istante del ritorno. Qualcuno nell'ombra singhiozza commosso o disperato, qualcun altro grida senza tradire incertezza: "è il disco migliore che Egli abbia mai composto!" Seh, vabbe', il solito esagerato, chi sarà? Ah, però, Elvis Costello.
This kind of love I’m so sick of it
Caro lettore, non so perché ti ho preso in giro così a lungo. Riflettendoci, in effetti, a me Dylan neanche piace. Forse avrei dovuto accorgermene prima, che ne dici? Da molti mesi lo inseguo in lungo e in largo per vent'anni di dischi, incontrando soltanto gente che mi raccontava quanto fosse fuori forma, quanto si stesse buttando via - tutta un'odissea di rimpianto per le belle cose che avrebbe potuto darci dal '75 in poi, invece di registrare in fretta e a caso. La prova di tutto questo è che quando Dylan si è fermato, quando ha deciso di imparare davvero come si registra un disco, improvvisamente si è rimesso a sfornarne di straordinari. Su poche cose i critici sono d'accordo come sul fatto che Times Out of Mind sia l'inizio di una serie positiva quasi miracolosa, per un tizio che in teoria aveva già fatto tre o quattro Grandi Ritorni ma non era mai ritornato davvero. Stavolta sì. Lo capisci anche solo dai primi versi di Love Sick. Stavolta sa cosa sta facendo. Stavolta non ha bisogno di nessuna scusa, nessun Gesù, nessuna apocalisse, nessun matrimonio da salvare, nessuna campagna politica, nessun fatto di cronaca; stavolta è solo davanti al grande vuoto che si trova davanti, il posto dove sta per ritrovarsi. Stavolta è davvero Bob Dylan. Il grande Bob Dylan, e quindi?
E quindi, beh... è un po' noioso.
Sì, lo so, scusami.
I’m sick of love; I wish I’d never met you
I’m sick of love; I’m trying to forget you
No, no, hai ragione, non c'è nessuna scusa possibile, però... ti ricordi quei dischi strampalati degli anni Ottanta, che ne so, Empire Burlesque? Ogni canzone era un esperimento, un mostro nato male e arrangiato peggio, però... almeno erano tutte diverse tra loro, come le avventure di Ulisse nel mare sconosciuto. Invece adesso beh, è tutto molto più consapevole, molto più definito, nei minimi dettagli. È tutto molto compatto - addirittura ogni canzone gira intorno allo stesso argomento. È decisamente un disco di atmosfera: lo metti su e dopo un po' non sai nemmeno più che canzone stai ascoltando - con qualche studiata eccezione, tendono deliberatamente ad assomigliarsi. Dylan per molti anni non si è minimamente preoccupato dell'atmosfera; quando ogni tanto ne azzeccava una (Lay Lady Lay) era per puro caso. Ma a questo punto della vita, se ti rimetti a lavorare con Daniel Lanois non lo fai per caso.
Dylan gli aveva fatto sentire i demo in una stanza d'albergo a New York (stavolta Dylan aveva perfino fatto i demo!) Lanois ovviamente li aveva trovati disperati e fantastici; Lanois racconterà al pubblico dei Grammy di aver esclamato "Questo è il disco che voglio fare", ma non è che avesse molta scelta - nel 1997 la sua stella stava declinando più in fretta di quella di Dylan. Persino gli U2 lo avevano temporaneamente accantonato, ora lavoravano con Howie B. Dall'Europa stava arrivando una valanga di musica sempre più campionata e sintetica, in America ormai l'hip-hop regnava egemone, in una situazione del genere se Bob Dylan ti fa sentire un demo non è che ti metti fare il difficile. Lo stesso Lanois sentiva lo spirito dei tempi, manovrava ormai le manopole come un dj techno; pretendeva di registrare un disco folk come se fosse dub, mixando 64 e più piste, tre sezioni ritmiche, due slide guitar, cercando il modo più artefatto per ottenere un sound apparentemente caldo e umano. Ovviamente litigarono sui musicisti, sulle sale di registrazione, sugli arrangiamenti; ovviamente ogni tanto Dylan scappava in motocicletta e Lanois forse spaccò qualche altra chitarra. Ma entrambi lo sapevano già prima di iniziare.
