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lunedì 30 gennaio 2023

La monaca antipatica

30 gennaio: Santa Giacinta Marescotti (1585-1640), monaca antipatica

Se il destino dell'uomo è il suo carattere, non si può dire che Giacinta Marescotti partisse avvantaggiata. Ognuno ha la sua croce: può essere una malattia o una condizione sociale. In molti casi la santità coincide con l'eroica sopportazione di questa condizione. Giacinta era nobile e bella, ma una croce comunque l'aveva: meno visibile di altre, più imbarazzante da condividere, ma comunque nota a tutti i biografi che non possono fare a meno di rilevarla: Giacinta era insopportabile. 

"Mostravasi tanto ritrosa e acerba che da pochi era amata e da molti fuggita" (Francesco Maria de Amatis), "cupa, intrattabile, grave alla famiglia" (un'altra biografia citata da Alfredo Cattabiani). Sarebbe stato proprio questo carattere difficile ad alienarle la simpatia del padre nel momento fatale in cui il marchese Paolo Capizucchi fece capire che era interessato a imparentarsi coi Marescotti. Paolo a Giacinta piaceva, ma il padre decise che Capizucchi si sarebbe fidanzato con la sorellina Ortensia, mentre Giacinta sarebbe tornata dalle suore del convento di San Bernardino, dov'era andata a scuola (ma ci era resistita un anno appena). I biografi fanno balenare il sospetto che la decisione del padre dipendesse dal cattivo carattere di lei; tuttavia il suo nome secolare (Clarice, "di Chiara") tradiva già il proposito dei genitori di sbolognarla alle clarisse – proprio come la Gertrude di Manzoni, che era stata chiamata così perché il nome suonava adatto al chiostro. 

Nel chiostro Clarice ci entra a vent'anni, non come suora clarissa, ma come terziaria francescana: non prende dunque il voto di clausura, può ricevere visite, ma deve pur sempre vivere nel convento, seppure in un bilocale al piano nobile finemente arredato. La famiglia le passa 40 scudi l'anno, che in un convento di Viterbo sono più che sufficienti a fare una bella vita: ma che bella vita si può fare in un convento a Viterbo? Respinta dalla famiglia, isolata dal mondo, Giacinta non può nemmeno contare sulla solidarietà delle consorelle, che in effetti non sono sue consorelle. A questo punto della storia il romanziere farebbe irrompere un Egidio o qualche altra complicazione peccaminosa, ma a Giacinta non succede nemmeno questo, è come se nemmeno Satana la sopportasse. A trent'anni si ammala – è un brutto momento, nel giro di pochi mesi le erano morti la madre, un fratello e la cara sorella Ortensia.

Giacinta si mette a letto; un frate predicatore che sale per confessarla, Antonio Bianchetti, vede i bei mobili e se ne va sdegnato esclamando "Il Paradiso non è fatto per le persone superbe e vanitose". È uno choc, o se preferite, la vocazione: Giacinta decide di cambiare stile. Rinnega i bei mobili e i vestiti, sceglie una cella spoglia in cui si incatena a un letto di di assi di legno, ma non può rinnegare il suo carattere: insopportabile era prima e insopportabile resta. I suoi eroici atti di penitenza innervosiscono le clarisse, che la penitenza la fanno per tutta la vita e non sopportano la sua ansia di recuperare il tempo perduto, con gesti teatrali più adatti a una leggenda di santi che a un convento vero: una volta che per chiedere perdono si inginocchia per baciare il sandalo di una sorella, si prende un calcio in faccia.

Col tempo la situazione migliora – non è affatto chiaro il perché: d'altronde siamo stati quasi tutti ragazzini insopportabili, e poi a un certo punto cosa ci è successo? Niente di speciale, la vita ci ha preso a schiaffi, ma nemmeno tanti. Forse Giacinta comprende che la santità si può conquistare anche con le opere di bene, e che di bene con quei 40 scudi al mese se ne può fare parecchio. Fondamentale sembra essere stato l'incontro con Francesco Pacini, ex soldato di ventura (anche lui un carattere difficile) che racconta di essersi convertito grazie alle assidue preghiere di Giacinta. Pacini e la Marescotti fondano due confraternite dedite all'assistenza di poveri e malati, i Sacconi e gli Oblati di Maria. L'immagine di Giacinta migliora al punto che quando muore (a 53 anni) i concittadini vogliono a tutti i costi ritagliarne un lembo delle sue vesti per averne una reliquia, e le clarisse devono rivestirla tre volte. Insomma anche per gli antipatici c'è speranza – certo bisogna lavorarci molto, più coi fatti che con le parole.

domenica 29 gennaio 2023

Il santo parricida e matricida

29 gennaio: San Giuliano l'Ospedaliere, parricida e matricida

Vi è mai capitato, tornando a casa tardi ragazzini, di pensare: quelli adesso mi ammazzano, mi aspettano dietro la porta e me ne danno finché – per cui girate la chiave nel modo più lento possibile, come ladri nella casa dei vostri genitori, ma dietro la porta non c'è nessuno, nessuno nemmeno in cucina, nessuno in salotto a sonnecchiare davanti alla tv, nessuno da nessuna parte e questo non era mai successo, al punto che vi spaventate e aprite pure la porta di camera loro, dov'è giusto che fossero, ma non era giusto per voi trovarli lì. Questa cosa, se ci riflettete, non ha senso: che i vostri genitori dividano un letto e un'intesa sessuale non solo è giusto, ma è il motivo stesso per cui voi siete al mondo a domandarvi: perché? Perché ciò che mi ha dato la vita mi mette tanto a disagio? 

Masolino da Panicale

Al giovane Giuliano, nobile cacciatore, un cervo ormai braccato avrebbe detto: Come osi inseguirmi, tu che ucciderai il padre e la madre? Sconvolto, Giuliano avrebbe abbandonato i genitori e la terra d'origine, non si sa nemmeno quale (in alcune versioni Ath, oggi in Belgio), peregrinando per monti e per valli fino a far carriera alla corte di un principe che ne apprezzava le corti cavalleresche, sposare una vedova e intitolarsi il di lei castello. Un mattino molto presto, tornando stanco da un viaggio di lavoro, Giuliano entra nella sua camera e nella penombra trova nel letto una persona in più. Già sicuro di avere scoperto un tradimento della moglie, non perde tempo ad accendere una candela e ammazza a fil di spada i due dormienti. Il lettore a questo punto ha già capito, ma Giuliano no: immaginate il suo sbigottimento quando uscendo dal castello vede giungergli incontro la moglie tutta contenta: hai visto chi ti è venuto a trovare? I tuoi genitori che ti hanno cercato in lungo e in largo perché li avevi abbandonati senza spiegare il motivo! Siccome erano molto stanchi li ho accomodati nella nostra camera e me ne sono venuta alla prima messa del mattino... ma perché sei così pallido? Giuliano, devastato dal compiersi del suo destino, decide su due piedi di abbandonare ogni suo avere e mendicare per il mondo. La moglie, che almeno secondo Iacopo di Varazze conosceva la profezia e (chioso io) forse un po' si sentiva colpevole di non aver allestito la camera degli ospiti, decide di accompagnarlo. Nelle loro peregrinazioni arrivano a un grande fiume che secondo gli abitanti di Macerata è il Potenza, ma più facilmente l'autore aveva in mente i grandi fiumi tra Reno e Senna, dove fondano un ospedale per i pellegrini che arrivavano lì dopo un guado evidentemente molto difficile. Molti anni dopo, quando un pellegrino assiderato bussa alla porta, Giuliano non esita a ospitarlo nel suo letto malgrado mostri i sintomi della lebbra. Si tratta in realtà di un angelo ben camuffato che annuncia a Giuliano e consorte il perdono di dio: la coppia morirà pochi giorni dopo. Si direbbe che per tornare nella grazia di Dio, Giuliano, che non aveva tollerato i genitori nel proprio letto, abbia dovuto accogliere nello stesso letto la malattia più orribile alla vista, il disfacimento della pelle e della carne. Non aveva accettato chi gli aveva dato la vita, doveva accettare chi gli dava la morte. È una storia ben strana e non sappiamo chi l'ha inventata.

