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Collaborazioni

mercoledì 8 ottobre 2025

Del non capire Francesca Albanese


Dai e dai, ce l'hanno fatta anche stavolta. Su un mare di gente, sono riusciti a distinguere uno striscione che galleggiava diffondendo un messaggio molto discutibile. A quel punto bastava mostrare soltanto quello striscione, spiegare che il mare avrebbe dovuto dissociarsi, e non c'era più bisogno di spiegare perché loro avevano fatto stare bene a stare in casa all'asciutto. 

(Certo, sarebbe stato meglio trovare qualche scena di guerriglia urbana, ma non se n'è visto un granché, anzi i casseur venivano isolati, quindi pazienza dai, meglio uno striscione che niente).

Lo slittamento, nell'ultimo anno, è stato così lento da apparire impercettibile, eppure c'è stato: ormai nessuno prova più a difendere Israele (e chi lo fa deve ricorrere a mezzi brutali, come Pacifici e i suoi amici). La maggior parte degli ex-difensori-di-Israele-a-ogni-costo non stanno più veramente difendendo Israele, quanto piuttosto sé stessi. Il mondo accusa Israele di genocidio, ebbene loro hanno qualche remora sull'utilizzo del termine. L'Italia sciopera e protesta con un'intensità che non si vedeva da decenni, e loro fanno presente che certi striscioni proprio no, non vanno bene; e anche Francesca Albanese dovrebbe comportarsi meglio. Ma anche nei suoi confronti, non riescono più a dire che è un agente di Hamas coi conti offshore (anche perché l'Albanese, si è scoperto, ha buoni avvocati). A un certo punto è diventata una questione di faccette, di vocina, di toni. I contenuti continuano a essere del tutto sconosciuti: la maggior parte dei criticanti non ha mai letto un suo report, non hanno nemmeno idea che lei ne abbia scritti. L'hanno identificata come il leader di un movimento che credono nato all'improvviso, e non capiscono perché lei da leader non si stia comportando: la vorrebbero in televisione a farsi bersagliare dai pupazzetti, e lei magari se la invitano ci va pure, ma non è il suo ruolo e si stanca subito, ha meglio da fare. Questo è molto frustrante.

Per i polemisti di destra, comunque, il copione è già scritto. Non ha nessuna importanza cosa dica o faccia: è una donna, quindi basta recuperare il canovaccio già adoperato con Boldrini, Bindi, Schlein, e tante altre. Un po' più complicata è la situazione per il centro cosiddetto liberale e filoisraeliano, ma qui apriamo una parentesi: ha davvero senso parlarne? Di chi scrive sul Foglio o Linkiesta, voglio dire, insomma, esistono ancora? A parte Guia Soncini, gli altri li legge davvero qualcuno? Non è che semplicemente sopravvivono (con fondi pubblici) come bersagli retorici, per far sembrare tutti gli altri un po' più svegli? Non lo so, magari nelle grandi città ci sono ancora fansclub, qualche socio ogni tanto mi si palesa sui social, non sono mai sicuro che non si tratti di un bot. Io sto in provincia e non riesco davvero più a immaginare quale abisso di alienazione possa condurre persone alfabetizzate a fidarsi di un Ferrara o di un Christian Rocca – ma fingiamo una volta in più che le loro opinioni abbiano una qualche rilevanza. Ecco, questi l'Albanese non sanno come prenderla. Non l'hanno capita all'inizio e non possono più capirla adesso – ciò equivarrebbe ad ammettere, appunto, che non hanno capito nulla fin qui, un suicidio professionale: gli opinionisti non possono rimangiarsi le loro opinioni, devono calare a picco con esse. In questi casi un disegno vale più di mille parole, il che ci permette di estrarre un significato interessante persino dalla vignettina del povero Bozzo: l'Albanese gli ricorda Olivia di Braccio di Ferro. Tutto qui, nessun accenno alle sue idee, al suo ruolo istituzionale, al modo in cui l'ha svolto, alle polemiche a cui ha partecipato, alle accuse gravissime che le sono state rivolte, alla persecuzione di cui è vittima: tutte cose che Bozzo magari ignora, probabilmente la considera un personaggio televisivo alla stregua di tanti, da liquidare con una caricatura.