Il risultato è un'opera di indubbio fascino verso la quale nutro sentimenti contrastanti - come quando restaurano un affresco medievale con colori così vivi che non sembra più medievale. È come osservare un laboratorio in cui padron Dylan grida: voglio essere spontaneo! più spontaneità perdio! mentre il professor Lanois armeggia intorno alle provette, perché si dà il caso che la spontaneità sia una formula molto complicata. Qua e là ovviamente la manopola gli prende la mano, e Love Sick da questo punto di vista non è il biglietto da visita migliore: l'idea di passare nel compressore la voce, di distorcerla come uno strumento... è un'idea coraggiosa, se non proprio avventata, che pone un ultimatum all'ascoltatore: questo è il nuovo Dylan, prendere o lasciare. In realtà altri brani di Time sono registrati molto più alla buona, come al solito, ma la prima impressione è importante, ed è quella che lasciano la voce compressa e l'organo tremolante di Love Sick. Nel laboratorio Lanois ha scoperto la formula del viaggio nel tempo, e se ci sembra falso è perché l'illusione è troppo palpabile per essere reale - il passato non è mai suonato così bene. Gli anni Cinquanta pre-elvisiani non sono più una semplice terra della nostalgia: ormai sono un'età dell'oro, un mito olimpico che forse vive ancora al di sopra delle nuvole. Mentre promuoveva Time Out of Mind, a Dylan più volte è capitato di parlare di Buddy Holly come un devoto parla di un santo; diceva che in quel periodo s'imbatteva dappertutto nelle sue canzoni - in taxi, in ascensore, e che questo era senz'altro un segno, una benedizione. Fino a pochi anni prima sarebbe stato impossibile pensare di santificare un personaggio come Buddy Holly. Poco tempo prima, dopo avere rischiato la vita per un'istoplasmosi, Dylan aveva dichiarato: "Stavolta pensavo che avrei davvero visto Elvis". Qualche anno prima avrebbe detto Gesù, ora il paradiso è un luogo interessante perché c'è Elvis.
Gon’ walk on down that dirt road ’til I’m right beside the sun
Gon’ walk on down until I’m right beside the sun
I’m gonna have to put up a barrier to keep myself away from everyone
Il secondo brano, Dirt Road Blues, è il collaudo della Macchina del Tempo di Lanois: cosa gli manca per sembrare un vero blues del Delta, recuperato in un vecchio disco in soffitta? Forse avrebbe dovuto aggiungere al mix il crepitìo del vinile, come i Massive Attack in Teardrop l'anno dopo. Per alcuni critici era il brano più debole (il secondo in scaletta molto spesso lo è): nel 1997 non potevano sapere che Dirt Road Blues di tutti i pezzi era quello che guardava più lontano, non solo nel passato ma anche nel futuro - che poi per Dylan sono ormai la stessa cosa: il passo successivo a Time Out of Mind sarebbe stata un'immersione ancora più profonda nel blues ancestrale.
I’m strumming on my gay guitar, smoking a cheap cigar
The ghost of our old love has not gone away
Don’t look like it will anytime soon...
Standing in the Doorway mette a fuoco il tema ossessivo del disco: la solitudine e il rimpianto per una donna che, per quanto possa suonare assurdo a chi conosce la biografia di Dylan, è "the one", l'Unica. Nemmeno ai tempi del Marito Coccolone, Dylan aveva mai scritto un intero disco dedicato a una donna sola - persino in Nashville Skyline Sara era una presenza meno asfissiante. E in nessun disco di Dylan questa donna è così lontana, "a mille miglia"; nessun disco come Time dà la sensazione che le recriminazioni amorose di Dylan stiano cadendo in un vuoto siderale; puoi vendere tutti i dischi che vuoi (un milione solo negli USA), e convincere tutti i negozianti che sei tornato in forma e degno di stare al centro della vetrina. Dentro di te rimani sempre quel pezzente che suona una chitarra da pochi soldi ("Gay guitar", da noi sarebbe una Eko), fumando un toscano puzzolente. Dylan è tornato a casa, ma Penelope se n'è andata da un pezzo.