La paginetta su questo Santo che Iacopo di Varazze infila nella sua Legenda aurea, in mezzo alle biografie di altri vescovi e martiri recanti lo stesso nome, diventa così popolare da 'mangiarsi' gli altri Giuliani – compreso ad esempio il patrono di Macerata, che nei primi secoli era un omonimo martire istriano. È una leggenda spuntata all'improvviso nel tardo medioevo (non se ne trovano tracce prima del XIII secolo), che sicuramente ricorda il mito di Edipo, ma sposta l'attenzione dal tabù dell'incesto al senso di disagio che possiamo provare nel sorprendere i nostri genitori a letto assieme. Flaubert troverà la leggenda su una vetrata della Cattedrale di Rouen e ci scriverà quel capolavoro di novella. Giuliano è un santo troppo leggendario per risultare nel Martirologio romano: la più comprensiva Bibliotheca Sanctorum lo ricorda il 29 gennaio, riprendendo la tradizione attestata da Iacopo di Varazze; a Macerata festeggiano il 31 agosto, prima di tornare al lavoro.

giovedì 26 gennaio 2023

La macarena sulle vostre tombe

Vi vedo tutti immotivatamente entusiasti per un monologhetto sull'entusiasmo immotivato, un pezzo appiccicato alla benemeglio in un prodotto seriale per far contenta la guest star che se l'è scritto. Non c'entra niente con lo sviluppo della trama, è uno sbrego diegetico, è un attore che esce dal personaggio e ci intrattiene sui fatti suoi che secondo lui sono divertenti. Anche secondo voi sono divertenti – del resto sembra fatto apposta per essere trasformato in story e girare sui vostri smartofoni. È una variazione sul  tema delle chat scolastiche, nel 2023, ci vuole coraggio, no? Non sono mica tutti pronti all'ironia contro un avversario potente come le chat scolastiche. È un pezzo che si crede Mattia Torre, come probabilmente capita a tanti cartocci nel cestino della writing room della Littizzetto. È un pezzo che se la prende con l'entusiasmo dei genitori che vogliono fare qualcosa per migliorare l'offerta educativa del loro istituto. Hanno tutti una passione (la batteria, la danza, il ciclismo) e vogliono comunicarla, con tanto entusiasmo, che secondo il regista (appollaiato su una terrazza che dà su Piazza del Popolo) è "il sentimento più orrendo dell'essere umano". Non l'odio, non l'intolleranza, non l'impulso dell'audista che ti sorpassa a destra sull'A1: no, per il regista italiano il sentimento più orrendo è la voglia di insegnare qualcosa ai propri piccoli, e già che ci siamo ai piccoli degli altri. Capace che poi crescono più socievoli, ciò è sbagliato! Il regista italiano nel 2023 vuole stare in un angolo imbronciato, perché in questo consiste la sua coolness, in sostanza il regista italiano è una Mercoledì cinquantenne che si crede Nanni Moretti, e voi siete entusiasti di questa cosa. 

I genitori,per una volta che invece di lamentarsi dei compiti, dell'insegnante, del bullo o dell'insegnante bullo, provano a proporre cose, magari con un po' di ingenuità ma un minimo di buona volontà; i genitori che vedono i figli passare i pomeriggi senza staccare l'occhio dallo smartofono e la cosa li spaventa; i genitori si domandano se non c'è qualcosa di non scrollabile che potrebbe coinvolgere questi benedetti ragazzi; e invece di scrivere accorati appelli a Gramellini fanno un'assemblea con tante proposte, ognuno porta la sua cosa, a me sembra quasi commovente – ma al regista no. 

I genitori sono anche preoccupati per il traffico, in una città così complicata come Roma il ciclismo è ancora una scelta difficile (gli audisti ti menano se provi a usare le ciclabili) ma presto o tardi ineludibile, bisogna preparare i ragazzi a un mondo che sarà per forza diverso dal nostro, ma il regista dal terrazzo su Piazza del Popolo tutto questo traffico mica lo vede, e poi lui al pomeriggio giocava per i fatti suoi ed è cresciuto bene, i suoi figli idem, e questo chiude la questione: tutto è già come dev'essere, anche questi smartofoni prima o poi passeranno. Di questo, siete entusiasti.

Se i vostri figli lo sapessero vi soffocherebbero nel sonno – ah, ma lo sanno, vi leggono sullo smartofono. La macarena verranno a ballare: sulle vostre tombe.

mercoledì 25 gennaio 2023

Sleep upon my shoulder as we creep

Magari mi sbaglio, non perché io non conosca le donne. Cioè. È chiaro che le conosco poco, ma se per questo anche gli uomini. Comunque.

Non ho mai avuto forti opinioni su come si debbano far nascere i bambini. Buffo, no? Sembra che io ci tenga ad avere opinioni su tutto e invece sul parto (che a causa di un fatto molto triste è il tema del giorno) io un parere non ce l'ho, me ne sono sempre disinteressato. No, non è disinteresse, è proprio fastidio, insomma secondo me è orribile il modo in cui nascono i bambini. È come se la natura si opponesse alla cosa – cranio troppo grosso, uscita troppo piccola, è una violenza inaudita. Quando ne mostrano uno in un film mi chiudo gli occhi, per me un parto naturale è già Cronenberg e io non riesco proprio a guardarlo, Cronenberg. 

Però magari mi sbaglio e in generale preferisco non condividere questa cosa, che più che un'opinione è una fobia. La mia compagna invece aveva opinioni molto precise e nessuna reticenza a esprimerle: voleva l'epidurale e l'avrebbe avuta a ogni costo. In effetti ci costò un po', il che nella mia regione è abbastanza strano. È stata in parte pura sfortuna – se ricordo bene, un anno prima l'epidurale era mutuabile da qualche parte e qualche mese dopo lo divenne da qualche altra parte ancora, ma insomma io la pagai: e siccome me la fecero pagare poche ore dopo che avevo assistito al travaglio, la pagai senza battere ciglio, anzi spiaciuto di non aver potuto pagare di più ed evitato maggiore sofferenza. Eravamo nell'ospedale di una città che non conosco tanto: eravamo lì perché dopo esserci guardati un po' in giro, a lei era sembrata la situazione migliore. Ma il corso prenatale lo avevamo fatto al mio paese, e una lezione prevedeva proprio la visita all'ospedale locale. A noi non passava nemmeno per l'anticamera del cervello di far nascere qualcuno lì – era un periodo in cui la percentuale di nati morti in quel reparto era sinistramente alta – però a dare un'occhiata ci andammo lo stesso, per buona educazione.   

