Pages - Menu

venerdì 28 luglio 2006

- giorno dispari

Superpotenza dei giorni pari

Piccolo test, di una domanda sola.
Per voi Israele è:
1. Un piccolo Paese accerchiato, minacciato nella sua esistenza, che ha bisogno di aiuto
2. Una potenza mondiale che può risolvere i suoi problemi da sola.

Se avete risposto 1, siete amici di Israele, seriamente preoccupati per la sua esistenza. E non c’è niente di male, anzi.
Se avete risposto 2, siete altrettanto amici di Israele, altrettanto preoccupati per la sua esistenza, e continua a non esserci niente di male.
Ma se lunedì rispondete 1, martedì 2, mercoledì 1, giovedì 2, per quanto amici di Israele, avete qualcosa che non va.

Comunque siete in buona compagnia. Non c’è niente di male a sostenere Israele, ma Israele vuole essere sostenuto sì o no? Il lunedì, il mercoledì, il venerdì gli israeliani si sentono isolati dalla comunità internazionale (USA a parte, naturalmente). Non avranno tutti i torti, ma la sensazione è che martedì, giovedì e sabato Israele dalla comunità internazionale voglia soltanto sentirsi dire “fa quel che vuoi, ne hai il diritto”. Magari ne ha pure il diritto – ma ne ha le forze?

Spesso, a discutere con amici di Israele, s’incoccia in questo argomento. Israele è forte. Israele ‘potrebbe risolvere’ il problema, ‘se solo volesse’, se solo ‘ripagasse i nemici della loro stessa moneta’, ecc. Dunque Israele è una potenza che potrebbe rivoltare il Medio Oriente come un calzino, ma non lo fa perché ha una sua etica, una struttura democratica ecc.

Questo da un certo punto di vista è vero: Israele ha la Bomba, i suoi nemici (ancora) no.
Ma lasciamo stare l’Apocalisse (che comunque è uno scenario). Fermiamoci a questi giorni. Il bilancio delle vittime mi sembra parlar chiaro: Israele ha tutta la potenza di tiro che vuole. Ma riuscirà a debellare gli Hezbollah? Difficile. Perché dovrebbe riuscire a fare ora quello che non è riuscito a fare in vent’anni?

L’ironia è che Hezbollah non esisteva ancora 24 anni fa, quando Israele invase il Libano meridionale per liberarsi definitivamente dell’OLP di Arafat, che di fatto lo controllava. Il bacino di reclutamento – la comunità libanese sciita – in quel periodo era assai poco sensibile agli argomenti di Arafat e soci. Per gli sciiti l’OLP era un gruppo di sunniti, estremisti politici (vedi i vari Fronti di liberazione della Palestina annessi), e soprattutto intrusi. Finché non sono arrivati altri intrusi – gli israeliani. Solo a quel punto gli sciiti hanno cominciato a organizzarsi in milizie. Questo è il bel risultato di un’occupazione decennale: non solo Israele non è riuscita a liberarsi dell’OLP, ma in compenso nel Libano del sud si è procurata un nuovo nemico, oltretutto molto meno velleitario e pasticcione.

Ma se Israele fosse la Potenza che pretende di essere nei giorni pari, anche Hezbollah sarebbe un ricordo lontano. Al contrario, Hezbollah si vanta coi suoi d’essere l’unica milizia che abbia vinto una guerra contro gli israeliani – la guerra di liberazione del Libano meridionale, appunto, culminata nel ritiro israeliano del 2000. Ma gli israeliani (e i loro amici) si rendono conto di averla persa? Come si spiegano, alla luce dei fatti di oggi, il loro precipitoso ritiro? Cosa aveva in mente quella vecchia volpe di Barak?

Non si sa. Nei giorni dispari, però, è lecito formulare questa teoria: forse non aveva in mente nulla. Forse gli israeliani si sono ritirati perché non ce la facevano più, semplicemente. Sono un piccolo Paese in crisi economica, con troppi nemici, troppi fronti esterni e interni, e ogni tanto cedono. Sarebbe come dire che Israele ogni tanto perde le guerre, e questo è vietato ammetterlo. Nei giorni pari.

Avete presente la classica mamma italiana, costantemente indaffarata, sempre lesta a lagnarsi perché nessuno l’aiuta in casa, e tuttavia assolutamente refrattaria a qualsiasi tentativo di aiutarla veramente? Perché in realtà non è assolutamente l’aiuto che cerca, ma il diritto a lagnarsi perché nessuno l’aiuta?

Se dico che Israele è un po’ così, quanti punti antisemitismo guadagno?
Ebbene, la mamma ogni tanto va aiutata realmente. Non può fare qualunque cosa sempre bene. Non può sempre avere i riflessi di una ventenne e il giudizio di una cinquantenne. Non è perfetta, anche se è la vostra mamma.
E anche Israele: ogni tanto va aiutato. Va difeso. Dagli Hezbollah – che lo minacciano nella sua esistenza – e da sé stesso. Dagli enormi pasticci che combina, e che paga sempre con interessi di sangue.

giovedì 27 luglio 2006

- rice and fall

Gli americani del futuro

Nel frattempo tutti non fanno che chiedermi: e nel futuro? Come saranno gli americani del futuro? Ebbene, io mi sono posto il problema, ho anche fatto delle proiezioni. E dunque. Dal mio punto di osservazione mi sembra indiscutibile che:

1. Gli americani del futuro avranno gli occhi a mandorla
2. E parleranno spagnolo.

1 + 2 = In pratica, un altro mezzo miliardo di filippini.

E segnatevi questo: voi forse no, ma i vostri figli prima o poi assisteranno alla trasmissione di un discorso di un presidente di cognome Mendoza o Cortes, faccia da Vietkong, che proclama la necessità di difendere lo stile di vita occidentale dalle minacce asiatiche, e quel che è peggio è che ci crederà davvero, e i vostri figli pure.

Poi ci sarà anche il drammatico summit, col presidente usa che guarda negli occhi il presidente comunista cinese, e a un certo punto gli dice: ma tu non è che vieni dalla manciuria, per caso? Sai, perché io ho ancora dei parenti laggiù. Ma no! Ma sì! Paisà! Spaghetti di riso! Melodie pentatoniche! Cani spariti in circostanze misteriose nei dintorni di friggitorie! Pacche sulle spalle, e poi si andrà con le delegazioni in un posticino all'angolo del Palazzo di Vetro a mangiare il pollo alle mandorle del Kentucky.

Ridete, ridete.
Il riso abbonda.

mercoledì 26 luglio 2006

- teaching teachers kidding kids

Chi insegna agli insegnanti?

Lessi una volta di un prof (un collega), che si lamentava delle ragazzine. Tutte uguali. Chiedi a una dodicenne: cosa farai da grande? Lei ti risponde: la modella. Poi ci pensa meglio e aggiunge: al massimo la parrucchiera.