Mesi fa, quando non era ancora al centro di un'attenzione ossessiva, fu Francesco Cundari, a proporre una formulazione che nell'ambiente piacque molto. Suggerì, Cundari, dall'alto del suo essere Cundari, che Francesca Albanese stava alla causa palestinese come Alessandro Orsini sta alla questione russo-ucraina. Ovvero.

Ovvero Cundari non sembrava in grado di distinguere un animaletto da talk italiano da un'esperta di diritto internazionale con un incarico alle Nazioni Unite. A volte mi domando se non siano, Cundari e compagnia, le vere vittime del grillismo. Se lo sono trovati davanti nei momento in cui dovevano diventare adulti, sviluppare un senso critico, emanciparsi dai maestri... e semplicemente si sono messi dietro una siepe davanti alla prima pagina del Fatto Quotidiano, scambiando i fondi di Travaglio per l'impero del Male. Il grillismo nel frattempo è sfumato, come qualsiasi altro fenomeno col tempo. Siamo tutti cresciuti, persino Di Battista è un po' cresciuto, ma loro sono restati lì, dietro la siepe, a impallinare obiettivi immaginari. Tanti anni fa qualcuno non solo decise che erano i primi della classe, ma li convinse di questa cosa: e nessun test invalsi è intervenuto a correggere questa autopercezione. Ora non importa quante pensose previsioni si siano rivelate errate, quanti granchi siano stati pescati, quanti riveriti maitre à penser si siano palesati per tromboni costipati; lo spettacolo deve andare avanti, e lo spettacolo si basa sull'assunto che i più intelligenti siano ancora loro. E veniamo a Guia Soncini, che intelligente lo sarebbe davvero – quel tanto che le basta per aver capito, da anni, che meno si sbilancia su Israele/Palestina, meglio è. Quando poi tutti ne parlano, quando non può proprio esimersi, la Soncini padroneggia diverse tattiche. Può mandare la palla in tribuna (Ci vuole labombatomica! Lo dicono tutti!) Può commentare la stessa clip di youtube che stanno commentando tutti (il siparietto tra l'Albanese e il sindaco di Reggio Emilia), dimostrando senza farci troppo caso di averla capita meglio di tutti: che io sappia è l'unica ad aver notato che l'Albanese è intervenuta non per criticare il sindaco, ma per difenderlo da un pubblico che lo fischiava. Può notare un dettaglio che magari non è neanche vero, ma è interessante (la "vocetta da Paperina"). Potrebbe forse descriverlo in maniera meno greve ("La vocetta da bisognosa della guida maschile è il modo in cui la donna al comando si accerta che a suo marito non caschi il cazzo"), ma forse è il suo modo di non spaventarci, di non sembrarci troppo intelligente: c'è chi fa la vocetta, c'è chi scrive le parolacce, ok. Persino la Soncini non riesce, comunque a vedere cos'è successo in questi giorni. Per la prima volta dopo anni i sindacati hanno manifestato coi cattolici, con i musulmani e con gli studenti: un blocco sociale sensibilmente diverso dai soliti, che ha mandato un po' in confusione il governo e che ha modificato irreparabilmente il quadro in cui viene descritta in Italia la questione di Gaza. E però la Soncini aveva un canovaccio troppo comodo per rinunciarvi – la gita in barca dei bianchi privilegiati esibizionisti che si illudono di salvare il mondo – e lo ha usato. Avrà finto di non vedere che la Flotilla è partita da Tunisi, aveva un nome arabo e radunava volontari da tutto il bacino del Mediterraneo – la barchetta che per poche migliaia di metri non è riuscita a spiaggiarsi sulla Striscia era turca.   

Almeno una volta ho lasciato scritto che assistere più o meno passivamente a tutti questi disastri mi fa sentire come il personaggio di John Hurt nei Cancelli del cielo. Questo è vero un po' per tutta la mia classe, e in particolare in questi giorni mi sembra vero per la Soncini, la più brava di tutti noi a raccontarcela. A chi se non a lei avremmo fatto leggere un discorso nella cerimonia del diploma – un discorso, ovviamente, bislacco e divagante che avrebbe preso in giro tutti, dopodiché i maschi se ne sarebbero andati a menarsi in girotondo.