I’m drifting in and out of dreamless sleep
Throwing all my memories in a ditch so deep
Did so many things I never did intend to do
Well, I’m tryin’ to get closer but I’m still a million miles from you
Million Miles è un blues come ne ha scritti a dozzine, anche nei periodi meno ispirati, salvo che stavolta il professor Lanois ha azzeccato la formula giusta. Adesso è più facile anche tornare indietro, ai periodi più confusi, e capire cosa stava cercando Dylan quando si era intestardito a recuperare per esempio il rockabilly in Down in the Groove. Ci si può anche incazzare, pensando a quanti anni ha perso Dylan perché non riusciva a spiegare il tipo di suono che voleva. Ma non era solo colpa sua: paradossalmente, quel tipo di suono "antico" fino a qualche anno prima sarebbe stato molto più complesso da isolare e registrare. Come certi anziani registi che con l'avvento della tecnologia digitale hanno avuto una seconda fioritura artistica, Dylan, quando verso la fine dei Novanta si è rassegnato a tornare in una sala d'incisione, ha scoperto che era diventato un luogo meno complicato per lui. Il che non significa che non ci furono litigi e fughe, ma qualcosa effettivamente stava tornando a essere più facile. Addirittura, quando si passò al missaggio, Dylan continuò a frequentare lo studio. Reincise varie tracce, guardava i tecnici lavorare, si faceva spiegare le cose. Nessuno poteva immaginarlo, ma stava prendendo forma Jack Frost, l'alter-ego produttore che dal 1998 prenderà il controllo assoluto di ogni registrazione di BD. Un Dylan davvero produttore di sé stesso, che si riascolta in cuffia finché non è contento, fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile. Certo, aveva anche smesso di bere.
When I was in Missouri, they would not let me be
I had to leave there in a hurry, I only saw what they let me see
You broke a heart that loved you
Now you can seal up the book and not write anymore
I’ve been walking that lonesome valley
Trying to get to heaven before they close the door
Si fece persino fotografare da Lanois - la copertina di Time Out of Mind è l'unica in cui Dylan è ritratto in una sala di registrazione (la cantina della versione 1974 di The Basement Tapes è più fiaba che realtà). Il testo di Tryin' to Get to Heaven è forse la miglior sintesi del disco: l'autoritratto di un uomo solo, perennemente in viaggio (Dylan continuava a macinare i suoi cento concerti all'anno), ovunque inseguito da ricordi e rimpianti. Subito dopo arriva 'Till I Fell in Love with You, l'ennesimo blues sotterraneo, arrangiato benissimo ma... era così necessario? Il miglior disco di Bob Dylan, Mr Costello, ma siamo sicuri? (continua sul Post)
mercoledì 15 novembre 2017
Il genere maschile non esiste
Ho letto che in Francia qualcuno sta seriamente proponendo di cambiare la regola grammaticale più maschilista di tutte, la concordanza mista degli aggettivi al maschile plurale: in pratica quella regola per cui se in una stanza in cui siedono, diciamo, quaranta studentesse brave, entra un solo ragazzo bravo, il risultato è che in quella classe ci sono quarantuno studenti bravi. La regola non è così irragionevole - non sempre è possibile determinare l’esatto numero dei componenti maschili e femminili di un insieme - però è sessista, senza dubbio.
Qualcuno comincia a chiedersi: ok, magari c’è stata una sottovalutazione del problema, ma ha un senso combatterla dando credito a qualsiasi voce di corridoio? Vale ancora la presunzione d’innocenza? Qualcuna ha la franchezza di rispondere: no. Non ce la possiamo permettere. È un’emergenza, evidentemente (ma quanto potrebbe durare?) In Italia i limiti temporali per sporgere una denuncia sono troppo brevi, non è che possiamo sempre preoccuparci di essere garantisti con gente che forse, dico forse, molestava. Roviniamogli la carriera e non pensiamoci più. Funzionerà al limite come deterrente - potrebbe davvero funzionare. Ma avete riflettuto un attimo sugli effetti collaterali?
sabato 11 novembre 2017
Dylan stacca la spina?
