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giovedì 25 marzo 2004

A questo punto qualcuno si sarà anche chiesto:
Ma perché Leonardo non ha i commenti?

# 30: I sanitari dell’Alma Mater

(PARENTAL ADVISORY, explicit lyrics)

Io, se ci ripenso, ho fatto l’università in un contesto alquanto sudicio.
Le sale studio in particolare. I cessi delle sale studio per la precisione. Scritte zozze, fango, peli, acqua marrone, si stava come suini sul camion. A volte non c’era il bidet: qualcuno per protesta usava il lavabo.
Tuttora, quando il bisogno impellente mi porta in autogrill di seconda categoria, o nell’orinatoio di una stazione o di un centro sociale, sento che qualcosa nel mio profondo si smuove, come letame appena rivoltato (una scatologica madeleine), e mi trovo a esclamare, senza vergogna: “oh, che è, l’Università degli studi di Bologna?”

Ai miei tempi il laureando in lettere occupava un piano molto basso della piramide sociale. Non così basso che non ci fosse qualcuno messo peggio: i laureandi in Filosofia. Più già ancora quelli del Dams. Poi i pancabbestia. Poi i cani dei pancabbestia, quelli che in realtà se la passano meglio di tutti. Tutte queste categorie dividevano la stessa isola pedonale, studiavano, mangiavano, spacciavano fumo e biciclette negli stessi ambienti. E pisciavano negli stessi servizi.
L’idea che l’umanista sia un parassita della società di solito è un retropensiero, una cosa che si ha pudore a manifestare. Ma Bologna, sotto questo punto di vista, non aveva pietà. Vuoi fare l’umanista? Impara a vivere come una piattola. L’alternativa è la progressiva nazificazione: transitare in via Zamboni a testa bassa, portarsi l’acqua minerale da casa, imprecare sottovoce ai bonghisti delle tre del pomeriggio.
(Una cosa che mi fa sentire vecchio è il sottotitolo di Inkiostro, “uno studente bolognese”. Si sente che è passato del tempo. Io ai miei tempi non mi sarei mai definito uno studente bolognese. Non dico che ci fosse nulla da vergognarsi, ma era qualcosa da esibire il meno possibile, come una panda bianca arrugginita, un cesso sporco, il lavello quando non sciacqui i piatti da tre giorni. Questa era Bologna).

Dopo aver studiato laggiù, il resto del mondo sembrava un posto più pulito, diciamo pure più fighetto: lavoro non te ne danno, ma le pareti sono marmorizzate o color pastello, e i sanitari odorano di timo e di lavanda. E un po’ ti manca, la città delle piattole. Quegli odori, quei colori (il giallino, soprattutto).
Poi un bel giorno torni sotto quel portico e ti rendi conto dell’amara verità: non era la città a essere sudicia, era la tua generazione. Là dove c’era l’assemblea permanente dei bonghisti adesso ci sono tre, quattro camionette della polizia. Qualcuno ha strappato i manifesti e ritinteggiato tutti i muri. Il vecchio bar dello studente, un postaccio dove il caffè costava 600 lire e i camerieri ti chiedevano di buttare le cicche per terra, ora è un mediacenter strafighetto. E tu non puoi più pisciare, all’Università. Ovunque vai, c’è bisogno di un’esclusiva tessera magnetica, e tu non ce l’hai, sei escluso. Questo sì che è uno choc.

In questi casi tocca fare così: ci si appoggia al muro di fianco, col fare noncialante di un Joe Falchetto, e si aspetta che qualcuno munito di tessera arrivi, sospinto dal medesimo bisogno che vi ha portato lì. Quel che rende piccante la cosa è che all’Università i bagni tendono a essere bisex (perché?).
Quando alla fine arriva la ragazza – statisticamente è sempre una ragazza – ed estrae la preziosa tessera, occorre farle notare, con un’occhiata gentile, che si avrebbe tanta voglia di entrare con lei, tanto là dentro c’è posto per tutti.

La società del controllo è anche questo: doversi munire di una carta magnetica per pisciare.
“Ma almeno adesso l’ambiente si è ripulito, no?”
Sì e no. Prendi le scritte sui muri. I piccoli annunci di prestazioni sessuali. Finché l’Università era aperta al popolo, uno poteva anche ipotizzare una genìa di maniaci che venissero lì apposta. Ma ora non ci possono essere dubbi: sono i laureandi in lettere a offrire i loro corpi ad altri laureandi. Magari è quello stangone biondo al tavolo di fronte, che sta compulsando Cino da Pistoia: tra un po’ si alzerà, andrà in bagno, estrarrà una bic dai pantaloni e scriverà: offro pompini con ingoio, chiamate xxxxxxyyyx. Beh, fatti suoi, dopotutto.
Ma è possibile che tra le scritte sui cessi dell’Università e su quelle di una qualsiasi stazione non ci siano sostanziali differenze di stile? Nessuno che scrive endecasillabi a rima baciata, parolacce tratte dall’Inferno dantesco, distici elegiaci? No, il solito umorismo da cesso standard. E quel modo di dialogare a finestrelle, per esempio:

W i Korn!

I
I

SFIGATO, PASSA A STEVE VAI

I
I

PROBABILMENTE SEI UN FROCIO DI MERDA CHE SI ECCITA ASCOLTANDO I QUEEN CON UN CETRIOLO NEL CULO FOTTITI



Questo tipo di interfaccia grafica non vi ricorda niente? Molto prima dell’introduzione delle finestre di commento nei blog, molto prima della nascita dei blog, molto prima della stessa invenzione del World Wide Web, gli esseri umani usavano una tecnica simile per comunicare informalmente nei cessi pubblici.

Ma perché qualcuno sente la necessità di comunicare nei cessi pubblici? Perché non vuole essere visto, (a) e perché vuole comunicare con gente che non conosce (b); e che forse non ha nessuna intenzione di conoscere. Una ben strana modalità di comunicazione. Ma perché no? Dopotutto che c’è di male?
C’è che dopo un po’ le scritte stancano. Sono brutte. Sono volgari. Per una cosa divertente, ci sono dieci stronzate che ti fanno pensare al tramonto dell’occidente. Sembra che al riparo di quattro muretti piastrellati, ognuno di noi riesca a dare soltanto il peggio di sé.

E non si può trovare un modo per ripulire i quattro muretti, trasformarli in un elegante tazebao, limitare gli accessi soltanto a gente distinta, o agli addetti ai lavori? No. L’esperienza dei cessi dell’Università di Bologna ci mostra che è inutile.
Una volta potevamo dare la colpa ai pancabbestia, brutti, sporchi e cattivi. Ma oggi le tessere magnetiche ci inchiodano alle nostre responsabilità. Il troll che perde tempo a sporcare i muri con le sue stronzate, è uno di noi. Se non è proprio dentro di noi. È inutile che diamo la colpa agli altri. Siamo noi umanisti a scrivere quelle cose, nell’intimità dei nostri cessi pubblici. Ci piace. Del resto, siamo umani (forse troppo).

Ma umani o no, ve ne andate da un’altra parte a pisciare. Non a casa mia.

(Il biondone che compulsa Cino da Pistoia è un parto della mia immaginazione, che è malata).

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