Tutti i santi
Giorni di vacanza. Tanto più che qualcuno a caccia di dolcetti è riuscito a scovare pure il nostro citofono.
Così la redazione si allinea al sentimento comune e festeggia Ognissanti con un pezzo di repertorio: I Santi del Mese. E' stato scritto in gennaio per Sacripante!, e doveva essere il primo di una lunga serie di pezzi buffi sui protagonisti del nostro calendario. In seguito però la pregiata rivista on line ha interrotto le pubblicazioni (voglio sperare che Ruini non c'entri per nulla). Devo dire che un po' mi dispiace. Devo anche dire che ero in ritardo cronico con le consegne.
Rileggendolo, ho voluto cambiarlo un po', e così l'ho riscritto. Spero che non ci siano problemi di copyright (sennò lo tolgo).
Santa Brigida di Kildare (1 febbraio)
Appena dico "Santa Brigida", vi sento già sbuffare: "Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d'Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche". Tutto questo è vero, e anche di più, ma il primo febbraio ricorre un'altra Santa Brigida. Quella di Kildare (Irlanda). Perché l'Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.
Ora, questa santa a me sta assai simpatica. Non ebbe molte visioni estatiche, è vero – e di monasteri ne fondò uno solo – ma nell'isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:
I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven's family
drinking it through all eternity.
(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l'eternità)
Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l'eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l'abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: "Tuo figlio ci ha messo l'acqua", ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.
Sant'Agata (5 febbraio)
Avete presente quel tipo di sante martiri che presentano le proprie mutilazioni su un vassoio – vengono i brividi solo a pensarci. Santa Lucia, per dire, ci tiene un paio d'occhi – quelli che le cavarono i pagani. A Sant'Agata (patrona di Catania e dei pompieri) è andata, se possibile, peggio. Quelle due cose rosa sul vassoio sono… i seni, esatto.
Aveva solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mise gli occhi addosso: giovane, pura, consacrata a Cristo. Sulle prime la affida a una cortigiana, tale Afrodisia, che cerca di rieducarla ai costumi pagani: festini, banchetti, orge… niente da fare. "Ha la testa più dura della lava dell'Etna", dice Afrodisia, rispedendola al mittente.
Si passa alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con enormi tenaglie. Verrà più tardi Gesù bambino a fargliele ricrescere. Infine l'empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. È la Santa da invocare in un incendio (ora lo sapete).
Nella chiesa del mio paese c'è un bel quadro di Sant'Agata, col vassoio cancellato da un maldestro restauro ottocentesco. Da ragazzino non mi dispiaceva, pur trovandola un po' piatta. Quando ho saputo, mi sono sentito una merda.
Santi Cirillo e Metodio (14 febbraio)
Oggi, 14 febbraio, mentre tutto il mondo pensa a scambiarsi sciocchi e futili pegni d'amore, i linguisti si segregano in casa, e ricordano i loro Santi, i loro eroi.
I fratelli Cirillo e Metodio evangelizzarono gli Slavi contro tutto e tutti. Quelli non è che non sapessero semplicemente "leggere e scrivere". Non avevano l'idea stessa di scrittura – l'alfabeto. Cirillo e Metodio presero quello greco, lo pasticciarono un po' e lo trasformarono in quell'alfabeto ancora oggi usato da Belgrado a Vladivostok e nelle Stazioni spaziali: il cirillico!
Evangelizzare un popolo barbaro partendo dall'alfabeto dev'esser dura. Ma forse fu peggio convincere i pecoroni delle curie greche e latine che quello che stavano facendo era buono e giusto. Gesù deve parlarti nella tua lingua! Altrimenti che si è fatto uomo a fare?
Per aver alfabetizzato ed evangelizzato un popolo, rischiarono l'eresia. Dovettero combattere fino all'ultimo giorno per veder riconoscere il paleoslavo come lingua liturgica, accanto al latino e al greco.
