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giovedì 31 gennaio 2019

Nascondici o Geminiano

31 gennaio – San Geminiano (312-397), patrono e difensore di Modena, Attila non passerà!

Sono Geminiano, e ogni 31 gennaio
mi scoperchiano la tomba
per traumatizzare i bambini
[2013]. È il 31 gennaio e dovrei parlare di Modena e del suo biancobarbuto patrono, ma non ci ho voglia. Se proprio devo dirla tutta, io ho sempre tifato Attila. Quante volte a un semaforo, o errando alla vana ricerca di un parcheggio, o nel fetore piccionesco del centro l’ho invocato: vieni Distruttore, fin troppo hai errato nella valle, salta fuori dalla nebbia e ràdici al suolo...

E invece no, Attila non s’è mai fatto vivo. Era atteso per il 452, aveva già devastato Aquileia – cos’è Aquileia? Niente, appunto, da quando ci passò Attila. Ma prima era la quarta città italiana per grandezza. E poi aveva saccheggiato Padova, Bergamo, e un sacco di altre città che terrorizzate gli aprivano le porte senza neanche provare a resistere. Ma Mutina (Modena) no, Mutina attivò lo schermo protettivo, ovvero invocò il patrono e questi benigno dall’aldilà fece scendere la nebbia.

La leggenda tradisce il pregiudizio che Attila fosse un coglione, un subumano, uno che attraversa la Valpadana come una steppa senza fare neanche caso alle strade romane, che pure son lì, sono comode, tu prendi la Aemilia (oggi SS9) a Mediolanum (Milano) in direzione Ariminum (Rimini), e nebbia o non nebbia ci arrivi a Mutina, semmai il grosso rischio è passare oltre e non farci caso perché non è questo granché di città, diciamo, con tutta quella rete fognaria che resterà a cielo aperto fino al Novecento. Ma Attila non era quel buzzurro che si pensa in giro. Sì, era Unno, aveva imparato a cavalcare prima di camminare eccetera. Ma era cresciuto a Ravenna, ostaggio degli imperatori di occidente; parlava correntemente latino; è difficile pensare che non riuscisse a orientarsi su un piano padano che è quasi cartesiano.

I tratti forse mongolici di Attila
lo rendevano agli occhi degli occidentali
una specie di mostro, con tanto di orecchie
a punta.
La triste verità è che Attila, Modena, l’ha snobbata: non gli interessava. Incredibile a dirsi, ma è così. Tra Aquileia e Milano aveva già saccheggiato il saccheggiabile e no, non era affatto un coglione. Gli era già successo ai Campi Catalunici di spingersi troppo in là seguendo il miraggio di un bottino infinito, e di restare insaccato in mezzo alle legioni nemiche. Cominciava ad avere un’età, magari pensava a ritirarsi invitto. Mise le tende da qualche parte sul Mincio e attese l’ambasciata di papa Leone. Per uno come lui, che aveva devastato Belgrado e Strasburgo e Treviri, che differenza vuoi che facesse una Modena in più o in meno.

A me piace comunque pensarlo da qualche parte nella nebbia che gira e si rigira e non si raccapezza, magari è a un passo dalla città, per dire magari è a Cognento, o a Vaciglio, ogni tanto chiede indicazioni ai passanti e non vuole far vedere di essere il Flagello di Dio, cerca di essere educato – ma l’accento uralo-altaico lo tradisce, il passante scappa, al Flagello non resta che trafiggerlo con una lancia prima che possa dare l’allarme, ogni tanto effettivamente al Resto del Carlino arrivano foto di coltivatori diretti trafitti da lance, ma tutto viene messo a tacere per non seminare il panico. È una banda di immigrati dell’Est, dicono. Si fanno chiamare “orda”.

Ritratto ufficiale (leziosissimo).
La nebbia della leggenda non è un semplice fenomeno atmosferico, assomiglia a quella cosa che si vedeva sui televisori analogici quando l’antenna era guasta, il segnale interrotto; è la mancata sintonia tra Modena e il mondo. La sola idea che Modena sia nello stesso mondo in cui ci sono le altre città, l’idea che sia raggiungibile mediante strade romane o ferrovie ad Alta Velocità, è una cosa che disturba il modenese. Il quale conserva una specie di mentalità isolana al centro di una pianura popolata, in un luogo dove ogni tanto la Storia ha pur da passare, a cavallo o sui carri armati (della Wehrmacht). Ecco, la Storia quando passa da Modena trova molto spesso gli scuri sprangati, non se la fila nessuno. È roba da forestieri, una cosa che dovrebbe succedere altrove, da noi no perché noi abbiamo cose più importanti da fare, l’apcaria, la torta Barozzi, l’aceto balsamico, un nuovo piano del traffico.

E anche la Natura, ma cosa vuole da noialtri, si può sapere? La reazione standard del modenese al terremoto è l’incazzatura, be’ ma oh! un terremoto da noi? Sol che non scherzi. I terremoti devono stare a casa sua. San Geminiano, nascondici.

Comunque una città unica.
Oggi è San Geminiano e a Modena non si va a scuola, chissà se i ragazzini vanno ancora in piazza a schiumarsi con le bombolette. Io non ci ho voglia di fare il bozzetto sugli usi e i costumi, Modena per me è come quelle ex che ti fanno vergognare sia se le chiami sia se non le chiami, eppure siete stati felici assieme ma il tempo ha dissolto ogni bel ricordo, come il vento, come il vento ha portato polvere, la polvere si è addensata agli angoli, ha fatto i gatti solo intorno alle antiche figure di merda. Preferirei parlare di città misteriose che non ho mai conosciuto, per esempio di Timbuctù, sono molto preoccupato per la biblioteca di Timbuctù e in generale per quella lontana città che è un posto straordinario.

Pensate che due secoli fa gli europei avevano colonizzato gli antipodi, ma non avevano ancora trovato Timbuctù. Sapevano che era da qualche parte al centro del Sahara, su un’ansa del misterioso fiume Niger, lastricata ovviamente d’oro e d’ebano e d’ogni ben di Dio, ma nessun cristiano poteva arrivarvi, era off limits. Mungo Park, lo scopritore scozzese della sorgente del fiume, era morto nel 1806 mentre cercava di arrivarci su una zattera nel fiume, costantemente esposto agli attacchi degli indigeni.

Caillié l'africano
Fu però un francese figlio di nessuno, René Caillié, a capire vent’anni dopo che bisognava cambiare strategia: se si voleva penetrare nella capitale dei beduini, bisognava essere beduini. Si trasferì da qualche parte sul fiume Senegal, mimetizzandosi con un turbante; lasciò che il sole gli arrostisse la pelle, perse otto mesi a perfezionare la lingua del posto, e poi si aggregò a una carovana di mercanti raccontando di essere un egiziano rapito dai francesi che voleva tornare a casa. Ci credettero e lo portarono a Timbuctù, dove tutta la poesia ebbe fine. La favolosa capitale del deserto, scoprì Caillié, era una città di fango. Oggi la troviamo mirabile anche in questo, in effetti ci vuole abilità a costruire col fango, e la biblioteca ospita(va) manoscritti inestrimabili; ma a inizio Ottocento questo tipo di condiscendenza verso le altre culture era ancora in embrione: ci rimise male, e lo scrisse. Senza scorta armata, senza portatori, Caillié era riuscito dove gli emissari di due potenze coloniali avevano fallito: si intascò persino i diecimila franchi messi in palio dalla Société de géographie per il primo uomo bianco che fosse stato in grado di entrare a Timbuctù e soprattutto a uscirne vivo. Era il prezzo da pagare per farla finita coi miraggi del mondo antico, e accettare che non c’è nessun Eldorado al di fuori dei nostri.

Caillié l'europeo.
Oggi è San Geminiano che ha la barba bianca. Potrebbe in effetti nevicare, state attenti modenesi. Quel signore tutto bianco, di neve o schiuma da barba, magari è Attila in incognito, che ha studiato il dialetto gli usi e i costumi e finalmente è riuscito a entrare, e ora si sta chiedendo: tutto qui? No ma sul serio mi avete tenuto milleseicento anni nella nebbia per non farmi entrare in un posto così?

Ma soprattutto: se entro con l’orda, dove la parcheggio?

mercoledì 30 gennaio 2019

Giornata della memoria, appunti sulla


La Giornata della Memoria sta per compiere vent’anni, almeno in Italia (fu istituita nel 2000), e la sensazione è che qualcosa non abbia del tutto funzionato. Eppure non si può negare l’impegno, sia sui media che a scuola. Prendiamo un ragazzo nato nel 2000: quest’anno si diploma. Probabilmente ha sentito parlare di campi di sterminio già alle scuole primarie. Di film sull’argomento potrebbe averne visti più di un paio (alcuni già due volte: La vita è bella, Schindler’s List). E poi visite d’istruzione; incontri coi testimoni; libri consigliati, libri imposti dagli insegnanti… un ragazzo che si diploma quest’estate dovrebbe aver avuto molte più di un’occasione per meditare “che questo è stato”, come scriveva Primo Levi. Un ragazzo del genere dovrebbe anche aver sviluppato una certa refrattarietà al negazionismo e al nazismo. 