Ovviamente quando la Confcoltivatori del Wyoming decide di sterminare i peones lui non è così d'accordo, ma nemmeno si preoccupa troppo del problema: dopodiché continua a fare battute del cazzo finché non si ritrova al centro esatto di un girotondo all'ultimo sangue, dalla parte sbagliata della barricata, anche se non gli viene nemmeno in mente di sparare. L'ultima cosa che dice è: l'anno scorso ero a Parigi, oh quanto amo Parigi (la penultima è: madò, quanti sono, mica potete farli fuori tutti).

domenica 5 ottobre 2025

Santi di fiume e di laguna

5 ottobre: San Placido, monaco e martire (VI secolo)

San Benedetto ordina a San Mauro di salvare San Placido.
Matteo di Pacino (sec. XIV)

A dire il vero, se avete in casa qualche calendario moderno, è più facile che il 5 ottobre nomini Santa Maria Faustina Kowalska; ma prima che il connazionale Giovanni Paolo II la canonizzasse nel 2000, era Placido la vedette del 5 ottobre; malgrado alla fine di lui non è che sappiamo più di tanto. Gregorio Magno ce lo presenta come uno dei due discepoli più intimi di San Benedetto, il quale lo aveva praticamente adottato da bambino, e che un giorno nella sua cella chiamò improvvisamente l'altro discepolo (San Mauro) dicendogli: presto! Ho visto Placido cadere nel fiume mentre cercava di riempire un secchio d'acqua, ora è alla deriva, corri, va a salvarlo! San Mauro si precipita fuori, verifica che le cose stanno proprio come il maestro ha spiegato, si mette a inseguire San Placido, lo riacciuffa e lo porta a riva; solo a quel punto si rende conto che per aver fatto tutto così presto non può che aver camminato sulle acque, alla Gesù. È tutto merito della tua obbedienza, gli dice San Benedetto: io ti ho detto di correre e tu l'hai fatto, anche se non c'era suolo su cui correre. No gli risponde il discepolo Mauro: è tutto merito della tua fede, e a quel punto sarebbero potuti andare avanti per ore a scaricarsi il merito a vicenda, un'estenuante gara di umiltà che fortunatamente viene interrotta dallo stesso Placido, il quale spiega che mentre veniva salvato aveva visto su di sé il mantello di Benedetto: caso chiuso. Tutto questo ci risulta appunto dai Dialoghi di Gregorio Magno, e come dubitare di tanto autorevole fonte? Ma era comunque un po' poco, al punto che più tardi si provvide ad aggiungere un destino di martire: inviato da Benedetto a Messina per fondarvi un monastero, Placido sarebbe incappato in una banda di pirati vandali che avrebbe massacrato lui, i fratelli Eutichio, Vittorino e Flavia e altri trenta monaci. Questo consente all'Ordine dei Cavalieri di Malta di custodirne le reliquie nella chiesa di San Giovanni di Malta (a Messina). C'è anche una fonte d'acqua miracolosa. 


6 ottobre: San Magno (VII secolo), vescovo di Oderzo ed Eraclea, e di Venezia, in un certo senso.


Quando diciamo "Venezia" di solito intendiamo una città precisa, dalla geografia unica al mondo ma proprio per questo invariabile, irrigidita nel ruolo che dovrà recitare da qui in poi per i turisti, ancora per quanto? Per più tempo possibile, il Mose garantisce le mareggiate sotto i quattro metri, poi si vedrà. E lo stesso Mose, che sembra così innovativo, a ben vedere serve proprio a mantenere artificialmente in vita un ambiente lagunare che in natura è tanto effimero. In effetti per secoli Venezia non è stata nulla di tutto questo. Non era nemmeno una città, piuttosto una provincia, un'espressione geografica, il luogo dei Veneti, insomma un territorio amministrativamente bizantino, quel che restava delle riconquiste di Giustiniano sul litorale adriatico dopo l'arrivo dei Longobardi nell'entroterra. Nemmeno la parola "territorio" rende l'idea, visto che si trattava perlopiù di isole affioranti da un vasto paesaggio lagunare che riceveva l'acqua di tutti i fiumi veneti e la portava al mare, estendendosi da Grado a Comacchio. Tanto è irrigidita la Venezia di oggi, tanto era mobile e cangiante quella dell'Alto Medioevo, perché la laguna non è un ambiente in equilibrio; col tempo o si interra o cede il suo spazio al mare, nel frattempo i fiumi spostano gli estuari e disegnano nuovi delta. Con le forme della natura cambiano le rotte degli abitanti umani, che si spostano di isola in lido a seconda delle loro convenienze. Il punto fermo è che i barbari, con la laguna, non vogliono averci a che fare, e questo per secoli vi spinge i veneti della terraferma. In linea di massima quando un isolano parla di "terraferma" sta un po' esagerando, anche le isole sono terre emerse abbastanza ferme: ma per il veneziano medievale la situazione era diverso, la terra che aveva sotto i piedi poteva inabissarsi e riaffiorare. Qui gli eserciti di Goti e Longobardi non arrivano mai, il che non impedisce ai veneziani di farsi la guerra da soli, tra un isolotto e l'altro, per motivi economici e persino religiosi. 

