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domenica 31 marzo 2019

Maria, la meretrice nel deserto

Qui è ancora vestita.
1° aprile - Santa Maria d'Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

[2012] Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, gli anni ruggenti dei martiri sono finiti. Adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...

"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donna si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.
La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). L'idea di un eremita che attraversa il deserto per incontrarne uno ancora più santo sembra ricalcata sulla storia dei santi Antonio e Paolo scritta da Girolamo (anche in quel caso i due si scambiavano il pallio). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze o Varagine. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio. Per farla breve, Maria si mette in testa di pagarsi il viaggio in natura, ed è una di quelle situazioni in cui si dice che non conta la destinazione (il Santo Sepolcro de che?), ma come ci si arriva:
E per tutto quel viaggio la mia vita non fu altro se non ridere e dissolvermi in canti e in giuochi vani, e inebriarmi e fare avolterii e fornicazioni, ed altre cattive e laide cose e parole dire e fare, le quali tutte sufficientemente la lingua non può isprimere. E non mi ritraeva da tanti mali né paura di tempesta di mare, né vergogna della gente che v’era; ma era io sì sfrontata e lieve, che eziandio uomini gravi e onesti invitava a corruzione e facevagli cadere, sicchè veramente la mia fetidissima carne era esca del diavolo a tirare l’anime in abisso e in perdizione.
Mentre Maria viaggia nella turpitudine, anche noi ci facciamo un giro nelle fantasie erotiche di un patriarca del settimo secolo, felicemente riprese e rielaborate da un domenicano del quattordicesimo. L’abisso di perdizione è tale che la stessa Maria si domanda com’è possibile che il vascello non vi sia sprofondato, "inghiottimmi viva viva". Si vede, pensa Maria, che Dio voleva che arrivassimo sani e salvi a Gerusalemme, affinché potessimo pentirci. Nel frattempo chiudeva l’occhio sui gangbangisti in crociera – Dio senz’altro l’occhio lo chiudeva, ma Sofronio e Jacopo e Domenico sbirciavano; a maggior gloria di Dio, ma sbirciavano. Comunque in un modo o nell’altro la nave arriva in porto, e i passeggeri, esausti ma di ottimo umore, si incamminano per il Santo Sepolcro. Basta seguire la folla: vengono da tutto il mondo, il Cristianesimo è religione di Stato e l’Islam non è ancora stato inventato. Maria segue la corrente; ha ventinove anni, pratica il mestiere da diciassette. Ma cos’è dunque quella forza misteriosa che, giunta alla soglia della chiesa più sacra della cristianità, non la lascia passare? Maria non sa neanche bene dove si trova: sa solo che gli altri passano e lei resta bloccata fuori. Ci riprova. Niente da fare. Si mette davanti a un folto gruppo di pellegrini, “mi spingeranno loro”, pensa. Macché. C’è un esercito invisibile che fa quadrato alla porta e non lascia entrare solo lei, di tutti i pellegrini del mondo: solo lei.
E avvenendomi così più volte, e io pure volendomi mettere per entrare, stancai, sicch’io rimasi tutta rotta del corpo e dolorosa e afflitta dell’anima; e così piena d’amaritudine puosimi in un cantone molto istanca, e pensava piangendo per che cagione questo m’avvenisse. E aprendomi Iddio lo cuore, conobbi che per le mie sordide iniquitadi non permettea Iddio che io così immonda e iniqua entrassi nel suo tempio.
Disperata, Maria trova in quel cantone un’immagine della Madonna e si mette a pregare: fammi entrare tu, e prometto che con questa vita ho chiuso.

Di colpo la porta del Sepolcro si spalanca anche per lei: Maria corre a venerare la Santa Croce, e poi tutti i luoghi santi, finché tornando all’immagine della Madonna non sente forte e chiara una voce che le dice: “Passa il Giordano”.

Per strada un tizio le regala tre monetine con cui compra tre pani per il viaggio. Le basteranno per 47 anni, di cui i primi 17 veramente terribili, trascorsi a fuggire incessanti pensieri di tentazione, mentre i vestiti le marciscono addosso. In seguito – spiega a Zosimo – le cose erano andate meglio; ma insomma per tutto questo tempo Maria era vissuta in perfetta solitudine, senza incontrare nemmeno un animale.

Zosimo è sconvolto. Prima di conoscere la donna del deserto credeva di essere un santo, ma ora si rende conto che di fronte a un esempio del genere lui non è nulla: niente più che una comparsa in una leggenda di Santi altrui. La donna gli chiede di non dire nulla in giro, e di tornare di lì a un anno, per Pasqua: quindi scompare (con il suo pallio), prima che Zosimo possa chiederle come si chiama. Per tutto l’anno rimane con la curiosità, ma poi quando a Pasqua si rivedono (lei porta ancora il suo pallio) Zosimo le impartisce la comunione ma si dimentica di nuovo di chiederle il nome. Il terzo anno la trova morta, un mucchietto d’ossa nel suo pallio: in fondo aveva ottant’anni e il paradiso è sicuro, però Zosimo ci resta ugualmente male perché… non sa nemmeno come si chiama.

Ora forse è una suggestione, ma l’angoscia di Zosimo per il nome della santa, il desiderio di sapere mescolato alla repulsione a domandare, è un tratto che la letteratura successiva assegnerà spesso al fruitore che si innamora della meretrice. Per fortuna che Zosimo
vide a capo di questo corpo una scritta, che dicea: «Abate Zozima, seppellisci questo corpicello di me misera Maria, e òra per me a Dio, per lo cui comandamento del mese d’aprile passai di questa vita». Per la quale iscrittura Zozima conoscendo lo suo nome, lo quale infino allora non avea saputo, fu molto allegro; e computando bene lo tempo della sua morte, conobbe che incontanente ch’egli l’anno precedente l’ebbe comunicata al fiume Giordano, corse questa santissima al predetto luogo, dove giaceva morta.
Addio (e grazie per il pallio)
Ora si tratta di seppellirla, ma Zosimo non ha niente con sé. Fortuna che in quel momento appare un leone. Zosimo dapprima si spaventa, poi riflette: Maria è stata in questo deserto per cinquant’anni senza vedere una sola bestia, dunque questo leone è chiaramente un miracolo, magari se gli chiedo di darmi una zampa a scavare la fossa, lui collabora. Ovviamente è così. Fine della leggenda.

Perlomeno, a Sofronio e Jacopo e Domenico interessava arrivare qui. Ma io sono un uomo di un altro millennio, ho una scala di valori diversa, io la gente che va a digiunare per cinquant’anni nel deserto non la capisco, semplicemente: non riesco a vedere cosa ci sia di positivo in qualcuno che si tira fuori dalla mischia dell’umanità. Oso dire che se Maria ha fatto qualcosa di buono nella vita, secondo la mia scala di valori, ebbene forse lo ha fatto prima, per esempio, riavvolgiamo un attimo la videocassetta, torniamo al punto in cui il nastro è un po’ più liso.

Dunque, siamo su questa nave. C’è un sacco di gente triste, gente brutta, povera, che al sesso proprio non ci pensa. Non si fa, non si può, non ce lo si può permettere. Guarda il mozzo, è terrorizzato, probabilmente in cambusa si accettano scommesse sul primo marinaio ubriaco che lo sodomizzerà. Quand’ecco arriva Maria, e all’improvviso sono tutti più rilassati e contenti. A sodomizzare il mozzo non ci pensa più nessuno, a meno che non sia lui che prende l’iniziativa, in tal caso ok. E il viaggio passa così, le acque sono tranquille, Dio chiude l’occhio e li aspetta tutti a Gerusalemme per perdonarli, ci fu mai una crociera più felice? Senz’altro non fu il viaggio di ritorno.