Adesso probabilmente è tutto cambiato (in meglio). Del resto è passato tantissimo tempo, non avete idea di quanto tempo è passato. È così tanto tempo che non riesco più a sollevarlo da terra – se penso a quanto l'ho tenuto in braccio, e sulle spalle, ma adesso è diventato troppo, è un mezzo quintale di tempo, è pazzesco. Non posso ricordarmi tutto, e purtroppo tendo a ricordarmi i dettagli più strambi, ad esempio in una sala, in mezzo a tutti i ferri del mestiere, forcipi, pinze, tenaglie, (no, sto esagerando) c'era uno stereo e questo cd di Antonella Ruggiero. 

(C'erano anche maniglie per appendersi al soffitto).

(Oppure alle pareti, non voglio esagerare, non lo so. Le maniglie me le ricordo).

C'era anche, se ricordo bene, una vasca per partorire nell'acqua – ma non c'era l'acqua calda perché in quel periodo avevano un problema al bollitore, ma tanto si poteva fare benissimo senza. E se ci pensate la visita poteva terminare lì, voglio dire, persino io che chiudo gli occhi nei film ogni volta che si rompono le acque, persino io l'ho sentito dire che bisogna portare l'acqua calda: non ho mai capito a cosa serva ma nei film c'è sempre e invece in quell'ospedale no, dicevano che non ce n'era così bisogno. Insomma, prima di entrare in quel reparto sapevo soltanto che negli ultimi mesi c'erano stati alcuni incidenti. Forse niente di statisticamente rilevante, ma insomma il reparto natalità andava un po' troppo spesso sul giornale. Dopo averlo visitato sapevo che non avevano l'acqua calda (e non la rimpiangevano), ed erano favorevoli a sistemi 'naturali' che prevedevano ad esempio l'appendersi alle pareti. E ascoltavano un cd di Antonella Ruggiero.

Ora si dà il caso che io quel cd di Antonella Ruggiero lo conoscessi.

È un bel disco – niente di incredibile, ma se vi piace la Ruggiero è necessario. Si chiama Big Band! perché lei canta standard da big band con una big band. Siccome è la Ruggiero, li canta benissimo, persino troppo bene. In particolare c'è una Caravan trascinantissima in cui lei non ci prova nemmeno a trattarla come una canzone, alla Ella Fitzgerald per intenderci: no, lei semplicemente urla per tutto il tempo. Gorgheggi, scat, tutto il repertorio, col volume a undici. È un brano fantastico.

È esattamente quello che metterei su uno stereo mentre sto torturando una persona. Lei urla, Antonella Ruggiero urla di più.

Lei piange, Antonella Ruggiero ride.

Lei dice basta, Antonella Ruggiero ricomincia.

Allora capite che non potevamo partorire lì, non era proprio cosa. 

Ma il punto è: perché era successa questa cosa? Perché un reparto che fino a qualche anno prima era un punto di riferimento in tutta la provincia era diventato un posto dove torturavano le persone, no anzi: un posto dove mostravano orgogliosi gli strumenti con cui le torturavano? Un posto dove non solo non ti davano l'epidurale, ma ti facevano capire che era sbagliato prenderla? Un posto dove si reagiva al dolore alzando il volume dello stereo? Cosa era successo ai dottori, agli ostetrici?

Magari mi sbaglio, e voi mi scriverete che sbaglio, ma questa ossessione per i parti dolorosi, questa idea che la maternità debba battezzarsi col sangue... non riesco a ricondurla al patriarcato. Perché non ci riesco? Non lo so, ma non ho mai sentito degli uomini parlare dei dolori del parto. Questo potrebbe anche non voler dire nulla, io coi maschi ci discuto sempre meno. Magari esistono cenacoli di tizi barbuti che si vantano dei dolori sofferti dalle reciproche partner. Può darsi: ma non ci credo. Forse proietto, ma secondo me alla maggior parte di noi il parto fa schifo e paura, e se ci fosse un modo per accelerare la cosa e renderla brevissima e indolore, non avremmo nessuna difficoltà ad accettarla. Magari mi sbaglio: ma la religione del Parto Doloroso è una tradizione tutta femminile. Forse è postmoderna e nasce come reazione a novità introdotte troppo velocemente; forse è l'affiorare di una corrente sotterranea antica quanto l'umanità: cose che le donne si ripetono tra loro da anziana nutrice a giovane levatrice, mentre gli uomini fanno altro e soprattutto pensano ad altro, a qualsiasi altra cosa tranne che a quella.

Certo, la violenza è parte della natura. Una parte molto rilevante. E così come per decine di migliaia di anni i giovani maschi hanno dovuto dimostrare di saperla infliggere, può darsi che per le giovani donne fosse un vantaggio evolutivo, saperla sopportare. Può anche darsi che i primi rimedi proposti dalla scienza medica avessero effetti collaterali che suscitavano sospetto e causavano un rifiuto. Ma oggi no. Oggi nessuno dovrebbe soffrire così tanto. Non c'è un vero motivo per soffrire così tanto. O se c'è, è il solito vecchio motivo economico, mascherato sotto l'ennesimo mito posticcio di un'età dell'oro in cui le donne urlavano e poi erano contente di avere urlato. 

Chi spaccia questo mito – negli ospedali, negli ambulatori, nei comprensori – sta dando una mano a torturare donne colpevoli di nulla, se non di aver voluto essere madri. È una cosa orribile, uno scandalo. Io la penso così. Magari mi sbaglio. Ma non riesco più ad ascoltare Caravan (la versione della Ruggiero).

domenica 22 gennaio 2023

La barella accanto

23 gennaio – Beata Benedetta Bianchi Porro (Forlì 1936 – Sirmione 1964), sofferente


Questa vorrebbe essere una pagina divertente, ma ridere dei santi non è quasi mai giusto. Al limite si può sorridere su quelli antichi, ormai ridotti a leggende – anche se sotto tutte le leggende c'è quasi sempre qualcuno che ha sofferto davvero. Quanto ai più recenti, ridere sembra proprio la cosa più sbagliata da fare, ed ecco la mia confessione: leggendo una biografia di Benedetta Bianchi Porro mi è successo, mi sono messo a ridere. 

È stato solo un istante, ma non ne vado fiero. Probabilmente si trattava di una risata nervosa, perché la storia della vita di Benedetta Bianchi Porro è straziante – lo stesso Dickens avrebbe avuto qualche esitazione a concentrare tante sfighe su un solo personaggio letterario. Infatti BBP non è un personaggio: è esistita davvero, e ha sofferto davvero, più di quanto ritengo che una persona possa soffrire. Ancora neonata contrae la poliomielite, che le deforma la schiena e le lascia una gamba più corta dell'altra. Però ne guarisce, il che forse le infonde quella fiducia nella scienza che la spinge dopo il liceo a iscriversi a medicina – anche se a partire dai 13 anni ha cominciato a perdere l'udito. A 20 anni invece un'ulcera della cornea le indebolisce sensibilmente la vista. È il dopoguerra, una disabile che vuole laurearsi e diventare medica non può contare sulla sensibilità degli insegnanti, alcuni dei quali a quanto pare la trattano in modo sprezzante. Benedetta insiste, e studiando arriva ad autodiagnosticarsi il morbo di Recklinghausen. È una neurofibromatosi, una malattia rara con possibili complicanze oculistiche, ortopediche, neurologiche: tutto combacia col quadro sintomatologico di Benedetta (e gli specialisti lo confermeranno). È curabile? Benedetta ci prova – i giornalisti di oggi direbbero che "combatte" – ma a ogni operazione chirurgica la situazione sembra peggiorare e nel 1959 Benedetta, dopo un intervento al midollo, rimane paralizzata. 

