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venerdì 2 aprile 2004

Contro la lingua italiana, 4

L’altra sera avevo tirato fuori questo vecchio libro, Il Museo degli Errori, di Aldo Gabrielli. Prima di rimetterlo al suo posto ne cito ancora un po’.

Il gerundio proibito

“È vero che non si può cominciare un periodo con un gerundio?”: domande come questa mi piovono addosso a temporale. E devo confermare che questa del “gerundio proibito” è una di quelle storie di cui parlavano anche a me quando andavo alle elementari. Nell’evoluzione del linguaggio, che oggi ha assunto il carattere di alluvione e addirittura di frana, per cui vengono spazzate via come fuscelli leggi sintattiche di ben altra mole e peso, resistono, incrollabilmente abbarbicati chi sa a che cosa, strani miti, ubbiosi precetti; come quello del gerundio capofila, come quello della virgola che non si mette mai prima della congiunzione e, come quello del ma però o dell’a me mi piace, che sono poco meno del peccato mortale. Sfatiamo dunque una volta per tutte questa leggenda, e affermiamo che col gerundio si possono cominciare tutti i periodi che si vogliono […]

Anche Dante diceva “ma però”

Anche questa domanda quante volte mi è stata rivolta? “Ma però” si può dire, o è errore? È un problemino vecchio, un problemino di sempre; se ne parlava un secolo fa, se ne parlerà tra cent’anni. Ma però non è un errore, come molti credono e come nelle scuole si continua a ripetere, non è neppure una inutile ripetizione. È una semplice locuzione avverbiale rafforzata che dà un tono particolare al discorso. Strano che non si discuta mai su altri rafforzamenti consimili, come ma invece, mentre invece, ma tuttavia, ma nondimeno, ma pure. Quando un mio maestro mi corresse il primo ma però, io non conoscevo ancora Dante, se no avrei forse osato segnalargli il verso 143 del XXII canto dell’Inferno, che dice: “Ma però di levarsi era neente”. Ma poi esempi di autori classici, per non dire dei moderni e dei contemporanei, se ne trovano quanti se ne vuole […]

A me mi

Altra espressione, come il famoso “ma però”, che è sempre argomento di accese discussioni ed è costantemente condannata nelle scuole. Come devo ripeterlo? Non è errore, non è da segnare con matita blu, e nemmeno con matita rossa. Qui pure si tratta semplicemente d’un di quei casi in cui la grammatica concede l’inserzione in un normale costrutto sintattico di elementi sovrabbondanti al fine di dare alla frase un’efficacia particolare, un particolare tono. È insomma uno dei tanti accorgimenti stilistici di cui tutte le lingue fanno uso. Nel nostro caso, il valore rafforzativo di quel mi pleonastico non può sfuggire a nessuno: “a me non la dai a intendere”, “a me non me la dai a intendere”, “a me questo non piace”, “a me questo non mi piace”: identico concetto, ma tono diverso.
Si badi poi che questo a me mi non è un costrutto inventato oggi; ci sarebbe da allineare esempi classici a bizzeffe, a cominciar da Boccaccio; del quale, nella novella ottava della giornata nona, leggo questa frase: “Che arrubinatemi e che zenzeri mi mandi tu dicendo a me?” […]


Il libro è del 1977, l’autore è morto l’anno dopo. L’italiano è questo: la lingua in cui un paio di superstizioni sciocche sopravvivono a generazioni di grammatici ragionevoli.


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