In fondo tutti noi viviamo al massimo, purtroppo non nel senso di Vasco Rossi, ma in quello della ragazzina. Abbiamo tutti un piano B. Io per esempio, a 12 anni che avrei risposto? Probabilmente mi sarebbe piaciuto scrivere. Romanzi o canzoni o boh. Ma al massimo avrei fatto il prof. Di lettere, ovvio.

E come me ci sono milioni di persone, incoraggiate – contro ogni buon senso – dal sistema scolastico italiano. La scuola italiana ha sempre avuto un debole per la cultura umanistica, la letteratura, la filosofia. Ben prima che intervenisse il famigerato ministro Gentile (fascista!) Quanto prima? Non lo so. La prima Università del mondo è nata a Bologna. Per molti secoli non ebbe una cattedra di lettere, perché i letterati puri non fatturavano nulla. Carmina non dant panem, si diceva. Nel medioevo eran fatti così. Erano secoli avanti.

Oggi invece l’università sforna letterati a getto continuo. E quante cose può fare un letterato laureato, pensateci. Per esempio, può scrivere: libri, poesie, saggi, radiodrammi, blog, e quant’altro. Tutte cose che, curiosamente, non danno il pane.
Quando se ne accorge, sulle prime il letterato ci rimane male.
Poi però si ricorda che dà bambino aveva un piano B.

Il mio piano B scattò del 2000, quasi a mia insaputa. Un mattino di gennaio mi trovai in una folla discretamente oceanica che attendeva l’apertura dei cancelli per quello che sarebbe passato alla storia come il Concorsone. L’imbarazzo di ritrovarmi di nuovo su un banco di scuola, dopo parecchi anni, con un dizionario un astuccio i bigliettini e tutto il resto, era parzialmente mitigata dal fatto che tutti sembravano più anziani di me: capelli grigi o radi, rughe, occhiali da presbiti. In effetti ero stato fortunato: il Concorsone era il primo dopo nove anni, e anche l’ultimo. Non ce ne sarebbero stati altri. L’Italia non aveva bisogno di tutti questi prof, dopotutto.

Gli scritti restano, a distanza di anni, un mistero. Sapevo tutto sulla crisi del ’29, persino il nome del Presidente, eppure mi bocciarono in Storia. Feci un tema pessimo, e mi promossero in Italiano. Ma quello che mi preoccupava era l’Orale.
L’Orale ci fu un anno dopo. Nel frattempo mi ero trovato un lavoro, e il Concorsone mi appariva sempre più surreale. Tuttavia mi sentivo in dovere di provarci: dopo 20 anni di esami, mi sembrava idiota demoralizzarsi proprio all’ultimo gradino prima di una Abilitazione. Ma avevo paura che mi chiedessero di pedagogia e didattica, materie a me del tutto ignote.
Mi sarei anche letto dei libri, se avessi capito quali leggere, ma nessuno sapeva dirmi niente. All’università erano materie facoltative, evitabili, evitate. Ma mi sembrava improbabile che uno potesse essere abilitato all’insegnamento in una scuola italiana senza conoscere nemmeno un rudimento di pedagogia o didattica. Come se all’esame di guida non ti chiedessero nulla sui cartelli stradali.

All’orale mi chiesero il rapporto tra fasi lunari e maree. Le ragioni dell’intervento USA nella prima guerra mondiale (mi soffermai sul contenzioso col Secondo Reich sull’isola di Guam). E passai. Abilitato. Potevo insegnare. Cominciarono a telefonarmi al cellulare: le va di fare tre ore a Medolla? Che ne pensa di sei ore a Prignano? Grazie, no, rispondevo. Un lavoro ce l’ho già, e non so se sarei capace di insegnare.

Il che, se ci pensate, è tragico. Venti anni di istruzione. Una licenza, un diploma, una laurea, e finalmente un’abilitazione a un lavoro. Che nessuno però mi aveva mai insegnato a fare.

E come me, milioni di persone. Il dramma del sistema scolastico italiano a mio parere è questo: non solo crea molti più insegnanti di quanti ne servano, ma non insegna loro nemmeno a insegnare. Tutto quello che fa è impregnarli di nozioni e rilasciare un pezzo di carta. Ma un pezzo di carta e un sacco di nozioni non fanno un prof, questo mi era chiaro persino allora.

(Fine della prima parte. Non perdetevi la seconda!!! Guest star: il Terribile Tar del Lazio!!!!)

martedì 25 luglio 2006

- piano americano

Se sei così furbo

"L'America è la più ricca nazione della Terra, ma i suoi abitanti sono per lo più poveri, e i poveri americani sono spinti a odiare sé stessi. Per dirla con l'umorista americano Kin Hubbard, "Non è una disgrazia essere poveri, ma aiuta". E in effetti essere poveri è un crimine, per loro; eppure l'America è una nazione di poveri. Ogni altra nazione vanta tradizioni popolari di uomini poveri, ma estremamente saggi e vortuosi, e pertanto più degni di stima dei ricchi e dei potenti. Nessuna fiaba del genere viene mai raccontata dai poveri americani. Essi si disprezzano tra loro, e glorificano chi sta meglio. La più umile delle mense, il più misero dei bar, gestito da un uomo che è egli stesso un povero, avrà probabilmente sulla parete un motto che dice: "Se sei così furbo, perché non sei ricco?" Ci sarà anche una bandiera americana, non più grande della mano di un bambino - incollata a un contenitore di lecca-lecca, che garrisce dal registratore di cassa.

L'autore della monografia, un nativo di Schenectady, New York, aveva secondo alcuni il Quoziente d'Intelligenza più alto mai registrato tra i criminali di guerra condannati all'impiccagione. Così va il mondo".

Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5; nella mia traduzione (brutta).

lunedì 24 luglio 2006

- le anime belle e

Le anime stronze

L’Afganistan è importante.
Ma la nostra presenza in Afganistan, è davvero altrettanto importante? Così importante da mettere in crisi una coalizione, un governo, un parlamento?
Io sulla nostra presenza in Afganistan non ho opinioni. Ce ne sono a favore e contro, tutte legittime. Ma bisognerebbe riconoscere, schiettamente, che non sono opinioni pro o contro la salvezza dell’Afganistan. Si tratta, più semplicemente, di opinioni pro e contro il nostro atto di presenza militare-diplomatico in Afganistan. Il nostro contingente è quel che è: senza offendere i nostri militari, credo che gran parte degli afgani non si accorgerebbe di un loro eventuale ritiro. Questo non rende il ritiro più o meno giusto, ma dovrebbe servirci a ridimensionare il problema (e potrei capire chi mi dicesse che anche la sicurezza di una sola donna o di un solo bambino afgano possono giustificare il nostro atto di presenza).

Anche la coscienza è importante. Specie la coscienza dei parlamentari, che una volta eletti dal popolo, si trovano da soli con lei. È solo ad essa che devono rispondere: non all’elettore (a cui renderanno conto a fine legislatura), né ai capigruppo, capi di governo, Capi di Stato. E chi lo dice? La Costituzione – quella che abbiamo appena salvato, con soddisfazione generale. Sì, ma adesso ci toccherebbe rispettarla.