A questo punto Benedetta è a letto, quasi completamente sorda, quasi completamente cieca, quasi completamente immobile. Le biografie ci dicono che pensa sempre più a Gesù e la cosa non sorprende. Ce n'è una in particolare che ci informa di un primo viaggio a Lourdes, ed è da questa che riporto la seguente frase:

"Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo. Che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto". 

Ecco, ripeto, non ne vado fiero, ma a questo punto mi sono messo a ridere. 

È stata una risata breve e nervosa, perché alla fine cosa c'è da ridere in una ragazza di 26 anni, deformata da una malattia contratta alla nascita, che nella sua breve vita ha fatto in tempo ad acquisire abbastanza conoscenza da capire di dover morire di lì a poco, ma non rapidamente: diventando giorno dopo giorno sempre più sorda, sempre più cieca, sempre più rigida: cosa c'è da ridere se un giorno si ritrova su una barella a Lourdes, a pregare senza poter muovere nemmeno le labbra, e se il miracolo le passa di fianco? Benedetta ha creduto nella medicina, e la medicina le ha solo spiegato di cosa soffriva e quanto ancora avrebbe sofferto; ha creduto in Dio, ma Dio guarisce un po' a casaccio, a quanto pare. Ho riso di tutto questo perché sono un essere umano e come tale cerco di trovare il senso al dolore, e più cerco e meno lo trovo, così a volte ne rido. Due anni dopo Benedetta ha smesso di soffrire, circondata dall'affetto di persone che nella sua sofferenza trovavano una specie di speranza. Nel 1986, una madre che ha letto da qualche parte la stessa storia che ho letto io, le dedica una novena di preghiera perché ha un figlio in coma: il ragazzo si sveglia, tanta sofferenza per un attimo sembra avere un senso. Benedetta Bianchi Porro è stata beatificata nel 2019.

lunedì 16 gennaio 2023

Dante è un reazionario (e non l'abbiamo mai preso sul serio)

È così strano che un politico di destra, nel tentativo di trovare un padre nobile, si rifaccia a Dante Alighieri? No, non è così tanto strano. È persino auspicabile, cioè magari aveste letto davvero Dante e non quelle robacce di Evola. 

È così strano che qualcuno definisca Dante come un pensatore di destra, conservatore se non proprio reazionario? Spero proprio di no, insomma Dante reazionario lo scrisse Edoardo Sanguineti, poeta sperimentale, dantista di prim'ordine e veterocomunista orgoglioso. Ma insomma basta dare un'occhiata a quello che scrive – e non sempre solo a come lo scrive. Il Dante della Commedia e della Monarchia è un uomo che nel mezzo del cammino della sua vita ha maturato una profonda diffidenza per la civiltà comunale in cui è cresciuto, e che cerca una soluzione in un ritorno all'ordine cosmico e politico. L'idea che ci fosse un qualche ordine cosmico-politico a cui tornare era di destra anche nel dibattito del 1300, Dante non è soltanto reazionario rispetto a noi (capirai): Dante è reazionario anche rispetto a gran parte dei suoi contemporanei, che vivono in un mondo molto più dinamico di quello a cui Dante guarda con nostalgia.

È così strano che se un sacco di gente se la prenda, se definisci Dante di destra? Purtroppo no: c'è questa concezione che siccome la poesia di Dante è un patrimonio culturale inestimabile, dovrebbe far parte di un canone condiviso e imparziale: i grandi scrittori non sarebbero di sinistra o di destra, sarebbero oltre. Balzac monarchico? Non va detto, lo vogliamo leggere anche noi democratici. Tolstoj pacifista? Ehm, bisogna contestualizzare. Ma contestualizzare cosa. Questa concezione, abbastanza sciocca quale che sia lo scrittore a cui è riferita, lo è particolarmente nel caso di uno scrittore come Dante, il cui capolavoro è la versione più elaborata mai concepita di una lista dei buoni (in Paradiso) e dei cattivi (all'Inferno). No, Dante non trovava tutti simpatici e non è previsto che sia simpatico a tutti. 

È così strano che a sinistra qualcuno insorga e cerchi motivi per appropriarsi di Dante? No, anche perché le nuove generazioni hanno un'intransigenza che a volte un poco spaventa, e si domandano seriamente se si possa guardare un quadro di Caravaggio per via che ha ucciso una persona. Con Dante la questione è più spinosa: anche ammesso che non abbia ucciso nessuno (in battaglia ci è andato) quello che ci allontana da lui non è qualche dettaglio della vita extra-artistica, ma è proprio l'ideologia portante del suo capolavoro. Insomma bisogna fare qualcosa prima che il monumento davanti a Santa Croce finisca imbrattato e gli studenti chiedano la rimozione della Commedia dai programmi finché non sarà ammesso in Paradiso Brunetto Latini o qualsiasi altro rappresentante della comunità LGBT+. La cultura in fondo è battaglia culturale, lotta per l'egemonia. 

Ma bisogna essere bravi. Da qualche parte ieri ho letto che Dante è di sinistra perché... perché è un migrante: è un anacronismo che non mi convince, certo, lo so, da che pulpito parlo. Per quel che mi riguarda, il modo migliore di trovare interessante Dante 'da sinistra' mi è sempre sembrato quello di concentrarmi sui significanti – non su cosa dice, ma su come lo dice. Più che perder tempo a cercare un Dante femminista perché fa parlare le donne (sì, ma perlopiù angelicate), io continuo a preferire il Dante auerbachiano, il Dante della realtà rappresentata: quello sì che è rivoluzionario, inconsapevolmente progressista e all'avanguardia tuttora. Non importa quanto desiderasse tornare all'Impero feudale: Alighieri quando mostra Ugolino che si morde le mani sta fondando il realismo moderno. Questo è il modo in cui mi approprio di Dante io. Anche se. 

Anche se forse me la sto raccontando. Ce la stiamo tutti raccontando da secoli, un colossale equivoco che se Dante potesse guardarci dalla cornice dei Superbi, ne resterebbe sbalordito: dopo essersi fatto il giro dell'universo che si è fatto, e dopo essersi industriato a renderlo interessante, intellegibile, verisimile... noi come abbiamo reagito? Abbiamo preso sul serio i suoi serissimi ammonimenti? No, l'abbiamo preso per un poeta. Il che sarà pur vero, insomma è scritto in endecasillabi e con un'ispirazione poetica innegabile – ma quella era la semplice veste con cui un letterato manda in giro le sue idee. 

Questo per me rimane il punto irrisolto, anche se considerata la quantità di studi dantistici che ci sono al mondo suppongo che da qualche parte qualcuno ci abbia già scritto più di un saggio, anzi biblioteche intere di saggi sull'argomento: perché non abbiamo mai davvero preso sul serio Dante? Perché sin dall'inizio non abbiamo creduto davvero che fosse stato all'inferno, e poi nel purgatorio, e poi in cielo? E abbiamo creduto a libri assai meno ispirati. Quanto a realismo, la Commedia batte tranquillamente qualsiasi libro della Bibbia, eppure la Bibbia per molti è ancora verità, qualcosa in cui credere. Alla Commedia non credevano nemmeno i primi lettori di Dante. Non è veramente strana questa cosa? Un visionario che descrive minuziosamente l'oltremondo con un realismo e un'attenzione alla continuity che poi non abbiamo più visto per secoli, mettendo all'inferno tutti quelli che non gli garbano (compresi diversi papi), come ha fatto a passare per poeta e non per profeta (e quindi per eretico)? 