Magno è il vescovo di Opitergium – oggi Oderzo (TV) – che per sfuggire ai Longobardi decide di mettersi a capo di una migrazione di massa, dalla sua città a un borgo fiorente nella zona settentrionale della laguna, che fino a qualche anno prima portava il nome greco di Melidissa ("dolce come il miele") e poi era stata battezzata Eraclea per festeggiare la vittoria dell'imperatore Eraclio sui persiani. Magno potrebbe anche non essere mai esistito: perlomeno è il sospetto che mi lasciano tutti i vescovi che si chiamano così, dato che nelle liste a volte "Magno" compariva di seguito a un nome, come un appellativo: "Il Grande"; a volte però chi copiava la lista si sbagliava ad andare a capo e trasformato un appellativo in un nome di vescovo. Il fatto che di questo vescovo non si sappia nulla scatena la fantasia degli agiografi, che ne approfittano per appioppargli qualche leggenda. In questo caso la leggenda prevede che Magno ottenga dal papa di mantenere il titolo di vescovo di Oderzo; così per la prima volta in uno dei più di cento insediamenti sulla laguna si stabilisce un vescovo, qualcosa che dà lustro al centro abitato che successivamente diventerà la capitale provvisoria del ducato bizantino di Venezia. Per questo motivo i resti di Magno furono a lungo conservati nella chiesa di San Raffaele, come quelli di un protovescovo. Ai suoi tempi però la città che noi chiamiamo Venezia ancora non c'era; solo qualche isolotto abitato presso il canale più profondo, quindi più navigabile, della pianura, che al tempo non si chiamava Canal Grande, ma forse già Rialto, dove "alto" significa anche profondo. Eraclea avrebbe perso rapidamente la sua centralità, venendo rimpiazzata come capitale prima da Malamocco, su quello che oggi è il Lido, e poi appunto da Rialto. Nel XII secolo sarebbe rimasta interrata dopo una violenta alluvione. Oggi è un piccolo borgo di terraferma, ma i resti di Magno, dopo un lungo soggiorno a Venezia, sono tornati lì. 

sabato 4 ottobre 2025

(Forse dovreste guardare) il Gandhi di Richard Attenborough


A questo punto credo che non uscirò mai davvero dalla scuola media, e alla scuola media nel 1985 mi hanno fatto vedere il Gandhi di Richard Attenborough. 

Il Gandhi di Richard Attenborough contiene la scena con più comparse della Storia del cinema (il funerale), ma non è quello che mi è rimasto impresso. 

Il Gandhi di Attenborough prosegue con la scena più comica del film, quella in cui Ben Kingsley interpreta ancora un giovane avvocato indiano fresco di studi con tutti i capelli, che è appena arrivato in Sudafrica e pretende di viaggiare in prima classe, avendo pagato il biglietto. Ma per i sudafricani bianchi non importa cos'abbia studiato, è solo un cafro e deve portare il suo culo nero in terza classe. Questa scena di solito rimane impressa, ed è il motivo per cui dopo tanti anni ho capito che bisognava tornare al Gandhi di Attenborough. 

Da lì in poi, il film è per lo più composto da scene in cui Gandhi disobbedisce e gli inglesi lo imprigionano. Più e più volte. Finché anche lo studente più di coccio capisce che c'è un metodo, che questo metodo presuppone che lì intorno ci siano giornalisti liberi e intelligenti, e che questo metodo ha già liberato una nazione di centinaia di milioni di persone, e potrebbe forse, chissà, proviamoci, salvare l'umanità in generale. Anche se il film non finisce bene, non illude nessuno; però proviamoci.