Io non credo di poter essere sospettato di intelligenza con le anime belle. Ho un lungo conto in sospeso con chi, intrappolato dalla sua coscienza, ha messo nella peste pure me – rifondaroli in primis. Ma. Guardiamoci un po’ intorno. Il Parlamento è fatto di due semicerchi, totale: un cerchio completo. La stragrande maggioranza di quel cerchio non ha nessun dubbio sull’utilità del nostro atto di presenza diplomatico-militare in Afganistan. E allora? Di cosa stiamo parlando? Perché un argomento su cui la stragrande maggioranza dei parlamentari pensa allo stesso modo diventa un problema? Perché da settimane i riflettori fanno l’occhio di bue sulla coscienza di qualche parlamentare di sinistra?

Non varrebbe la pena di zoomare un po’ anche su quel vasto semicerchio di parlamentari che in teoria sono preoccupati per la sorte dell’Afganistan, in teoria sono convinti assertori della presenza del nostro contingente, ma in pratica forse voteranno contro perché l’importante è mettere in difficoltà la maggioranza, il governo, l’Italia?
Dalmomento che, diciamolo, di fronte a questa eventualità (una crisi di governo al buio) la sorte di anche una sola donna, di un solo bambino afgano va a farsi fottere alla grande?
Ecco, la mia domanda è: ma non ce l’hanno una coscienza, anche questi qui? No? Solo la coscienza di tre-quattro senatori comunisti fa notizia?

Si parla tanto delle anime belle. Diamo a ognuno quello che è suo. Le anime belle non avrebbero tanto peso, se non steccassero rare in un bel concerto di anime stronze.

sabato 22 luglio 2006

venerdì 21 luglio 2006

- i ricordi non sono più gli stessi

Autoclip

La prima volta che vidi L'Odio (il film, intendo), ero con un mio amico, e a un certo punto mi resi conto che il mio amico credeva che si trattasse di un film storico, sul serio, una ricostruzione degli anni '70.

Non aveva tutti i torti, perché in fin dei conti è un film in bianco e nero, e il bianco e nero mette sempre della distanza tra noi e le immagini. E all'inizio, se ricordo bene, c'è un bel reggae su scene di barricate. Il reggae, le barricate, ci sembravano cose lontane. Il bianco e nero ci aiutava a tenerle lontane.

Io, parlando di Genova, vorrei sforzarmi di non patinare nulla, di non virare tutto in bianco e nero, di non mettere nessuna cornice: perché queste cose sono successe a noi, proprio a noi, che eravamo pigri e accaldati 5 anni fa, proprio come stasera. Ed è vero che sembrava il Cile, ma sembrava anche, terribilmente, un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, e si poteva essere incerti se andare alle barricate o andare al mare. Ed è vero che c'erano barricate e striscioni e scritte ai muri, ma sugli stessi muri, ovunque, sorrideva indifferente Megan Gale. Ed è vero che si cantava Manu Chao e Bella Ciao, ma la canzone che più si sentiva dalle finestre rimaneva sempre

C’e solo una cura
io so che lo sai

2. Italiano. Percosso con pugni in faccia e calci alla schiena prima di entrare in cella, e poi in cella con pugni alle costole

è una stanza vuota
io mi fiderei


veniva ancora percosso all'interno della cella a opera di agenti che stringevano più forte i laccetti ai polsi, lasciati ingiustificamente mentre si trovava all'interno della cella


Bravo, puoi capire
cose che non vuoi


5. gli afferravano le dita della mano sinistra e poi tirando violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle, riportava lesioni: ferita lacero contusa di 5 cm. tra il terzo e quarto raggio della mano sinistra sei

il tuo guaritore
sei nel tuo mondo...


minacciato: "Se non stai zitto, ti diamo le altre" mentre gridava per il dolore in seguito alla mancata anestesia durante la sutura della lacerazione "da strappo" alla mano.

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare


42- Minacciata col manganello contro la bocca ferita, con la cantilena "Manganello, manganello", e derisa per la paura dimostrata

è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare


81. Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all'esterno: "Entro stasera vi scoperemo tutte".

Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh


36. Costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena


Parla a voce bassa
spiegami che vuoi
sai ne è pieno il mondo
di mali come I tuoi


Percossa ripetutamente con manganellate alla testa e alle spalle, caduta a terra, percossa con calci alla schiena e al petto, presa per i capelli e sollevata, calciata in mezzo alle gambe, sbattuta contro un muro,


slacciati la faccia
ha rabbia il gatto che
gioca con la buccia
e gira in tondo


manganellata ancora e presa a calci al petto e al ventre, successivamente trascinata per i capelli lungo alcune rampe di scale, colpita ancora da tutti i lati con manganelli

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare


Uno due tre viva Pinochet


è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare


(trauma toracico addominale, fratture costali con pneumotorace a destra e contusione polmonare, trauma cranico, contusioni multiple, lesioni gravi per il conseguente indebolimento del 30% della funzione respiratoria e della locomozione del braccio e del collo)


Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini
aaah, ahhh


49. Costretto a marciare nel corridoio della caserma e ad alzare il braccio destro in segno di saluto nazista

Tra la terra e il cielo
e in mezzo ci sei te


Carlo Giuliani è stato ucciso da un sasso scagliato da un manifestante, che ha deviato una pallottola sparata in aria da un carabiniere su un defender in movimento


a volte è solo un velo
un giorno, un fulmine


il mattino del 20 luglio, Carlo Giuliani voleva andare al mare


se hai dato, dato, dato
avuto, avuto, avrai
oggi è già piovuto
dove sei, dove sei, dove sei..


Sin da bambino ho guardato video musicali, e a volte, quando ascolto una canzone, gioco ad associare le immagini, è come se montassi un video dentro la mia testa.

RIT. Dammi tre parole: sole, cuore e amore
dammi un bacio che non fa parlare

Il mio video personale di questa canzone finisce con le immagini di Carlo, che il 20 luglio alla fine decide di andare al mare, si tuffa, nuota, e vive, vive e prende il sole insieme a noi

è l’amore che ti vuole
prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare
Solo le istruzioni per muovere le mani
non siamo mai così vicini

giovedì 20 luglio 2006

- se solo imparassi a pronunciare "espresso"

I'm sitting on the corner, feeling glad

Non lo avrei detto, ma per ora la cosa che mi piace di più in America è il caffè. Non dico la broda marrone.
Mi piace andare in un caffè, prendere qualcosa e sedermi. Coi muffin e coi cookie si va abbastanza sul sicuro. Non costano molto e c’è la rete wireless. C’è anche una climatizzazione bella gelida, ovviamente, che in altri giorni mi è sembrata pleonastica, ma ora no, ora è benedetta.