Dante si è salvato perché più che profezia sembrava letteratura: ma che differenza c'è? E soprattutto, non è che abbiamo inventato la categoria di letteratura proprio a partire da Dante, forse proprio per salvarlo concentrandoci sui significanti, perché se avessimo dovuto prendere sul serio i significati... c'era da bruciarlo subito?

mercoledì 11 gennaio 2023

Invadiamo la Finlandia?

L'ennesimo articolo su quanto sia figace la scuola finlandese in cui invece di scaldare la stessa sedia il bambino finlandese ne scalda tre diverse al giorno e in mezzo è libero di esprimersi, correre, arrampicarsi sugli spigoli degli schedari, suicidarsi, l'ennesimo articolo, dicevo, è stata la goccia che ha travasato la mia pazienza e ora mi dichiaro vinto: è chiaro che la scuola finlandese è talmente superiore che non ha neanche senso pensare di ricopiarla. E allora?


Una modesta proposta: invadiamo la Finlandia, subito. Ovviamente in modo pacifico: tutti in gita scolastica immediatamente (tanto è spazio Schengen, ci metteranno un po' ad accorgersene). Entriamo con un primo contingente diciamo di cinque milioni di studenti italiani (nel senso che provengono dall'Italia, ma ovviamente anche arabofoni, pakistanofoni, sinofoni, xilofoni): ci iscriviamo tutti alle loro scuole immerse nel verde e pretendiamo di essere subito trattati come studenti finlandesi, nel puro spirito di Maastricht. Nel giro di un paio di settimane avremmo raddoppiato la popolazione di quel fortunato Paese, e forse saremo diventati tutti studenti e professori migliori. Oppure la Meravigliosa Scuola Finlandese sarà tornata quell'edificio banale in cui se parli senza alzare la mano può alzarsi un frustino. Oppure... potremmo trovare una media ragionevole tra i due sistemi, perché no?

(Qualche anno fa un giornale intervistò il sindaco di Helsinki, credo che fosse a Roma in vacanza. Gli chiesero un consiglio su come rendere Roma una città più vivibile, almeno per quanto riguarda il traffico. Lui magari dovette improvvisare, insomma scrissero che aveva proposto di allargare i marciapiedi. Helsinki fa seicentomila abitanti. Roma un po' di più. Questo non significa che non possa avere senso, in generale, allargare qualche marciapiede. Ma è ridicolo farselo dire dal sindaco di Helsinki). 

La scuola italiana ha tanti problemi, e non c'è niente di male a volerne parlare. In questa grande discussione, il genitore finlandese deluso dalla proposta educativa siracusana non dovrebbe avere più voce in capitolo di te, di me, di chiunque altro. Se la sua storia fa notizia, se diventa la discussione del giorno, è per il modo in cui riesce a intercettare pubblici diversi. Alla stampa neoliberale – ma a loro non piace essere chiamati così, e allora in attesa di trovare una definizione che a loro piaccia possiamo chiamarli servi dei padroni, che ne dite? Non fosse che come padroni lasciano un po' a desiderare, diciamo padroncini, ecco: ai giornalisti che servono i padroncini, qualsiasi notizia che screditi la scuola pubblica italiana è una buona notizia. Se poi si riesce a evocare le scuole in mezzo alla taiga, tanto meglio: non perché si intenda finanziare la scuola pubblica italiana allo stesso modo in cui i contribuenti finlandesi finanziano la loro, capiamoci bene: quel che importa è far passare l'idea che esista uno standard europeo a cui la scuola pubblica italiana non potrà mai uniformarsi: e ben venga qualsiasi rilevazione internazionale o nazionale che sembri dire una cosa del genere (anche quando l'Invalsi non lo dice davvero, non importa: i padroncini vogliono leggerlo, i maggiordomi l'hanno già pronto nel cassetto). Più si insiste sul concetto che la scuola pubblica è roba da poveri, più si crea mercato per qualche scuola in qualche bosco privato: un business promettente che per qualche disgraziato motivo in Italia non è ancora decollato. Ma la direzione è quella, e tutti i modelli alternativi che vengono proposti (scuole steineriane, montessoriane, magari tra un po' anche scuole finlandesi) alla fine puntano in quella direzione: l'importante è che siano private. E se i genitori non le vogliono pagare tanto? Beh, chiederemo allo Stato i buoni scuola. Questo è il motivo per cui il genitore finlandese che si lamenta piace a Stampa, Repubblica, eccetera. Certo, se fossero soltanto loro a parlarne, non ce ne saremmo nemmeno più accorti.

Il lamento del genitore finlandese invece piace anche a una specie di sinistra – ho un po' di pudore a usare la parola – insomma un'area sedicente progressista che nell'ideale iperboreo di una scuola in mezzo al bosco vede un Altro Mondo Possibile. In fondo che male c'è a pensare a una scuola dove invece di ruotare gli insegnanti, ruotino gli studenti da una classe all'altra? Nessun male, è un'idea interessante, ma significa aumentare sensibilmente il numero di insegnanti per studente, insomma servono soldi e in certe scuole, non chiedetemi come lo so, non ce n'è più per pagare la carta. Non dico i supplenti brevi (abbiamo avuto molte assenze per malattia quest'anno, chissà perché): la carta. Chi continua a fantasticare di modelli finlandesi e scandinavi come di qualcosa di replicabile in Italia sobbolle in quel brodo culturale che rifiuta ogni attrito con gli aspetti quantitativi della realtà, per cui poi quando c'è un'epidemia ci si domanda cosa aspetta lo Stato o il Comune a raddoppiare gli autobus – ma perché non triplicarli, o fornire un taxi a ogni cittadino? Quando poi si va al governo, questo approccio si smorza completamente di fronte alla rude evidenza della ragioneria di Stato (quella davanti alla quale aa Meloni ha calato le penne e rialzato le accise): oppure, se sopravvive, produce mostruosità come i banchi a rotelle. Esatto: il massimo di Finlandia che poteva darvi un governo italiano è stato un acquisto massiccio di banchi a rotelle, che un loro senso innovativo ce l'avrebbero (peccato che calarono nelle scuole italiane proprio nel momento in cui ogni innovazione era resa impossibile dalla pandemia). Certo, bisognava anche cambiare la mentalità degli insegnanti: come? Corsi d'aggiornamento intensivi? Prepensionarli tutti e assumerne di giovani, magari direttamente dalla Fennoscandia? Chiedo, non so. Nel frattempo il governo der merito ci ha informato che siccome ci sarà un calo demografico, ci taglieranno un po' di risorse. Siamo sempre la stessa scuola pubblica che non si è mai rimessa dai tagli drastici della gestione Tremonti-Moratti, ormai vent'anni fa. Sinceramente non riesco a capire cosa si possa tagliare ancora senza che interi settori smettano di funzionare. Probabilmente, mentre lo dico, qualche settore sta smettendo di funzionare: una segreteria qua e là impazzisce, una scuola dell'infanzia perde l'unica professionalità rimasta, una classe non riesce più a permettersi l'intervento di un esperto o di uno psicologo, e così via. Stiamo morendo dissanguati e dobbiamo pure ascoltare le favole sulle scuole modello finlandesi.