Me li immagino, tutti contenti di tornare a casa belli purificati dal peccato, compresa Maria… no, Maria non c’è. Dov’è? Non si trova. Ah, peccato. Però. Mandiamo qualcuno a cercarla? È già partito il mozzo. Volevo ben dire. Ma è appena tornato! Cosa dice? Che l’hanno vista sconvolta, fuori dal Sepolcro, diceva che voleva cambiar vita. Un vecchio gli ha venduto tre pani e gli ha mostrato la via per il Giordano. Il Giordano? Ahi! Perché, che roba è questo Giordano? È un fiume, un fiume della Bibbia. Dall’altra parte ci stanno gli eremiti del deserto, quelli che non mangiano e non bevono e non fanno all’amore. Ah. E quindi? E quindi niente, si vede che Maria ha deciso così, buon per lei, no? Ed è meglio anche per noi, niente niente che in mezzo al mare ci venisse l’uzzo di risporcarci l’anima, andava a finire che eravamo andati fino a Gerusalemme per niente. Giusto, con quel che costano i viaggi per mare. Quindi partiamo, no? Sì, partiamo.

“Certo che però Maria…”
“Cosa vuoi farci, la santità è così. Una voce che ti chiama e tu vai”.
“Sì, però… un po’ egoista, no? Lei sente la voce… e noi?”
“E noi cosa?”
“No, dico, noi”.
“Noi ce ne torniamo belli puliti a casa nostra, meglio così no?”
“Già”.
“Ma senti, hai visto il mozzo in giro?”
“È in cambusa”.
“Grazie”
“Ma devi metterti in fila, comincia dietro il cassero di prua”.
“Grazie ancora”.

sabato 30 marzo 2019

La beata che sfidava i nazisti (a crocefissi?)

"Tu sei il Male, io sono l'Anestesista"
30 marzo - Beata Restituta Kafka (Brno 1890 - Vienna 1943), martire antinazista

[2012] Uno potrebbe anche pensare che i tempi ruggenti dell'agiografia siano finiti per sempre - quei secoli, hai presente, in cui c'eri solo tu, in un monastero perso nel nulla, con un po' d'inchiostro e della vecchia cartapecora raschiata, e ti chiedevano: "Oggi è Sant'Albano d'Ungheria, dai raccontaci la storia di Sant'Albano d'Ungheria". "Ma io mica la so, manco so cosa sia, l'Ungheria". "E inventa". Al limite si poteva sempre scrivere: martire sotto Diocleziano (Diocleziano andava sempre bene, Diocleziano li aveva fatti fuori tutti, Diocleziano pasteggiava a carne di martiri e brindava a sangue di vergini, Diocleziano probabilmente in certi eremi andava forte anche come criptobestemmia: ma Dio cleziano! Quel porco! E il priore non poteva dirti nulla).

Ma oggi che ci sono biblioteche in ogni piazza, google in ogni tasca, oggi non puoi più inventarti niente, o no? Per esempio il 30 marzo si celebra tra le altre la memoria di una Beata novecentesca, Maria Restituta. Su di lei ci sarà ben poco da inventare, penserai. In effetti ci sono i documenti. Sappiamo che è nata Helen Kafka, nel 1890 a Brno, prima impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia, poi Protettorato di Boemia e Moravia sotto il Terzo Reich, poi di nuovo Cecoslovacchia, oggi Rep. Ceca. Che prese i voti nell'ordine delle francescane della Carità, diventando suor Maria Restituta (detta "Resoluta" per i modi spicci) e che si distinse per la dedizione e la professionalità con cui esercitò la professione di infermiera e anestesista. Sappiamo che è morta a Vienna nel 1943, decapitata dai nazisti per alto tradimento. L'ha beatificata Giovanni Paolo II nel 1998, che l'unica suora decollata dai nazisti non poteva proprio perdersela. E tutto questo è Storia, voglio dire, abbiamo pure le foto. Non ci puoi ricamare, su Helen Kafka: con tutte le monografie che si saranno su di lei, nelle biblioteche, su internet, insomma, se improvvisi ti sgamano. O no?

Ecco, no.

Una delle cose fantastiche che scopri studiando i santi è che il medioevo, quello fiabesco delle leggende dipinte sulle vetrate, è a portata di clic. Me ne stavo infatti leggendo la scheda di Famiglia Cristiana, quando mi capita di inciampare sulle ultime due righe. Leggi anche tu:
E in faccia agli assassini, prima che il carnefice alzi la mannaia, suor Restituta dice al cappellano: "Padre, mi faccia sulla fronte il segno della Croce".
Tutto abbastanza verosimile tranne... la mannaia? Va bene, lo abbiamo visto, dei nazisti si può raccontare tutto e nessuno si lamenterà - i nazisti sono un po' il nostro Diocleziano moderno. Ma ce le vedete le SS che tagliano la testa di una suora con la mannaia? Non suona un po' anacronistico? In effetti basta sfogliare un po' di Internet in altre lingue per rendersi conto che suo Maria fu decapitata, sì, ma mediante ghigliottina: il vecchio trabiccolo illuminista con cui i nazisti a Vienna avevano sostituito la tradizionale forca austriaca così tristemente nota ai nostri patrioti. E la mannaia? Un ricamo di Famiglia Cristiana. Uno solo? Vien voglia di dare un'occhiata più da vicino.

Visito quattro o cinque biografie in inglese, francese e tedesco (quelle in tedesco non le leggo, guardo solo le parole, al liceo a volte funzionava). Sono tutte molto brevi – in effetti cosa ti aspetti dalla vita di un’anestesista, ancorché provetta? Riprendo in mano la scheda di FamigliaC. Mi cade l’occhio su queste altre due righe:
E quando i nazisti tolgono il Crocifisso anche dagli ospedali, lei tranquillamente lo va a rimettere, a testa alta, sfidando comandi e comandanti.

Ecco, magari sarà una coincidenza, ma questa notizia del crocefisso (nemmeno inverosimile) l’ho trovata solo nelle biografie italiane. Da qualche parte ho letto che suor Restituta riuscì a ottenere che fosse esposto il crocefisso nell’ala nuova di un ospedale, appena costruita, dove le autorità naziste non lo avevano previsto. Tutto lì. Solo su Famiglia Cristiana l’esposizione del crocefisso diventa una sfida “a testa alta”, peraltro l’unica sfida esplicita tra la suora e i nazisti: sicché al lettore vien fatto di pensare che la suora sia caduta in disgrazia perché continuava a rimettere i crocefissi dove i nazisti li toglievano. E invece no, mi è parso di capire che l’accusa vertesse su due documenti critici nei confronti del Reich, scritti dalla suora stessa: la wikipedia francese li chiama “poemi satirici”, ma non sono riuscito a leggerli.

La controversa scultura si trova nella cattedra di Santo Stefano a Vienna. È opera del celebre scultore austriaco Alfred Hrdlicka, che in precedenza aveva prodotto (sempre per la cattedrale) un’ultima cena in forma di orgia gay (l’ho letta sul Telegraph).

Però, insomma, la suora scriveva. Criticava il nazismo in forma scritta. È una notizia che Famiglia Cristiana non dà. L’unica forma esplicita di critica al nazismo che interessa a Famiglia Cristiana è la lotta per rimettere al loro posto i crocefissi. Ripeto: è un’informazione che ho trovato solo lì e in un’altra breve scheda biografica in italiano, sempre pubblicata in Santiebeati.it, che sembra per molti versi debitrice di quella di Famiglia Cristiana. Guarda per esempio come il tema del crocefisso viene sottoposto a un’ulteriore rielaborazione, un’ulteriore ricamatura:

Il crocifisso nelle stanze e nelle corsie dell’ospedale diventa invece quasi una questione personale: Suor Restituta, risoluta come sempre, si prende l’incarico di personalmente andare a rimpiazzarli là dove sono stati tolti: sa di rischiare parecchio con quel suo gesto provocatorio, ma intanto più crocifissi vengono eliminati e più lei ne risistema.