New Haven è una piccola città di contraddizioni, che dalla vetrina del caffè almeno si vedono. C’è la matricola di Yale che ciatta con la famiglia e l’operaio col casco dal cantiere qui di fianco. La mendicante che in teoria vende fiori. Un tavolo di colletti bianchi a riunione ed il barbone che è venuto a prendere il fresco. E una ciambella. C’è il PHdando in ingegneria che prepara un esame e ci sono io, con una cuffia da centralinista, che parlo italiano a qualcuno che non c’è.

Nessuno disturba nessuno, abbiamo tutti le nostre cuffie, il nostro monitor, la nostro daffare. Ma nemmeno ci ignoriamo.
(Sarà capitato a qualcuno, almeno una volta, di ciattare col dirimpettaio).

C’è il tizio tipo Hemingway, non è colpa sua se ha una barba simile (o forse sì?) che quando passa il cameriere portoricano con lo scopettone gli dice: sai da cosa si riconosce il Maestro in un tempio buddista? Il cameriere sorride, perché questa è la politica aziendale, e Hemingway riprende: è quello che ti viene incontro con lo scopettone, quindi vai avanti, fa il tuo lavoro! C’è un tizio con la kippah, del resto Dio è in ogni luogo e quindi anche al caffè.

Ma soprattutto ci sono i laptop. Un tavolino, un cliente, un laptop. Tutti a scriversi qualcosa. Tanti scrittori al caffè non li hai visti mai, neanche a Parigi (hai mai visto davvero uno scrittore in un caffè di Parigi?) Tanta scrittura mette soggezione.
C’è chi si porta il lavoro da casa. Ma c’è chi a casa ci potrebbe essere già, qui la giornata di lavoro è abbastanza corta. Si parte presto e si fanno sei ore filate, no pausa pranzo. E questo ci porta al grande problema di tutta la civiltà anglosassone: se alle due del pomeriggio non ti reggono le palpebre, dov’è che puoi schiacciare un sonnellino?

mercoledì 19 luglio 2006

- in a big fat country

...and the land of fat-free

La maggior parte delle persone vive la propria vita in uno stato di tranquilla disperazione. È uno schifo.

Prendi il popolo più potente di tutti. Non dovrebbe godersela? Ha bandierine piantate in tutto il porco mondo. È il club in cui tutti vorrebbero entrare. Ti aspetteresti un ambiente rilassato, democratico, e insieme elegante.
E invece per strada c’è un sacco di gente per niente rilassata, per nulla elegante, che ti guarda dal basso in modo affatto democratico. Sotto la crosta del benessere c’è una polpa piena di poveri. Bianchi, neri, misti, li riconosci subito, i poveri. Da cosa li riconosci?

Sono grassi.

Il ventre molle dell’America è veramente molle.
Se ci pensi, è stata una trovata geniale, gonfiare i poveri. Cosa c’è di meno dinamico di un obeso? Cosa c’è di meno refrattario a una rivoluzione?

La povertà obesa è stabilizzante. Fa a pugni con tutto quello che sapevamo del mondo e di come cambiarlo. Se Marx avesse visto i poveri obesi, forse avrebbe riformulato qualcosa. Troppo tardi.

Vai a far la spesa. È tutto fat-free (la salsa di pomodoro?), è tutto light (la birra!), è tutto diet. Se non possono toglierci i grassi, ci tolgono il sodio. È tutto un gioco a sottrarre. E poi.
E poi volti l’angolo è c’è lo scaffale di junk. In confezioni così grandi, da noi, si vende solo la terra da giardino. Tutto fat-free, tutto light, come no. Nella nazione fat-free, si è grassi perché non ci si può permettere il prodotto dietetico. Da una parte i vincenti, light e affusolati. Sono quelli che vedete nei telefilm. Dall’altra il bestiame, nutrito a pastone. Non si ingrassano così da noi i maiali?

L’obesità è una forma di dipendenza, ma rifletti. C’è una dipendenza che dà meno problemi sociali? Gli alcolisti fanno troppi danni. Gli eroinomani rubano, e muoiono troppo presto. Un obeso ha un suo costo, ma: è in grado di lavorare – la sua stessa stazza lo protegge da atteggiamenti devianti (il furto, l’omicidio) – e last but not least, muore relativamente in fretta – la collettività non dovrà pagargli decenni di pensione. L’obeso non è il cittadino perfetto, ma per qualcuno può essere il cittadino ideale.

L’obeso ha bisogno di mangiare. Ha bisogno di muoversi in automobile. Ha bisogno dell’aria condizionata, seriamente, sennò schiatta. L’obeso ha un sacco di bisogni. Voterà per chi glieli difende.

Ed è questo che mi schifa del mondo: che è fatto male, brutto e senza redenzione. Da un Paese che brucia il 70% delle risorse, chiederesti almeno un po’ di bellezza, un po’ di classe. No, il 70% di tutto quel che c’è al mondo serve a ingrassare un enorme parco elettori.
È uno schifo ed è tutto quel che abbiamo.

martedì 18 luglio 2006

- home is where

Casa è

Ho pensato a due cose, ieri, mentre cercavo di fotografare un bidone della spazzatura.

La prima cosa: posso capire gli scoiattoli, ma è possibile che nemmeno i bidoni mi stiano in posa? Cosa c’è che non va nelle mie mani? Perché il mondo mi sfugge via sempre in questo modo? Non è che prenda il volo: si sposta appena di un attimo: era lì, flash, non c’è più. Faust ci scommise qualcosa col diavolo.

La seconda cosa: che diavolo sto facendo? Una foto? A un bidone? Della spazzatura? E poi? La farò vedere ai miei amici? La posterò sul sito? Ci tengo così tanto a far vedere che anche in America producono spazzatura? Sì, ne producono, spesso in misura eccedente ai bidoni. Scoop!

Ma è sempre stato così, se ci penso. In Francia fotografavo solo i palazzoni (gli HLM), belle campiture grigie appena arrosate dai tramonti. Ce n’era uno annerito dal fumo di un incendio, ne andavo pazzo. Sullo sfondo massaie magrebine si recavano ad Auchan con carrelli arrugginiti. Fermati palazzone! Sei così bello! Sorridi! Ti mostrerò ai miei amici. Io non sono mica normale.

Anche nel mio quartiere, tra tante case di legno, ce n’è una bruciacchiata. È stata la prima foto che ho provato a fare. Insieme al negozio di liquori all’angolo, che segna il punto di non ritorno: da lì in poi si incrociano solo facce scure.
E i panzoni al concerto di Kenny Rogers.
E i bidoni della spazzatura.

Tutto questo credo che faccia parte di un training inconscio per autoconvincermi che sto bene dove sto di solito, a Modena cioè. È un fatto che appena viaggio un po’, inizio a notare che c’è un sacco di poveri in giro. Sul serio, ce n’è molti, dove non te li aspetteresti.
Ma è solo un modo polemico di porsi verso la nazione ospitante. I poveri ci sono anche nella mia città, ma io non è che ogni mattina vada a fotografarli in Viale Gramsci. Da cui questa mia nuova definizione di casa: Casa è dove i poveri non si fanno più notare.

