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domenica 29 maggio 2022

13. Coatti nella convivenza affrontiamo il progresso

[Questa è La Gara, una competizione di canzoni di Battiato, cioè tipo che siete in cima a una torre con quattro canzoni di Battiato e dovete buttarne giù tre. Meno divertente di quel che sembra, in effetti] 

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1967: La torre (#248)


BATTIATO: Siete degli ipocriti.

CASELLI: Ma chi è questo?

GABER: Io l'ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.

CASELLI: Esatto!

GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?

BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!

La storia è ormai nota: quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l'Equipe '84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: Auschwitz, Dio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la "folksong". Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, aveva una sua giovane promessa da presentare: un giovanotto dinoccolato che per l'occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell'altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono un paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica che li acclude al numero in edicola; Gaber l'ha scovato in un'osteria dove cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali. La torre è un brano molto acerbo, che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po' tutte e anche un buco dell'acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l'altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l'altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l'Asociale: "sono un tipo antisociale / non m'importa mai di niente / non m'importa del giudizio della gente... in un'isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare". Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con tanta ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l'anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.  


1982: Radio Varsavia (#9) 

L'ultimo appello è da dimenticare. Nel 1982 Battiato è letteralmente la Voce del padrone. Ha osato tanto, ha vinto il banco, ha venduto più dischi di tutti e ora può fare quel che vuole. Quel che vuole è prendere immediatamente le distanze da quel tipo di successo: gli artisti a volte fanno questo tipo di cose, all'inizio sembra un impulso autodistruttivo ma sulla media-lunga distanza ti impedisce di diventare schiavo di un trend o legato a un singolo momento della storia del costume. Il nuovo disco deve assolutamente suonare diverso dalla Voce del padrone, anche se tutto questo tempo per inventarsi cose nuove non c'è e quelle vecchie continuano a vendere e a farsi sentire in radio. Tutto questo sin dai primi subliminali istanti: La voce cominciava con un rumore di onde, L'arca col fruscio del vento nel deserto su cui incombe per un magico istante un suono di fine del mondo, forse un campionamento orchestrale del Fairlight sovrapposto a un coro dei Madrigalisti di Milano. La voce ti sparava subito un 5/4 disorientante: L'arca inchioda l'ascoltatore a un più tetragono 4/4. La voce cominciava col miraggio di un'estate infinita, l'arca con le istantanee notturne di qualcosa di un colpo di Stato: i volontari laici scendevano in pigiama per le scale per aiutare i disertori. Questa non è la Mesopotamia o Atlantide, questo è il colpo di Stato di Jaruzelski del 1981, è cronaca ancora fresca di stampa: qualcosa che i cantautori di quel periodo avevano imparato a rifuggire come la peste perché allontanava sia i clienti moderati che quelli radicali. E malgrado nella terza strofa FB rimescoli le carte cianciando di commercianti punici e di Abissinia, il senso è molto più chiaro del solito ed è ribadito alla quarta stanza: la Cina era lontana, l'entusiasmo per il movimento operaio non è più sostenibile, il comunismo ha smarrito la sua spinta propulsiva, se non nell'economia almeno nell'immaginario. Questo nel 1982 non era poi così facile da accettare: qualche anno prima Battisti si era guadagnato una nomea di cantante di destra per molto meno. La stessa nomea, puntualmente, piombò su FB, che da un punto di vista ideologico sembrava già compromesso: un lettore di Gurdjieff e Guenon, un frequentatore di Calasso, nel 1982 non poteva che appartenere alla "nuova destra". Forse anche per questo motivo l'Arca incassò molto meno, e se oggi Radio Varsavia sembra una canzone molto meno ambigua, ed è una delle sue più apprezzate (su Spotify è la nona canzone di Battiato più ascoltata in assoluto) è perché abbiamo accettato che il comunismo reale negli anni '80 era davvero una grondaia arrugginita pronta a cadere di schianto, inoltre abbiamo fatto la pace con le ambiguità ideologiche dei cantautori, e soprattutto un certo modo di abbellire le canzoni evocando souvenir delle ideologie del passato dopo Radio Varsavia ha fatto scuola: nello stesso 1982 dell'Arca di Noè compare in qualche negozio di dischi un oggetto strano, non si capisce se il gruppo si chiama CCCP o Fedeli alla linea. 