Le scuole finlandesi non sono necessariamente un modello. Diversi anni fa si trovarono in cima a una graduatoria statistica, ma nel frattempo avevano deciso di sperimentare modelli diversi e da allora la loro posizione nelle stesse graduatorie è sempre scesa. Questo non significa che non si possa imparare qualcosa anche da loro, del resto appena possibile ci proviamo. Ma si tratta di un piccolo popolo (meno di cinque milioni di abitanti), in un grande territorio fuori dalle grandi rotte migratorie. Paragonare la loro scuola alla nostra implica paragonare la loro società alla nostra: paragonare la loro società alla nostra non ha molto senso, è un'operazione che denuncia da sola la propria artificiosità, come quando Pietro Ichino voleva portare in Italia la flexsecurity danese, e nessuno riusciva a chiedergli: ma perché di tanti posti proprio la Danimarca? È davvero un modello di successo? Nessuno lo sa davvero; ma il bello dell'Europa è che ci sono tanti Paesi, piccoli, grandi, è una specie di campionario di dati statistici dove puoi selezionare quelli che ti piacciono di più e ignorare tutti gli altri. Ad esempio, se vuoi convincere i lavoratori italiani che essere più licenziabili è un vantaggio, tu scarichi il foglio elettronico più grosso che c'è e incroci i dati finché non trovi l'economia più sviluppata con la licenziabilità più alta: vicino all'incrocio sta la Danimarca, ed ecco che la Danimarca diventa improvvisamente un modello di welfare state, perlomeno nei tre mesi che servono ad abolire l'articolo 18: poi improvvisamente a nessuno frega più nulla della Danimarca, dei suoi ammortizzatori sociali e della sua rigidità fiscale; credo nemmeno a Ichino. Il sistema educativo finlandese è rimasto coinvolto in un equivoco del genere. Chi c'è stato ne parla come di una cosa interessante, con luci e ombre. 

Non si tratta comunque di qualcosa che si possa replicare nel settore pubblico italiano. Neanche se lo finanziassimo a dovere – e al contrario, lo stiamo dismettendo – neanche se la piantassimo di buttar via soldi per salvare squadre di calcio che continuano a perderne, piattaforme digitali per la promozione di contenuti artistici che basterebbe mettere su Raiplay o Youtube, presidi di militari che fingono di fare la guardia alle piazze imbracciando armi che non potrebbero usare – anche se usassimo quelle risorse per costruire scuole nuove e metterci dentro insegnanti migliori, non otterremmo la scuola finlandese. Neanche quella francese. Questo perché banalmente siamo una nazione meno ricca della Francia. I neolib – scusate, i maggiordomi dei padroni lo sanno benissimo: se insistono sulla Finlandia è solo per reclamizzare un modello privato che stenta a prendere piede. Tutti gli altri, per favore, dovrebbero smettere di credere alle favole e cominciare a dare un'occhiata ai numeri. 

Alla fine è la solita storia del Ponte sullo Stretto – questa cosa banale per cui lo stretto di Messina è lungo tre km, e una tecnologia per fare una campata lunga 3 km ancora non esiste. Se lo dici, non sei un nemico dei siciliani o del progresso: sei semplicemente uno che conosce questa informazione. Non è che il ponte non lo costruiscono a causa del tuo scetticismo, il ponte non hanno la minima intenzione di farlo. Ne parlano un po', aspettano le reazioni degli scettici e poi si nascondono dicendo ecco, lo vedete? In Italia è impossibile cambiare le cose, per via di questa mentalità. No bimbi, in Italia è possibilissimo cambiare le cose. Serve però il contributo di tutti – a partire dai padroncini. Bisogna scegliere di investire risorse serie nel settore educativo, ovvero il contrario di quello che avete scelto di fare, perché avete scelto di farlo, negli ultimi trent'anni. Non servono discorsi – cioè alla fine possono servire anche i discorsi, e anche i modelli, e anche un po' di banale senso di inferiorità nei confronti dei popoli nordici. Tutto può servire, però la cosa che serve di più sono i soldi. Se davvero accettate di metterci i soldi, la scuola può cambiare, la società può cambiare. Persino lo Stretto, che pure per molti millenni continuerà a essere lungo 3 km, prima o poi potrà essere scavalcato da un ponte: se finanzi la ricerca. (Per favore non cominciate a dire che tra Copenaghen e la Svezia un ponte c'è già. Il Baltico è un mare molto meno profondo, queste cose si imparano a scuola). 

sabato 7 gennaio 2023

Il papa che non volle essere grande

Arrivando a tomba già chiusa, non credo di avere molto di originale da dire su Joseph Ratzinger. In questi giorni mi tengo in allenamento scrivendo piccole agiografie, ed è anche un modo per ricordarsi com'è vacua la gloria degli uomini: trovi un papa del secondo secolo, leggi che è famoso per aver contrastato quell'eresia o quell'eresiarca, poi controlli bene e scopri che l'eresia è del secolo successivo e l'eresiarca non è mai passato da Roma, insomma è difficile trovare qualcosa di interessante da dire per tutti i papi.


Forse tra qualche secolo chi parla di Benedetto XVI si troverà nella stessa difficoltà? Non credo, e però già in questi giorni ho visto molti agiografi improvvisati isolare due episodi particolarmente equivoci: il solito discorso di Ratisbona e la solita cacciata dalla Sapienza. Per questa gente insomma è il Papa che fu criticato per aver parlato male di Maometto (ma non è vero) e perché voleva fare un discorso all'università: e non è vero neanche questo. Sono già leggende, e proprio per questo funzionano; un comunicatore professionista le poteva già liquidare al tempo come mosse false, ma in seguito avrebbe dovuto ammettere che avevano funzionato meglio di tante mosse escogitate a tavolino. Non c'è un tratto che renda riconoscibile la nuova destra conservatrice meglio del vittimismo, e in entrambi i casi, senza volerlo e magari senza capirlo, Benedetto XVI riuscì ad accreditarsi come vittima di una modernità tritatrice di valori tradizionali. 

Poco importa che lo stesso tradizionalismo di Ratzinger sia tutto sommato una cosa nuova (se non proprio posticcia): non solo Ratzinger nel suo periodo cosiddetto progressista fu uno dei teologi animatori del Concilio Vaticano II, ma anche la sua successiva virata a destra era possibile soltanto nello spazio aperto dalla Chiesa postconciliare – tutti questi nuovi tradizionalisti antigender non hanno letteralmente idea di quanto siano comunque moderni rispetto alle posizioni della Chiesa preconciliare, e di quanto poco ci avrebbe messo un Pio XII a scomunicarli tutti al minimo segno di dissidenza. Chi sta sulla frontiera disperato per l'arrivo dei barbari di solito ignora di essere barbaro di padre, di madre, a volte pure di nonna. 

L'idea che Benedetto XVI volesse imprimere una sterzata conservatrice alla Chiesa la può concepire solo l'ingenuo che non ha letto abbastanza wikipedia da sapere che Ratzinger era stato il braccio destro di Giovanni Paolo II per gran parte del papato di quest'ultimo (era il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che neanche troppo tempo prima si chiamava ancora Santa Inquisizione); la sua elezione fu immediatamente interpretata dai vaticanisti competenti nel segno della continuità – prova ne è che Benedetto mantenne l'anticomunismo radicale del predecessore anche se nel frattempo il comunismo aveva smesso di costituire una minaccia: del resto non è che puoi cambiare idea a ottant'anni, non è per questo che ti nominano papa. 