Stessa cosa per i negozi. È vero, non c’è modo di far la spesa se non si è motorizzati. Il drugstore più vicino è a 40 minuti di marcia. La civiltà della macchina, si sa, gli ampi parcheggi. Però. Provate a trovare un supermercato in centro storico a Modena, dai, provateci.

E le persone. È un fatto che non ti si filano, ma in fondo, perché dovrebbero? Essere stranieri è all’ordine del giorno, qui; e metà dei commessi ha gli occhi a mandorla, tu che pretendi? Per strada, al caffè, chi non ha le cuffiette sta parlando al cellulare, non c’è proprio modo di attaccar bottone. Però.
Però, in due anni che sto a Carpi, ho mai attaccato discorso con qualcuno? Al bar, per strada, in fila alle poste? No. La differenza è che ero a casa mia, e gli estranei erano qualcosa da cui difendersi. Da cui un’ulteriore definizione di Casa: casa è quel posto dove non ti preoccupi più di essere solo.
Quasi non te ne accorgi.

domenica 16 luglio 2006

- and I said to myself

Un mondo migliore

Io non capisco di cosa si stia parlando, lì da voi. Io qui vivo in un mondo migliore.
In questo mondo il Medio Oriente è stato definitivamente stabilizzato, in 4 tappe.

Prima tappa: eliminazione di Bin Laden e dell’odioso regime talibano in Afganistan.
Oggi l’Afganistan è una democrazia fondata sulla libertà, che attira investitori da tutto il mondo. Gli oleodotti in costruzione contribuiscono alla prosperità del popolo afgano. I volti delle donne afgane hanno fatto il giro del mondo e sono diventati un esempio di emancipazione per tutto l’Islam.

Seconda tappa: rimozione di Saddam Hussein e delle armi di distruzione di massa in Iraq. Oggi l’Iraq è una repubblica fondata sulla libertà, che attira investitori da tutto il mondo. Gli iracheni vivono finalmente in prosperità grazie ai proventi dell’estrazione petrolifera. Il dittatore è stato regolarmente processato.

Terza tappa: rivoluzione democratica in Iran. Questa è la mia tappa preferita, perché non c’è stato neanche bisogno di combattere! L’anno scorso gli iraniani, trovandosi ormai accerchiati da due democrazie fondate sulla libertà, hanno finalmente trovato il coraggio per reagire contro il governo moderato oscurantista di Khatami. Gli studenti di Teheran hanno rovesciato l’Ayatollah, non c’è voluto molto, dopotutto. Oggi l’Iran è finalmente una democrazia moderna, che ha subito riconosciuto l’esistenza dello Stato d’Israele e smantellato le basi hezbollah in Libano (d’altro canto anche il Libano è diventata una democrazia moderna, ma quello lo sapete anche voi).

Quarta tappa: de-arafatizzazione della Palestina. Anche in questo caso, il massimo risultato col minimo spargimento di sangue. Alla morte di Arafat i palestinesi hanno finalmente compreso che ciò che li opponeva agli israeliani non era che il puntiglio di un vecchio terrorista spelacchiato, e hanno voltato le spalle alla lotta armata. Al Fatah è diventato un partito social-liberale, che ha ottenuto alle elezioni il 70% dei suffragi, e si è subito precipitato a riconoscere l’esistenza dello Stato d’Israele. In attesa che Israele abbia la bontà di riconoscere uno Stato di Palestina, composto di Gaza e di qualche circoscrizione in Cisgiordania.

A questo punto, cosa manca? La Siria, la Cecenia? Vabbè, ho detto che il mio è un mondo migliore, mica perfetto. Del resto c’è sempre un dittatore che minaccia la libertà mondiale. Chiedete a Christian Rocca, lui ha fatto il conto, credo siano ancora una quarantina. Comunque nel nostro mondo (migliore) abbiamo capito come si fa: si prende il Paese dove sta il dittatore, si bombarda, si invade, si arresta il dittatore, e poi subito la popolazione corre nelle piazze a farti festa! È così gratificante lasciare il mondo migliore di come lo si ha trovato.
È anche una cosa di sinistra.
Cioè, la sinistra che altro dovrebbe fare.

giovedì 13 luglio 2006

- no pigeons

Uccelli e no

Invece, sapete cosa non c’è, qui, di cui non si sente affatto la mancanza? Gli stramaledetti piccioni! Niente gugu, niente flapflap, niente odore di merda, niente! I Padri Pellegrini li hanno lasciati a casa! E han fatto bene.
Ci ho messo un po’ a rendermene conto. Di solito non guardo gli uccelli. Non li guardo perché sono sempre i soliti grassi e puzzolenti pennuti grigi che mai appresero ad atterrare sugli alberi, un particolare che Darwin si è guardato bene di approfondire. In confronto a loro i polli hanno un’aria intelligente.

Qui invece non smettevo di fare a caso ai volatili.
Ci sono i pettirossi. Una specie di merlo ma col petto rosso pure lui. I rondoni. I passeri di città, quelli con le macchie sul collo, che quando ero bambino c’erano in effetti anche nella mia città, ma poi li ho visti sempre meno, soppiantati immagino dai grossi bombardieri grigiopuzzolenti. Finché non mi sono reso conto che la differenza è tutta qui. No pigeons, ha-cha-cha-cha. Niente macchie bianche sulle cadillac (devo ancora vedere una cadillac).

Io sono uno storico abitatore di sottotetti, il mio odio per i piccioni è etnico, totalizzante. E magari per gli americani di qui si tratta di un pennuto raro e simpatico, da fissare con la stessa aria scema con cui io fisso gli scoiattoli. Non vedono l’ora di venire a Piazza San Marco e nutrirli di costoso granturco. Vagli a spiegare che sono loro i veri ratti alati, B52 del guano, vettori di quanto al mondo v’è di più fetuso.

Una volta ero a Edimburgo. Stavo accompagnando in vacanza una comitiva di ragazzini francesi quasi tutti musulmani, compreso uno che in realtà era vietnamita. Era il suo modo per farsi accettare (non funzionava). Era una bella giornata – ricorderò sempre Edimburgo come una città soleggiata – e picnicando nel parco, io mi misi a spiegare al vietnamita musulmano francese che provava ad acciuffare i piccioni che era impossibile riuscirci, perché lui ha gli occhi sui lati della testa, e quindi ti vede anche se gli arrivi da dietro, lo vedi? (gli dicevo), lo vedi? (e intanto inseguivo un pennuto rognoso), non li beccherai mai! E credevo in questo modo di assolvere un ruolo educativo.

Quando da un cespuglio spunta fuori una signora, e io non so come, ma capisco subito che lei è inglese, forse dall’accento? Davvero avevo un orecchio così buono? O forse semplicemente perché in due sillabe si era già precisata come una monumentale stronza?