Non era la musona che tutti credono
Un’infaticabile risistematrice di Crocefissi, questa è suor Maria Restituta per i moderni agiografi italiani. Niente scritti, niente pagine critiche o satiriche sul nazismo, si sa che il cattolicesimo è un po’ refrattario alla scrittura. Ma tante opere di bene, e tra tutte la più importante è continuare ad appendere il crocefisso ogni volta che la turpe SS lo stacca. E mentre scrivo ho già in mente la vetrata in tre vignette: nella prima l’orribile camicia bruna, pallida in volto, incerto su una scala a pioli, stacca il pregevole manufatto ligneo, mentre su tre letti bianchi tre malati di tre colori diversi lo guardano rassegnati. Nel secondo non c’è più la scala: il nazista è al centro della scena, paonazzo in volto, le mani ai capelli biondicci, perché ha visto che sul muro c’è di nuovo il crocefisso! Miracolo! I tre malati sono in piedi sul letto che esultano in pigiama. In un angolino del vetro, racchiusa in un medaglione, Maria Restituta sorride sorniona. Nel terzo riquadro, va da sé, Maria Restituta posa la testa sul ceppo, mentre il diabolico doktor Mengele alza la mannaia. Che serva da monito per tutti quelli che a Strasburgo o altrove vogliono staccare crocefissi dalle pareti pubbliche: tutti nazisti, se non si era capito. O non si era capito? E vabbe’, ma a voialtri vi dobbiamo proprio disegnare le figure.

lunedì 25 marzo 2019

Gonna be a mammy soon

25 marzo – Annunciazione

Forse bisognerebbe fare come in Toscana nel medioevo: contare gli anni a partire dal 25 marzo, l'annunciazione di Maria. Se oggi concepisci un bambino, dovrebbe nascere intorno a Natale. Come lo concepisci naturalmente è affare tuo.

I Thin Lizzy nel '73 erano un power trio che ce la stava mettendo tutta, ma se vieni dall'Irlanda forse è più difficile. Volevano fare hard rock, ma andavano in classifica con le ballate celtiche. Il frontman Phil Lynott aveva tratti somatici ben poco celtici (il padre veniva dalla Guyana), un approccio pre-punk al basso e un occhio attento a quello che gli succedeva intorno, per le piccole storie suburbane alla Kinks – ma la gente voleva sentir cantare di eroi e folletti e vite esagerate. Ai Thin Lizzy nel '73, tra qualche pezzo hard rock e qualche ballata capitò di incidere Little Girl in Bloom, che è più o meno come se a un imbrattatele sconosciuto di Dublino uscisse un'Annunciazione di Guido Reni. Sono cose che a volte capitano: certo, bisogna saperle cogliere al volo. Dire sì a un angelo è meno facile di quanto sembri.

Little Girl in Bloom è un brano senza tempo, il che non è necessariamente un complimento. A me piace che i brani abbiano un tempo riconoscibile, mi piace sorseggiarli e affermare con sicumera "questo è un '76", "questo è decisamente un '93". Little Girl in Bloom non è niente del genere, è un pomeriggio nuvoloso, è una ragazza alla finestra che guarda gli uomini giocare a cricket. Ha un segreto nel grembo, deve spiegarlo a suo padre, sarà complicato. Rilassati, dice Lynott. Aspetta di essere sola con lui. È difficile trovare le parole giuste in certi casi, specie se nel frattempo stai anche suonando il basso, ma per Lynott non è un grosso problema: non fa che suonare due note, per quasi tutta la canzone. Una cosa piuttosto barbara per gli standard del '73, ma sai che c'è? Non importa più.



Little girl in bloom
All the clouds will go drifting by
So sing your lullabying tune
Every word is in your eyes
As you sit and softly croon
Little girl in bloom
Your love it fills the air
With the scent of the sweetest, sweet perfume
You feel so good you just don't care
You're gonna be a mammy soon

Poi, quando l'angelo alla finestra ha detto tutto quel che poteva dire – e magari la partita di cricket è finita, il sole è tramontato, il papà sta salendo le scale – all'improvviso il chitarrista si risveglia ed è come se la canzone cominciasse solo a quel punto. Buon anno. Diventeremo tutti più grandi, da qui a Natale.

(Il disco non andò nemmeno in classifica. Qualche anno dopo i Thin Lizzy riuscirono a sfondare con The Boys Are Back in Town, e divennero il gruppo rock anni '70 che speravano di diventare. I '70 in realtà stavano già finendo, e lo stesso Lynott non sarebbe sopravvissuto di molto. Ma sai che c'è? Ha scritto Little Girl in Bloom).

venerdì 22 marzo 2019

I babyboomers che odiano Greta (hanno i loro motivi)

[Questo pezzo è uscito su TheVision mercoledì]. I più famosi hater italiani di Greta Thunberg – qualcuno l'avrà già notato – sono tre babyboomers. Rita Pavone, che la trova un personaggio da film horror, è del 1945. Maria Giovanna Maglie che la metterebbe “sotto con la macchina” del 1952, come Giuliano Ferrara (“detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”). Il che significa tra l’altro che nel fatidico 1968 Ferrara e la Maglie avevano la stessa età che oggi ha Greta. Sono personaggi sopravvissuti egregiamente agli anni Sessanta, hanno assistito e a volte partecipato a mobilitazioni ben più radicali di quella promossa dalla sedicenne svedese. Altri detrattori della Thunberg li riconosci dalla mentalità compottarda (“cosa c’è dietro questa ragazzina?”) o ipercorrettista (“Se usa un bicchiere di plastica non può dare lezioni”). I babyboomers non ragionano così. In un certo senso non ragionano nemmeno. Il loro fastidio per il nuovo personaggio è qualcosa di incontrollabile: a malapena riescono a verbalizzarlo, e sì che due su tre vivono di parole.

La morale della favola è assai nota: si nasce incendiari, si muore pompieri. L'Italia è un Paese molto anziano, il dibattito pubblico è un giardinetto ostaggio di pensionati che borbottano e inveiscono contro i giovinastri rumorosi. I giovinastri stavolta non sono nemmeno particolarmente rumorosi – non spaccano neanche più le vetrine – ma i pensionati se la prendono lo stesso. Non dico che questa spiegazione non sia soddisfacente, ma vorrei proporne ugualmente una meno banale. Ferrara, la Maglie, la Pavone, hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell'Occidente. Il 1968 fu un episodio importante, ma se allarghiamo un po' lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento della storia di una generazione; cui seguì la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato, l'edonismo degli anni Ottanta, eccetera. Se volessimo assegnare a una generazione un'ideologia... saremmo dei maledetti semplificatori; ma se davvero volessimo farlo, diremmo che la priorità dei babyboomers è stata la liberazione dell'individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata; negli anni Ottanta si esprimeva nel consumismo senza più freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui una ragazza svedese ci ricorda che non c'è futuro per chi non riesce a riciclare carta e plastica. Sono cose che fanno incazzare i babyboomers, non perché siano anziani – ok, ormai sono anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma è finito. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo, sì, potrebbe avere i giorni contati. Non è colpa di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando, eccetera eccetera. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. È inquietante perché da un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.

Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature”, non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui devono prepararsi a rinunciare. (continua su TheVision).



Oltre a dare un ultimatum ai governi che non sono in grado di recepirli, o a diffondere buone pratiche ambientaliste che da sole non risolveranno mai il problema, le manifestazioni della prossima generazione servono anche ad abituare gli stessi manifestanti ad accettare l’idea. Certo, molti continueranno a rifiutarla, come dimostra il fatto che la lotta ambientalista non è nata ieri eppure in questi decenni i progressi sono stati pochi e lenti. Eppure la lotta di Greta è lungi dall’essere inutile. Non sarà la soluzione, ma il ruolo di un’adolescente svedese per la sua stessa generazione è fondamentale.

Qualsiasi previsione più o meno scientifica sull’aumento della temperatura degli oceani e dell’atmosfera nei prossimi anni non ha ancora tenuto conto del dato più imponderabile: a un certo punto cominceranno a scaldarsi anche gli esseri umani, forse in modo incontrollabile. I tafferugli dei giléts jaunes francesi non sono che una timida avvisaglia di quello succederà in Occidente quando la crisi ambientale busserà davvero alla porta e i governi cominceranno a varare politiche di repressione dei consumi. Il che difficilmente succederà grazie a qualche manifestazione giovanile al venerdì fin quando ben più della metà della popolazione occidentale rifiuta ancora l’evidenza, e vota per chi fa del rifiuto un manifesto politico. Ma prima o poi succederà. E così come il terrorismo islamico non era sentito come un problema fino all’undici settembre, per avere il riscaldamento globale al primo punto dell’ordine del giorno bisognerà aspettare un disastro più eclatante del solito che metta davvero in discussione la vita e la sicurezza dell’Occidente (perché in fondo uragani e alluvioni ci sono già: e l’inquinamento fa già centinaia di migliaia di morti).

