Non è cominciato tutto con Weinstein. Ho vaghi ricordi di discussioni precedenti – per esempio quando Bill Cosby fu processato per violenza sessuale devo aver sentito qualcuno lamentarsi del fatto che non sarebbe più riuscito a guardare un episodio dei Robinson. Lì per lì non devo aver prestato molta attenzione alla cosa (anche perché, insomma, oggi dove li trovi gli episodi dei Robinson?), ma è stata la prima volta che ho fatto caso al fenomeno.
Quando usciva un film di Woody Allen mi imbattevo regolarmente in qualcuno che, tra tanti motivi per non andarli a vedere, tirava fuori quella triste accusa di molestie alla figlia. Pensavo fosse una forma un po’ stravagante di boicottaggio. Ma poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e mi sono reso conto che molte persone intorno a me non sembrano riconoscere la differenza tra contenuto dell’opera e vissuto dell’artista – no, in realtà è più sottile di così. Non è che non la riconoscono: chiunque sa riconoscere la differenza, poniamo, tra Adolf Hitler e uno dei suoi mediocri paesaggi. È che non la vogliono riconoscere. Carino quel paesaggio, di chi è? Di Adolf Hitler? Ah, allora è orribile.
(Ho scritto un pezzo su TheVision che parla di Woody Allen, Dostoevskij, e di quanto Leni Riefenstahl fosse una schiappa a girare i film).
Esagero? Leggo di gente che apprezzava molto l’umorismo di Louis CK, le sue gag sulla masturbazione seriale. Poi scoprono che Louis CK si masturbava davanti a delle sottoposte e all’improvviso le stesse gag non sono più divertenti. Fioriscono sul web mille domande, che all’inizio credevo retoriche, e invece no: possiamo ancora guardare i film con Kevin Spacey? E i film prodotti da Weinstein? Quando Lasseter ha ammesso di aver commesso qualche errore e si è preso una pausa alla Disney, qualcuno ha iniziato a domandarsi se possiamo ancora guardare Toy Story. Ok, sono solo titoli esagerati per attirare l’attenzione. Ma nel frattempo Jonathan Franzen ammette candidamente di avere delle difficoltà ad ammirare i quadri di Caravaggio, perché sai, “ha ucciso un uomo”. La scrittrice Claire Dederer si domanda “cosa fare dell’arte degli uomini mostruosi” – nel suo elenco troviamo Polanski, Cosby, Burroughs, Wagner, Caravaggio… ma il mostro dei mostri è sempre lui, Woody Allen. La Dederer non ha nemmeno bisogno di credere alle accuse di Dylan Farrow: la relazione con Soon-Yi è più che sufficiente a formulare un giudizio di mostruosità. “Era una teenager affidata a lui la prima volta che andarono a letto assieme, e lui il più famoso regista del mondo”! Puoi apprezzare ancora Manhattan, dopo avere scoperto una cosa del genere?
Lei dice di no, ma in questo caso effettivamente i confini tra autore e opera sono più ambigui che altrove: un film in cui un quarantenne trova assolutamente normale scoparsi una liceale, girato da un grande regista che qualche anno dopo si è messo con una 17enne. Siamo di nuovo di fronte al paradosso di Louise CK? Ovvero: un film che parla di desideri e pulsioni diventa discutibile quando scopri che è autobiografico? Gli interlocutori della Dederer (maschi) si oppongono con affermazioni ridicolmente parnassiane: ribadiscono piccati la necessità di giudicare l’opera d’arte soltanto in base ai criteri estetici, e quando affermano di apprezzare in Manhattan “l’equilibrio e l’eleganza”, il lettore ha il sospetto che direbbero la stessa cosa di Olympia di Leni Riefenstahl (l’elegantissimo, ben equilibrato inno ai successi olimpici del Terzo Reich).
In effetti di fronte all’ammissione di Franzen, o ai dubbi della Dederer, è molto facile reagire in modo categorico, magari accatastando un bell’elenco di artisti con la fedina penale complicata (in queste liste Caravaggio non manca mai). Stavo cominciando anch’io, ma mi sono bloccato al primo nome – chissà perché, mi è venuto in mente Dostoevskij. Ma mentre mi fermavo a controllare la grafia esatta, mi sono reso conto che stavo confondendo Dostoevskij coi suoi personaggi: con l’assassino di vecchiette Raskolnikov, con lo stupratore di bambine Stavrogin. Forse perché li ho letti quand’ero troppo giovane e quel famoso esercizio di separare l’autore dall’opera non riusciva neanche a me. Ammesso che mi sia riuscito in seguito. I quegli anni io cercavo nei libri le cose che non avevo la possibilità o il coraggio di vivere in prima persona, ed erano perlopiù cose criminose: leggevo Christiane F perché pur non avendo l’inclinazione per la dipendenza l’eroina mi sarebbe piaciuto vedere com’era da dentro; leggevo Il giovane Holden perché mi sarebbe piaciuto ogni tanto mandare al diavolo scuola e famiglia, ma non ne avevo il coraggio; e Dostoevskij, appunto, mi forniva un prezioso succedaneo ogni volta che mi veniva voglia di ammazzare una vecchietta ricca e improduttiva. Non credo di essere stato l’unico a cercare nella letteratura e nell’arte una forma di turismo nelle perversioni che non avevo i soldi o il fegato di permettermi. Ero un ragazzino.