“Ma non si vergogna! Ho visto tutto, sa!”
“Eh? Mi scusi, io stavo soltanto…”
“Ho visto bene cosa stava facendo! Ho visto bene! Lei stava insegnando a questo ragazzino come dare la caccia a queste amorose creature! E’ una vergogna!”
“Ma no, in effetti stavo solo spiegando che…”
“E magari lei si considera un educatore! Sono inorridita! Torturare questi graziosi pennuti!”

La signora non faceva che assecondare il suo zelo animalista. Non sapeva che in quel momento stava rappresentando un’intera nazione. Non sapeva che nel cervello, indubbiamente un po’ razzista, del suo interlocutore, in quel momento la cellula cerebrale che conteneva l’input “inglesi” stava per accogliere per sempre l’input “non sanno distinguere un bell’uccello da un contenitore alato di merda”.

D’altro canto, lei rincasando a Newcastle probabilmente ha concluso che gli italiani sono la feccia della terra. Importunano i piccioni nei parchi.
O mi ha preso per un francese. E magari non era neanche inglese, era di Cork.
L’Europa è così complicata, vista da qui.

mercoledì 12 luglio 2006

- syd

L'uomo di paglia era piu' triste di me
(ma ora si e' rassegnato
perche' la vita non e' cosi' male
e a lui non dispiace)

Non vorrei, in un giorno comunque triste, riaprire una vecchia polemica della gioventu’, non vorrei ma lo faccio: a meta’ degli anni Settanta i Pink Floyd erano quattro tromboni miliardari, in grado di arrangiare graziosamente un vuoto cosmico di idee. La volgarizzazione del progressive rock, la riduzione di ogni velleita' psicadelica al quattro quarti lento, con inserti di waltzer e saltuari virtuosismi. La corista sgozzata di the great Gig in the Sky e’ come se urlasse Aiuto, ho solo due accordi e devo finire la facciata di questo costosissimo album. Qualcuno li trova ancora il piu’ grande complesso rock mai esistito.

E’ senz’altro una persona che non sa ballare. Negli anni Settanta ai concerti si stava seduti. Gli stupefacenti in commercio non favorivano il movimento. Oggi e’ diverso. Non voglio dire che e’ meglio o che e’ peggio. Usi e consumi diversi, droghe diverse.

Ma il rock e’ nato per ballare, santo Dio. Chuck Berry ballava. Elvis ballava. I Beatles ballavano. Poi vengono questi anni amorfi in un cui si sta seduti ad ascoltare suoni quadrofonici. Syd se ne era andato. Buon per lui. Male per noi.

Non sono venuto a piangere Syd Barrett, che da trent’anni e’ l’esempio piu’ fulgido di artista postumo in vita. Con momenti paradossali: il tuo ex gruppo ti dedica un disco, e tu sei ancora vivo. Un giorno passi in sala di registrazione per un salutino. Ti fanno ascoltare questa suite maestosa tutta dedicata a te, Shine on you crazy diamond, e tu: “Un po’ datata, non trovate?”

Altroché, Syd. Un walzer funebre, un liscio ambient, musica da camera per matricole di conservatorio. Un po’ datata? In confronto Strauss è punk. Ieri, naturalmente, Shine on you e Wish you were here hanno invaso tutti i palinsesti. Un musicista pazzo muore, e tutti si mettono a cantare una canzone che non ha scritto, e nemmeno gli piaceva.

Nel 1987 i quattro miliardari, ridotti a tre, scesero per promuovere un altro inutile discone di platino. Il risultato indiretto – oltre all’abbassamento della laguna di Venezia di qualche micron – fu un revival di tutta la loro discografia presso i ragazzini. Dischi facili da trovare: spesso bastava fregarli ai babbi o ai fratelli maggiori (una mia zia aveva la cassettina di Animals, un’altra il vinile di Middle). Another brick divenne un tormentone da discoteca, davanti al fuoco si cantava Wish you were here, eccetera. Certo, da qui a riscoprire il primo disco, bisognava fare un certo percorso. Bisognava essere particolarmente snob, o balordi, o romantici.

In quel periodo in Italia nacquero simultaneamente una manciata di band con una sola cosa in comune: prendevano il nome da canzoni di Syd Barrett. L’ho scoperto solo di recente, da quel libro sul rock anni ’80 allegato a Rumore. Non so bene che musica facessero.

Poteva essere musica di ogni tipo. In the Piper at the gates of dawn c’è di tutto. Orge psicadeliche, canzoncine minimali, robusti pezzi pop. È un disco del 1967, targato Parlophone. Nella sala a fianco i Beatles incidevano Sgt. Pepper. Ora come ora, se dovessi mettermi ad ascoltare un disco per il puro gusto di ascoltarlo, sceglierei The piper. Perché forse sono ancora uno snob, o un balordo, o un romantico.

Syd aveva dei maestri giovani: i Beatles, gli Stones di Between the Buttons, i Kinks. E aveva premonizioni: una chitarra protohendrixiana, la retorica spaziale che sarà di Bowie, il misticismo, gli schizzi acustici, il surrealismo. Barrett era persino divertente, una dote che i Pink avrebbero perso per sempre. In Bob Dylan’s blues (che iniziò a circolare intera soltanto all’inizio degli anni Novanta), si prende gioco di un mostro sacro della controcultura con un’ironia che al tempo non era così a buon mercato. Insomma, nella sua pazzia sembrava esserci molto criterio.

Dopo the Piper viene the Madcap laughs. Un disco per metà registrato in un pomeriggio, col rumore delle pagine sfogliate tra una strofa e l’altra. Barrett è anche il padre di tutti i musicisti fatti in casa. Oggi suona terribilmente indie.
Il disco successivo è meglio arrangiato, ma meno interessante. Poi viene il vuoto. Barrett non è mai riuscito a registrarne un terzo. Continuava a incidere tracce di chitarra su tracce di chitarra, all’infinito. Questa, che credo sia una testimonianza di Gilmour, per me è l’immagine stessa della follia. Un loop.
(E anche la frase ricorrente: “vive in campagna con la madre”. Mi sembrava il massimo dell’abiezione, ritirarsi in campagna con la madre).

Non sono venuto a piangere Syd. Per qualche anno e’ stato un mio idolo. Mi cercavo idoli strani, nelle bancarelle dei dischi a meta’ prezzo. Poi ho rovesciato la medaglia: ho iniziato a pensare che dopotutto non mi andava di finire cosi'. La sua faccia spiritata e’ una delle tante che ho scartato mentre cercavo la mia. Ammesso che io l’abbia trovata. Due grandi dischi e poi trent’anni di disordine mentale non mi sembravano un grande affare.