1983: Gente in progresso  (musica di Battiato e G. Pio, #120) 

Secondo Giulia Cavaliere, Orizzonti perduti è "l’album più profondamente milanese della storia della musica italiana" e io le credo. È senz'altro un disco sospeso tra sede e fuorisede, tra "il nord" e "giù", un presente frenetico e un passato idealizzato. Alla pendolarità geografica corrisponde quella stagionale e non è un caso che Gente in progresso, la canzone più milanese del mazzo, cominci in settembre e finisca in primavera: è il calendario della gente "che lavora per avere un mese all'anno di ferie". Il mantra Hare Krishna che spunta tra un ritornello e la strofa non sconfigge quella sensazione asettica, ambulatoriale, evocata dall'arrangiamento elettronico: più di un canto di liberazione sembra la litania di qualcuno che "nelle fabbriche, nei negozi, dietro a scrivanie" cerca di lenire l'alienazione con la meditazione. In tanti altri momenti della carriera di Battiato, Gente in progresso sarebbe diventato un classico. Ma nell'83/84 non fa nemmeno uscire un singolo, e poi comunque in tv vanno i videoclip della Stagione dell'amore e di Mal d'Africa. Negletta anche dalle scalette dei concerti, Gente in progresso resta uno dei migliori risultati del Battiato elettropop che riesce a insufflarci una sottile nostalgia anche per quei settembri dolceamari in cui proviamo ogni volta a programmare un anno migliore, prima che la pioggia e la routine prendano il sopravvento.   


1988: Zai saman (#137)

"Come una volta andiamo a visitare la famiglia, guarda com'è grande il ragazzo, guarda la gente come raccoglie i fiori" (traduzione del ritornello). In un disco complessivamente tranquillo e delicato come Fisiognomica (a un certo punto stava per chiamarsi L'Oceano di silenzio), Zai Saman è di gran lunga il momento più frastornante, quello in cui FB si alza dal tappeto di preghiera e ordina agli orchestrali: 1,2,3, casino. Gli orchestrali nel frattempo sono tutti cambiati e Zai Saman è forse il brano in cui più rimpiangiamo i vecchi, perché il nuovo casino non ha la brillantezza dei momenti più giocosi di Patriots o dell'Arca, e nemmeno di Mondi lontanissimi. Cambi di tempo, cambi di lingua, cori e chitarre in fiamme (ma i cori non sono più i Madrigalisti e si sente, le chitarre non sono più di Radius e si sente), ogni senso della misura è allegramento abolito e per almeno tre minuti sembriamo di nuovo in presenza del Battiato giocoso e scavezzacollo. Anche il testo non sa bene dove andare: un ricordo del passato, un ricordo dell'amore, o un compianto per la fine dell'occidente? E almeno stavolta lo ammette: sì, l'occidente soffocherà "per ingordigia e assurda sete di potere", ma dall'Oriente non aspettiamoci che "orde di fanatici".

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2 commenti:

  1. Ancora una volta non mi ritrovo con un tuo commento ritmico.
    Summer on a solitary beach è ternaria, credo che inizialmente fosse una ballata in 12/8, arrangiata col "beat" del pop. E poi quel mare iniziale è credibile il giusto.
    L'arca sta a la voce un po' come animals sta a dark side of the moon o forse wish you were here; non c'è dubbio su quale sia il disco più perfetto, più riuscito, e che venderà più copie; un "fan" può preferire l'altro.

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    1. Sì in effetti è una specie di 3/4, forse c'era un 5/4 tra strofa e ritornello?

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