Nel Gandhi di Attenborough c'è quella scena in cui sdraiato su un enorme baldacchino, vestito come un paria, Ben Kingsley chiede ai suoi connazionali di bruciare i vestiti made in England, perché è quella la vera lotta: non gli attentati, non la guerriglia, ma un po' di orgoglio e un po' di sano boicottaggio, quello che gli israeliani temono più del nazismo; del resto sei un nazista, se non compri i loro prodotti. 

Il Gandhi di Attenbourough è il film che due ore e mezza dopo mostra due colonne di profughi disperati, che finiscono per ammazzarsi a vicenda, perché sono sempre gli anelli più deboli della catena a spezzarsi. È la minaccia inglese che si concretizza, la profezia che si autoavvera: quando noi ce ne andremo, voi vi ucciderete a vicenda. Il Gandhi di Attenbourough si è opposto per tutta la vita a questa a profezia, ed è stato sconfitto. Quella sequenza mi è rimasta impressa e mi ha finalmente svelato, quando avevo quindici anni, perché di fianco all'India esiste il Pakistan – una nozione che in seguito si è rivelata preziosa, perché mi è capitato molti anni dopo, sempre alla scuola media, di avere tanti alunni pakistani e qualche indiano, spesso nella stessa aula: e a tutti ho cercato di mostrare il Gandhi di Attenborough. Anche se Muhammad Ali Jinnah, padre della nazione pakistana, non è che ci faccia una grandissima figura, eh? Ma almeno è in scena, e ha qualche cosa da dire, e alcune, per quanto antipatiche, si rivelano più vere di quelle che pensava Gandhi. 

Il Gandhi di Attenbourough è un film invecchiato meno di altri che mi mostrarono alle medie (Torna a casa Lassie! The Day After, mamma mia), ma che comunque sente il tempo. Probabilmente tra qualche anno diverrà inguardabile. Questa pretesa tutta anglosassone di poter fare i conti col proprio passato coloniale, di ergersi a giudici e giuria di sé stessi – l'ultimo rantolo dell'imperialismo: prendersi anche Gandhi, anglizzarlo, internazionalizzarlo. Per cui ultimamente, se avevo tempo, ci aggiungevo anche qualche sequenza dall'unico film indiano che ho visto davvero, una baracconata sublime in cui gli inglesi sono cattivissimi. Perché in futuro tutte queste sfumature non ci saranno – forse che perdiamo tempo con le sfumature, quando raccontiamo i nazisti? Sarà tutto un po' più semplice: gli inglesi erano prepotenti, e li abbiamo giustamente cacciati. Se dico "abbiamo", è perché per me è normale pensare che in futuro mi sentirò un po' più indiano che inglese. Se non sarò più io, saranno i miei nipoti. Lavorando nella scuola media dopo un po' uno comincia a vederla così. 

Nel frattempo però ho continuato a mettere davanti agli occhi dei miei studenti il Gandhi di Attenborough. Non è il film più eccitante che si possa programmare: bisogna punzecchiarli continuamente, un'ora la taglio sempre, però credo, in coscienza, che la salvezza dell'umanità passi di lì. Come posso spiegarmi? È come se fosse lui a guardare me. È come un faro: non il migliore, il più alto o il più brillante, ma quello che mi è stato più utile. Nell'oscurità, ogni tanto mi illumina, e in quel momento posso vedere dove mi trovo e chi ho intorno. Potete fare i gandhiani da una vita, ma quando passa quella luce, è possibile che vi fotografi mentre state dalla parte dei potenti, dalla parte di chi spara sulla folla perché non ha più altri strumenti per capire, per reagire. Potete esservi masturbati per tutta la vita con le libertà e i diritti civili, e però nel momento in cui il Gandhi di Attenborough, ecco che vi scopre su twitter mentre tifare per gli sterminatori, per i razzisti, per i coloni. Avete assistito alla più spettacolare iniziativa nonviolenta mai organizzata: un convoglio di barchette da diporto che ha sfidato le forze armate più morali e psicotiche del mondo. Eravate vivi quando è successo: potreste raccontare ai nipotini che c'eravate; ma non lo farete, perché mentre è successo eravate quelli che ridevano, che prendevano in giro gli attivisti, che scambiavano la pirateria per giustizia, che invocavano speronamenti, manette e voli charter non pagati. Il metodo di Gandhi, almeno del Gandhi di Attenborough, presume che intorno ai fatti si muovano veloci giornalisti intelligenti e onesti; voi quella intelligenza non avete voluto mostrarla (nessuno in effetti ve l'avrebbe pagata) e quell'onestà... l'avete venduta da tempo.