I grafici degli anni '90, sul serio, parliamone. |
Magari negli anni Novanta non c'eravate. Troppo piccoli. Ci spero (qui se non comincio a farmi leggere dai millenials tra un po' è finita). Nel vostro caso, immagino che sia facile affrontare MTV Unplugged con un forte pregiudizio negativo - l'ennesimo tentativo del Dylansauro di adattarsi ai tempi che cambiano, ai nuovi mercati, a un pubblico giovane che pretendeva di ascoltare la musica in televisione, epperò alla resa dei conti pretendeva anche le solite lagne che lo stesso BD si era stancato di suonare 20 anni prima: sul serio, chi aveva davvero bisogno di una nuova versione di All Along the Watchtower? C'era in Before the Flood, c'era in Budokan, nel disco coi Dead, ed eccola anche qui. Già. Unplugged è uno dei dischi che soffre di più del metodo che abbiamo deciso di adottare: non è un cattivo live, ma se lo ascolti durante una full immersion cronologica, ti può ispirare una certa nausea - ancora Like a Rolling Stone, sul serio? E poi che copertina brutta, che camicia assurda, che titolo poco invitante - se negli anni Novanta eravate troppo piccoli, è probabile che la sigla "MTV" vi faccia pensare, più che alla musica, ai manga e a telefilm per bimbominchia. In effetti. Ma non è stato sempre così, lo sapete? Che all'inizio la "M" di MTV stava per "musica"? E che dopo aver conquistato il cuore e l'immaginazione dei ragazzini degli anni Ottanta, nel decennio successivo MTV aveva trasceso le generazioni e i target, diventando semplicemente il luogo dove tutta la musica succedeva? Che senza MTV Britney Spears magari avrebbe avuto una dignitosa carriera post-Disney, ma i Nirvana difficilmente sarebbero usciti da Seattle? E che uno degli strumenti con cui MTV aveva costruito la sua egemonia era proprio una trasmissione in cui i divi di due generazioni si alternavano a suonare i loro successi davanti a un pubblico ristretto, con una strumentazione ridotta? Una situazione ideale per la seconda serata televisiva, un modo per trasformare anche il rock più chiassoso in qualcosa di più intimo, rassicurante. Si chiamava "Unplugged", in italiano si potrebbe tradurre "A spina staccata", e Dylan non avrebbe potuto non inciderne uno. Sarebbe stato impossibile.
Sarebbe stato anche molto ingiusto - in fondo, cos'è "unplugged" se non un set acustico? E chi ha inventato i set acustici? Chi è stato il primo a portare al pubblico perplesso non soltanto versioni elettriche dei suoi successi folk, ma anche l'opposto: riletture acustiche dei brani che aveva inciso con una band? Già ai tempi del tour del '66, quando saliva sul palco da solo per suonare Visions of Johanna e Just Like a Woman, stava suonando quello che negli anni '90 ci eravamo tutti messi a definire un "unplugged". Insomma non era Dylan ad accostarsi a MTV: era MTV che stava cominciando a capire Dylan. E poi c'era il precedente di Eric Clapton.
"Tutti mi parlavano di come Eric Clapton aveva rifatto Layla in stile acustico per Unplugged. Questo mi ha influenzato a fare la stessa cosa con Like a Rolling Stone, ma non sarebbe mai stata suonata così normalmente".
Due anni prima, Clapton aveva partecipato a MTV Unplugged con un set di un'ora - tra i pezzi suonati, l'ancora inedita Tears in Heaven e una Layla addomesticata: l'urlo d'amore primordiale trasformato in uno swing elegante per ascoltatori di mezza età. Una volta messo su CD, il concerto aveva ottenuto qualche tiepida recensione e venduto VENTISEI MILIONI DI COPIE. È tuttora il live più venduto di tutti i tempi - a questo punto possiamo serenamente concludere che sarà il disco live più venduto della storia dell'uomo. Questo credo che sia sufficiente a spiegare perché quelle due sere di novembre, a New York, la Columbia non permise a Dylan di suonare quel che voleva, un set magari davvero acustico di cover di vecchi brani folk: il risultato sarebbe stato il terzo volume di una trilogia inaugurata con Good As I Been to You e proseguita con World Gone Wrong, con ogni probabilità un disco più interessante, ma nel '95 sarebbe stato un errore quasi criminale.
