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lunedì 13 ottobre 2003

Sogni d’oro

Hanno ragione tutti.

È splendidamente girato, Dreamers, magari un po’ fragile, forse troppo fragile, e soprattutto (come già ci avvertiva Momo da Venezia) non è un film politico: un marziano che atterrasse in un cinema senza saper nulla del ’68 francese, non riuscirebbe a capire perché la gente corre impazzita per le strade con la bandiera in mano.

(E si dà il caso che siamo in tanti, noi marziani, e sarebbe ora di portarci rispetto).

L’unico movente suggerito dal film è la rimozione di un funzionario statale (ma guarda un po’) che si era impossessato della Cinématheque e “proiettava qualsiasi cosa”, perché “amava il cinema”. Come a dire: a Parigi nei primi mesi del ’68 la società dello spettacolo è alle prove generali. Poi verranno le barricate e il riflusso, ma soprattutto arriverà l’home video, a realizzare i Sogni dei Sognatori. Poter vedere “qualsiasi cosa”, senza gerarchie di valore (abbasso le gerarchie!); isolarsi in un mondo di citazioni visive, elaborare ogni nostra mossa, ogni nostra espressione, sulla base di un fotogramma o di una battuta. Théo e sua sorella sono i nostri precursori, oggi che per comunicare usiamo i tormentoni di Nanni Moretti e Ghezzi regna sul palinsesto notturno: il vhs è l’immaginazione al potere.

Meno male che Bertolucci, dietro la macchina di presa, è molto più lucido che in conferenza stampa. Non so quanto consapevolmente – e tutto sommato non m’interessa – attira noi guardoni in un tranello: Théo e la sorella si rivelano due mostri viziati e lascivi, il mondo dei sogni è angusto quanto un salotto parigino, puzza di noia e di morte (la cucina puzza anche di bruciato). Abbiamo tutti sognato una rivoluzione così, a diciotto anni (l’idea di partire con la requisizione dei vini pregiati è un classico): finché non ci siamo svegliati in case piene di rifiuti e non c’era niente da mangiare e neanche niente che valesse la pena.

Il sasso alla finestra, allora: forse un po’ banale, come metafora, ma è la cosa che salvo del film. “Che cos’è?” “È la strada che entra nella stanza!” Ci hanno raccontato che, prima del riflusso, “il personale era politico”: ma forse era solo una faccia della medaglia. Théo arriva alla politica (o meglio, alla rivolta) perché il suo personale è angusto, insopportabile, letteralmente asfissiante: la strada lo salva dai suoi fantasmi e forse per un attimo, con la molotov in mano, smette di pensare quale film sta citando. Cosa c’è di politico? Per cosa sta combattendo, Théo? Non lo sa. Lo sappiamo noi: per cambiare aria. Sappiamo anche che quando sarà stanco troverà la sua comoda stanza ad attenderlo, la finestra riparata, un assegno sul comodino, e (con un po’ di pazienza) il fatidico videoregistratore, al posto dell’abat-jour a forma di Mao.

Riprovevole, certo, ma non si sta raccontando anche la nostra storia, qui? Non è capitato anche a noi di uscire in piazza, per mille buoni motivi, ma anche perché il nostro personale si era fatto irrespirabile? Non è stato, Genova per alcuni, l’11 settembre per tanti altri, un provvidenziale sasso alla finestra, un buon pretesto per scendere giù, gridare, picchiare, fare cose, vedere gente? Théo non dà, per tutto il film, l’impressione di essere un ragazzo troppo intelligente, ed è probabilmente destinato a evolversi in una mezzacalza intellettuale come il padre: ma quando la rivoluzione picchia alla sua finestra e lui risponde, non possiamo proprio biasimarlo: non fosse per tutte le volte che anche noi abbiamo detto “Niente sarà come prima” (e sottovoce aggiungevamo: “magari”).

(Poi mi piacerebbe cercare di capire perché la gente rideva, nelle scene di sesso; ma un'altra volta).

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