Un ragazzo, appunto, dovrebbe.


In occasione della Giornata 2019 un istituto demoscopico ha scoperto che solo il 2% tra i ragazzi italiani tra i 16 e i 18 anni hanno letto un libro sulla Shoah. È un dato sconcertante, soprattutto per chi in questi giorni sia passato in una libreria e abbia dato un’occhiata all’angolo dei ragazzi (o young adult, l’industria editoriale adesso li chiama così). Ogni anno escono titoli nuovi sull’argomento: memoriali o fiction, romanzi o testi illustrati per i più giovani. Il fenomeno è talmente percepibile che se su amazon.it, se scrivo “libri shoah”, il navigatore completa con “libri shoah per bambini”. Insomma l’editoria ci crede molto, nella Giornata. Forse, viene il sospetto, ci crede troppo; al punto da generare nei giovani lettori una reazione di rigetto?

La Shoah-spiegata-ai-ragazzi ormai è diventata un genere letterario (non necessariamente gradito ai ragazzi, come del resto tutto ciò che viene imposto a scuola). Prendiamo un testo di classe terza secondaria di primo grado, Storie senza confini della Zanichelli. È un’antologia pensata per i lettori di 13-14 anni. Alla Shoah dedica un intero capitolo, intitolato “Il coraggio di ricordare”. Quasi un decimo di tutto il volume. La prima lettura è presentata così: “Alex ha undici anni e da alcuni mesi vive da solo nel ghetto ebraico di Varsavia”. Il secondo è tratto dalla novelization di Arrivederci ragazzi di Louis Malle: i protagonisti sono collegiali, hanno più o meno la stessa età dei lettori. Seguono due lettere di Anna Frank, praticamente il minimo sindacale. Un brano tratto da La valigia di Hana, la storia (vera) di una coetanea di Anna deportata e uccisa nel campo di Theresienstadt; e poi all’improvviso Primo Levi: la fulminante poesia che introduce Se questo è un uomo. Dopo venti pagine, è il primo testo in cui non si parla di ragazzini; il primo in cui un adulto si rivolge ad adulti.

Ma è solo un breve intermezzo. Segue un testo intitolato Quando Hitler rubò il coniglio rosa, tratto dall’omonimo libro autobiografico di Judith Kerr. Il coniglio del titolo è ovviamente un giocattolo dei protagonisti, che hanno 9 e 12 anni e devono sacrificarlo durante la fuga e la deportazione. Insomma, più che una Shoah-spiegata-ai-ragazzi, fin qui è una Shoah vissuta dai ragazzi. I brani successivi confermano il sospetto: ce n’è uno di Enzo Biagi su David Rubinowicz. “un ragazzino di dodici anni, figlio di un lattaio scomparso nell’autunno del 1942”; poi il brano più impegnativo della sezione: di nuovo Primo Levi con una delle pagine più intense della Tregua, quella dedicata al piccolo Hurbinek, “un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome”. Levi è di gran lunga il miglior prosatore contenuto in questa sezione dell’antologia; ma non sembra un caso che di tanti passi suoi sia stato scelto uno dei pochi in cui al centro della scena c’è un bambino.

La Shoah di cui si parla in questo libro di testo assomiglia a una moderna crociata dei fanciulli; sembra che nei campi siano finiti soltanto bambini o preadolescenti. Gli unici adulti degni di rilievo sono genitori o fratelli.

La strategia dei curatori è chiara, e rivela in controluce una concezione abbastanza pessimistica della sensibilità di un tredicenne contemporaneo: l’unico modo che avrebbe per comprendere l’orrore della Shoah è l’empatia nei confronti delle vittime, ed esclusivamente le vittime che gli somigliano, meglio ancora se coetanee o un po’ più giovani. Anche lui avrebbe potuto essere Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz: anche a lui i nazisti avrebbero potuto rubare il coniglio rosa. Che poi a tredici anni i ragazzi siano ancora così attaccati alle esperienze dell’infanzia, così poco interessati alle storie degli adulti, è una nozione smentita da altre sezioni della stessa antologia, per esempio quella dedicata alla narrativa di genere avventuroso o alla fantascienza (i protagonisti preadolescenti, viceversa, sembrano una caratteristica tipica del genere fantasy). Per quel che mi capita di vedere dalla cattedra, il preadolescente di oggi è ancora un ragazzo ansioso di crescere ed essere ammesso finalmente nel mondo degli adulti: i bamboleggiamenti di certi autori li allontanano. E allo stesso tempo, i conigli rosa funzionano: inserire bambini sulla scena dello sterminio è garanzia di riuscita. Uno dei film sulla Shoah di maggior successo negli ultimi anni (e più richiesti dai ragazzi con cui lavoro) è Il bambino dal pigiama a righe. Raccontando la storia di un bambino ad Auschwitz, Benigni vinse un Oscar. Ma l’esempio più famoso resta probabilmente la bambina di Schindler’s List. Nel bel mezzo di un monumentale film sulla Shoah in un rigoroso bianco e nero, Stephen Spielberg inserisce un cappuccetto rosso, un elemento di fiaba. È quasi una strizzata d’occhio allo spettatore adulto: le scene che hai visto fin qui non ti hanno commosso perché sono troppo affollate, troppo drammatiche, troppo vere. Per farti scendere una lacrima ti serve qualcosa di intimo: hai bisogno di fissarti su un solo personaggio, anche soltanto per pochi secondi. Va bene, ecco qui una bambina in un cappottino rosso, ora puoi commuoverti. Si commuove anche il protagonista, un nazista sulla via della redenzione. Mi domando se quello che abbiamo fatto, nelle scuole, dopo Schindler’s list non sia una infinita ripetizione del trucco di Spielberg: ecco un bambino che non aveva fatto niente ed è finito ad Auschwitz, eccone un altro, eccone un altro ancora. Sempre con le migliori intenzioni – del resto sono così pochi i trucchi che funzionano, era destino che ne abusassimo.

Ma a proposito di Schindler’s list, c’è un’altra bambina che mi torna spesso in mente, un’apparizione ancora più fugace del cappottino rosso: è la biondina col foulard, che mentre gli ebrei di Cracovia si incolonnano a piedi per entrare nel ghetto, grida “Andate via, giudei”, lanciando palle di fango. Tutto qui, di lei non sappiamo nient’altro. È forse l’unica volta in tutto il film che l’antisemitismo non è impersonificato da burocrati o ufficiali nazisti. Proprio per questo è quella che più mi spaventa, e mi torna in mente anche a mesi di distanza dalla Giornata, quando tv o social mi mettono davanti la deriva razzista degli italiani e dei loro governanti. Capisco che a Spielberg interessasse di più raffigurare le vittime del popolo ebraico, e i nazisti loro carnefici, ma è un peccato che non ci siano film altrettanto potenti che parlino di quella bambina: di cosa l’ha portata a comportarsi così, di cosa l’ha trasformata in una piccola aguzzina occasionale. Avremmo molto bisogno di film del genere a scuola. La Giornata della Memoria che troviamo sui libri di testo o in film dall’approccio volutamente ingenuo come La vita e bella è consolatoria: ci spinge a riconoscerci nelle vittime e a trovare assurda la violenza dei carnefici. Ma la Giornata non è stata istituita per farci sentire buoni, ingenui e oppressi. La Giornata serve a ricordarci che dentro di noi c’è anche la possibilità di diventare oppressori, torturatori, assassini. Come sono stati i nostri avi – anche i loro crimini dobbiamo ricordare, e non soltanto l’angoscia delle vittime. Altrimenti c’è il rischio che la Giornata diventi un momento di rimozione, il momento in cui tutti noi diventiamo Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz, e ci dimentichiamo di far parte di un popolo (di un'umanità) che quei bambini li consegnava ai carnefici.

martedì 29 gennaio 2019

Il poliziotto buono di Cristo

24 gennaio – Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra in esilio, poliziotto buono di Gesù Cristo

Voi l’avete mai preso un treno solo per andare a litigare? Io almeno una volta il biglietto l’ho fatto. Ufficialmente andavo a fare la pace, perché andiamo, on line è normale trascendere, ma basta vedersi in faccia per capire che quel che ci divide non è in realtà così importante. In realtà per tutto il tempo non smettevo di ripassare i miei argomenti, nel tentativo di schierarli nel modo più tagliente possibile, oh sì, io a Roma ci stavo andando a fare il culo a un tizio, avevo intenzione di entrare nella sua tana e prenderlo alle spalle. L’effetto sorpresa è tutto in queste cose, si sa.