Ma quando i primi disastri costringeranno i governi occidentali a varare misure di emergenza, i cittadini accetteranno la progressiva soppressione delle libertà individuali? Giuliano Ferrara sicuramente no, basti ricordare il casino che fece quando un ministro gli vietò di fumare nei locali pubblici. Pazienza per Ferrara e per Maglie, ma quanti sono come loro? Non siamo un po’ tutti come loro? Quanto siamo disposti a modificare la nostra dieta, le nostre abitudini, il nostro stile di vita, i nostri desideri? Il giorno che una coetanea di Greta ci dirà che non possiamo più mangiare carne o prendere un aeroplano, forse capiremo cosa intendeva confusamente Maglie quando confessava di volerle passare sopra con la sua macchina.

giovedì 21 marzo 2019

Chi è la Samaritana?

20 marzo – Santa Fotina (I secolo), samaritana del Vangelo di Giovanni

Samaritani celebrano la fine della festività Pasquale sulla cima del Monte Garizim. Nablus, Israele (Jaafar ASHTIYEH / AFP / GettyImages)

C’è questo ministro leghista che va a una conferenza sulla famiglia e dice che “ama il prossimo tuo come te stesso” vuol dire “ama quello in tua prossimità”, insomma per questo ministro Gesù col comandamento dell’amore voleva invitarci a voler bene ai vicini di casa. Ora. I vangeli sono senz’altro testi suscettibili di molteplici e divergenti interpretazioni: non avrebbero avuto tanto successo se non fossero, come tanti altri testi sacri e no, abbastanza spugnosi da imbeversi di tutti i significati che vogliamo trovarci. Però, accidenti, come si fa a ricordare il comandamento dell’amore senza pensare che nel Vangelo di Luca (10,25-37) il “prossimo” viene immediatamente identificato con il buon samaritano?


Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui…

Amami come un viandante eretico ama il primo tizio nudo e sanguinante che incontra per strada.

Ogni volta che i giornali pubblicano la storia eroica di un immigrato che salva sulla spiaggia un bambino che sta annegando, o sventa una rapina, o soccorre un vecchietto con un malore, e noi progressisti ci commuoviamo… perché ci commuoviamo? Perché troviamo il soccorso dello straniero più commovente dell’autoctono? Forse perché una certo settore del nostro immaginario morale è stato plasmato da una paginetta vergata 2000 anni fa dell’evangelista Luca. Oppure Luca è stato uno dei primi a capire come funziona quel certo settore del nostro immaginario. Fatto sta che il buon samaritano ci conforta: ci fa sentire che una certa legge morale è universale, e che ovunque ci trovassimo nei guai, qualcuno completamente diverso da noi per lingua, cultura e religione, si sentirebbe comunque tenuto a soccorrerci (oltre a farci un po’ vergognare per aver anche soltanto per un istante diffidato di lui: è il retrogusto amarognolo che fa meglio digerire ogni precetto morale).


Un ragazzo samaritano durante una processione all’alba per la Pasqua ebraica, sulla cima del monte Garizìm, Nablus, Cisgiordania, 27 aprile 2016

Dei quattro evangelisti, Luca è il più vicino alla nostra moderna sensibilità progressista: quello che più offre la ribalta a donne, poveri e altri emarginati. È il vangelo di Maria di Nazareth, quello della natività coi pastori (Matteo ci mette i re Magi, tutt’un’altra idea di presepe): il vangelo che corregge la parabola dei talenti dividendo il budget in parti uguali tra i servi. Luca collaborava con Saul/Paolo, e ne condivideva evidentemente le idee ecumeniche, il progetto di evangelizzare anche i non circoncisi. Bisogna ammettere però che persino lui, per definire il concetto di “prossimo” non andò a pescare un personaggio così straniero per lingua, cultura e religione. Avrebbe potuto farlo, senza forzare più di tanto la verosimiglianza. La Palestina del primo secolo era già un crogiuolo, dove Gesù incontra senza andarseli a cercare centurioni romani, donne siro-fenicie e re idumei. Ma il prossimo della parabola è un samaritano, e i samaritani sono ebrei, a modo loro. Non riconoscono il tempio di Gerusalemme, ma offrono sacrifici sul monte Garizim. Sono ebrei scismatici? Dal loro punto di vista, ovviamente, gli scismatici sono tutti gli altri. L’ipotesi tradizionale è che discendano dagli abitanti del regno di Israele che non furono deportati dagli Assiri nel 722 aC, mescolati con altre popolazioni pagane che gli Assiri avevano deportato lì. Anche ai tempi però le sostituzioni etniche funzionavano fino a un certo punto: dai documenti assiri sappiamo che gli emigrati coatti furono poco più di ventimila. Gran parte della popolazione era rimasta lì, conservando leggi e tradizioni di matrice mosaica, anche se sensibilmente diverse da quelle rielaborate dai giudei che vivevano un po’ più a sud, deportati a Babilonia intorno al 600. Eppure quando settant’anni dopo i discendenti di questi ultimi ritornano nella Terra Promessa, lo scontro di culture in principio non sembra inevitabile. La Torah samaritana non differisce moltissimo da quella ebraica (anche se è scritta in un alfabeto più simile al fenicio), il che oggi fa pensare agli storici che in un primo momento la situazione tra le due comunità e le due narrative fosse più fluida. A un certo punto però avviene un irrigidimento, ed è forse l’evento raccontato nel Libro di Esdra: i matrimoni misti vengono annullati, le mura di Gerusalemme ricostruite imponendo una gerarchia precisa tra capitale e contado, che gli autoctoni samaritani rifiutano.


Van Gogh

Cinque secoli più tardi, samaritani ed ebrei sono sudditi della stessa provincia romana, ma danno ancora l’impressione di non parlarsi volentieri. Il samaritano di Luca, più che uno straniero in terra straniera, è davvero il vicino di casa che suscita diffidenza: perché lo conosciamo poco o perché temiamo che ci conosca fin troppo bene? In un altro versetto di Luca, però (17,18), è Gesù stesso a chiamare “straniero” un samaritano, l’unico di dieci lebbrosi da lui miracolosamente guariti che si fermi a ringraziarlo:
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
La fede salva anche gli stranieri. Quando mette in bocca a Gesù questa battuta, Luca forse ha in mente l’episodio dei vangeli di Marco (7,24-30) e Matteo (15,21-28) in cui Gesù risponde all’insistenza della Cananea che gli supplica di guarirne la figlia: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. La Cananea è una straniera, molto più di quanto non lo sia un samaritano. Marco, l’evangelista più stringato e meno a suo agio coi riferimenti geografici, la definisce “greca di origine siro-fenicia”, ovvero un’abitante della regione di Tiro e Sidone (oggi Libano). In un primo momento Gesù nemmeno le risponde: per ottenere una reazione, la donna deve tallonarlo per un buon pezzo, esasperando gli apostoli che alla fine intercedono: “Mandala via, perché ci grida dietro”. Gesù allora obietta di non avere giurisdizione su di lei: “non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele”. Aggiunge poi una metafora dal sapore quasi razzista, che non stona del tutto in bocca al Gesù del vangelo di Marco, regale e un po’ sprezzante, ma che Luca non avrebbe mai messo in bocca al suo: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”.
Nablus, Palestina
Un samaritano sotto una sukkah (un tipo di capanna che ricorda il transito degli ebrei nel deserto del Sinai durante l’esodo) fatta di frutta, vicino alla città di Nablus