Oggi sto cercando di pensarla diversamente. Syd e’ sopravvissuto a un sacco di gente, coetanei e piu’ giovani di lui: Hendrix, Morrison, e compagnia. In un certo senso la pazzia lo ha salvato da una malattia molto piu’ mortale, l’industria del rock. “Viveva in campagna con la madre”. Beh, ho visto destini peggiori.

martedì 11 luglio 2006

- foto vere arriveranno




Foto non fatte


Tutti hanno un lettore qui, ovviamente. Sui marciapiedi è tutto uno svolgere e riavvolgere di cuffiette. Ognuno è nella sua scaletta personale ­– ma agli incroci, invariabilmente, c’è un’autoradio che pompa hipop.

Foto non fatte: la scritta MAFIA sulla maglietta di una ragazza che fa jogging. Ragazza robusta. Magari non è colpa sua, si chiama proprio così.

Un cop. Un vero cop con pistolone e sfollagente e tutto. Ma in braghette corte e in bicicletta.

E siccome sono qui da dieci giorni, ormai, è tempo di rispondere alla domanda che tutti mi vorrebbero rivolgere, e cioè: li hai visti gli scoiattoli sgambettare sui marciapiede? Li ho visti dalle finestre arrampicarsi ai rami, se è per questo. Fotografarli è piuttosto dura, non stanno in posa.

(Ma quando te li trovi di fronte all’improvviso, che ti occhieggiano dal coperchio di un trashcan, non sono pittoreschi per niente. In quel momento ti rendi conto di conoscere già i loro cugini roditori, i sorci).

E quando viene sera, una sirena ogni mezz’ora. Non ci si annoia per le strade del Connecticut. Ma mi hanno consigliato di non uscire.

lunedì 10 luglio 2006

- campioni

Una vita da Gattuso

I meri fatti sono questi: Zidane ha perso la testa e Trezeguet ha preso una traversa.
Il risultato, indiscutibile, e' che siamo Campioni del Mondo. Tutti cinquanta milioni e rotti quanti siamo. Campioni. Ce lo meritiamo? Non troppo. Lo meritavano i francesi? Men che meno. C'era il rigore? No (ma ce n'era un altro nel secondo tempo). C'era il fuorigioco sul gol annullato? Non lo so, qui tutti hanno urlato e non si e' capito niente.
Cos'ha detto Materazzi a Zidane? In francese si dice provo'. Se la pazzia di Zidane potra' insegnare a milioni di piccole pesti francesi a non reagire alle provo', tanto meglio. Noi dopo Baggio abbiamo imparato a tirare i rigori.

Antropologia spicciola: i francesi (studenti) urlano piu' degli italiani, ma urlano solo nei momenti piu' intensi. Hanno un Dio: Zizou. E vari idoli: Henry, Barthez, e via scendendo. Quando Zizou impazzisce, restano gelati. Non glielo perdoneranno mai. Ancora tra quarant'anni spiegheranno ai loro figli che la finale l'ha persa lui.
(Non e' cosi' vero.
Negli ultimi dieci minuti, con un uomo in piu', il centrocampo italiano non riusciva a spingere. Ma la difesa teneva. Zidane avrebbe pascolato fino al 120', e poi avrebbe segnato il suo bel rigore. Ma Trezeguet avrebbe preso la traversa ugualmente).

Per contro, gli italiani commentano le azioni. Non hanno nessun Dio a cui raccomandarsi, ma soltanto calciatori che potrebbero sempre dare un po' di piu'. Dai Zambrotta, dai Gattuso, spingi Pirlo, non far cazzate Materazzi, e dove cazzo e' Totti, e' sceso in campo o no? La nazionale si critica fino all'ultimo minuto secondo.

Questo forse manca ai francesi: un po' di sano senso critico. Zidane ne avrebbe avuto bisogno. Ma e' antropologia da due soldi.

Come ci si sente a vincere per un soffio, all'ultimo minuto, lo sappiamo gia'. Di sicuro avremmo preferito vincere come i nostri genitori. Tre botte al Brasile, due alla Polonia, tre alla Germania. Quella era gente seria. Noi siamo quelli che siamo, e si sa.
Siamo, per dirla con una parola che vuol dir tutto e niente, berlusconiani. Dove "Berlusconi" ormai e' un concetto che col povero S. B. non ha niente a che fare. Ma il tormentone di quest'anno, dal Caimano in poi, e' stato questo: Berlusconi ha vinto, siamo tutti figli suoi.

Siamo immaturi e un po' ignoranti. Tatuati e pasticcioni. Abbiamo prosperato in un clima moralmente discutibile, dove gli arbitri finivano chiusi negli spogliatoi e noi credevamo che fosse ok. Abbiamo peccato di parole, di opere, e soprattutto di omissioni. Ci sarebbe piaciuto essere persone piu' serie, ma alla fine non siamo altro che noi.

D'altro canto, non siamo necessariamente peggio degli altri. E siccome saremo ancora noi, per molti anni, tantovale farvelo vedere: se c'e' bisogno lottiamo, su ogni pallone, se c'e' bisogno mandiamo a casa i padroni di casa, e neanche gli armadi d'ebano francesi ci fanno paura.
Non siamo Dei, siamo terzinacci. Ma neanche voi siete Dei, mettetevelo in testa. Noi siamo campioni perche' non crediamo piu' a nessun intervento divino, di manager o arbitro o centravanti miracolato. Crediamo solo in noi stessi, e anche poco.

C'e' questa vecchia idea asfissiante, questa riduzione della Storia d'Italia ai minimi termini, per cui gli anni di piombo finiscono al Santiago Bernabeu. Di vero c'e' questo: negli anni Ottanta ci siamo tutti un po' montati la testa. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre capacita', e stiamo ancora pagando.

Succedera' di nuovo? Io spero di no. Vorrei che questa vittoria avesse un sapore diverso. Il riscatto per una generazione che ha fatto melina per troppo tempo. Che viveva di illusioni e rimediava solo figuracce (2002 e 2004).
E' una generazione che non mi sta simpatica, ma alla fine e' la mia. Sono io. Non posso mica inventarmi diverso da quel che sono. Sono come tutti voi, uno che e' cresciuto un po' troppo lentamente. In ogni caso sono cresciuto, e adesso si tratta di farvela vedere. Si tratta di lavorare, tutto qua. Non c'e' nessun regista miracoloso a cui passar la palla. Da qui in poi stacco, senno' divento Ligabue.

venerdì 7 luglio 2006

- tassinari, vergogna nazionale

I tassinari avevano rotto – già nel Mille e novecento ventotto:

Vi era acqua sporca nei rigagnoli e negli interstizi del selciato; una nebbia paludosa che proveniva dalla Campagna, un sudore di culture esauste corrompeva l’aria del mattino. Un quartetto d’autisti di piazza con gli occhi sprofondati nelle occhiaie scure lo circondò. Ne respinse ruvidamente uno che gli parlava insistentemente in faccia

— Quanto a Hôtel Quirinal?
— Cento lire.


Sei dollari. Scosse il capo e offrì trenta lire, che era il doppio della tariffa di allora, ma si strinsero nelle spalle e se ne andarono.