Unplugged era la trasmissione musicale più seguita al mondo e Dylan non poteva rinunciare all'opportunità che gli offriva. Quella sera gli bastava suonare a volume non troppo alto i suoi migliori successi, sorridere ogni tanto al pubblico selezionato dalla Sony/BMG/Columbia, e vendere anche solo la metà di Clapton, per ottenere il suo più grande successo commerciale. Il suo Unplugged alla fine incassò molto meno, ma comunque più qualsiasi disco inciso dopo i Traveling Wilburys. Però, siamo onesti: non ci mise l'anima. Forse proprio perché il concetto della trasmissione si adattava molto di più a lui che a Clapton o ai Nirvana: per loro si trattava di rimettere in discussione strumentazioni e arrangiamenti, per Dylan era solo un set come tanti. È difficile capire, per esempio, cosa volesse ottenere con questa Like a Rolling Stone, e in che modo pensava che potesse rappresentare quel che era stata per Clapton la Layla swing del '93. Non c'è niente di swing nel modo in cui Dylan rilegge per l'ennesima volta il suo cavallo di battaglia: quel che si può dire è che è molto più rilassato del solito (forse la versione incisa a cui somiglia di più è quella all'isola di Wight), e che proprio in virtù di questa rilassatezza, il brano non finisce mai. Nove interminabili minuti. Persino Desolation Row scorre più velocemente. Poi davvero, magari a questo punto della storia sono stanco io - anche Tombstone Blues mi sembra di averla sentita cento volte, e invece è la prima versione live ufficiale. Sarà autosuggestione, ma le cose nettamente migliori di Unplugged mi sembrano gli inediti: soprattutto John Brown, che abbiamo ascoltato già al Gaslight e nei Witmark Demos, ma nel 1995 era un brano noto solo ai dylaniti più estremi. Dylan la canta con una foga e una convinzione che non mi sembra di trovare nei pezzi più famosi. Ci potrebbe essere una spiegazione vagamente politica: durante la prima guerra del Golfo (1991) Dylan aveva ripreso in concerto con una nuova convinzione alcuni dei suoi inni pacifisti: soprattutto Masters of War, di cui aveva dato una versione sguaiatissima, più-che-punk, proprio la sera di quel febbraio '91 in cui lo premiavano con il Grammy alla carriera: lo stesso brano che al concerto del trentesimo anniversario era stato rabbiosamente rivendicato dai Pearl Jam (continua sul Post).
mercoledì 8 novembre 2017
Renzi sfida Renzi e Renzi perde
Un dibattito in TV non è un match sportivo: infatti ognuno può decidere che la propria “squadra” abbia trionfato sugli avversari, e trovare argomenti per corroborare la propria opinione. La forza deitalk show non è la sbandierata capacità di orientare un bacino di indecisi che probabilmente a quell’ora guarda altre trasmissioni, la forza dei talk show sta proprio nell’ambiguità, nella capacità di rivolgersi contemporaneamente a pubblici diversi – renziani e antirenziani, in questo caso – con messaggi antitetici: “Renzi è alla frutta!”, “No, Renzi è un leone!”. Win-win. Ha fatto bene Di Maio a tirarsi fuori e ha fatto bene Renzi ad andare. Chi dà del fifone a Di Maio non lo avrebbe comunque trovato convincente e non voterà per lui, chi detesta Renzi non avrà certo cambiato idea dopo lo show di ieri sera, perché le uniche prediche che funzionano in TV sono quelle ai convertiti.
“Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno. Non vincono, ma non perde mai nessuno. Ma io sono diverso, ho perso,” diceva Renzi durante lo spoglio del referendum, un anno fa (continua su TheVision).
E però, anche ai suoi convertiti, cosa ha raccontato Renzi ieri sera? Quasi metà del dibattito ha gravitato intorno allo stesso concetto: il Segretario del PD ha perso. Non poteva che andare così: ci sono appena state le elezioni in Sicilia e senz’altro Renzi non poteva dire di averle vinte. E infatti ha subito ammesso di averle perse. Onesto, no? Del resto i concession speech sono sempre stati una sua passione: i discorsi migliori li ha pronunciati quando doveva ammettere una sconfitta – al punto da far sospettare che la sua missione storica sia proprio quella: visto che la sinistra comunque perde, almeno prendiamoci uno che incassa con stile. Renzi stesso ha spesso rivendicato questa sua caratteristica: lui non è come quei politici da Prima Repubblica che non ammettevano mai le sconfitte, lui le ammette subito, a volte a schede non del tutto spogliate. Da questo punto di vista, è difficile considerare il talk di ieri un tranello: Renzi sapeva che gli avrebbero chiesto conto di una sconfitta e si è preparato, come si prepara sempre in questi casi. Che sportivo.
Peccato però che non ci fosse nessuna sconfitta da ammettere, stavolta.