Se avessi potuto da ragazzino rispondere a Franzen, gli avrei detto qualcosa di insopportabilmente arrogante, del tipo: io se l’artista non è un assassino non mi scomodo neanche a dargli un’occhiata. E alla Dederer: guarda per me Manhattan è molto meglio adesso che so che a Woody Allen piacciono le ragazzine – non che ci fossero molti dubbi prima, eh? – ma non lo trovi anche tu molto più genuino, ora, più sincero? E se ti fa incazzare, ok: non è mica un paesaggio, non è una natura morta, è un film di Woody Allen. Arte moderna, quella che a volte può essere equilibrata ed elegante, ma il più delle volte è disarmonica e dissonante e ci puoi anche litigare. Cioè, non ci vai mai al cinema a litigare col regista, con gli attori, con gli scenografi? È uno dei piaceri della vita e del cinema, io in mancanza di meglio me la prendo anche col direttore della fotografia. Insomma alla domanda cosa facciamo dell’arte degli uomini mostruosi, il me stesso ragazzino risponderebbe: facciamo un gran casino! Li stronchiamo tutti senza pietà, anche se sono bravissimi, chissenefrega (sei una frana con la macchina da presa, Leni). Lo scopo dell’arte è stimolarci; se certa roba ci stimola rabbia e indignazione, prendiamo la nostra rabbia e trasformiamola in una meravigliosa stroncatura che farà incazzare a sua volta qualcun altro eccetera – insomma, ero un coglione, ero arrogante, ero ignorante, ma avevo già chiara internet in testa.
Oggi non la penso più così, ma forse non sono molto più sgamato di quelli che non riescono più a vedere una sit-com con Bill Cosby. Forse anch’io non sono così bravo a separare l’opera dallo scrittore, dopotutto, se continuo a preferire gli artisti e gli scrittori che hanno qualcosa da rimproverarsi. Quel che mi piace di Franzen è il modo in cui fa oscillare i suoi personaggi davanti a un abisso morale prima di dare una spintarella: lo fa con l’aria di chi c’è stato lì sul bordo, di chi sa benissimo cosa si prova. In un angolo della mia testa non ho smesso di pensare che Dostoevskij abbia davvero ammazzato una vecchietta, e anche Franzen secondo me deve aver fatto qualcosa di inconfessabile. Persino Woody Allen, che tante volte ha messo in pellicola lo stesso canovaccio: un uomo di successo è ricattato da qualcuno che minaccia di rivelare qualcosa di torbido sul suo passato, finché non decide di ucciderlo. A quel punto lo spettatore si aspetta una giusta punizione che (spoiler) quasi sempre le sceneggiature di Allen non prevedono: l’assassino salva il suo buon nome e il suo status. Crimini e misfatti è del 1989, Match Point (il più dostoevskjiano dei suoi film) del 2005, Irrational Man del 2015: come se Allen volesse dirci qualcosa.
Un altro film di Woody Allen a cui non saprei rinunciare nemmeno se Allen invadesse la Polonia è Pallottole su Broadway. Racconta la storia di David Shayn, un tizio che si crede un artista, un commediografo, ma a un certo punto si accorge che non lo è. Se ne accorge perché incontra un artista puro, Cheech, un talento naturale che ha la sfortuna di essere cresciuto in una gang criminale. Non solo è più bravo di lui a scrivere dialoghi, ma soprattutto non è disposto ad accettare compromessi: per salvare la sua opera è disposto a uccidere. David no. Il momento in cui si accorge di non essere un vero artista è il momento in cui capisce di non essere un criminale.
Scusa, ma l'hai letto fino in fondo l'articolo di Dederer? (al limite basta anche la chiusa) - la sua tesi, da quel che ho capito io, è che tutti gli artisti (e le artiste) e anche i/le wannabe siano dei mostri potenziali, perchè per il solo fatto di voler essere artisti/e fa di loro degli/delle egolatri/e. Che questo si riverberi nel fatto di stuprare una tredicenne a una festa, di ammazzare una persona, di fare sesso con una figliastra diciassettenne consenziente, di masturbarsi davanti alle colleghe, o solo di ritenere di avere delle cose così importanti da comunicare che ti sembra giusto e normale che tutto il mondo stia ad ascoltarti a bocca aperta, è solo questione di dove metti l'asticella della mostruosità, dice lei.
RispondiEliminaAlmeno, questo io ho capito. Anzi mi pareva anche vagamente assolutorio (o per lo meno, non l'ennesimo contributo al linciaggio) nei confronti dei soggetti citati.
(peraltro mi pareva
L'ho letto sì, ma non c'era più spazio per discuterne.
EliminaÈ che a un certo punto rischia di diventare uno di quei sfoghi da donna in carriera, ah gli uomini se la prendono con noi perché non badiamo ai bambini ecc.
Poi ha questa idea dell'artista-genio-mostro che è molto romantica: ok, probabilmente chi ha successo riesce spesso a concentrarsi sul lavoro e a escludere altre incombenze (famiglia ecc.), ma probabilmente è vero per qualsiasi ambito: scommetto che il miglior idraulico del mondo è uno stronzo che non porta mai i figli al parco.
Leo, perdonami, un conto è "essere uno stronzo", un conto è essere un criminale....
EliminaLeo, bel pezzo, però ci dobbiamo mettere d'accordo sull'essere più o meno indulgenti nei confronti di chi crea arte e però magari commette crimini...questo credo sia il punto...
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