Dai è solo un pezzo di legno, venite a toccare, non fa male...

Lo sapeva bene anche Francesco di Sales, vescovo di Ginevra che a Ginevra non poteva entrare, perché era la città di Calvino e i sacerdoti cattolici rischiavano la galera o peggio. Ma Francesco non era tipo da abbattersi, anzi Ginevra l’aveva scelta proprio come il cavaliere sceglie la dama più inaccessibile. Quando si era reso conto che ai ginevrini era fatto divieto anche soltanto di ascoltare le sue prediche domenicali, aveva iniziato a stamparle su volantini e a infilarle sotto le porte: un espediente inedito nel Cinquecento, che gli è valso il titolo di patrono dei giornalisti. Ginevra restava off limits, ma nella provincia circostante (il Chiablese), Francesco poteva contare sulla protezione del duca di Savoia, che era determinato a recuperare la sua popolazione al cattolicesimo con le buone o con le cattive.

Francesco era, essenzialmente, il poliziotto buono, quello che racconta le storielle argute e che si intristisce quando vede che non vuoi collaborare. Era anche un intellettuale raffinato, una penna gradevole, e insomma farsi convertire da lui era molto più elegante che farsi confiscare le proprietà dal duca, sicché verso il 1597 qualche notabile del Chiablese cominciò a farsi battezzare.

A Ginevra ci rimasero male. Calvino era morto da un pezzo, senza lasciare eredi all’altezza. L’intellettuale di spicco era Antoine de La Faye, il quale quando seppe che il signore di Avully si era convertito grazie alla predicazione di Francesco, sbottò: io prima o poi gliela faccio vedere, a quello lì. Lo vado ad aspettare a casa sua. Il guaio è che sbottò proprio davanti ad Avully, che benché si fosse convertito manteneva una posizione di riguardo in città e da lì in poi cominciò a tormentare La Faye: e allora, quando ci andate dal vescovo? Ho scritto a Francesco, lui vi aspetta, non vede l’ora di conversare con voi a proposito della predestinazione e del libero arbitrio. Ma ecco, risulta che La Faye, di andare ad Annecy non avesse tutta questa voglia dopotutto.

Francesco invece di voglia bruciava. Ci fosse stato un treno l’avrebbe preso all’istante. Arrivò invece a cavallo, vestito in borghese per non farsi fermare alla frontiera. Arrivò coi suoi collaboratori, un cugino, e quel giuda di Avully. Ma insomma, senza preavviso, un bel giorno il suo servo bussò alla porta di Antoine de La Faye: è arrivato Francesco di Sales, vorrebbe discutere con voi. Un'imboscata in stile Iene, a fine Cinquecento. Del resto l’effetto sorpresa è tutto, in queste cose.

La Faye e Sales si conoscevano già, nel modo astratto in cui si incontravano i polemisti nella rete sociale di allora, tutta fatta di carta e inchiostro ma già straordinariamente faconda e litigiosa. Quando il vescovado aveva innalzato una croce sulla costa del Lago, per rammentare a quegli iconoclasti dei ginevrini il simbolo della divinità, La Faye aveva scritto un libro intero per rifiutare l’idolatria della croce: il che aveva consentito a de Sales, trentenne, di reagire scrivendo il suo primo libro, la Difesa dello stendardo della Santa Croce. A quei tempi si faceva così. Per esempio Lutero scriveva un libro, Tommaso Moro ne scriveva un altro per confutarlo, un protestante inglese ne scriveva un altro ancora per confutare la confutazione, Tommaso Moro lo identificava e gli faceva tagliare la testa, nel frattempo re Enrico VIII litigava col papa e faceva tagliare la testa a Tommaso Moro, il fatto che fossero dispute scritte non le rendeva meno pericolose, anzi.

Guarda come dorme placido, ad Annecy.

Anche Sales, quel giorno a Ginevra, rischiava qualcosa. Ma era sicuro che La Faye non si sarebbe ritirato senza tentare di difendersi con le armi regolamentari della retorica e della teologia; e così fu. Arrestare il vescovo non sarebbe servito a niente, anzi: nel momento in cui il duca di Savoia e il Cantone di Berna trescavano contro i ginevrini, rischiava di essere controproducente. Ma sconfiggerlo nel suo campo, quella sì che sarebbe stata una vittoria. Purtroppo La Faye non riuscì a procurarsi un testimone che la certificasse.

Sales, per contro, aveva lasciato a casa la tonaca ma non si era scordato la claque, e non è un caso che tutti i resoconti che sono riuscito a trovare attestino il trionfo del vescovo cattolico su un calvinista ottuso e ringhiante. Verso la fine, ormai consapevole della batosta, La Faye sarebbe addirittura passato al turpiloquio e alle insolenze, l’equivalente dialettico di portarsi a casa il pallone e farsi assegnare uno 0:3 a tavolino. Sono tutte versioni cattoliche, ovviamente: ma il fatto che non esistano resoconti di parte calvinista lascia sospettare che per La Faye sia stata davvero una batosta. Quanto al turpiloquio, c’è da dire che Sales è quel tipo di polemista che davvero ti cava gli schiaffoni dalle mani: sempre sereno, sempre sorridente, con l'aria di chi ha una verità ben cacciata in fondo alla tasca e magari un giorno te la farà vedere, ma perché proprio oggi? Un bluffatore incallito, come tanti apologeti cattolici dalla Controriforma in poi. Davanti agli ingenui calvinisti, persuasi di avere semplicemente ragione, anzi, che la ragione sia stata creata da Dio proprio per darla in dono a loro, Sales è il controriformista dal volto umano, quello che nemmeno ci prova ad aver ragione invece che torto: la sua strategia è attirarti nella zona grigia, mimetizzarsi tra i chiaroscuri, anestetizzarti con storielle da canonica, evocare il Terribile Dubbio e trasformarlo in una simpatica Scommessa pascaliana, dai, su, convertiti e credi al Vangelo, che ti costa? Viene da insultarlo anche a me, figuriamoci a un ginevrino riformato.

Io comunque una domenica lo presi davvero, un treno, per litigare. Avevo con me una borsa piena di argomenti e di compiti da correggere. C’era un centro sociale, a due passi dalla stazione Termini, sapevo che il tizio aveva una riunione proprio lì. Pensavo di cavarmela in un paio d’ore, in tempo per riprendere il treno e ritrovarmi in classe lunedì. Credevo che all’inizio, certo, si sarebbe molto incazzato, perché questo ti fa l’effetto sorpresa: tu non ti aspetti che il nemico ti venga in casa a spiegarti le sue ragioni. Mi avrebbe senz’altro preso a male parole. Ma non mi avrebbe cacciato, per il solito motivo che un nemico che caccia la testa nella tua tana è troppo allettante. Dovevo soltanto fingermi un agnellino, per qualche minuto: giusto il tempo di fargli alzare la coda, e poi zac! in quel posto gliel’avrei messo, a quello stronzo. Il piano era perfetto. Arrivai a Roma che imbruniva. Entrai nel centro, nessuno mi chiese chi ero.

Lui non c’era.

Giocava la Roma.

Non mi ricordo neanche più come si faceva chiamare – gestiva un sito che è stato sequestrato, no, non li ho neanche denunciati io. E d’altro canto, beh, il fatto che siano dispute scritte non le rende meno pericolose, cioè se spali merda per anni prima o poi te ne può anche arrivare addosso, sono i casi della vita. Dovunque egli sia, vorrei poterlo raggiungere per dirgli che non gli serbo rancore. Vorrei potergli dire che mi sono dimenticato chi dei due avesse ragione e chi torto, e che a distanza di tanti anni tutto alla fine sembra così assurdo e ridicolo. Vorrei potergli dire così.

Anzi adesso vado proprio a cercarlo negli archivi, e se riesco a capire come si chiamava davvero prendo un altro treno per andargli a dire in faccia, a quella maledetta testa di cazzo, che lo perdono, sì sì, vedrai come ti perdono brutta merda, ormai col Tav in quattro ore arrivi sei a Termini e in un certo senso è un peccato, vorrei che esistessero ancora certi interregionali scrausi e puzzolenti per poter passare mezza giornata in uno scompartimento a rimuginare certi vecchi screenshot di siti che mi sono stampato per ripassare alcuni punti che voglio poi appallottolare e ficcarti ben compatti nel [dissolvenza].

sabato 26 gennaio 2019

I miei amici sono anemici, mi dici

27 gennaio - Sant'Angela Merici, (1474-1540), mistica, fondatrice delle orsoline.
[2013]




“I miei amici sono anemici”, mi dici,
si sono messi ai margini
di foto con cornici.
Non pranzano con gli astici,
si adattano alle alici
che spacciano al convitto di Sant'Angela Merìci1.

