Buongiorno, questo pezzo è un segnaposto per avvisarvi che ieri è uscito un mio pezzo per il Manifesto, che più tardi qui pubblicherò, ed è stato a quanto pare ripreso anche da Morning, e che sempre sullo stesso argomento dovrei balbettare due cose a Fahrenheit (Radio 3) oggi verso le 16:30. A presto.
[L'intervento a Fahrenheit, a 1:30]
C'è stato un momento – all'inizio di questi anni '20 – in cui noi insegnanti all'improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Vi ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana, quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po', ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla.Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nella stessa data. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po' aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la Camera ha approvato il decreto che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C'è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell'istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l'ultima parola. Come succede in battaglia, c'è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l'educazione sessuale se la fanno da soli, vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani.
Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d'accordo: e dovrò organizzare un'attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: il decreto mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l'autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l'educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell'autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto?
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