Lo stesso Marco però registra la risposta straordinaria della straniera, che riesce addirittura a modificare l’atteggiamento di Gesù. “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. In entrambi i vangeli l’episodio arriva dopo un duro confronto coi farisei sul tema delle impurità rituali. Ma è soprattutto in Matteo che esso suona come la riproposizione di un leitmotiv: Gesù era venuto per il suo popolo, il suo popolo non l’ha riconosciuto, non resta che rivolgersi agli stranieri. È il senso della Parabola del banchetto di nozze (22,1-14): visto che gli invitati rifiutano di venire, anzi uccidono i servi che portano le partecipazioni, il padrone ne manda altri ai crocicchi di strada, affinché invitino chiunque passa, “buono o cattivo”. (Luca, con quel gusto un po’ radical chic per gli emarginati, si diverte ad aggiungere “poveri, storpi, ciechi e zoppi”).
Gli stranieri dei vangeli di Matteo e di Luca rispecchiano un dibattito che deve avere animato i cristiani della prima generazione. Matteo non condivide l’entusiasmo ecumenico di Luca. Il suo Gesù, almeno in un primo momento, aveva chiesto ai suoi discepoli di “non andare fra i pagani e non entrare nelle città dei Samaritani”, ma di “rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5-6). Più che l’apertura agli outsider, cagnolini avidi di briciole, imbucati a una festa, lo anima la vergogna per i correligionari che non hanno riconosciuto il Messia.
Il vangelo di Giovanni arriva un po’ più tardi (verso il 100) e rispecchia una situazione già molto cambiata. Il rapporto con gli altri tre testi è abbastanza complesso: Giovanni sembra volerli quasi ignorare, e allo stesso tempo se ne nutre. Matteo e Luca avevano attinto a Marco come a una fonte (o viceversa): Giovanni, negli altri vangeli, cerca qualcosa di meno definito, una specie di sfondo, di background. Ad esempio riutilizza i nomi: Marta di Betania in Luca serviva a un rapido scambio di battute: in Giovanni diventa un vero e proprio personaggio. Suo fratello, Lazzaro, in Luca era un poveraccio protagonista di una parabola: in Giovanni diventa amico fraterno di Gesù. Qualcosa di simile accade anche alla figura del Samaritano: quello che in Luca era l’evanescente protagonista di una parabola, Giovanni lo trasforma in un personaggio a tutto tondo, che dialoga con Gesù. Non solo, ma Giovanni lo contamina con la Cananea di Matteo, così che le due figure evangeliche dello straniero diventano una sola: la Samaritana.


“Oh io comunque sono single”. “Ma veramente non risulta”.

Gesù la incontra presso il pozzo di Giacobbe a “Sicar” (oggi Nablus), e già da questo dettaglio si comprende che l’episodio è completamente simbolico: il pozzo deve alludere alla vecchia alleanza, che Gesù è venuto a soppiantare; il dialogo con la Samaritana si sviluppa intorno all’equivoco tra la banale acqua del pozzo e Gesù, vera acqua di vita eterna.
«Chiunque beve di quest’acqua avrà sete di nuovo; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna». La donna gli disse: «Signore, dammi di quest’acqua, affinché io non abbia più sete e non venga più fin qui ad attingere».
La reazione della Samaritana somiglia a quella del Pietro giovanneo, che non capisce perché Gesù gli vuole lavare i piedi, ma quando il Maestro gli risponde che sono funzionali alla vita eterna, chiede che gli si lavino anche viso e mani. La Samaritana, come Pietro, non capisce di cosa si stia parlando: non può capire, la salvezza le è preclusa, finché Gesù non ricorre alla sua arma segreta: il Segno. I miracoli del vangelo di Giovanni si chiamano così, “segni”, e non funzionano come quelli degli altri vangeli. In Matteo, Marco e Luca sono una specie di accessorio della divinità a cui Gesù è quasi costretto a ricorrere, spesso di malavoglia, inseguito da folle adoranti ma anche esigenti. In Giovanni i “segni” sono il principale strumento con cui Gesù manifesta la propria divinità: li usa deliberatamente, talvolta in modo teatrale. Per esempio quando alla Samaritana dice di andare a prendere suo marito, e lei obietta maliziosa “non ho marito”, Gesù risponde:
Hai detto bene: “Non ho marito”; perché hai avuto cinque mariti; e quello che hai ora, non è tuo marito; in questo hai detto la verità».
Non è un miracolo così strabiliante, per i suoi standard: ma alla Samaritana tanto basta per riconoscere in Gesù “un profeta”. Molti commentatori traggono dal versetto la conclusione che la Samaritana, oltre a essere straniera, sia anche peccatrice: ma su sei uomini, almeno cinque la Samaritana li avrebbe pure sposati legalmente, magari in ottemperanza alla legge mosaica che costringeva la vedova senza eredi a risposare il cognato più giovane. Nel dettaglio immaginoso dei “cinque mariti” Giovanni infatti rielabora un altro spunto trovato in Luca: l’antiparabola della donna dai sette mariti (20,27-38). Nel vangelo di Luca la storiella era narrata dai Sadducei a Gesù nel deliberato tentativo di mettere in crisi il concetto di resurrezione: se una donna ha (legalmente) sposato sette mariti, di quale marito dovrebbe essere moglie nel Regno dei Cieli? (Nell’occasione la risposta di Gesù non è delle sue più convincenti, bisogna dire). Anche in questo caso, quello che in Luca era il protagonista di un breve racconto-nel-racconto, in Giovanni ottiene la dignità di personaggio reale, che interagisce con Gesù: e questo a prezzo della verosimiglianza, perché anche ai tempi una vedova di cinque o sette mariti doveva essere un caso eccezionale. È come se Giovanni leggendo Luca non voglia o non riesca a percepire la differenza tra i personaggi storici (Gesù, i Sadducei) e quelli fittizi delle parabole e degli apologhi (il povero Lazzaro, la sposa di sette fratelli), e questo è un argomento abbastanza pesante a favore di una datazione più tarda. I primi tre vangeli sono rielaborazioni sommarie di persone che magari non avevano assistito ai fatti, ma avevano conosciuto personalmente i testimoni: il quarto somiglia più a una rielaborazione fantastica. Una volta convintasi che Gesù è il Messia (è stato sufficiente che quest’ultimo le indovinasse lo stato civile), la Samaritana arriva in paese e si mette a fare apostolato, convertendo in breve diversi correligionari. Gesù si ferma per due giorni e poi riparte. Siccome è diretto in Galilea, ma il suo destino lo attende in Giudea, dalla Samaria (che è in mezzo) dovrebbe essere ripassato almeno una volta: ma Giovanni non ne parla più. Tradizioni molto più tarde le assegnano un nome greco, Fotina, e un martirio romano, probabilmente ottenuto quando qualcuno la confuse con una cristiana omonima martirizzata nell’Urbe il 20 marzo di un anno imprecisato, insieme con “Giuseppe e Vittore suoi figli, e così pure Sebastiano capitano, Anatolio, Fozio, Fotide, Parasceva e Ciriaca”.
I samaritani invece esistono ancora: vivono in due comunità, una proprio a Nablus nei pressi del loro monte sacro, un’altra a Holon, ormai periferia di Tel Aviv. Secondo i censimenti israeliani sono poco più di 700 persone, discendenti di un popolo talmente sventurato che persino gli ebrei, almeno ai tempi di Gesù, li guardavano con sufficienza. Tra rivolte e persecuzioni avrebbero avuto almeno 2000 anni di tempo per disperdersi o essere assorbiti da qualche altra religione o popolazione più grande. In un qualche modo, non è ancora successo.

venerdì 15 marzo 2019

Con questa lancia vincerai, o no?

15 marzo – San Longino trafiggitore di Gesù e martire (I sec.)

Rubens (a volte un po' caotico, devo dire)
[2012]. Stasera parliamo un po’ di Hitler. Prima o poi sarebbe successo, nessuna conversazione su Internet può farne a meno a lungo. È un principio noto come legge di Godwin, dal primo internauta che la formulò: essa afferma più o meno che, col proseguire di una conversazione, la possibilità di mettersi a parlare di Hitler o dei nazisti si allontana da 0 e si avvicina a 1. In realtà questo si potrebbe dire per qualunque cosa, non so, le zucchine: se conversiamo all’infinito, prima o poi ne parleremo. La differenza tra Hitler e le zucchine è che queste ultime non mandano necessariamente in vacca la discussione. Hitler sì, quasi sempre. Uno dei corollari della legge di Godwin era: quando su un forum cominciano a paragonare qualcuno a Hitler, scappate! Tutto quello che di intelligente e originale si poteva dire è già stato detto. (Non potete dire che non vi si è avvertiti).

