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venerdì 27 luglio 2001

Ci si ritrova, in questi giorni, tra amici o anche tra semplici conoscenti, che per la prima volta si chiamano per nome, e si abbracciano, e si raccontano dov’erano in quel momento, e cosa gli è successo, e come hanno fatto a tornare. Si ascoltano e si raccontano storie di ogni tipo: alcune buffe, alcune terribili. Io, più ne ascolto, più mi convinco della mia fortuna. Ho passato cinque giorni a Genova, schivando per puro caso cariche e pestaggi che non ho visto. Il mio racconto è molto lungo, ma credo non renda giustizia agli avvenimenti. È successo molto di peggio a Genova, io ero lì per vederlo, e non l’ho visto: sono stato fortunato, ma ho vergogna a continuare. Non credo di essere stato più avveduto o più prudente di altri. Non credo nemmeno di avere avuto paura. Semplicemente ero altrove mentre altri pagavano anche per me il diritto a manifestare liberamente.

Con un gruppo di amici, che presto si darà un nome e un’organizzazione, abbiamo pensato di raccogliere testimonianze scritte su Genova. Testimonianze brevi (senti chi parla, ah?) di episodi visti e vissuti (non sentiti dire) che abbiano coinvolto manifestanti, cittadini e forze dell’ordine. C’impegniamo a raccogliere e a diffondere questo materiale, e a metterlo in comune con quello che altri stanno raccogliendo. Quando verranno – e verranno – le commissioni d’inchiesta, nazionali e internazionali, noi avremo il nostro contributo da offrire.

Se avete una testimonianza da condividere, potete scrivermi al solito indirizzo. Per favore, evitate qualsiasi tipo di retorica, o di commento politico. Amo la politica e adoro la retorica, ma ora chiedo soltanto testimonianze, in semplice italiano, su quanto avete visto e ascoltato.

Intanto finisco il mio racconto.


Genova, sabato 21 luglio 2001 (prima parte)

Il mattino

Al mattino il mal di testa è scomparso, come per miracolo. Dovunque siamo ci svegliamo, ci sentiamo un po’ meglio, pensiamo a ieri e ci chiediamo se tutto questo è davvero successo, se noi c’eravamo. Tranne uno, che non si sveglia più. E un altro, che si sveglia e ha ucciso un uomo.

Hanno distrutto anche la fontanella del parco Dalla Chiesa. Quella messa su apposta per noi. Dopo quattro giorni che sudiamo e camminiamo e corriamo senza lavarci. Hanno distrutto quello che potevano e sono ripartiti nella notte, coi loro furgoni, le loro bandiere e il loro nero ambiguo. Vigliacchi. Vigliacchi e sporchi.

Ma è un giorno di sole e sono di buon umore. Si vedono solo facce simpatiche in giro. Al telefono ho la conferma che altri amici stanno per arrivare. Sono molto fiero di loro. Era facile, martedì, mettersi uno zaino in spalla e venire a Genova, quando sembrava una festa. Ma per venire sabato, dopo la morte e i feriti, ci vuole coraggio e responsabilità. È una scelta difficile, e sull’altro piatto della bilancia non c’è soltanto la paura. Da casa le cose hanno un aspetto diverso, i buoni e i cattivi indossano le stesse magliette, le stesse divise.
I Ds si sono ritirati definitivamente, qualche dirigente invita a non sfilare, a “fermare la violenza”. Ma è stando a casa che si ferma la violenza? Cambiando canale?

C’è un peso incredibile sulle spalle di Agnoletto e degli altri portavoce stamattina. Da qui in poi saremo accusati di complicità. E non abbiamo alternative. Chi c’era a piazzale Kennedy ieri sera sa che sotto il tappo del Gsf c’è il magma ribollente di centinaia, migliaia di ragazzi incazzati, che oggi a Genova protesterebbero lo stesso, soli, disorganizzati, contro forze dell’ordine che hanno il colpo in canna e non ce l’hanno mandato a dire. Bisogna fare la marcia, non c’è alternativa. Anche se si sente già dire di disordini a Quarto, dove arrivano le corriere. Il Black Block, sempre lui. Ormai è una filastrocca per bambini e giornalisti.