Perché, numeri alla mano, il PD in Sicilia non ha perso un granché: ha preso quasi esattamente gli stessi voti di quattro anni fa – e nel frattempo c’è stata una scissione importante a sinistra. Una delle tante dimostrazioni del fatto che Renzi non sta portando in questo momento nessun valore aggiunto: in Sicilia, come altrove, nessun indeciso si avvicina al PD grazie alla leadership di Renzi. Se al suo posto ci fosse un altro candidato, il PD siciliano probabilmente non fletterebbe. E forse è questo il dato che infastidisce Renzi, più che un risultato prevedibile e previsto. Gli antichi notabili della Prima Repubblica, quelli abituati a non riconoscere nessuna sconfitta, avevano interiorizzato un semplice principio della comunicazione: chi dice “ho perso” non sembra meno perdente. La sconfitta è una cosa appiccicosa: te la rinfacceranno sia che la neghi sia che l’ammetti. Tanto vale glissare e parlar d’altro.
Renzi non ne è capace. Dicendo “io ho perso”, almeno riesce ancora a dire “io”: a scacciare il sospetto della propria irrilevanza. È a quel punto che scatta un tranello, perché a quanto pare le sconfitte rivendicate per Renzi sono come le ciliegie: una tira l’altra. Basta che Floris lo incalzi un po’ e Renzi è pronto a ricordare che il suo PD ha anche perso Roma, ha perso Torino, ha perso persino Livorno, e il referendum! Non dimentichiamo che Renzi ha perso il referendum. In un’ora di discussione, almeno mezza è stata spesa così: a ribadire le proprie sconfitte, a rivendicare con orgoglio scelte tattiche che evidentemente non hanno funzionato. Perché fuori dai talk ci sono ancora vincitori e vinti, e Renzi da due anni a oggi appare sempre più tra i secondi. Il punto è che non fa nulla per scrollarsi questa immagine di dosso, a volte sembra quasi compiacersene. Ai suoi, evidentemente, piace così, ma a tutti gli altri?
Nel frattempo alla Casaleggio Associati hanno di che brindare. Due settimane fa Maria Elena Boschi (braccio destro di Matteo Renzi, nonché sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio) sfida Luigi Di Maio a un dibattito televisivo “sulla questione bancaria”. Di Maio prende tempo, perché è molto impegnato con la campagna elettorale in Sicilia, e all’ultimo momento rilancia, sfidando direttamente Matteo Renzi. Proprio alla vigilia delle regionali. Qualcun altro a questo punto avrebbe ricordato a Di Maio che c’era un impegno precedente da onorare, e che la Boschi attendeva ancora una risposta. Sarebbe stato un modo abbastanza elegante di evitare la trappola e mantenere un minimo di distanza. Perché per un elettore del PD, in fondo, questo Di Maio chi è? Il candidato presidente del Consiglio del M5S, ma perché? Perché sulla piattaforma Rousseau ha preso trentamila preferenze. Certo. Renzi, anche nel momento più difficile – il fallimento del referendum – è riuscito a trovare un milione di persone che votassero per riconfermarlo Segretario del PD. Insomma, non sarebbe stato sbagliato imporre a questo Di Maio un po’ di trafila. Sarebbe anche stato un bel gesto nei confronti di una collaboratrice leale come la Boschi.
Renzi ha deciso diversamente, senza preoccuparsi di legittimare il suo avversario. Era sicuro di poterlo battere in qualsiasi salotto televisivo, a qualsiasi orario, con le sole armi della sua eloquenza. Chissà se alla Casaleggio Associati hanno pensato, anche solo per cinque minuti, di mandare davvero Di Maio da Floris. Non che abbia molta importanza. È bastato aspettare il risultato delle elezioni siciliane – nemmeno troppo positivo per il M5S – per trovare la migliore delle scuse: il M5S ha già un candidato premier, il PD forse no. Renzi era disposto a legittimare l’avversario, pur di dividere con lui una tribuna: la Casaleggio Associati ha avuto buon gioco a delegittimarlo all’ultimo momento. Magari, vista da una giusta angolatura, è davvero una situazione win-win. Non dalla mia, certo.
domenica 5 novembre 2017
Nessuno canta il blues come Bob D.
Succedono cose strane, mai successe prima:
la mia donna mi ha detto che me ne dovrò andare.