I tuoi amici sono cinici, ci dici:
hanno scialato rendite, non certo in dentifrici.
Non serve essere aruspici per trarne infausti auspici:
staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci2.

I miei amici son quei tipici infelici
che han fatto studi classici e ne han tratto i benefici:
non san quadrare i circoli, né estrarne le radici,
proteggerli è un lavoro per Sant'Angela Merìci3.

Ex amici, han messo via i berretti frigi,
i riccioli li rasano per non mostrarli grigi.
Li trovi in ferie a Lerici più spesso che a Parigi,
ma è molto meglio perderli, da’ retta alla Merìci4.

Amici un dì magnifici; ma han chiuso i maglifici,
e senza più bonifici, da Etruschi o da Fenici,
han perso accesso agli attici, non flertan con le attrici,
non sanno a chi votarsi più (non certo alla Merìci)5.

I tuoi amici, inurbati in cupi uffici,
arcigni e tristi artefici di artritici artifici,
strillano strofe stridule a troiette traditrici;
ti prego, trasferisciti in Sant’Angela Merìci6.

Che accolga tra le accolite, le sue benefattrici,
la bimba a cui proselita, con mani protettrici,
la scala verso l'indaco indicava da pendici
che sono competenza di Sant’Angela Merìci7.


(1) Il poeta – un mediocre anonimo degli inizi del secolo XXI – ode forse in sogno la figlia primogenita lamentarsi della scarsa vitalità dei propri amici, che infallibilmente li condurrà a un destino oscuro e marginale ("si sono messi ai margini di foto con cornici"), e a una difficile situazione economica, qui descritta evocando una mensa dei poveri (un "convitto di Sant'Angela Merìci").

(2) La figlia continua a lamentarsi che gli amici abbiano delapidato i patrimoni accumulati dai genitori ("hanno scialato rendite") a causa di uno stile di vita non sano ("non certo in dentifrici"). Non è necessario essere pratici di un'arte divinatoria ("non serve essere aruspici") per rendersi conto del disastro, al quale il poeta propone di ovviare con l'immediato trasferimento della figlia in un istituto religioso ("Staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci". Sant'Angela, nata a Desenzano nel 1474 e morta a Brescia nel 1540, è la fondatrice della Compagnia delle Dimesse di Sant'Orsola, volgarmente conosciute come orsoline.

(3) In questa strofa il poeta inizia a rivolgere il pensiero ai propri amici, per i quali non intravede un destino migliore di quello paventato dalla figlia per i suoi: vi sono per esempio quelli che, avendo intrapreso studi classici, si sono rivelati inetti alle discipline scientifiche ("non san quadrare i circoli, né estrarne le radici": il fatto che l'operazione di estrarre una radice da un circolo sia totalmente insensata ci lascia supporre che anche il poeta si inserisca tra questa schiera di "amici", sui quali invoca la protezione di Sant'Angela Merici).

(4) Ad altri amici, che il poeta non considera più tali ("ex amici"), egli rimprovera il tradimento delle velleità rivoluzionarie espresse durante la giovinezza ("han messo via i berretti frigi": il berretto frigio è uno dei simboli della rivoluzione francese). Benché questi amici non accettino i segni dell'invecchiamento, e tentino di camuffarli con un look giovanile ("i riccioli li rasano per non mostrarli grigi") essi hanno ormai accettato le comodità di una vita borghese. Per questo è meno facile incontrarli a Parigi (la città rivoluzionaria per eccellenza, e in generale un punto di arrivo per gli ambiziosi di ogni generazione, cfr. Stendhal, Balzac) che a Lerici, placida località balneare sul Mar Ligure che si raggiunge più facilmente dalle province di Brescia, Mantova, Parma, Modena. La stessa Santa, secondo il poeta, consiglierebbe la figlia di perdere di vista amici del genere.

(5) Vi sono poi amici che in tempo godettero di un grande benessere grazie ai "maglifici", e qui forse il poeta si riferiva a un distretto industriale ormai in via di smantellamento, nella bassa modenese. Questi amici non fanno più affari con gli "Etruschi" (forse i toscani del distretto tessile di Prato) e coi "Fenici", un popolo di origine medio-orientale che nell'Antichità si era specializzato nel commercio, stabilendo basi in tutto il Mediterraneo. Per questo motivo hanno dovuto abbandonare lo stile di vita edonista e spensierato della loro giovinezza: anche loro dovrebbero invocare la protezione di un Santo, ma il poeta dubita che la Merici possa intercedere efficacemente per loro.

(6) Il poeta immagina altri amici prigionieri di una vita di ufficio che li rende sterili: anche ciò che producono è un artificio digitale che rende artritico chi vi si dedica. Costoro sfogherebbero la loro mediocrità intrecciando rapporti frustranti con colleghe fedifraghe (segretarie?) Il poeta ribadisce alla figlia che c'è un solo modo sicuro per sottrarsi a un destino tanto orribile, ed è trasferirsi presso le Dimesse di Sant'Orsola. 

(7) Finalmente il poeta ricorda come alla figlia piacesse, da piccola, durante le visite presso un pio istituto religioso bresciano, salire le scale che conducevano agli alloggi delle Dimesse; e associa il ricordo alla più famosa visione raccontata da Sant'Angela, quella di una scala protesa verso il cielo. Chiede perciò che la santa accolga finalmente tra "le sue benefattrici" (le Dimesse) la sua figlia come "proselita". È infatti la stessa bambina a cui la Santa indicava la scala verso l'"indaco", quando si trovava "alle pendici che sono competenza di Sant'Angela Merici", ovvero a Brescia, città a ridosso dei monti, di cui Sant'Angela è co-patrona.

martedì 22 gennaio 2019

Le frecce di Sodoma

22 gennaio – Santa Irene di Roma, la martire che curò le ferite a San Sebastiano martire

"So-do-ma!", "So-do-ma!", "So-do-ma!"

Questa storia ce la siamo già raccontata: comunque siamo a Firenze intorno al 1515, è un bel pomeriggio di giugno. Ma chi è che urla così? Sono i festeggiamenti per il palio di San Barnaba: i ragazzini stanno chiamando a gran voce il vincitore – che non è il fantino, ma il cavallo – anzi no, il proprietario del cavallo: Giovanni Antonio Bazzi, nato a Vercelli e residente perlopiù a Siena, soprannominato il Sodoma. Lui stesso ha detto alla folla festante di chiamarlo così!

Un San Sebastiano del Mantegna
(1456), con un buffo nodo al perizoma.
Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano.

Che sfacciato, però. E infatti appena "certi vecchi da bene" se ne accorgono ("Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?")  anche i "fanciulli" cambiano atteggiamento. Da festosi diventano violenti e intolleranti. Basta un attimo. Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui. 

Forse la Storia ci piace perché ci fa sentire meno soli. In qualsiasi secolo ci capiti di dare un'occhiata, troviamo sempre persone che amano, odiano, combattono, si stancano, si ammalano: proprio come noi. Tutto quello che succede a noi, è già successo infinite volte e questo a volte ci dà la vertigine, ma più spesso ci è di conforto. Ci è tanto di conforto che conviene diffidare: non è vero, tutte queste persone non erano necessariamente così simili a noi. Leggiamo un aneddoto di Gian Battista Vasari su un collega che gli stava antipatico, e ci sembra di aver trovato un episodio di omofobia tale quale potremmo leggerlo domani sul giornale ("artista gay inseguito e malmenato"). Non solo, ma ci sembra anche di aver messo a fuoco il prototipo di artista queer del Cinquecento: il Sodoma è una pazza.

San Sebastiano in boxer attillati
(Antonello Da Messina)
Può anche darsi che il soprannome derivi da un intercalare piemontese,  ("su, 'nduma!", "su andiamo": persino il dizionario biografico Treccani riporta questa etimologia un po' tirata per i capelli), però lui preferiva davvero firmarsi così, e non era la più piccola delle sue stravaganze. Spendeva come un matto, si circondava di ragazzini che gli rubavano in casa, e aveva una specie di fetish per i piccoli animali (“tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane”, più un corvo canterino che gli faceva da segreteria telefonica). Il Sodoma è irriverente, non ha rispetto per nessuno. I benedettini di Monte Oliveto lo chiamano mattaccio, lui si vendica infilando un gruppo di donne nude nelle storie di San Benedetto, poi pur di farsi pagare le riveste. Certo, la Treccani nega tutto, lo definisce "irreprensibile", ma noi la sappiamo più lunga, noi e la nostra volontà di sapere, noi abbiamo il gay radar che sfida i secoli. Tanto più che ha dipinto un San Sebastiano abbastanza famoso. E nel Cinquecento, dipingere un bel San Sebastiano nudo e sagittato doveva equivalere più o meno a un coming out, no? Le frecce naturalmente alludono alla penetrazione, come nelle raffigurazioni postmoderne del secondo Novecento; nell'espressione vagamente estatica non ci resta che riconosce un orgasmo, come Lacan (e Odifreddi) lo individuano nel marmo dell'Estasi di Santa Teresa. Tutto chiarissimo; oppure invece no.