Cirillo e Metodio sono i patroni dell'Europa, degli ecumenismi, e di tutti i linguisti di buona volontà, osteggiati dall'ottusità umana che ovunque impone regole inutili e lingue morte. Se il vostro partner è un/a linguista, forse avete capito perché oggi non vi ha ancora fatto un regalo ed è così pensoso/a. Vogliategli/le bene.
San Policarpo di Smirne (23 febbraio)
Nella pratica l'occupazione dei Santi in cielo è definibile come intermediazione: si tratta di ricevere le richieste dei devoti e scremarle; inoltrarle all'Autorità competente… un lavoraccio.
Certo, non è che tutti abbiano il daffare di, poniamo, Sant'Antonio da Padova: c'è gente che ha molto più tempo libero, come per es. San Policarpo.
Già l'esser Santo protettore di tutti i Policarpo del mondo non dev'essere un mestiere a tempo pieno. In più, Policarpo viene da Smirne, che nel I sec. poteva anche brulicare di cristiani, ma oggi ci abitano i turchi: quindi, insomma, chi lo conosce? A parte gli agiografi e i compilatori di calendari; chi è che si inginocchia davanti a Policarpo? C'è il santino? Avranno smesso di ristamparlo da un pezzo.
Ne consegue che nel suo ufficio celeste, Policarpo non sa che fare. Una partita a freccette con Sebastiano? Due tiri di scherma con Paolo? Alla lunga deve essersi creato una fama di fancazzista che non merita – in fin dei conti è un Martire, e di quelli tosti. Salì sulla pira di sua sponte, senza farsi nemmeno legare. Insomma, non merita tanta disattenzione.
Un compito per il 23 febbraio: trovare qualcosa da chiedere anche a San Policarpo di Smirne. Era un Santo coraggioso e tenace: non dite che non potrebbe anche lui aiutarvi in qualche cosa. E con lui non dovrebbero esserci i tempi di attesa di San Padre Pio. Santo, santissimo, ci mancherebbe. Ma da lui c'è sempre fila.
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martedì 31 ottobre 2006
venerdì 27 ottobre 2006
- domani all'amore si fa
Menica, menica
(scaricala in lo-fi)
Scarpe nuove mi son messo,
il cappello nero in testa:
devo andare alla Gran Messa
col vestito della festa.
Per sembrare intelligente
curo molto l'espressione,
mentre passo tra la gente
che cammina in processione…
Menica menica, oggi è domenica:
tutti a passeggio si va.
Menica menica, oggi è domenica
Ognun mi saluterà.
Dopo avere ben mangiato
salto sulla mia Gilera
e mi lancio a perdifiato
verso l'unica Balera.
Ecco là sullo stradone,
con le scarpe di coppale,
tutte fragole e lampone
due ragazze mica male…
Menica menica, oggi è domenica
Festa in paese si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutti a ballare si va
Ecco attacca l'orchestrina
la mazurca indiavolata:
io rimango in magliettina,
lei è già tutta sudata.
A me pare appetitosa,
pur se sa di brillantina;
le sussurro qualche cosa,
lei mi fa una risatina…
Menica menica, oggi è domenica
Oggi all'amore si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutto doman finirà
Finirà
Finirà
Come molti, io non sono mai riuscito a trovare l’anima al liscio. Che i miei vecchi trascorressero le rare ore di svago a scimmiottare i valzer della corte di Vienna era un fatto: ma, ecco, era un fatto poco interessante e abbastanza triste, tutto qui. Quale folclore, quale cultura? tre quarti con bassi pompati e arpeggi facili: il nonno del tecno era superficiale quanto il nipote. Si trattava solo di una superficialità diversa: la scimmia ammaestrata che imita i padroni contro la nuova scimmia postmoderna che ritrova la jungla al cocoricò. Io invece ci tenevo ad avere una storia, delle radici, bla, bla.