La svolta a destra fu soprattutto percepibile nei simboli: il ritorno dell'ermellino rosso, le famose scarpette di Prada (che non erano di Prada, neanche esse), perfino la scelta di un nome così tradizionale che nel 2005 era uno choc – per la maggior parte dei cristiani viventi era uno choc che potesse sussistere un papa diverso da Giovanni Paolo. La stessa apertura ai lefebvriani, che a mio irrilevante parere non la meritavano, ma che in effetti impediva loro di giocare lo stesso gioco vittimista che i vedovi di Ratzinger stanno giocando in questi giorni. La messa in latino, molto auspicata da gente che il latino non lo capisce ma tanto a messa non ci va (in linea di massima il vedovo ratzingeriano è uno che in una parrocchia media italiana non ci passa neanche a Pasqua e Natale). Tutte sciocchezze, viste da lontano: addobbi barocchi per chi non riesce a vedere la trama, ora qualche malizioso potrebbe far notare che stucchi e addobbi sono esattamente la specialità del Vaticano. Ma il Novecento ci aveva abituato a pontificati più interessanti e lo stesso Ratzinger, alla fine, non passerà alla storia per aver subito questa narrazione di pontefice conservatore perseguitato dalla modernità: il suo contributo più interessante è proprio quello più innovativo. 

La cosa più importante che ha fatto Benedetto XVI è avere rinunciato a essere Benedetto XVI: è anche la maggior rottura rispetto al papa precedente, alla visione escatonica di Giovanni Paolo II, il papa che non voleva rinunciare al suo ruolo prima di morire e che fino a un certo punto non credeva di dover morire. Non tutti i papi possono essere grandi papi, ma immagino che ci voglia una certa umiltà e autoconsapevolezza per accettare che non è capitato a te: questa umiltà e autoconsapevolezza, Joseph Ratzinger è riuscito a conservarla sul soglio papale oltre gli ottant'anni. Per questo sarà ricordato, più che per il cappellone rosso e le babbucce.

Per il resto, il suo pontificato dimostra quanto è difficile riuscire a conservare la Chiesa cattolica nella modernità tanto quanto il pontificato successivo dimostra quant'è difficile innovarla. La modernità è un cambio di paradigma che rende normali cose prima impensabili, ma soprattutto considera scandalose cose prima praticabili e praticate. Da grande inquisitore, il cardinale Ratzinger aveva potuto osservare da un punto di vista privilegiato questo cambio di consapevolezza che dagli anni Ottanta in poi ha reso migliaia di ecclesiastici, prima irreprensibili, passibili colpevoli di abusi nei confronti di bambini e adolescenti. Cosa poteva fare? 

Fino a un certo punto, credo finché gli è stato possibile, Ratzinger ha taciuto: perché concedere anche solo un caso significava ammettere indirettamente di averne insabbiate altre migliaia. A un certo punto questa strategia non era più praticabile: Ratzinger è stato probabilmente l'uomo che lo ha capito e che ha messo, nel frangente, la proverbiale "faccia". Non era ancora stato eletto, anzi l'ammissione di una certa "sporcizia" nella Chiesa può essere stato il momento in cui ha fatto capire ai cardinali di essere in grado di prestarsi, quasi ottantenne, a un ruolo di capro espiatorio che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque altro (compreso Bergoglio, che a quanto pare nel 2005 implorò i colleghi di non eleggerlo).

Ratzinger accettò questo fardello, lo portò su di sé per otto anni in cui furono scoperchiati diversi scandali, e per tutto questo tempo reagì in un modo che personalmente trovo molto discutibile, ma allo stesso tempo non credo che esistessero altri modi per un papa di reagire: scaricando la colpa sulla modernità. Ovvero, se preti e suore toccavano i ragazzini e le ragazzine loro affidati, la colpa era della modernità che aveva portato un vento di lussuria anche nei collegi e nei conventi. Quando? Più o meno a partire dagli anni Sessanta, e quindi dallo stesso Concilio Vaticano II. Prima, niente lussuria, niente abusi. 

Chi in questi giorni voglia opporsi alla figura di Ratzinger come grande intellettuale può fermarsi su questo punto, perché per difendere l'idea che gli abusi del clero siano più un problema di modernità che di clero bisogna bendarsi più e più volte; ignorare tutti gli studi che dimostrano statisticamente quel che poi è abbastanza ovvio, cioè come i colpevoli di abusi svolgano professioni o attività a diretto contatto coi minori, ma anche mettere di nuovo a tacere voci che nella Chiesa denunciano il problema da un millennio, a partire almeno dal famoso Liber Gomorrhianus di San Pier Damiani. Il papa che ai tempi recepì le critiche di Pier Damiani con una certa moderazione fu accusato da talune malelingue di essere lui stesso un sodomita; il Ratzinger che di fronte a scandali sistemici continuava a mantenere l'idea che i collegi traboccassero di purezza e santità fino all'arrivo dei juke-box e delle minigonne, ecco lui stesso senza accorgersene non riusciva a non ispirare l'idea di essere il padrino di un'enorme confraternita millenaria di sodomiti in incognito, decisi a mantenere il segreto sul vero motivo per cui da secoli non vogliono cedere il controllo delle scuole. L'ermellino rosso, appunto, e le babbucce, e quello sguardo malizioso da cattivo del film... 

E d'altro canto cosa avrebbe dovuto fare Ratzinger? Voi cosa avreste fatto al suo posto, sul suo Soglio? Annunciare urbi et orbi va bene, scusate, fino a trent'anni fa fustigare i cattivi studenti non era un reato, e anche abusarne un po' era considerato un peccato, sì, ma non così grave: tanto che chi sin da giovane sentiva questa inclinazione (magari dopo essere stato abusato a sua volta in un collegio) si orientava facilmente verso una carriera ecclesiastica? Come dire che ogni cultura è relativa, quel che era morboso oggi non lo è più, quello che ieri non lo era oggi invece lo è, ecco questo relativismo è difficile da accettare persino per i woke multicolore di oggi, immaginate quanto può esserlo per un papa. 

Nemmeno Francesco, che è così tanto più simpatico, può uscire al balcone e dire va bene, ogni istituzione culturale preposta all'insegnamento dei giovani ha avuto nei millenni la sua percentuale di abusatori, è un problema noto sin dalla Grecia classica ma per molto tempo non è stato IL problema, è chiaro che se sovrapponete le categorie di adesso con quello che abbiamo fatto per secoli possiamo risultare un'istituzione internazionale che garantiva ai pedofili copertura e contatti, ma è un po' come paragonare Cortés a Hitler... ah ma voi volete anche paragonare anche Cortés a Hitler? Insomma così relativisti non siete neanche voi. 

La modernità non è il superamento dei paradigmi; è essa stessa un paradigma e forse col tempo avrà anche la sua Chiesa: ma non può essere quella cattolica che lotta per restare rilevante in Europa (e soprattutto in America e Africa, dove il relativismo è un avversario molto relativo: quello prioritario non è nemmeno l'Islam, ma il protestantesimo e in generale il turbocalvinismo di gente come Bolsonaro).