 Allora, mi dispiace, ma questo è quello che siete veramente, questo è quello che resterà di voi, ammesso che resti qualcosa: magari è meglio di no, che dite? Non so se lo facciate per interesse o per fede o perché siete rimasti invischiati nella compagnia sbagliata. Forse è una questione genetica, sì, semplicemente siete nati stronzi; o forse alle medie non vi hanno fatto vedere il Gandhi di Richard Attenborough in una classe rumorosa, su un televisorino 4:3 in fondo all'aula magna, e metà della classe chiacchierava e/o limonava. Vi siete persi un faro importante, questo è un fatto. Ma magari potete ancora farcela. Uno di questi giorni, invece delle vostre solite serie serie, provate a guardare il Gandhi di Richard Attenborough. E quando Gandhi si fa arrestare, pensate a tutti i post irridenti che avreste scritto su quel cafro fanatico che fa le smorfie e si beffa dell'ordine costituito, quello screanzato che si prendeva le vacanze invece di lavorare, quel poco di buono, quel ladro di sale che sobillava i giovani e gli onesti lavoratori. Non so, magari funziona ancora. Non dico sia un capolavoro, ma potrebbe essere il film che vi salva la vita. A me è servito tanto, poi certo, ero giovane. Che fortuna ho avuto, a fare la scuola media. 

mercoledì 1 ottobre 2025

Il vescovo segreto

C'è un ritratto che riprende questa
foto, ma gli fa indossare l'abito 
dei vescovi, che Bogdánffy non 
poté mai indossare in pubblico.
2 ottobre: Beato Szilárd István Bogdánffy (1911-1953), vescovo cattolico in Romania. 

A proposito di Monsignor Szilárd I. Bogdánffy, vescovo clandestino di Oradea, nella Romania comunista del secondo dopoguerra, devo confessare un rimpianto. A quanto pare, forse prima ancora di essere nominato vescovo, Bogdánffy aveva ricevuto dai dirigenti comunisti rumeni una proposta in un certo senso più allettante: diventare il fondatore, il patriarca di una Chiesa ancipite di Stato, di rito latino, ma completamente staccata dalla Chiesa romana. Bogdánffy disse no, senza neanche troppo pensarci: il che gli costò la salute e probabilmente la vita: tanto che nel 2010 la Congregazione per le cause dei Santi lo proclamò martire della fede e beato della Chiesa cattolica; definizione storicamente ineccepibile, perché per rimanere fedele alla sua Chiesa, Bogdánffy preferì essere internato. E però. 