La sala stampa non è mai stata così fitta. Sono così orgoglioso di essere arrivato a un terminale in tempo per la conferenza stampa che continuo a rimandare l’incontro con Pier e gli altri, che giù sul lungomare vanno avanti e indietro impazienti. Io prendo tempo, dico che sto aspettando qualcuno. Tutti questi giornalisti ufficiali col taccuino (ma da che secolo arrivate?), e io davanti a un terminale. Mi sento veramente figo. Trascrivo Agnoletto che strepita senza microfono ed è l’unico, come sempre, che riesce a farsi sentire. Il Gsf non può prendere le distanze dai violenti perché le ha già prese da tempo, il Gsf farà la manifestazione, il Gsf chiede che gli si riconosca questa assunzione di responsabilità.
Il Gsf sarà presente al funerale di Carlo Giuliani. Il ragazzo si chiama così. La Repubblica dice che era un “punk bestia”. Perché nei momenti più gravi certi giornalisti sembrano arrivare come avvolti in una vestaglia dell’Hilton dopo un idromassaggio? “Punk bestia”? Da che secolo arrivate, e da che mondo?
A un certo punto forse un maldestro iscritto all’albo inciampa su un cavo, fatto sta che tutti i terminali perdono la connessione. Non c’è più motivo per me di restare lì. Raggiungo gli amici.

Il corteo

Viale Italia stamattina sembra il viale Italia di tante città balneari, un bel mattino estivo: tanta gente passeggia su e giù, c’è animazione, non preoccupazione. Anch’io penso che il peggio sia passato, anzi ne sono sicuro. Abbraccio i miei amici, mi fa sorridere il dover passare per un veterano. Siete stati in pena? Non c’è motivo, non ho rischiato niente. Neanche voi rischiate niente oggi. Oggi è tutto sicuro. Non vi spaventerà mica l’elicottero?

Incrocio anche Barbara. “Ho visto ***, sai”.
“Oh, finalmente. Sta bene?”
Sta bene, è scosso per Giuliani, ma non si è fatto niente. Potrebbe però tenere il cellulare con sé. A che serve portarselo se lo lascia sulla borsa?
Ormai sono due giorni che non lo vedo. Cominciava il grande acquazzone e io stavo di guardia a un cancello, che non entrassero motorini. Posavo i gomiti su una transenna e avevo costantemente il cellulare in mano. Lui stava aspettando di parlarmi, ma pioveva e stava passando il bus per il Carlini. Mi ha solo detto: “Tiratela meno” e se n’è andato. Non ci siamo più visti, e sembra un secolo. Ma sta bene. È strano, non riesco a pensare che qualcuno che conosco possa essersi fatto male. Mi preoccupo, sì. Ma non riesco a crederci. Non ho abbastanza fantasia.

“Ehi, noi siamo già in marcia, e voi? Cerchiamo di stare assieme. Noi siamo dietro ad Attac, di fianco ai Curdi. Sì, certo, il PKK. Siamo piuttosto avanti. Vi aspettiamo? Aspetta… ho perso il campo”.
Il corteo è partito in anticipo. Agnoletto ha promesso che saremo in centomila, ma forse siamo qualcosa di più. Impossibile saperlo, standoci in mezzo. (E io resto bloccato nel solito dilemma: voglio fare il manifestante o il giornalista?)
Perdiamo il campo del cellulare passando davanti alla rocca dei Carabinieri: sì l’enorme caserma di fianco al mio campeggio. “Assassini”, gridano in tanti. Forse l’ho gridato anch’io. E loro stanno là, altissimi, dietro una rete, a guardare. Solo uno ha scavalcato ed è lì davanti a noi, a 20-40 metri d’altezza, con le mani davanti alle tasche. Guarda passarci a migliaia, si sente chiamare “assassino”, e ci guarda, in posa da cowboy. Si deve sentire molto potente.
Non vedremo molti altri carabinieri, fino a sera.