— Trentacinque lire e mance, — disse con fermezza.

— Cento lire.

Sbottò in inglese: — Per ottocento metri? Mi porterete per quaranta lire.

— Oh, no.

Era molto stanco. Aprì lo sportello di un taxi ed entrò.

— Hôtel Quirinal! – disse al conducente che restava ostinatamente fuori dallo sportello. – Smettila di far quella smorfia e portami al Quirinal.

— Ah, no.

Dick scese; accanto alla porta del Bombonieri qualcuno stava litigando con gli autisti, qualcuno che ora cercava di spiegare il loro atteggiamento a Dick. Di nuovo uno di loro gli si avvicinò insistendo e gesticolando e Dick lo respinse.

— Voglio andare all’Hôtel Quirinal.

— Dice che vuole cento lire, — spiegò l’interprete.

— Capisco. Gli darò cinquanta lire. Andiamo —. Questo all’autista insistente che si era avvicinato di nuovo. L’autista lo guardò e sputò con disprezzo.
L’ardente impazienza di tutta la serata invase Dick e si rivestì in un lampo di violenza, la risorsa onorata e tradizionale della sua terra; si fece avanti e colpì l’autista in faccia.

Gli saltarono tutti addosso minacciandolo, agitando le braccia, cercando, senza riuscirci, di afferrarlo: con la schiena contro il muro Dick picchiava alla rinfusa ridendo un poco, e per qualche minuto la lotta per burla, una faccenda di spintoni sventati e di colpi ovattati, attenti, oscillò su e giù davanti alla porta. Poi Dick inciampò e cadde; fu colpito, ma lottò per alzarsi lottando fra braccia che improvvisamente si aprirono. Udì una nuova voce e una nuova discussione, ma si appoggiò al muro ansante e furioso per la mancanza di dignità della sua posizione.

Vide che non vi era simpatia per lui, ma non riusciva a credere di avere torto.
Stavano andando al posto di polizia per sistemare la faccenda. Qualcuno gli raccolse il cappello e glielo porse, e sorretto leggermente per un braccio svoltò l’angolo con gli autisti ed entrò in una caserma squallida dove alcuni carabinieri stavano sotto un’unica luce fioca.

Al tavolo sedeva un capitano, al quale l’individuo ufficioso che aveva interrotto la zuffa parlò a lungo in italiano, indicando ogni tanto Dick e lasciandosi interrompere dagli autisti che lanciarono brevi esplosioni di invettive e di rinuncia. Il capitano incominciò a fare cenni impazienti col capo. Alzò la mano e il discorso dalle teste d’Idra terminò con qualche esclamazione di chiusura. Poi si rivolse a Dick.

— Spick italiano? – chiese.

— No.

— Spick français?

— Oui,
— disse Dick, illuminandosi.

— Alors. Écoute. Va au Quirinal. Espèce d’endormi. Ècoutez: vous êtez saoûl. Payez ce que le chaffeur demande. Comprenez—vous?

Dick scosse il capo.

— Non, je ne veux pas.

— Come?

— Je payerai quarante lires. C’est bien assez.


Il capitano si alzò.

— Écoute, — gridò violentemente. – Vous êtes saoûl. Vous avez battu le caffeur. Comme ci, comme ça —. Percosse nervosamente l’aria con la mano destra. – C’est bien que je vous donne la liberté. Payez ce qu’il a dit: cento lire. Va au Quirinal.

Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte; nella traduzione di Fernanda Pivano.

giovedì 6 luglio 2006

- italian stallions

("Italian stallions" era il titolone in prima pagina sull'inserto sportivo del New Haven Register; e devo dire che non ce n'e' uno simile sui francesi stamattina).

Ma insomma questa World Cup la guardano, gli americani. Perche'? Cosa ci trovano? E' l'unico sport in cui non sono obbligati a vincere: pure, si sciroppano partitacce di nazioni esotiche come Ucraina o Portogallo; mandano giu' serafici l'umiliazione di farsi buttare fuori da Ghana o Boemia; non si smuovono dal video, anche se nessuno segna per due ore, una cosa impensabile in qualsiasi altro sport. Perche'?

Ebbene, sentite un po' questa. Gli americani guardano il soccer perche' e' divertente. Proprio cosi'.

E' divertente - l'avreste mai detto? - addirittura fa ridere. Quando un CT disperato getta uno straccio nel secchio, loro si mettono a ridere. Quando l'ennesimo centrocampista si butta giu' dolorante per un contatto, il volto contorto in una maschera tragica (e il 90%, va detto, sono in maglia azzurra), loro si sganasciano. Quando Grosso si mette le mani nei capelli, disperato per un calcio in uno stinco, si sbudellano. Gattuso, poi, fa ridere solo a guardarlo.

Davvero, non si rendono affatto conto della gravita' della cosa. Quando infine Grosso segna, e la diretta per un attimo mostra un'immagine del Circo Massimo che s'infiamma, loro ridono a crepapelle. Non gli passa per la mente il fatto che da qualche parte nello stesso mondo ottanta milioni di tedeschi hanno cominciato a soffrire e cinquanta milioni di italiani hanno le palpitazioni. Non sanno quanti padri di famiglia tedesca stiano seriamente pensando di cambiare localita' balneare per l'agosto, onde evitare l'irridente bagnino romagnolo. Ne' concepiscono il dramma schizofrenico del bagnino romagnolo, che sogna da 24 anni l'umiliazione del crucco, ma nel frattempo teme di non rivederlo per un'intera estate. Non ne sanno niente, loro.

Per loro e' un gioco, in cui nessuno segna quasi mai, ma quando qualcuno segna poi e' finita. E' divertente questa cosa, che il pallone non si puo' toccare con le mani. Le strattonate, i fischi, i tuffi. I portieroni coi loro guantoni.

E l'Europa tutto intorno, che trattiene il sospiro, e' uno spasso.

mercoledì 5 luglio 2006

- da qui non si capisce bene

Ma spiegatela a uno che sta lontano, questa cosa: uno sciopero dei tassisti in Italia, come funziona?

Cioe', tu cerchi un taxi, e il taxi non c'e'? E quale sarebbe la differenza, scusate, con tutti gli altri giorni? Come fa la gente a capire che c'e' uno sciopero, che c'e' un disagio?

Io se fossi nei tassisti un giorno di sciopero lo concepirei cosi': lavorerei tutto il giorno a meta' prezzo. Oppure gratis. Per protesta.

Le citta' si riempirebbero di migliaia di taxi, forse anche di decine di migliaia di taxi in servizio, e sarebbe il caos. La gente arriverebbe puntuale ad appuntamenti a cui nessuno li attendeva, centinaia di adulteri verrebbero alla luce, in pratica l'undicesima piaga d'Egitto. Se fossi un tassista, io.

domenica 2 luglio 2006

- usa

Sono arrivato e sto bene

Soliti problemi di adattamento e adattatori. Quando è tutto a posto vi scrivo.