Non posso più essere buono con te,
buono come ero prima,
non posso più essere buono, amore,
tutto perché il mondo è andato a puttane.
Ci sono canzoni che cantiamo e canzoni da cui siamo cantati. Dylan ha scritto tante belle canzoni, e molte è anche riuscito a inciderle in modo soddisfacente. E poi ci sono quelle che non ha scritto lui; quelle che ha inciso alla svelta, quasi per liberarsene (Dylan non ha mai suonato World Gone Wrong dal vivo). All'orecchio inesperto sembrano brani come gli altri, magari un po' più legnosi, vecchi blues oscuri, curiosità da folklorista. Finché un giorno non ti trovi a canticchiare sconsolato: "All the friends I ever had are gone". E ti rendi conto che era dentro di te da prima che l'ascoltassi, e che non se ne andrà mai: forse dovresti fare come Dylan, trovare un nastro libero e inciderla. Magari a quel punto ti lascerà in pace. Strane cose succedono.
Ti ho detto amore, davanti a Dio,
se non ti lascio, dovrò ammazzarti io
Non posso più essere buono...
A voi non è successo? tanto meglio per voi. C'è chi dice che un bianco non può capire il blues; non è mica una cosa che s'impara sui libri. In effetti. E meglio così, sul serio: non vi auguro di ritrovarvi un giorno in qualche corridoio chiuso dove decidono il vostro destino senza chiedervi un parere, o in ginocchio davanti a qualche macchinario che state rimontando nella certezza che comunque non funzionerà mai più: non vi auguro di ritrovarvi tra le labbra quelle parole spontanee, stonate: I can't be good no more. Su quel treno c'è una persona che fa finta di non vedervi. Once like I did before. Suona il telefono, c'è una persona che non potete fingere di non conoscere. I can't be good baby. Non doveva andare così, ma è un fatto: è andato tutto a puttane. Questo è il blues. Perlomeno, quello che ho capito io. Non subito.
All'inizio pensavo che fosse quella cosa che succede se suoni un riff, lo ripeti sulla corda più bassa e poi su quella alta. Una cosa spontanea, ovvia, come l'abc o il do-re-mi. Che avesse a che fare con la tristezza era una cosa che avevo letto in giro, e ovviamente mi fidavo (al tempo credevamo a tutto quel poco che riuscivamo a leggere in giro), ma non è che lo capissi realmente. Anche perché, alla fine, chi è che cantava il blues ai miei tempi? I Blues Brothers? Non erano tristi. E quando alla fine misi le mani sulle registrazioni complete di Robert Johnson - perché ero uno che voleva fare le cose per bene, persino un po' scolastico, no? In quel negozio c'era una montagna di Nevermind dei Nirvana, diciamo pure una piramide di Nevermind dei Nirvana, era quasi impossibile uscire da lì senza avere in tasca un Nevermind dei Nirvana, ma io dovevo farmi una cultura, e quindi uscii con le registrazioni complete di Robert Johnson - e scoprii che in effetti Sweet Home Chicago non era il pezzo allegrone dei Blues Brothers: ma riuscii a capire perché mentre lo cantava Johnson era più triste della morte? Non credo proprio, no. Sapevo gli accordi del blues e sapevo cos'era la tristezza, ma le due cose non le avevo ancora collegate e sarebbe stato meglio così, dopotutto: non ti danno mica una medaglia quando capisci il blues (più probabile che ti stiano per dare cinque anni senza condizionale).
Quello che sto cercando di dire è che quando ti ritrovi nelle ossa World Gone Wrong, non è mai un buon momento. Come minimo hai appena picchiato una persona cara, o qualcosa di ugualmente triste e... squallido. Quello che non ti dicono in nessun libro, è che c'è qualcosa di profondamente squallido nel blues. È il rantolo concesso a chi non ha più santi a cui pregare - ha rubato a tutti gli altari, profanato tutte le vergini e gli resta solo un po' di miseria tra qui e l'inferno. Quello che sto cercando di dire è che forse non è necessario essere di origine africana per capire il blues (oddio, siamo tutti di origine africana se fai qualche passo indietro) ma sicuramente bisogna essere disperati, e con la coscienza cattiva; e anche in quel caso ti serve un maestro: e dove potevi trovarlo, negli anni Novanta, un maestro disperato con la coscienza cattiva? (Continua sul Post).