A proposito delle mie radici: i miei genitori mi hanno lasciato in eredità una sola cassettina: tre pezzi di De Andrè, tre di Paoli, tre di Lauzi. Ritornerai e il Poeta le conoscono tutti. La terza è Menica Menica, e non ho mai trovato qualcuno che la conoscesse – solo qualche rara traccia su e-mule.
Per me è bellissima, e spietata. La provincia è radiografata in tutta la sua nullezza, con un’economia di parole che fa spavento. “Per sembrare intelligente / curo molto l’espressione”… Lauzi non ha nemmeno bisogno di dirlo, che la “gente che cammina in processione” è fatta di tante maschere nude come lui. “Dopo avere ben mangiato”… e lo stomaco ti si riempie come alle due e mezza di un giorno di festa. E basta la parola “Gilera” per annusare il polverone di una strada sterrata, che a un tratto si dirada e nel nulla compare la prima e ultima spiaggia, l’Unica Balera.
Spietato come Flaubert, laconico come Ungaretti. Lui rimane in magliettina, lei è già tutta sudata, e poi via, si fa all’amore. Presto, che domani (non c’è neanche bisogno di dirlo!) è lunedì. E qui improvvisamente la voce si fa più fievole, e ti scarica addosso generazioni intere di pietà e malinconia. Che cosa ti aspettavi? Gratti la brillantina e senti il fieno. Questa è gente che per essere ipocrita e superficiale aveva un solo giorno alla settimana.
De Andrè ci avrebbe messo due strofe in più (Guccini il doppio). Tenco si sarebbe perso per strada a litigare col destino. Lauzi ci mette esattamente tre strofe, tre giri di valzer. Io non sono mai riuscito a trovare un’anima al liscio, finché non ho sentito Menica, Menica. Bruno Lauzi era un poeta, e se n’è andato. Voi passate un buon week end.
(scaricala in lo-fi)
Scarpe nuove mi son messo,
il cappello nero in testa:
devo andare alla Gran Messa
col vestito della festa.
Per sembrare intelligente
curo molto l'espressione,
mentre passo tra la gente
che cammina in processione…
Menica menica, oggi è domenica:
tutti a passeggio si va.
Menica menica, oggi è domenica
Ognun mi saluterà.
Dopo avere ben mangiato
salto sulla mia Gilera
e mi lancio a perdifiato
verso l'unica Balera.
Ecco là sullo stradone,
con le scarpe di coppale,
tutte fragole e lampone
due ragazze mica male…
Menica menica, oggi è domenica
Festa in paese si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutti a ballare si va
Ecco attacca l'orchestrina
la mazurca indiavolata:
io rimango in magliettina,
lei è già tutta sudata.
A me pare appetitosa,
pur se sa di brillantina;
le sussurro qualche cosa,
lei mi fa una risatina…
Menica menica, oggi è domenica
Oggi all'amore si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutto doman finirà
Finirà
Finirà
***
Come molti, io non sono mai riuscito a trovare l’anima al liscio. Che i miei vecchi trascorressero le rare ore di svago a scimmiottare i valzer della corte di Vienna era un fatto: ma, ecco, era un fatto poco interessante e abbastanza triste, tutto qui. Quale folclore, quale cultura? tre quarti con bassi pompati e arpeggi facili: il nonno del tecno era superficiale quanto il nipote. Si trattava solo di una superficialità diversa: la scimmia ammaestrata che imita i padroni contro la nuova scimmia postmoderna che ritrova la jungla al cocoricò. Io invece ci tenevo ad avere una storia, delle radici, bla, bla.
A proposito delle mie radici: i miei genitori mi hanno lasciato in eredità una sola cassettina: tre pezzi di De Andrè, tre di Paoli, tre di Lauzi. Ritornerai e il Poeta le conoscono tutti. La terza è Menica Menica, e non ho mai trovato qualcuno che la conoscesse – solo qualche rara traccia su e-mule.