Il Sebastiano del Sodoma guarda in alto, verso un angelo che sta per deporre la sua testa l'agognata corona del martirio. È un errore curioso che molti critici e storici dell'arte non notano, appunto perché sono critici e storici dell'arte e non sono obbligati a sapere che Sebastiano non fu martirizzato con le frecce. Ovvero, la versione ufficiale (che nel Cinquecento era ancora quella di Iacopo da Varazze) stabilisce che Sebastiano fu attaccato a una colonna e sagittato "come un porcospino": è senz'altro l'episodio più famoso della sua vita... ma non è il martirio. La corona deve ancora aspettare.

Alle frecce, infatti, Sebastiano sopravvive grazie alle cure di Santa Irene di Roma e della sua domestica, Lucina. Queste due pie donne, venute a seppellirlo, si accorgono che respira ancora: nottetempo lo trasportano nella ricca casa di Irene (patrizia romana) e gli estraggono le frecce a una a una: lunga fatica clandestina che a noi lettori moderni sembra già accanimento terapeutico. Perché prolungare la vita a chi si è votato al martirio? E infatti appena guarito, Sebastiano corre a riconsegnarsi all'imperatore che lo ri-condanna, stavolta a morire flagellato: ed è la volta buona. Ad altri santi servono quattro o cinque supplizi prima di ottenere corona e paradiso.

Luigi Miradori (XVII sec.): Sebastiano curato dalla vedova Irene.
Le torture ridondanti dei santi della Leggenda Aurea ci sembrano un controsenso morboso: perché donare la propria vita a Dio deve essere così complesso e doloroso? Perché San Giorgio deve essere battuto, sospeso per i piedi, lacerato, tagliato in due con una ruota, risuscitato e poi di nuovo decapitato? In certi casi Iacopo si stava semplicemente sforzando di armonizzare storie divergenti in quella che oggi chiamiamo continuity: c'è chi dice che Sebastiano morì per le frecce, altri dicono che morì per le frustate, Iacopo non vuole rinunciare a nessuna storia. In controluce comincia ad apparire anche l'ambiguità del desiderio di morte del martire, che la Chiesa è molto attenta a non confondere con la pulsione suicida: è lecito agognare alla corona del martirio, ma non è concesso accelerarla; i feriti comunque si curano, come Sant'Irene curò Sebastiano.

Ancora il Mantegna: una freccia è orientata
diversamente dalle altre, ed è quella
che più lo fa sanguinare.
Il fatto che la stragrande maggioranza delle raffigurazioni di Sebastiano non si concentri sul martirio, ma su una tortura da cui Sebastiano guarì, è un dettaglio cruciale per comprendere la fortuna medievale del santo. Molto prima di diventare (ufficiosamente) il santo preferito dei sodomiti, Sebastiano era venerato da appestati e lebbrosi. L'icona tipica di Sebastiano è un'immagine di sofferenza e di violenza inaudita, ma non è un'immagine di martirio. È senz'altro una sofferenza da offrire a Dio: molto prima che lo dipingesse il Sodoma, in tanti quadri Sebastiano già guardava in alto. Ma è una sofferenza che può ancora essere curata. L'icona di Sebastiano è un'immagine di speranza. Lui fu curato da Sant'Irene: tu puoi essere curato da lui. Fino a tutto il Quattrocento, almeno, nelle pale e nei polittici italiani questo messaggio è abbastanza chiaro: Sebastiano, il soldato favorito dell'imperatore Diocleziano, è ritratto di solito in scala 1:1 con espedienti prospettici che lo rendono particolarmente vicino allo spettatore: le frecce che gli lacerano la carne potremmo toglierle noi. Forse le abbiamo scoccate noi. Forse anche lui soffre per i nostri peccati: le sue piaghe sono anche le nostre ("Le tue frecce, Sebastiano, sono conficcate in me", si legge sotto al Sebastiano più sensuale del Perugino, al Louvre). E però già nel corso del Quattrocento il messaggio è sempre meno limpido, più intorbidito da tensioni contrastanti. Sebastiano non è più il rude soldato barbuto del medioevo, ma un bel modello efebico o muscoloso, a seconda dei gusti del pittore (o del committente). Già da fine Trecento Sebastiano ha perso il monopolio della peste e delle epidemie: molti fedeli gli preferiscono San Rocco. Per sopravvivere nelle Sacre Conversazioni deve trovare un'altra specialità, e l'Umanesimo gliene fornisce una inaspettata: i miti greco-romani tornano di moda e questo santo soldato, a volte ritratto con una freccia in mano, viene rapidamente sovrapposto all'immagine di Apollo arciere.

Il Savonarola di Fra Bartolomeo. Il suo San Sebastiano
invece è talmente peccaminoso che hanno tolto
anche le foto da Internet, giuro, non riesco a trovarne.
Consolatevi col profilo di fra Girolamo.
Anche Apollo era associato alle epidemie: la freccia era per gli antichi il simbolo di qualsiasi azione a distanza, e tale sarebbe rimasta più o meno fino alla diffusione delle armi da fuoco. Anche quando smetterà di essere decifrata come simbolo di un contagio epidemico, la freccia resta sino ai giorni nostri il simbolo dell'altra azione a distanza che incuriosiva poeti artisti e filosofi sin dall'antichità: l'innamoramento. Apollo è il dio più bello: e tale diventa Sebastiano nel nuovo pantheon greco-romano-cattolico. Tale lo concepisce un amico e collega di Sodoma, il fra Bartolomeo autore del più celebre ritratto dell'arcigno Savonarola, che quasi per sfida decide di dipingerne uno così bello che i frati del convento si sentono "portati al peccato" e decidono di disfarsene. Da questo aneddoto, e dall'altro di Sodoma che dipinge donne nude dove i benedettini non le volevano (malgrado la leggenda le prevedesse), capiamo che committenti e pittori non parlano più la stessa lingua; i primi vogliono ancora immagini devozionali, i secondi si rassegnano a fornirle ma sono pur sempre artisti, hanno vite incasinate, interessi non sempre leciti e vivono dinamiche competitive: non è che perché ha dipinto un Sebastiano bellissimo, dobbiamo dedurre che fra Bartolomeo lo concupisse. A quel punto del Cinquecento, dipingere un Sebastiano era una sfida coi colleghi e con sé stessi: significava dipingere un ragazzo nudo e bellissimo, così come dipingere un Bartolomeo significava dipingere uno scorticato. Più bello era, più riuscito risultava – anche oltre le aspettative e le necessità di chi l'affresco lo pagava.

I pittori del Rinascimento sono anche anatomisti: la figura di Sebastiano consente loro di indagare su aspetti che altri soggetti non consentivano. È l'unico santo di cui è consentito abbozzare sulla tela il pene, anche se coperto (e a volte la copertura ha una consistenza fallica: vedi quel maliziosetto del Perugino). Un pene lo abbozza persino l'austero Piero della Francesca, nel polittico della Madonna della Consolazione; per notarlo dobbiamo confrontarlo con il Cristo dello stesso polittico, a cui il pittore non osa aggiungerlo. In più di un caso i pittori, non potendo aggiungerlo, vi alludono puntando una freccia proprio in quella direzione (ed è la ferita che produce più sangue). Il messaggio è ambiguo: la freccia è il peccato, o la punizione che Dio ci riserva per esso, o la sofferenza di amore che il soggetto (passivo) deve sopportare, oppure va' a sapere, spesso i pittori non sanno perché decidono di dipingere una cosa invece di un'altra. E dobbiamo presumere che anche i committenti non fossero tutti bacchettoni ipocriti come i frati o i benedettini: che ci fosse anche chi desiderava Sebastiani bellissimi e non troppo trafitti; non si spiega altrimenti la sopravvivenza del modello anche dopo la Controriforma, quando gli alti prelati già avevano messo nero su bianco che Sebastiano andava dipinto come nel medioevo, barbuto e magari vestito. Lo stesso Michelangelo nel Giudizio Universale non rinuncia a raffigurare un ragazzone aitante, che brandisce le frecce e sembra dire ai dannati sottostanti: io il Paradiso me lo sono sudato. Anche l'iconografia di Sant'Irene che cura il soldato ferito continua ad avere successo, e anche in questo caso Irene non è sempre una vedova in età avanzata.