Una delle difficoltà con Hitler è che non importa quanto il nostro sistema di valori possa essere complesso, stratificato, relativista: siamo comunque tenuti a considerare H. il Male Assoluto (un’espressione che, non esistesse lui, nessuno probabilmente riuscirebbe a pronunciare con serietà da un pezzo; e invece riuscì a farlo perfino Gianfranco Fini). Se non lo facciamo, se ci permettiamo dei distinguo anche piccolini, veniamo subito relegati nell’angolo dei disadattati, tra i nostalgici, i mistici e gli sciachimisti. È una specie di deità al contrario, siamo tutti tenuti non a inchinarci ma a calpestarlo un po’. È un anti-tabù: non solo se ne può parlare, ma prima o poi siamo come costretti a farlo, a sproposito, con qualsiasi sciocchezza ci venga in mente, perché – questo è un ulteriore problema – su Hitler si può dire e scrivere veramente qualsiasi cosa: nessun erede protesterà. E quindi le abbiamo sentite tutte: Hitler pagano, Hitler indù, Hitler iniziato a questo o quel mistero, Hitler ovviamente satanico, Hitler ebreo (non proprio fiero di esserlo), Hitler che crede nella terra cava (ma Von Braun evidentemente no, se riesce a calcolare le traiettorie per far cadere i razzi V2 a Londra), Hitler che vuole prosciugare il mediterraneo per coltivarci il grano (progetto delirante che qualcuno in Germania effettivamente concepì, ma H. rimase scettico), Hitler ufologo, Hitler antartico, Hitler qualunque cosa, purché strana, esotica, fuori dal normale. Perché c’è una sola cosa che potrebbe essere peggio di Hitler.

Tra i tanti misteri: ma come faceva a torcere il polso così?
Io non ci riesco.

Un Hitler banale. Un Hitler prosaico, un Hitler che frequenta maghi e guaritori perché è semplicemente superstizioso come tanti dittatori, un Hitler che accoglie certe sparate paganeggianti di Himmler con scetticismo; un Hitler senza fantasia, che perseguita teosofi e rosacroce; o peggio ancora, un Hitler cristiano, con tutto l’imbarazzo che ce ne deriva. E allora si fa finta di non sapere che sì, il tizio adorava Wagner come tanti tedeschi e austriaci della sua generazione, ma che si trattava di ammirazione artistica, non teologale; tutt’altro che entusiasta all’idea di ripristinare un Walhalla tramontato da un pezzo. “Mi sembra che niente potrebbe essere tanto stupido quanto ristabilire il culto di Wotan. La nostra mitologia antica ha smesso di essere realmente praticabile fin da quando il Cristianesimo si è impiantato. Niente muore, a meno che non sia già moribondo“. Si dà credito alle figure di contorno che si ingegnavano a vedere in Hitler un nuovo Buddha, un nuovo Sigfrido, fingendo di non vedere che le uniche reliquie che gli interessavano davvero (il Sacro Graal, i gioielli della corona del Sacro Romano Impero, la Santa Lancia) erano tutte dannatamente cristiane. Certo, di un cristianesimo medievale, da ciclo bretone, più Artù che Gesù.

Ok, magari non esisto,
ma ho una statua di Bernini grossa così
nel mezzo di San Pietro,
e salutatemi San Maurizio.
Ma è pur sempre oggettistica cristiana: prendi la Lancia, la reliquia più sacra su cui riuscì a effettivamente a mettere le mani. È l’arma che avrebbe trafitto il costato di Cristo facendone sortire sangue e acqua (Gv 19,34). Il soldato che trafigge Gesù era venuto in realtà a spezzargli le gambe, con quei modi carini che avevano i legionari per accorciare le sofferenze a condannati che, abbiamo visto, avrebbero potuto agonizzare per giorni e giorni. Il soldato però a Gesù le gambe non le spezza, e questo poteva insospettire il lettore: per Giovanni, testimone oculare, era cruciale provare che Gesù fosse stato schiodato dalla croce e riposto nel sepolcro da morto. La lancia nel costato chiude la discussione.

Nei secoli successivi l’arma e il suo portatore, battezzato “Longino” (il nome, se deriva dalla lancia stessa, è evidentemente più tardo) assumeranno un potere taumaturgico: nel fertile periodo in cui tutte le comparse dei Vangeli divennero protagonisti di immaginosi spin-off, Longino si ritrovò convertito al cristianesimo, taumaturgo e martire in Cappadocia (non prima di aver raccolto una fiala del Sangue di Gesù, che però sta a Mantova). Addirittura qualcuno lo vuole cieco, un centurione cieco a cui danno l’ordine di spezzare le gambe a tre crocefissi, che ritrova la vista grazie a una salutare spruzzata del sangue di Gesù, certo, perché no.

Comunque il ragionamento di fondo era questo: se dalla ferita di Gesù non era uscito pus, la Sacra Lancia aveva il potere di scongiurare infezioni e cancrene. Forse. Chi siamo poi noi per giudicare, qualcuno ha avuto una cancrena qui? Secondo me quando rischi una cancrena le provi tutte. Compresa la lancia che trafisse Gesù – ce n’erano quattro in circolazione: una ad Antiochia, la vera prima capitale del cristianesimo: oggi si trova a Echmiadzin, in Armenia. Un’altra a Roma – dono al Papa di un sultano, pensate, che l’aveva trovata nel bottino dell’assedio di Costantinopoli e non sapeva cosa farsene. Un’altra a Parigi, souvenir delle crociate di San Luigi IX re, un frescone da antologia che si sarebbe comprato anche la fontana di Trevi, se l’avessero già scolpita: di questa si sono perse le tracce durante la Rivoluzione Francese. Il doppione parigino non creava ai romani nessun imbarazzo, si sa come va con le reliquie: le Sacre Lance e le Vere Croci si smontano, si spezzettano, si grattugiano, da una sola lancia se ne possono creare due o persino tre. La terza lancia era in Germania. E all’inizio non era nemmeno la lancia di Longino; all’inizio era stata ceduta come lancia di San Maurizio, un altro soldato convertito al cristianesimo (un generale, in verità) che rifiutandosi di condurre operazioni di rappresaglia su villaggi cristiani era stato dal solito Diocleziano condannato a morte con tutta la sua legione, tutta convertita al cristianesimo: seimila martiri. La storia era poco credibile già nell’Alto Medioevo, ma Sankt Moritz divenne il pallino dei cavalieri tedeschi, finché Enrico I l’Uccellatore non regalò un intero cantone svizzero a un’abbazia in cambio della lancia, che prima sarebbe passata per le mani di Carlo Magno e Costantino. A noi Enrico I dice poco, ma è il fondatore della dinastia sassone che avrebbe di lì a poco rifondato di nuovo l’Impero Romano, però anche Sacro (come quello di Carlomagno) però anche Germanico: il primo Reich. Himmler si considerava una sua reincarnazione, forse.


Se la trova lui, è la lancia giusta.
Col tempo il culto di Maurizio deve appannarsi un po’, tanto che si rende necessario accessoriare la reliquia con un gadget di quelli che fanno veramente la differenza: un Sacro Chiodo della Vera Croce. Da lì in poi, intorno alla lancia comincia a crearsi un alone di invincibilità: è la Lancia del Destino, è l’arma che rende invulnerabili, eccetera eccetera. I re cristiani ne vogliono tutti almeno una copia con almeno un po’ di limatura del sacro chiodo, ma Ottone III accontenta solo quelli di Polonia e Ungheria, gli altri nisba. Ormai si è capito che le reliquie funzionano come le scope di Topolino Apprendista Stregone: ti basta coltivare una scheggia della Vera Croce e dopo un po’ hai una foresta di Vere Croci rigogliose di Veri Chiodi, e la gente ci credeva? La gente rischiava le cancrene, io se rischiassi in una cancrena toccherei qualsiasi cosa.