Per me è bellissima, e spietata. La provincia è radiografata in tutta la sua nullezza, con un’economia di parole che fa spavento. “Per sembrare intelligente / curo molto l’espressione”… Lauzi non ha nemmeno bisogno di dirlo, che la “gente che cammina in processione” è fatta di tante maschere nude come lui. “Dopo avere ben mangiato”… e lo stomaco ti si riempie come alle due e mezza di un giorno di festa. E basta la parola “Gilera” per annusare il polverone di una strada sterrata, che a un tratto si dirada e nel nulla compare la prima e ultima spiaggia, l’Unica Balera.
Spietato come Flaubert, laconico come Ungaretti. Lui rimane in magliettina, lei è già tutta sudata, e poi via, si fa all’amore. Presto, che domani (non c’è neanche bisogno di dirlo!) è lunedì. E qui improvvisamente la voce si fa più fievole, e ti scarica addosso generazioni intere di pietà e malinconia. Che cosa ti aspettavi? Gratti la brillantina e senti il fieno. Questa è gente che per essere ipocrita e superficiale aveva un solo giorno alla settimana.
De Andrè ci avrebbe messo due strofe in più (Guccini il doppio). Tenco si sarebbe perso per strada a litigare col destino. Lauzi ci mette esattamente tre strofe, tre giri di valzer. Io non sono mai riuscito a trovare un’anima al liscio, finché non ho sentito Menica, Menica. Bruno Lauzi era un poeta, e se n’è andato. Voi passate un buon week end.
giovedì 26 ottobre 2006
- tv news strike (back?)
Subliminews
Anche ieri i giornalisti hanno scioperato e anche ieri, puntualmente, si è verificato quell’inatteso fenomeno: abbiamo visto dei tg normali. Spartani ma impeccabili. Un signore un po’ legnoso leggeva una serie di dispacci di agenzia, senza neanche l’ausilio del gobbo. Un format quasi perfetto nella sua fattura artigianale – non fosse per quegli inutili tre minuti di comunicati e controcomunicati sindacali. E con la scusa che non ci sono sfilate da inquadrare e film da pubblicizzare, avanza anche un po’ di tempo per i cartoni animati.
Da qui una serie di considerazioni, prima della quale: forse mi sto rincoglionendo. E se la pensi come me, o lettore, stiamo rincoglionendo insieme. Invecchiamo, diventiamo reazionari. La nostra idea di “tg normale” è indissolubilmente legata ai tg della nostra infanzia, con una grafica minima o inesistente, e Vespa o Fede o Frajese su uno sfondo grigio che leggevano notizie: tutto quello che potevano fare era leggere notizie. In casa si faceva silenzio, perché se si voleva imparare qualcosa (a quei tempi si desiderava imparare qualcosa), occorreva stare attenti. Come i nostri nonni con le radio. Era il medioevo della multimedialità, ma da qualche parte nella nostra coscienza di rincoglioniti sarà per sempre l’età dell’oro in cui giocavamo coi lego sul tappeto. Si stava meglio.
Seconda considerazione: siamo sicuri che non si stesse davvero meglio? Il tg all’antica aveva un grosso vantaggio: come la radio, potevo ascoltarlo e intanto giocare coi lego. L’apporto visivo era nullo. Oggi siamo costretti a guardare. Ma sarà vero? C’è davvero molto da guardare nei filmati di un qualsiasi tg (anche serio)? Fateci caso: l’80% del materiale visivo consiste in materiale d’archivio, spesso estrapolato dal primo contesto, col risultato di deformare l’informazione. Faccio un esempio: se si parla di un nuovo comunicato di Bin Laden, si andrà a pescare qualche vecchio filmato del califfo del Terrore. Nel medioevo della nostra infanzia si usava aggiungere la scritta “immagini di repertorio”. Oggi no. Oggi la maggior parte dei telespettatori è deliberatamente indotta all’equivoco: Bin Laden è ancora in circolazione, legge discorsi e compare in tv. In realtà non abbiamo più video suoi da un sacco di anni.