All'Irene della Leggenda Aurea capita poi di scoprire in sogno che il cadavere di Sebastiano è stato gettato nella Cloaca Massima. Lo seppellisce lì nei pressi, in quelle che poi saranno chiamate Catacombe di Sebastiano.

lunedì 21 gennaio 2019

San Vincenzo, il martire banale

22 gennaio – San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant’Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po’ che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice “Voltami, son cotto”, come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un’originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Ancora una graticola, che banalità.
Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell’Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l’ho detta! questa forse sì, ma intendevo l’esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l’Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l’esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene “quam minimum credula postero“, più o meno “credi al futuro quanto meno puoi”. Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Noi non investiamo nel futuro, noi siamo la minoranza dei bei gesti che durano un attimo,
e al sette in condotta ci penseremo poi.
D’altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo “Faccio cose vedo gente”. Diciamo “ho visto cose”, e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo “digitale” e le dita sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all’incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe – in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l’autore di quell’agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo – e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili – i Dolori del Giovane eccetera. Se l’avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s’innamora di lei. L’espressione “colpo di fulmine” forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è “Klopstock”.

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

Nessuno potrà più dire “Klopstock” senza commuoversi.
Provateci. Klopstock. Klopstock. Vedete?
È un riso da scimmia, perché in effetti la situazione può suscitare ilarità soltanto se non si conosce il celebre lirico Friedrich Gottlieb Klopstock; se non si ha la minima idea della poesia a cui sta pensando Lotte in quel momento. Probabilmente fa ancora più ridere se addirittura non so una sillaba di tedesco: se per me è solo un accrocchio di sillabe che gridano “invadiamo la Polonia” anche quando vorrebbero parlare d’amore. Quindi, nel momento in cui Werther s’innamora, tu ridacchi, ah ah ah ah, che ha detto? No, ma sul serio, come ci si fa ad innamorare ascoltando il suono “Klopstock?” Capirei Lessing, Novalis, persino Heine ha ancora qualcosa di languido, ma Klopstock sembra una marca di ciabatte.

Werther invece si innamora, perché ha colto il riferimento. Conosce Klopstock, ha indovinato l'”ode sublime” che Lotte ha in mente. Questo era il significato di “Klopstock” sulle labbra di Lotte, ma nelle orecchie di Werther ha già assunto un significato diverso. Significa: “ode sublime che io so che tu sai”. Significa già “Affinità elettive”. C’è qualcosa tra di noi che la rigida compartimentazione sociale della società tedesca prenapoleonica non potrà toglierci, nemmeno quando per darmi un tono mi farò prestare [SPOILER] le pistole da tuo marito e mi ci bucherò le cervella [/SPOILER]. Nel giro di pochi secondi la parola ha assunto un significato così personale che Werther vorrebbe ritirarla dalla lingua tedesca. “Nobile poeta, se tu avessi potuto vedere in quello sguardo la tua apoteosi! e se io potessi ora non sentir più pronunciare il tuo nome così spesso profanato”.

Chissà se poi Klopstock era così contento di essere diventato una specie di catenaccio di Ponte Milvio del preromanticismo, il McGuffin di un romanzetto per giovani tormentati. Sì, perché alla fine non è così importante di che poesia si tratti. Era davvero così bella? Lotte e Werther avevano davvero il gusto per apprezzarla, o non stavano pescando nel banale come Fiorello quando cantava la Nebbia agli irti colli piovigginando sale? Che importa. Con le citazioni non si sbaglia mai: dici “gatto di Shroedinger” e il tuo interlocutore penserà che tu ne sappia davvero qualcosa di meccanica quantistica. Di fronte allo spettacolo del temporale che si ritira Lotte avrebbe potuto provare a tirar fuori qualcosa di suo, ma se fosse suonata ridicola? La citazione ti risolve. Klopstock.

Ma chi siamo noi per giudicare. L’abbiamo avuta tutti una fase Klopstock, specie se ci è capitato di maturare sentimentalmente negli anni Novanta. A rileggere i libri del tempo, viene la vertigine: tutti i protagonisti passano il tempo a citare altri libri, o fumetti o film o poesie (persino Fiorello). Cosa avevamo in testa tutti? Perché non cercavamo la nostra singola voce invece di ritagliare frasi a caso dai discorsi degli altri? Eravamo solo giovani e stupidi, o c’era qualcosa di più?

Forse c’era qualcosa di meno. I Novanta non sono poi così lontani, ma sembrano ormai un universo parallelo, dove tutto più o meno è uguale a qui salvo che non c’è internet. C’era comunque molta cultura dappertutto, ma non era così immediatamente accessibile: andava comprata, noleggiata, riprodotta, fotocopiata: tutti passaggi che la consumavano e ce la rendevano più nostra. Citarsi addosso era un modo per riconoscerci: da qualche parte in città qualcuno quella sera stava dando una festa in cui a un certo punto una ragazza avrebbe detto “Klopstock”, o “Per un bel pezzo sono andata a letto presto”, o “Preferisco di no”, “Dove vanno le anatre”, o qualche altra frase che tutto il mondo avrebbe trovato ridicola tranne te. Dovevi trovarla. Dovevi allenarti a distillare le citazioni e riconoscerle nei discorsi altrui. Memorizzarle il più possibile e mescolarle con sapienza. Trasformare te stesso in una pratica citazione da snocciolare al momento giusto.

La barra di google ha messo fine a quell’era di abiezione. Non abbiamo smesso di citare, ma lo facciamo in modo più automatico, senza più il timore e il tremore di essere o non essere capiti. Diciamo “Pijamose Roma”, diciamo “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, ma non è per selezionare i nostri uditori all’ingresso. Ci spuntano ancora sulle labbra per pigrizia, noi non sapremmo mai farne di altrettanto efficaci. Nel frattempo abbiamo anche smesso di immagazzinare contenuti, sia nelle librerie che nel disco rigido che nel nostro stesso cervello. Tanto nella nuvola c’è tutto; l’importante è sapere come cercarlo, cosa cercare, nell’evenienza che ancora da qualche parte arrivi una bufera e noi ci si ritrovi in quella situazione in cui…

“Klopstock”.

“Che hai detto?”

“No, niente”.

“No, ti ho sentito, hai detto qualcosa di una ciabatta”.

“No, non è una ciabatta, è un lirico tedesco”.

“Sicuro? Perché sembrava proprio una ciabatta”.

“È un lirico tedesco”.

“Sei sicuro? Guarda che lo sto già cercando”.

“Si scrive con la kappa”.

San Vincenzo voleva soltanto morire dicendo qualcosa di memorabile, come si conviene a un martire: che colpa aveva di vivere alla fine dell’epoca dei martiri, in un mondo ormai saturo di supplizi e frasi celebri? Tutte le torture e tutte le parole erano già state prese da santi non necessariamente più ispirati. Lui non aveva niente di meno di Santo Stefano o San Valerio o Santa Caterina, ma era arrivato dopo, in quel momento in cui qualsiasi cosa tu dica o faccia fa già parte di un discorso già finito. Qualcosa di simile sarà forse capitato anche a noi. Avevamo solo le parole degli altri, ce le siamo fatti bastare. Per quel che avevamo da dirci, alla fine [2015].

venerdì 18 gennaio 2019

Metti sull'Uno c'è un maestro che urla

18 gennaio – San Successo (oh, esiste davvero, non è che me li invento – non questo almeno).

Il primo successo del 2019 per la Rai è Alessio Boni che urla ai ragazzini. Certo, La Compagnia del Cigno è molto altro: c’è musica in abbondanza, classica e moderna, e poi ogni ragazzo ha il suo arco narrativo, l’ingresso nell’età adulta eccetera – sì sì però se lunedì sera mettete sull’Uno all’improvviso, in tre casi su tre si materializzerà Alessio Boni che a stento controlla l’impulso di rompervi la bacchetta in testa.

Non che urli sempre come un ossesso (a volte frigna come un bambino), ma non sorprende che più di un Conservatorio abbia sentito la necessità di avvertire che no, non è così che funziona. Tra l’altro è stagione di preiscrizioni e nessun dirigente scolastico, davvero, si vanterebbe di avere un organico un personaggio del genere. Nessuno vorrebbe lavorare con un maestro del genere. Ci piace però guardarlo in tv.



La Compagnia ha battuto il Titanic restaurato, ha battuto la Coppa Italia; il maestro che urla è il primo grande spettacolo italiano del 2019. Quasi un italiano su dieci ha assistito alle sfuriate del maestro Boni senza cambiare canale. Anzi dev’essersi in qualche modo affezionato, e non so se questa è una buona notizia per il mondo della scuola. In gran parte si tratta degli stessi italiani che non esiterebbero a denunciare un maestro del genere se invece che in tv sbraitasse in quel modo davanti ai propri figli, in un’aula scolastica – andiamo, persino io lo avrei mandato a quel paese a un certo punto: e faccio il suo mestiere. Che ci è successo?