A un certo punto, non oltre il XIV secolo, qualcuno comincia a confonderla con la Lancia di Longino, e l’equivoco fa evidentemente comodo a tutto un indotto turistico e socio-assistenziale, nonché al prestigio dei Sacri Romani Imperatori, che tra una rissa feudale e l’altra ne avevano un disperato bisogno. Seguono riforme e controriforme, defenestrazioni e guerre dei Trent’anni: la lancia segue le alterne vicende dell’impero sempre meno sacro e sempre più asburgico, finché non si ritrova in un Museo di Vienna, dove il giovane Adolf la vede in una teca e ne trae una fortissima emozione: sono questi i dettagli che ti fanno capire che se invece di diventare adulto in una trincea durante la più orribile e insensata carneficina, il tizio fosse venuto al mondo due o tre decenni dopo, oggi i suoi massacri li farebbe su World of Warcrafts, il Mein Kampf avrebbe un altro titolo e si scaricherebbe gratis da un forum di fanfiction fantasy. Invece lo ritroviamo spiantato a Monaco di Baviera nel dopoguerra più difficile, con gli spartachisti che prendono il potere e lo perdono; chiede di riprendere servizio nell’esercito (proprio lui che anni prima aveva lasciato l’Austria per evitare la leva); gli propongono di infiltrarsi in un partitino equivoco, gente mattoide un po’ nazionalista un po’ socialista, tra i quali si mimetizza benissimo. Dopotutto potevano capitargli missioni peggiori, il partitino si riunisce perlopiù in birreria. Certo, bisogna essere pazienti, ascoltare lunghi e vani discorsi sulla superiorità del popolo tedesco, la riscossa dell’anima tedesca eccetera. Presto o tardi si ritrova a parlare pure lui.

Qui succede qualcosa di cruciale: Hitler scopre di essere un bravo oratore. Quando parla la gente tace e lo fissa, la gente in quello che lui dice ci crede, un buon motivo per crederci sul serio anche lui. Da lì a convincersi di avere una sacra missione il passo è breve, perché Hitler in fin dei conti non era né pagano né indù né iniziato né buddista e nemmeno così tanto cristiano: Hitler era per prima cosa hitleriano, tanto quanto Mussolini era mussoliniano, Stalin stalinista eccetera. Quando cominci a pensare di essere stato chiamato a un sacro compito che riscatti la mediocrità della tua giovinezza stracciona, quando ti alzi convinto che la Storia ruoti attorno a te, perno vivente, è chiaro che sei portato a idealizzare tutto quello che ti è successo in gioventù: così quando dopo mille peripezie H. arriva al potere e annette l’Austria, la Lancia che lo aveva affascinato in gioventù viene immediatamente requisita e trasferita a Norimberga, centro mistico del Reich. Ottenuta l’invulnerabilità, Hitler può dedicarsi all’obiettivo primario: la conquista del mondo. Se proponessi una trama del genere a un editore di fumetti mi riderebbe in faccia.

Comunque la lancia di Vienna è questa.
L’oro è stato aggiunto per saldare una frattura.
E invece è la trama del mondo in cui viviamo (Dio è un fumettista scarso?) Quando le cose cominciano a mettersi male per il Reich, la Sacra Lancia viene spostata in un rifugio segreto, e gli Alleati cominciano a cercarla. Ho letto in vari siti che Churchill in persona parlasse del ritrovamento della Lancia come di una “importante necessità strategica”, ma è un dettaglio poco credibile. La Lancia è semplicemente parte di quel bottino che i nazisti stanno nascondendo dappertutto, e su cui inglesi russi e americani sono ansiosi di mettere le mani. A ritrovarla in un sotterraneo di Norimberga, con tutte le insegne imperiali, è Walter Hill: un medievalista che aveva lasciato la Germania nazista e ci era tornato come tenente dell’esercito USA, inquadrato in quella squadra di cercatori di tesori a cui George Clooney ha dedicato un brutto film. Nel gennaio del 1946 la Lancia torna a Vienna, ed è ancora là. Naturalmente c’è chi dice che no, non è vero, gli americani se la sono tenuta ed è il motivo per cui adesso sono invulnerabili. Oppure al sicuro in una fortezza antartica, dove Hitler riposa cullato dai cloni di Eva Braun in attesa di tornare più bello e più forte. Se proprio viviamo in un fumetto scadente, perché non decorarlo con fortezze tra i ghiacci e bei principi addormentati.

Dico la mia. Hitler era uno psicopatico soggetto a deliri di onnipotenza? Probabilmente. Questo non vuol dire che credesse davvero a qualsiasi puttanata. Cercava il Sacro Graal? Cercava la Sacra Lancia? Può darsi che ci credesse davvero, tutti i tiranni hanno le loro scaramanzie e le loro fissazioni, e i paranoici non fanno senz’altro eccezione, anzi. Ma può anche darsi di no, può anche darsi che quegli oggetti li collezionasse per altri scopi. Il più banale: propaganda. Il Reich aveva bisogno di simboli, e Hitler si stava adoperando a cercarli. Più nel medioevo cristiano che nel Tibet buddista, senza dubbio. Magari riteneva davvero che la lancia potesse portargli fortuna. Ma l’essenziale è che ci credessero i tedeschi. Da loro sì, ci si aspettava una fede cieca e sorda a obiezioni, come ad esempio: ma cosa vuol dire invulnerabile? Ma vi ricordate un solo imperatore tedesco invulnerabile, uno che sia riuscito a farsi rispettare veramente da conti e duchi e baroni tedeschi e comuni italiani e protestanti luterani e tutto il resto? E i mongoli che premono, i turchi che incalzano? Gli svizzeri che si vendono al miglior offerente? I praghesi che defenestrano? I francesi che s’incazzano? Ma perfino gli svedesi, cioè l’impero germanico è quel posto dove nel Seicento pure gli svedesi venivano a fare i grandi condottieri. L’unico vero momento di autentica gloria militare dell’esercito tedesco comincia col regno di Prussia e prosegue col secondo Reich… salvo che i prussiani la Lancia non l’hanno mai avuta e nemmeno ci tenevano, a quelle romanticherie cattomedievali. Erano gente razionale, s’intrattenevano con Voltaire e con Kant. A quel tempo la Lancia l’avevano gli austriaci, esatto, l’impero che perse i pezzi per tutto l’Ottocento. E io forse sono un po’ italiano e votato alla misurazione del bicchiere mezzo vuoto, ma a me la storia della lancia suggerisce l’esatto contrario, ovvero: non è che il ferro che osò trafiggere il Sacro Costato… non porti un po’ sfiga? Gli austriaci sono l’unico impero che ha perso guerre perfino con gli italiani. Non è che le truppe di Hitler avrebbero marciato più spedite senza? In tal caso ci toccherebbe paradossalmente ringraziare la Lancia del Destino, che forse non è mai stata in mano né a Longino né a Maurizio, e probabilmente non ha mai reso invulnerabile nessuno; e meno male.

giovedì 14 marzo 2019

Il ragazzo a cui passai il Giornale

Su Facebook ogni dibattito viene a noia dopo poche ore, e questo mi libera; mi solleva dal peso di dover scrivere cosa penso, che ne so, di Montanelli. Due giorni fa forse, ma ormai non interesserebbe più ad alcuno; e comunque anche quell'alcuno avrebbe letto in questi giorni tre o quattro opinioni abbastanza simili. Che potrei aggiungere di interessante? Cosa è stato Montanelli per me... Una parte del paesaggio? Il nonno ex fascista che molti di noi non hanno realmente avuto, ma ci spettava comunque per contratto? Perché bene o male quello è stato. Mi viene in mente un mio amico, si fa per dire, non lo vedo da anni. Ecco, potrei raccontare questa cosa, e spero che nessuno ci si riconosca.


Risale all'anno in cui compravo almeno un giornale al giorno – ma a mia discolpa, era un anno in cui capitavano tantissime cose, il 1989? Più facilmente il 1990. E per quanto fossi un fanboy di Repubblica (merito meno di Scalfari che di Beniamino Placido) cercavo di comprarli un po' tutti. Anche quelli che non mi piacevano – del resto, lo imparai così che non mi piacevano (ricordo ancora il mio choc culturale davanti a un normalissimo fondo del Corriere: ma qui parlano bene di Craxi! E basta! Cioè non c'è nessuna notizia, stanno soltanto parlando bene di Bettino Craxi? Ma si può fare, voglio dire, è legale questa cosa?)