È andata così: dopo decenni di multimedialità molto scarsa, la tecnologia ha permesso ai telegiornali di abbinare davvero testi e immagini. Ma la forma più chiara, breve e sintetica per dare le informazioni resta sempre la stessa: farle leggere a qualcuno. Le immagini possono illustrare la notizia, ma restano secondarie. Quello che veicolano, molto spesso, sono messaggi laterali, subliminali: mentre lo speaker ci dice “è uscito un nuovo discorso di Bin Laden”, l’immagine suggerisce: “Bin Laden è sicuramente vivo, guardatelo qui”.
I messaggi subliminali sono allo stesso tempo più suadenti e più difficili da riconoscere, e quindi da criticare. Arrivano spesso prima del messaggio primario – specie da quando nelle nostre case abbiamo smesso di seguire i tg in religioso silenzio. Da quando, cioè, sono diventati contenitori chiassosi di filmati di repertorio, defilés, trailers, videoclip. Il subliminale è talmente debordante da soddisfare totalmente la nostra fame d’informazione. Tant’è che già da parecchi anni i tg hanno messo a disposizione del pubblico più smaliziato uno strumento utilissimo per riconoscere le informazioni pure in mezzo al chiasso: i titoli correnti in fondo alla pagina. Quelli si possono seguire senza disturbare ed essere disturbati anche mentre il resto della famiglia ciarla e sforchetta.
Terza considerazione, assai simile alla prima: sono davvero un reazionario. Immerso come sono in un universo multitasking, mi ostino a credere di poter fare solo una cosa alla volta. Continuo a prediligere strumenti lineari, come la voce dello speaker, o la linea dei titoli che scorre lungo il lato inferiore del video. Tutto quello che il video mi offre di più, lo squalifico come paccottiglia subliminale, buona per ipnotizzare le masse. In realtà i supporti video possono essere molto utili e fornire testimonianze preziose…
Eppure resta l’incontrovertibile verità: un tg di dieci minuti, tutto letto al microfono come ai vecchi tempi, contiene l’esatta quantità di informazione che di solito viene condita con mezz’ora di scemenze. Se ci riflettessero bene, i giornalisti tv, forse troverebbero un altro strumento di lotta.
Anche ieri i giornalisti hanno scioperato e anche ieri, puntualmente, si è verificato quell’inatteso fenomeno: abbiamo visto dei tg normali. Spartani ma impeccabili. Un signore un po’ legnoso leggeva una serie di dispacci di agenzia, senza neanche l’ausilio del gobbo. Un format quasi perfetto nella sua fattura artigianale – non fosse per quegli inutili tre minuti di comunicati e controcomunicati sindacali. E con la scusa che non ci sono sfilate da inquadrare e film da pubblicizzare, avanza anche un po’ di tempo per i cartoni animati.
Da qui una serie di considerazioni, prima della quale: forse mi sto rincoglionendo. E se la pensi come me, o lettore, stiamo rincoglionendo insieme. Invecchiamo, diventiamo reazionari. La nostra idea di “tg normale” è indissolubilmente legata ai tg della nostra infanzia, con una grafica minima o inesistente, e Vespa o Fede o Frajese su uno sfondo grigio che leggevano notizie: tutto quello che potevano fare era leggere notizie. In casa si faceva silenzio, perché se si voleva imparare qualcosa (a quei tempi si desiderava imparare qualcosa), occorreva stare attenti. Come i nostri nonni con le radio. Era il medioevo della multimedialità, ma da qualche parte nella nostra coscienza di rincoglioniti sarà per sempre l’età dell’oro in cui giocavamo coi lego sul tappeto. Si stava meglio.