Che fine ha fatto il modello di insegnante che andava di moda quando studiavo, quello super-empatico che non castigava mai nessuno, anzi riusciva a entrare in sintonia con tutti senza alzare la voce? Il Robin Williams dell’Attimo fuggente: molti di noi insegnanti vorrebbero ancora assomigliargli, anche se alla fine ci scappa la pazienza e gli studenti piangono e poi i genitori protestano. Genitori che, diciamolo, non hanno sempre tutti i torti, forse dovremmo essere ancora più pazienti – sì, però gli stessi genitori quando tornano a casa si bevono due ore di fiction con Alessio Boni che urla e strepita, c’è qualcosa di paradossale in tutto questo.
D’altro canto è pur sempre televisione. Quello specchio piuttosto distorto che non mostra quasi mai il mondo intorno a noi; il più delle volte ci mette davanti il mondo dentro di noi. Nessuno vorrebbe un maestro severo per i suoi figli, ma tutti segretamente lo vorremmo per i figli degli altri, e forse una fiction assolve questa funzione (“Guarda questo professore asfaltare sette adolescenti!”)



Come ogni modello che funziona i critici si sono subito affrettati a farci notare il prestito evidente nei confronti di un prodotto d’importazione. Lo ha prontamente ammesso anche lo sceneggiatore Ivan Cotroneo: il maestro interpretato da Alessio Boni deve molto a quello impersonato da J. K. Simmons in Whiplash, il primo film di Damien Chazelle. È il ruolo che finalmente ha fruttato un Oscar a Simmons, il classico caratterista che tutti abbiamo la sensazione di conoscere come un familiare, tante volte lo abbiamo visto in tv. E però in Whiplash il maestro urlatore è il cattivo del film, non l’eroe che aiuta a sbloccare le potenzialità del protagonista. A parte la sua ossessione per la musica (ossessione omicida) non conosciamo quasi nulla di lui. Non c’è tempo per spiegare cosa lo ha trasformato nella belva che è; non ci sono flashback che ci facciano scoprire i suoi dolori, i suoi lutti, non ci sono siparietti ricattatori che ci facciano piangere insieme a lui. Non è insomma come il maestro di Boni, che tra una scenata e l’altra lascia intravedere un animo sensibile, empatico, in grado di entrare in sintonia con il delicato mondo interiore dei ragazzi; se anche il personaggio di Simmons sembrava trapelare qualcosa del genere, era soltanto per rivelarsi fino alla fine un subdolo manipolatore.

Whiplash fu criticato, anche in Italia, per la visione del mondo che tradiva: una giungla dove conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, l’autoaffermazione e il successo. Il film si presta in realtà a un’interpretazione più problematica: il protagonista è più vittima che eroe. Il maestro della Compagnia del Cigno, all’apparenza più sfaccettato, alla fine è soltanto il classico burbero dal cuore d’oro. Ma Whiplash è un grande film anche perché mette in guardia da quel modello di maestro carismatico, denunciandone la tossicità.



Sia Whiplash che La Compagnia, poi, traggono spunto da un discorso così universalmente condiviso ormai che rischiamo di non vederlo intorno a noi, come l’aria che respiriamo. In un certo senso è l’aria che respiriamo. È il talent-show. Whiplash è strutturato come una caricatura di talent-show: un maestro severo, un allievo che deve seguirlo ma anche sconfiggerlo. La Compagnia è un succedaneo di talent-show – quasi un placebo per i telespettatori in crisi d’astinenza, tra la fine di X Factor e l’inizio di Sanremo. Lo stesso Sanremo assomiglia anch’esso sempre più a un talent-show, al punto di essersi dotato di un maestro talentuoso, magari non sbraitante ma più severo di quanto ci saremmo aspettati: Claudio Baglioni.



Il 2019 è l’ultimo anno degli anni Dieci. Forse non è più troppo presto per un bilancio: è stato il decennio dei Talent. È vero, esistevano anche prima (più negli USA che in Italia). Ma fino a X Factor non eravamo abituati a chiamarli così, e soprattutto non li consideravamo molto di più che una forma di intrattenimento, una sottospecie dei Reality. Poi è successo qualcosa, fuori e dentro la tv. Non è ancora chiaro cosa – forse ha a che vedere con la caduta delle élite di cui in questi giorni stanno parlando sui giornali di carta. Insomma altri punti di riferimento sembrano essere crollati: i politici hanno smesso di essere attendibili (non che lo fossero dieci anni fa), medici e insegnanti hanno perso ogni autorevolezza. L’unico punto fermo, l’ultimo baluardo della meritocrazia, è il Talent.


The New Voice of Italy

Dappertutto l’apparenza sembra diventata più importante che lo studio, tranne nei Talent: il solo luogo dove è ancora lecito castigare l’apparenza e premiare l’impegno. Stanti così le cose, ci è voluto poco perché tutto il nostro immaginario si riconfigurasse intorno all’architettura del Talent: al punto che persino il partito che doveva far piazza pulita del passato si è strutturato come un Talent. Si chiama Movimento Cinque Stelle ma avrebbe potuto chiamarsi Amici di Beppe Grillo: un partito dove si fa carriera col televoto e si cade in disgrazia entrando in polemica con la giuria. Insediandosi prima in parlamento e poi al governo, il M5S ha rapidamente trasformato la comunicazione della politica in Italia, che dalle prime dirette in streaming si è prontamente adattata al nuovo format. Deputati e ministri come dilettanti allo sbaraglio: alcuni hanno davvero talento e li salveremo, altri si rivelano inadeguati e saranno presto bocciati senza pietà. Eppure c’è chi si ostina a considerarli avversari della meritocrazia. A ben vedere stanno semplicemente proponendo una meritocrazia diversa, che non passi più per le aule scolastiche e universitarie, ma per i social e le Piattaforme del popolo.

A questo punto naturalmente occorre obiettare che una meritocrazia del genere non può funzionare: tanto per cominciare gli strumenti sono farraginosi (Rousseau non funziona), ma anche se fossero efficienti, ci sarebbe il problema che il popolo è un pessimo giudice, non ha le competenze ecc. ecc.. Tutto probabilmente vero. Ma non è così strano che la società dello spettacolo si affidi al codice del Talent. Scuole e università non è chiaro se funzionino o no; perlomeno le ultime classi dirigenti che hanno formato lasciavano molto a desiderare. I Talent non è detto che creino più competenza, ma sicuramente fanno spettacolo, e quella è una cosa che sappiamo apprezzare.



Nei Talent scorre ancora, neanche tanto sotterranea, quella vena di sadismo e crudeltà che abbiamo bandito dalle scuole (e che forse inconsciamente rimpiangiamo). Solo nei Talent è ancora concesso umiliare l’incapace, e mettere apertamente l’uno contro l’altro gli apprendisti. Che parlino di cucina o di musica, il motivo per cui li guardiamo è il motivo per cui ci lasciamo ipnotizzare dalle sfuriate di Alessio Boni: i maestri sadici sono sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo abbonamenti e biglietti al cinema. Forse ci piacciono proprio perché non assomigliano affatto ai nostri ex professori, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Se non siamo diventati quegli uomini e donne di successo che loro vedevano in noi, magari è colpa loro: troppo buoni, troppo permissivi. Se ci avessero preso a ceffoni, invece, chissà… vabbe’, è troppo tardi per recriminare. Ma si fa ancora in tempo ad accendere la tv. Sull’Uno c’è un prof che strepita, su Sky quattro cuochi infieriscono su dilettanti allo sbaraglio, l’Attimo fuggente almeno stasera non c’è (anche perché a modo suo va in scena in tutte le scuole d’Italia, da lunedì a sabato, da settembre a giugno: e dopo un po’ viene a noia, non ditelo a me).

mercoledì 16 gennaio 2019

Il papa che successe a sé stesso

16 gennaio - San Marcello I Papa (†309), doppione

Nulla, non c'entra assolutamente nulla.
[2014].
Dell'imperatore Diocleziano, delle sue sanguinose persecuzioni, su questo blog ci siamo spesso presi gioco. Il fatto è che già a poco più di un secolo di distanza (quando il cristianesimo era diventato religione di Stato), Diocleziano aveva già assunto le dimensioni dell'orco sbrana-cristiani, a capo di un esercito di torturatori efferati e un po' frustrati: a Santa Cecilia cercano di tagliare il collo e la lama rimbalza, Santa Lucia cercano di portarla nel bordello ma è troppo pesante, a Sant'Agata tagliano i seni e le ricrescono, eccetera. E però tutto questo grand-guignol di leggende inventate dai monaci per distrarsi un po' nell'ora di refettorio non deve farci dimenticare che un Diocleziano ci fu davvero, e che di cristiani ne fece uccidere più di qualsiasi altro imperatore: quanti? Difficile dire. Migliaia, forse più – Gibbon semplicemente non ci credeva, ma era un uomo del Settecento, quando anche le battaglie campali sembravano figure di minuetto. Gli storici del penultimo secolo, familiari coi concetti di pogrom e di purga, non escludono che un imperatore deciso a fondare un culto della personalità non possa aver messo in cantiere uno sterminio, anche se il body count rimane piuttosto prudente (tremila o un po' di più in tutto l'impero). Pochi, tutto sommato, per una religione che nelle città era ormai un fenomeno di massa.