E però credo di non essere l'unico ad aver pensato: ma che roba incredibile sarebbe stata, una Chiesa di stato ancipite, di rito latino, nella Romania comunista del secondo dopoguerra? Che occasione unica per studiare qualcosa che in effetti probabilmente non poteva esistere. La Storia non si fa coi Se, anche perché procedono a cascata – se fosse nata questa Chiesa, tollerata e magari sponsorizzata dal regime, sarebbe riuscita ad attirare anche parte dei fedeli ortodossi? Non avrebbe giocato un ruolo importante nell'evoluzione (nell'involuzione) del comunismo in Romania? Non sarebbe stato un esempio interessante per i regimi comunisti limitrofi? Sarebbe stata più o meno progressista della Chiesa romana, più o meno aperta alle istanze sociali? Come avrebbe temperato, o addirittura evitato, la degenerazione del regime di Ceausescu? Avrebbe anticipato il Concilio Vaticano II, o viceversa l'avrebbe ritardato, costituendo uno spauracchio di cosa poteva diventare la Chiesa se si apriva troppo al confronto sociale? Non lo sapremo mai, perché Bogdánffy disse di no: in compenso abbiamo un martire in più da ricordare, ma diciamocelo tra i denti: di martiri ne abbiamo quanti ne vogliamo; certo, sul fronte del comunismo est-europeo il bilancio fin qui è scarsino: soprattutto impallidisce a confronto col massacro di preti cattolici ordito da parte dei nazisti in Polonia. Così la figura di Bogdánffy assolve a una precisa necessità: ricordare ai fedeli che anche i comunisti hanno perseguitato i cattolici. Naturalmente, a osservarla con un minimo in più di attenzione, ci può raccontare molto altro: ad esempio quanto è stato complicato, non solo per un prete, vivere nella prima metà del Novecento nel tritacarne messo in moto in quella parte d'Europa dalla Prima Guerra Mondiale. Bogdánffy nasce nel 1911 a Feketetó nel Banato, una regione dell'impero Austro-ungarico ai confini tra Ungheria e Romania, ma già balcanica per complessità etnica. Per tutta la sua vita oscillerà in una regione abbastanza ristretta, compresa tra il Banato, Budapest e Timisoara (Romania); in compenso saranno i confini d'Europa a spostarsi vorticosamente, rendendogli la vita molto più avventurosa di quanto avrebbe probabilmente desiderato. La famiglia, di nobile origine armena, di religione cattolica e di lingua ungherese, si ritrova alla fine della Grande Guerra suddita del Re degli Sloveni, Croati e Serbi (qualche anno dopo si rinominerà Jugoslavia), e decide abbastanza rapidamente di trasferirsi dall'altra parte del confine, a Temesvar, che fino a pochi anni prima era il capoluogo del Banato. Ora però è Timisoara, capoluogo della Transilvania rumena. 

La Transilvania, che in tutto il mondo fa pensare a Dracula, era il grande problema della Romania; per quanto infatti si trovi al centro della nazione, incassata tra i monti Carpazi, era abitata per lo più da popolazioni di lingua e cultura ungherese, che fino al crollo dell'Impero Austro-Ungarico erano abituati a gravitare intorno a Budapest. Bogdánffy non s'interessa di politica, ma la scelta di frequentare il seminario cattolico (a Orodea Mare, in italiano Gran Varadino) lo porta fatalmente verso la capitale ungherese, dove conseguirà un dottorato sull'Apocalisse nei vangeli sinottici. Non è una sorpresa che al suo ritorno a Oradea, dove è nominato preside del seminario, i servizi segreti rumeni aprano un dossier su di lui; Szilárd cammina su uno dei fili più tesi dell'equilibrio europeo. Per il controllo della Transilvania, Romania e Ungheria hanno già combattuto tra il '17 e il '20 due conflitti. La Romania li ha vinti, ma è uno stato fragile, che guarda con sospetto alla minoranza ungherese e alla sua cultura. Anzi, alle sue culture: Oradea è una città in cui convivono numerose comunità religiose: protestanti luterani e battisti, ebrei, cattolici di rito greco e latino. Quando scoppia la seconda guerra mondiale, l'Ungheria è più lesta della Romania ad associarsi all'Asse, il che le consente di recuperare temporaneamente parte della Transilvania, Oradea compresa; è in questo periodo che Bogdánffy viene interrogato dai paramilitari ungheresi che sospettavano che il presule nascondesse ebrei nel seminario. Bogdánffy effettivamente nascondeva ebrei nel seminario, ma riuscì a farla franca, e forse non avrebbe avuto la stessa fortuna coi rumeni, perché di lì a poco anche la Romania, dopo il golpe di Antonescu, si sarebbe alleata con l'Asse, partecipando massicciamente all'operazione Barbarossa e rastrellando gli ebrei con un'efficienza seconda soltanto a quella nazista. Fino all'agosto 1944, al colpo di stato di re Michele, e al conseguente rivolgimento di fronte: i rumeni si arrendono ai sovietici e attaccano gli ungheresi, così che alla fine della guerra Bogdánffy, senza essersi spostato da Oradea, si ritrova di nuovo in Romania, ora repubblica socialista. È in questa situazione che a Bogdánffy viene proposta quell'offerta di cui dicevamo sopra: la guida di una Chiesa indipendente dal Vaticano. Non solo rifiuta, ma non riesce più di tanto a nascondere di essere stato ordinato segretamente vescovo di Oradea dal nunzio apostolico di Bucarest. Condannato ai lavori forzati, Szilárd passò gli ultimi quattro anni in diversi gulag prima di contrarre una polmonite che i medici non ritennero necessario curare; morì a 42 anni, settantadue anni fa oggi.