Compravo la Stampa, compravo l'Unità; un giorno, è naturale, mi ritrovai in mano il Giornale. Proprio quel giorno invece di farmi un giro in Cittadella, alla fine delle lezioni; invece di andare a sfogliare per l'ennesima volta i 33giri in offerta al Discoclub, me ne rimasi lì sulla panchina di granito del binario 5. Il destino, che è uno stronzo, volle che proprio quel giorno mi trovasse col Giornale in mano un mio amico del paese, in una fase della vita in cui lui era un ragazzino timido, e io un po' meno, e mi chiese: che giornale leggi? Mah niente dissi, sai, ogni giorno cerco di comprarne uno diverso...

"Questo proprio non l'ho mai visto".

"Ma sì, è un giornale di Milano, uno spinoff del Corriere". Questo di sicuro non lo dissi, non sapevo cosa volesse dire spinoff. Conoscevo a grandi linee le circostanze della scissione, e soprattutto conoscevo Montanelli sin da bambino, perché il Giornalino pubblicava a puntate la Storia dei Romani e dei Greci e di certe nozioni non credo di essermi mai liberato. Una parte del paesaggio, appunto. Ma se era il 1990 facevo il terzo anno, forse il quarto? Ormai lo avevo capito che reazionario fosse Montanelli, ci litigavo già volentieri. Ci avrei messo comunque anni a capire che uno a volte le cose le legge proprio per incazzarsi, e che il successo di alcuni giornalisti e scrittori dipende dalla felicità con cui assolvono precisamente a questa funzione. Ma in quel momento per me era vitale che il mio amico capisse che quel che leggevo non lo condividevo, insomma, m'avesse beccato con Corna Vissute mi sarei sentito un po' meno in imbarazzo.

"Quando hai finito me lo presti?"

Anche questa cosa non me la disse esattamente così – come si diceva a quei tempi passami-i-fogli-di-giornale-che-hai-già-letto? Perché è una cosa che si faceva. Comunque glielo passai tutto, che altro potevo fare? A quel tempo m'inteneriva. Al suo liceo era l'unico del paese, al paese era rimasto un po' fuori dai giri, lo vedevo aggirarsi per il binario 5, troppo piccolo per provarci con le ragazze; aveva un modo di fare che titillava il mio senso di responsabilità. È esattamente questo il problema: mi sento responsabile per quanto successo. Il che è assurdo, ma nondimeno vero. Gli feci conoscere il Giornale di Montanelli, e lui cominciò a leggerlo tutti i giorni. Poi Montanelli se ne andò, ma la corriera ormai era partita. Tempo quattro anni e lo ritrovai berlusconiano duro. Nel frattempo era diventato anche più alto di me di una buona spanna, e un pilastro della comunità, una fidanzata carina e tutto quanto, e questo malgrado ogni tanto io cercassi di incontrarlo con altri quotidiani in mano, lo vedi che non leggo solo il Giornale? L'ho comprato solo quel giorno, non mi puoi inchiodare a un giorno solo, no? Tutto questo succedeva in giorni lontani di un secolo scorso, ma non c'è una volta che non si riparli di Montanelli e in generale del Giornale che io non ripensi a lui, e non mi chieda se non è stata tutta colpa mia, e come sarebbe andata se quel giorno in stazione mi avesse trovato con in mano il Manifesto.

Ecco un motivo più originale di altri per odiare Montanelli. E invece no, per qualche oscuro motivo lo sento mio complice. Non abbiamo vigilato, non siamo stati attenti; certi mostri sapevamo che avrebbero bussato a certe porte che dovevamo custodire sprangate e invece abbiamo lasciato una fessura, per curiosità. E per voglia di litigare. Sicuri che dal litigio saremo emersi trionfatori. Della sposa abissina sentii parlare soltanto qualche anno dopo, ai tempi in cui fondò la Voce e diventò un astro dell'antiberlusconismo nascente. Non riesco a credere che si sia una coincidenza. Montanelli aveva rotto coi colleghi di destra, i colleghi di destra erano iene da archivio: pescarono la cosa che avrebbe reso Montanelli più inviso al suo nuovo pubblico di sinistra. Prendetelo come sospetto di uno che si sta rincoglionendo; ma fino a un certo punto, se qualcuno tirava fuori Montanelli, qualcun altro rispondeva sì, vabbe', Montanelli rappresenta un determinato milieu, vittima del brigatismo, ecc. ecc. Da un certo punto in poi la prima reazione diventò: Montanelli? Lo stupratore di una bambina abissina? In tutto questo riconosco lo stile della destra berlusconiana italiana, dei vari macchinisti del fango a cui mai nessuno scolpirà un monumento che pure mi piacerebbe personalmente profanare.

Ecco, alla fine sono riuscito lo stesso a spiegare cosa penso di Montanelli, e la ragione del mio fastidio per il dibattito di questi giorni – che non è il fastidio per un monumento imbrattato, peraltro con un rosa gentile e lavabile – ma l'imbrattamento arriva dopo vent'anni in cui un personaggio veramente molto interessante, e criticabile, e criticato, si è progressivamente ridotto a uno stupratore di bambina. E il fastidio per non riuscire a spiegare questa cosa senza passare per uno che minimizza l'episodio. È chiaro che l'episodio è grave, anche una volta inserito in un contesto (la guerra di Etiopia) da cui Montanelli non ha mai voluto davvero prendere le distanze, come dal primo amore; dal fascismo sì, dal conservatorismo liberale del dopoguerra sì, da Berlusconi quasi subito; ma dal mito degli italiani buona gente che liberano i barbari abissini da sé stessi, mai. Oggi però l'epiteto "pedofilo" chiude ogni discussione, e invece la discussione è interessante; significa "mostro", e Montanelli tutto era meno che un mostro che si aggirava per l'acrocoro etiopico a caccia di bambine. Era un ufficiale italiano impegnato in una guerra coloniale, che recepiva direttive dei superiori: il consiglio di trovarsi una "madam", una sposa a tempo, gli venne da un superiore che in questo modo sperava di prevenire i rapporti con le prostitute. Tutto questo più che sotto il capitolo "Pedofilia" non sarebbe il caso di inserirlo in quelle, altrettanto interessanti, "Crimini di guerra coloniale", "Sessualità in Italia nell'epoca fascista"? Ma tutto questo lo sappiamo anche grazie a Montanelli, che avrebbe avuto tutto il tempo e l'interesse per negare le circostanze e insabbiare le evidenze, e mai si è sognato di farlo; perché?

Probabilmente perché aveva voglia di litigare anche su questo, ed era abbastanza pieno di sé da immaginare che alla fine avrebbe vinto anche questo dibattito. "Pedofilo" oggi equivale a "tabù", ma Montanelli tabù non ne ha mai avuti (o forse l'uso di armi chimiche in Etiopia). Da scrittore di libri di storia, sapeva come certe pagine di storia si scrivono, e che i posteri hanno sempre ragione; ma che proprio per questo è inutile blandirli. Ai posteri servono anche i mostri, e forse a Montanelli non dispiaceva diventarne uno. Il suo monumento, lui per primo l'ha imbrattato. C'è qualcosa di notevole in questo; non voglio dire ammirabile, ma insomma Indro Montanelli ai posteri continua a dire: vaffanculo, io sono così. Sono un uomo del mio tempo, che ha fatto alcune cose che voi trovate orribili e ai miei tempi erano normali. Non vi chiedo scusa, non capisco nemmeno a cosa vi servano le scuse di un vecchio o di un morto. E neanche voi, non dovete scusarmi: dovete giudicarmi. Nella Storia d'Italia a Volumi a me forse spetta una mezza pagina: vedete voi cosa farci entrare e cosa no. Se alla fine ci sarà scritto "ha stuprato una bambina in Abissinia", amen. Il punto non è se raccontarla così mi renda o non mi renda onore: io sono morto, chi se ne frega del mio onore. Il punto è: farà onore a voi?

domenica 10 marzo 2019

La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.


La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.



Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).



Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.

La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.


È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.