Evidentemente molti cristiani cercarono di sfangarla venendo a patti con l'autorità costituita: alcuni bruciando incenso agli Dei (turificati), altri sacrificando animali agli stessi Dei (sacrificati), altri, non volendo scannare nessun animale, corrompendo qualche autorità per procurarsi un certificato che attestasse che lo avevano sacrificato (libellatici). Infine c'erano i peggiori di tutti, i traditores, che all'inizio significava semplicemente "consegnatori": erano i sacerdoti che avevano consegnato i libri sacri ai magistrati - e magari anche qualche registro di battesimo coi nomi degli affiliati, gli infami. Tutto questo poteva salvarti la vita terrena, ma quella eterna? I sacrificati, i turificati, i libellatici e i traditores non erano più ammessi in chiesa. Erano i cosiddetti lapsi, "scivolati", quelli che avevano avuto un'occasione buona per diventare protagonisti di una sanguinosa leggenda di martiri e se l'erano giocata. Il dibattito sulla riammissione dei lapsi era già scoppiato ai tempi dell'imperatore Decio, e riprese subito vigore. In certe comunità venivano riammessi soltanto dopo una pubblica cerimonia di pentimento: insomma dopo aver ritrattato il cristianesimo davanti ai magistrati dovevano ritrattare la ritrattazione davanti ai sacerdoti, e farsi consegnare una ricevuta, un libellus che dimostrasse che erano di nuovo cristiani a tutti gli effetti. Ovviamente se i magistrati imperiali mettevano la mano sul libellus potevano ri-imprigionarli, e così via.

Si dice che il cristianesimo crebbe annaffiato dal sangue dei martiri. È una mezza verità: le piante hanno bisogno di liquidi ma anche di letame. Senz'altro i martiri ci misero il sangue, ma se il cristianesimo sopravvisse a Diocleziano fu grazie ai lapsi. Questo però non si può dire - tranne che sul Post - perché molti lapsi furono probabilmente traditores, nel senso moderno del termine: molti di loro probabilmente si conquistarono la libertà vuotando il sacco davanti al magistrato, spifferando nomina e cognomina di tutti i cristiani del quartiere. Poi alla fine se ne tornavano alla catacomba e chiedevano pure di essere riammessi al culto, che facce toste. Il cristianesimo che sopravvive alla persecuzione dioclezianea deve affrontare quel senso di colpa collettivo che attanaglia i superstiti di qualsiasi disastro: perché gli altri sono morti e io no? Aggiungi che in certi casi la risposta è insostenibile: sono morti gli altri perché tu li hai traditi. Gli altri sono santi, e ne leggiamo le leggende: tu sei il peccatore, tu dovrai espiare. La realtà probabilmente era molto più sfumata, vedi il caso di San Marcellino Papa.

Da non confondere con San Marcello Papa, che è il santo che si festeggia oggi, e di cui dovrebbe essere il predecessore. Il nome può sembrarvi buffo, ma è uno di quei tipici nomi tardoromani: si chiama Marcellino anche uno degli scrittori più interessanti del quarto secolo, un ex soldato dalla prosa cupa e marziale che non ti aspetteresti in un'antologia, alla voce Ammiano Marcellino. "Marcellino" è la terza derivazione del nome Marco, che a sua volta deriva dal dio Marte: all'inizio Marco significa "di Marte". Marcello, invece, significa "di Marco": può sancire un'adozione o forse un passaggio di proprietà di schiavi che poi una volta liberati mantengono il nome. "Marcellino", a sua volta, potrebbe essere un figlio di Marcello, o uno schiavo venduto e poi liberato. I nomi dei primi secoli erano brevi: Lucio, Mario, Claudio. Verso il terzo secolo abbiamo Marcellino, Claudiano, Valentiniano (←Valentino ←Valente), Costantino (←Costanzo ←Costante) eccetera. L'impero continua a essere retto da uomini duri e violenti, ma hanno nomi derivativi, sempre meno originali, sempre più involontariamente pucci, fino a quel Romolo Augustolo che chiude miracolosamente il cerchio. Non fossero arrivati i barbari, oggi ci chiameremmo Marcelliniancelliniano? In un certo senso i barbari dovevano arrivare, era un'esigenza sentita a tutti i livelli, persino nell'onomastica.

La chiesa di San Marcello al Corso
(da wikipedia) sorge nell'antico sito della stalla
(far lavorare un papa, che barbarie).
Marcellino, dicevamo, tradì. Sacrificò qualche animale agli Dei. Lo attesta il Liber pontificalis, la wikipedia delle vite dei papi, redatta lungo qualche secolo da un insieme anonimo di cronisti che purtroppo non nominava mai le fonti. Lo stesso Liber, tuttavia, afferma che in un secondo momento si pentì di aver tradito e ritrattò, ottenendo una pronta decapitazione e l'immediata santità. La storia sembra molto antica, ma già un po' complicata: forse un tentativo di salvare la reputazione a un papa controverso. In Nordafrica un vescovo eretico, durante una polemica con Agostino, accusa Marcellino (senza prove) di aver sacrificato agli dei. D'altro canto era un santo già venerato allora, a Roma e altrove: possibile che i buoni cristiani portassero fiori sulla tomba di un sacrificatus? Fino al quinto secolo nessuno lo inserisce nell'elenco dei martiri. È l'unico papa che non compare nel Cronografo del 354, la più antica agendina illustrata che ci sia arrivata (alla quale dobbiamo un tesoro di informazioni, perché nessuno scrittore blasonato si abbassava a nominare, per esempio, i quartieri della Roma imperiale).

A dire il vero il suo nome nel Cronografo c'è: ma è associato al diciottesimo giorno alla Calenda di Febbraio, cioè oggi, 16 gennaio, e non al 26 aprile. E tuttavia deve trattarsi di una svista: il 16 gennaio non è la festa di Marcellino, bensì di Marcello, il suo successore: un papa integerrimo che si oppose al facile recupero dei lapsi, e insistette sulla necessità che facessero penitenza e mostrassero contrizione per i loro tradimenti. Tanta intransigenza lo portò in rotta col successore di Diocleziano, Massenzio, che lo condannò a lavorare nelle stalle imperiali (ma questa forse è una storia messa in giro dal proprietario di una stalla che credeva nelle opportunità del turismo religioso e sperava di attirare i pellegrini con una storiella). Il lavoro in stalla era molto pesante e Marcello ne sarebbe morto, martire, il 16 gennaio, perlappunto. Ora, non è così strano che un papa Marcello subentri a un Marcellino (non era ancora invalsa l'abitudine a cambiar nome una volta varcato il soglio): ma che cadano entrambi martiri lo stesso giorno, è una cosa che lascia perplessi. Al punto che Mommsen riteneva che il secondo non fosse un vero papa: piuttosto un vicario, un facente funzione. In effetti la situazione poteva essere molto delicata: magari Marcellino aveva perso la carica di pontefice nel momento in cui aveva temporaneamente abiurato la fede in Cristo. Poi ci aveva ripensato, ma a quel punto era da considerarsi ancora pontefice a tutti gli effetti? Chi poteva deciderlo, se non lui stesso? Un falso storico del sesto secolo ci mostra proprio un concilio-processo in cui i vescovi lo interrogano, ne ottengono una confessione, ma non lo condannano, perché "la prima sede non può essere giudicata da nessuno".

Un'altra possibilità è che Marcellino se ne sia tornato bel bello a fare il pontefice, dopo l'abiura, senza chiedere scusa a nessuno. Qualche secolo dopo un cronista avrebbe potuto trovare la cosa imbarazzante, e dividerlo in due: un pontefice un po' tremebondo che viene perseguitato, abiura ma poi si pente e muore martire nel 305, e un altro tutto d'un pezzo che ostenta tolleranza zero per i lapsi e i traditori, e muore anch'esso martire in una stalla il 16 gennaio 309. La scelta di chiamare il doppione di Marcellino "Marcello" potrebbe essere stata dettata da scarsa fantasia o (più verosimilmente) dalla necessità di non alterare troppo i documenti originali. Dei due, quello probabilmente inventato è il più eroico e intransigente. Non sorprende.