(E contro il turbocapitalismo di gente come Bolsonaro, io se c'è da difendere i cattolici, con tutti i loro enormi difetti, non credo che mi tirerò indietro).

giovedì 5 gennaio 2023

Edoardo il Confessore

5 gennaio: Edoardo il Confessore (1002-1066), re d'Inghilterra

Per chi è già re, la via per la santità è relativamente semplice: fondare un ricco monastero – nel caso di Edoardo, l'abbazia di Westminster – può essere determinante. Non solo i monaci continueranno a ricordarsi di te nelle loro preghiere, ma avranno tutto l'interesse a difendere la tua figura storica e a garantire sulla tua vita e i tuoi miracoli. Poi ci sono i parenti, tanto disposti a onorare la tua memoria da morto quanto diffidavano della tua figura da vivo: alcuni davvero non vedono l'ora che tu te ne vada in paradiso. 

Edoardo non è il primo santo in famiglia: già uno zio omonimo veniva venerato come "martire" perché era stato fatto uccidere dalla matrigna nel 978. Il termine "confessore" nel medioevo veniva appioppato ai santi che pur difendendo la fede ("confessando") non ne morivano di morte violenta, evento tutt'altro che infrequente nel mestiere di monarca. Erano, tanto per cambiare, tempi complicati, che vedevano l'Inghilterra sospesa tra due centri di potere: Danimarca e Normandia. Edoardo è figlio di Etelredo II detto il Malconsigliato, che aveva rinunciato a invadere la Normandia per sposare Emma, sorella del duca di Normandia e soprannominata "la gemma dei Normanni", si presume per l'avvenente bellezza. A Emma sarebbe capitato di sposare due re, generarne altri due, e fare da matrigna da altri due ancora. L'inizio della carriera di regina però non fu promettente: i Danesi invadono l'Inghilterra ed Etelredo, piuttosto di combattere, decide di scappare con tutta la famiglia dal cognato normanno. Non sappiamo se fu questa scelta a valergli il soprannome di Malconsigliato: fatto sta che Edoardo, undicenne, ne avrebbe trascorsi altri venticinque in questa specie di esilio, che a guardarlo dal nostro punto di vista tanto esilio non era, visto che almeno la madre doveva trovarsi più a suo agio da quella parte della Manica. Lo stesso Edoardo fa carriera e forse per qualche tempo diventa tutor del figlio del duca, il piccolo Guglielmo che poi conosceremo come il Conquistatore. Nel 1016 a Emma, rimasta vedova, viene proposto di sposare un nuovo re d'Inghilterra: Canuto I, il figlio dell'invasore danese che aveva fatto scappare il primo marito. Come dire di no? Ma Canuto è anche re di Danimarca, anzi fa già abbastanza fatica a regnare laggiù su alleati vichinghi piuttosto irrequieti, e l'Inghilterra resta in balia delle famiglie rivali. Quando anche Canuto muore, nel 1035, Edoardo e il fratello Alfredo provano a sbarcare nell'isola, ma non hanno fortuna: Alfredo in particolare viene catturato dal conte del Wessex che lo fa accecare per renderlo inadatto al trono: Alfredo muore poco dopo a causa delle ferite. Edoardo è già scappato in Normandia. La fortuna gira in suo favore nel 1041, quando l'Inghilterra ormai è controllata da Canuto II, figlio di Emma e Canuto. Il fratellastro di Edoardo regna sull'isola col pugno di ferro, ma non ha eredi e rischia di venire travolto da una congiura di palazzo o una rivolta popolare o entrambe le cose: propone quindi a Edoardo di co-regnare con lui. A Edoardo basta poco per essere amato dai nuovi sudditi: tanto per cominciare non è danese come gli ultimi conquistatori, né ha dovuto alzare le tasse per combatterli o per rimettere in riga qualche nobile riottoso. 

Canuto muore l'anno dopo in Danimarca durante un matrimonio di parenti, forse per un ictus (a 24 anni!): Edoardo, che pare non fosse un cattivo combattente, si ritrova re incontrastato di tutta l'Inghilterra senza avere vinto una sola battaglia e capisce forse nell'occasione che le guerre, meno si combattono, meglio è. Ovviamente non riuscì a farne del tutto a meno, ma riuscì a ridurle al minimo, addirittura sposando la figlia di uno dei suoi peggiori nemici, il conte del Wessex che aveva accecato e ucciso suo fratello. L'unione non lasciò figli, il che permise poi ai monaci di Westminster di ricamare la leggenda di un matrimonio 'bianco' contratto per necessità politica ma non consumato. Ma persino la mancanza di un erede diretto, che in una monarchia è spesso visto come indizio di fragilità, Edoardo riuscì forse a trasformarla in un vantaggio, se davvero promise a Guglielmo di Normandia di succedergli al trono. L'alleanza coi Normanni, in una fase in cui i Vichinghi erano presi dalle loro beghe, lo rese così sicuro in politica estera da consentirgli di smantellare del tutto la flotta che suo padre aveva istituito per difendersi dalle incursioni danesi (e che decisamente non aveva funzionato). Alla sicurezza nel Mare del Nord avrebbero provveduto i Cinque Porti, cinque municipalità affacciate sul mare a cui Edoardo offrì in cambio speciali privilegi. Anche grazie a questa decisione riuscì ad abolire le tasse per il mantenimento dell'esercito.

Dai documenti che ci restano, non risulta che Edoardo fosse particolarmente munifico nei confronti della Chiesa: la decisione di istituire un'abbazia a Westminster viene ricondotta a un voto che Guglielmo avrebbe fatto durante la sua giovinezza in Normandia, di recarsi in pellegrinaggio a Roma se mai un giorno fosse riuscito a tornare nella natia Inghilterra. Nell'isola, come si è visto, c'era tornato; dopo di che aveva scoperto di non avere poi tutta questa voglia di lasciarla di nuovo: né poteva fidarsi troppo di nobili e parenti. Sarebbe stato un papa (non è chiaro quale, anche a Roma erano tempi turbolenti) a suggerirgli di destinare il budget previsto per il viaggio all'erezione di una chiesa che sarebbe diventata il pantheon dei re inglesi. Quando fu eretta era la prima costruzione in stile romanico dell'isola (due secoli dopo fu completamente rifatta alla moda gotica). Edoardo fece appena in tempo a presenziare alla sua consacrazione: morì in quel 1066 così importante per la storia della sua nazione. Alla sua morte il trono fu reclamato sia da Guglielmo di Normandia (figlio dello zio), sia da Aroldo, figlio del suocero conte di Wessex (sempre quello che aveva accecato il fratello di Edoardo). Come sia andata a finire lo sapete perché lo avete letto sui libri di storia, e anche nel caso non sapeste leggere è più o meno tutto disegnato sugli arazzi di Bayeux. Guglielmo, benché molto diverso dallo zio per temperamento e per politica, fu probabilmente il primo a capire quanto fosse importante insistere sulla santità del re di cui si professava erede. Edoardo era una figura di re pacifico e autorevole, nato in Inghilterra, cacciato da invasori malvagi che per lungo tempo gli avevano impedito di tornarvi: tutto quello che Guglielmo non era, ma che gli inglesi avrebbero desiderato. Canonizzato nel secolo successivo, per qualche tempo fu considerato il protettore dell'Isola, finché i cavalieri di ritorno dalle Crociate non imposero la figura più guerresca di San Giorgio. È ancora il protettore dei matrimoni difficili, dei monarchi in generale e in particolare della famiglia reale inglese, che sembra averne spesso bisogno.