All’incrocio con corso Brigate Partigiane c’è un enorme contingente antisommossa. Com’era prevedibile: la Fiera, qui a lato, è la loro base, e anche se siamo lontanissimi, non ci avvicineremo mai alla zona Rossa più di così. Sfondare, cercare la rissa qui, è puro suicidio. Eppure ci sono tafferugli, volano oggetti. Tagliamo la curva e non indaghiamo. Sembra ancora poca cosa.
Marciando per Corso Torino, poi per Corso Sardegna, percorriamo a ritroso la devastazione del giorno prima: auto distrutte, vetrine infrante. Ma siamo tantissimi. Centocinquantamila, dicono. Noi ci siamo trovati in mano cartelli e mascherine di Attac France. I cartelli recano i nomi dei 180 e passa Paesi esclusi dal g8 (ma perché la Jugoslavia proprio a me?). Le mascherine non servono contro i gas, sono a forma di X e dicono: non possiamo parlare. Posiamo persino per i fotografi. Chissà se quelle foto sono poi state sviluppate. C’era ben altro da mostrare, il giorno dopo.

I pochi genovesi alla finestra, soprattutto anziane signore, ricevono immensi applausi. Alcune alzano il pugno. Ne ricordo una col bastone, che si reggeva appena, sotto quel sole.
A un certo punto ci capita di restare fermi, a lungo, senza spiegazioni. Poi un lungo applauso, grida di gioia.
“Cosa succede?”
“Pare che forse hanno sospeso il G8!”.
Possibile? E se anche fosse, cosa cambia? Carlo è già morto. I Grandi concluderanno in teleconferenza. Non cambia nulla. Eppure urliamo, applaudiamo anche noi.

Telefona Enzo. Ho scoperto che era lui a mandarmi i dispacci di guerra il giorno prima. Ha un occhio su Indymedia e un orecchio su Radio Gap, da Bologna la sa molto più lunga di noi.
“Dove siete? Già in Corso Sardegna? Bene. Perché dietro stanno caricando”.
“Come stanno caricando?”
“Sì, coi fumogeni e tutto il resto. Il corteo è spezzato in due. Voi cercate di restare davanti”.
Quanti siamo? Forse duecentomila. Lo hanno sospeso davvero il vertice? Non lo ha detto nessuno. È una bufala.

Sentiamo da lontano una donna al microfono. Dice “Carlo è vivo e lotta insieme a noi”. Ma questo non è vero. Per favore, Carlo è morto. Quando si è morti non si lotta, e non si è eroi. Si rimane in terra immobili e non si ha più niente da dire.
È Jo Squillo che parla, mi dicono. Secondo lei siamo trecentomila. Poi intona Imagine, tra tante una canzone che non sopporto. E iniziano i comizi. Agnoletto, Bové (che dà appuntamento in Qatar col WTO), il portavoce di Attac France, la madre dei desaparecidos (che come ieri si ritrova a urlare in un applauso ininterrotto). La portavoce italiana del Pkk, occasione al Ragno per sdegnarsi (“Ma non li hanno letti i rapporti di Amnesty sul Pkk?”). E altri che non ricordo, perché alcune cose comincio a dimenticarle. Ricordo che eravamo tanti, eravamo molto davanti, e faceva molto caldo. Dietro di noi probabilmente la gente non sentiva nulla: stava ferma e forse aspettava le cariche. Sul palco c’erano anche Casarini e un Bertinotti raggiante davanti alle sue bandiere rosse, che non ha parlato. Ancora condanne alle forze di polizia, che non hanno fermato i vandali. Si chiede al governo di pagare i danni, e le solite dimissioni di Scajola. Agnoletto saluta il nuovo soggetto (politico?) che ha portato a Genova 300.000 dimostranti pacifici e annuncia, per l’ultima volta: abbiamo vinto. Ma nessuno fa cenno alle cariche che premono il corteo di dietro. Una cosa alla volta.

(continua)

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