Seconda considerazione: siamo sicuri che non si stesse davvero meglio? Il tg all’antica aveva un grosso vantaggio: come la radio, potevo ascoltarlo e intanto giocare coi lego. L’apporto visivo era nullo. Oggi siamo costretti a guardare. Ma sarà vero? C’è davvero molto da guardare nei filmati di un qualsiasi tg (anche serio)? Fateci caso: l’80% del materiale visivo consiste in materiale d’archivio, spesso estrapolato dal primo contesto, col risultato di deformare l’informazione. Faccio un esempio: se si parla di un nuovo comunicato di Bin Laden, si andrà a pescare qualche vecchio filmato del califfo del Terrore. Nel medioevo della nostra infanzia si usava aggiungere la scritta “immagini di repertorio”. Oggi no. Oggi la maggior parte dei telespettatori è deliberatamente indotta all’equivoco: Bin Laden è ancora in circolazione, legge discorsi e compare in tv. In realtà non abbiamo più video suoi da un sacco di anni.
È andata così: dopo decenni di multimedialità molto scarsa, la tecnologia ha permesso ai telegiornali di abbinare davvero testi e immagini. Ma la forma più chiara, breve e sintetica per dare le informazioni resta sempre la stessa: farle leggere a qualcuno. Le immagini possono illustrare la notizia, ma restano secondarie. Quello che veicolano, molto spesso, sono messaggi laterali, subliminali: mentre lo speaker ci dice “è uscito un nuovo discorso di Bin Laden”, l’immagine suggerisce: “Bin Laden è sicuramente vivo, guardatelo qui”.
I messaggi subliminali sono allo stesso tempo più suadenti e più difficili da riconoscere, e quindi da criticare. Arrivano spesso prima del messaggio primario – specie da quando nelle nostre case abbiamo smesso di seguire i tg in religioso silenzio. Da quando, cioè, sono diventati contenitori chiassosi di filmati di repertorio, defilés, trailers, videoclip. Il subliminale è talmente debordante da soddisfare totalmente la nostra fame d’informazione. Tant’è che già da parecchi anni i tg hanno messo a disposizione del pubblico più smaliziato uno strumento utilissimo per riconoscere le informazioni pure in mezzo al chiasso: i titoli correnti in fondo alla pagina. Quelli si possono seguire senza disturbare ed essere disturbati anche mentre il resto della famiglia ciarla e sforchetta.
Terza considerazione, assai simile alla prima: sono davvero un reazionario. Immerso come sono in un universo multitasking, mi ostino a credere di poter fare solo una cosa alla volta. Continuo a prediligere strumenti lineari, come la voce dello speaker, o la linea dei titoli che scorre lungo il lato inferiore del video. Tutto quello che il video mi offre di più, lo squalifico come paccottiglia subliminale, buona per ipnotizzare le masse. In realtà i supporti video possono essere molto utili e fornire testimonianze preziose…
Eppure resta l’incontrovertibile verità: un tg di dieci minuti, tutto letto al microfono come ai vecchi tempi, contiene l’esatta quantità di informazione che di solito viene condita con mezz’ora di scemenze. Se ci riflettessero bene, i giornalisti tv, forse troverebbero un altro strumento di lotta.
martedì 24 ottobre 2006
- la Storia non ci insegna nulla, 2
Chi non ha memoria, non ha... non ha... non mi ricordo
Più cresco (più invecchio) più accumulo sospetti sulle cose che mi piacciono.
Per esempio, la Storia. Mi è sempre piaciuta. Come il vino. E proprio come il vino, comincio a diffidarne. Ho il sospetto faccia male. Di sicuro ha fatto male a tanta gente intorno a me, e chi sono io per scamparla? È una malattia, la Storia. Ti impedisce di guardarti attorno.
L’ho capito ieri sera, per l’ennesima volta. Era l’anniversario dei fatti di Budapest. Io so - più o meno - cosa è successo a Budapest nel 1956. Ma se anche non lo sapessi, in questi giorni l’avrei imparato: mi bastava guardare un tg Rai. Per dire che certe volte siamo ingiusti, nei confronti della tv pubblica. In realtà anche i tg (un po’ come me, come noi) hanno un debole per le digressioni storiche. Non vedono l’ora di imbroccarne una. Sul tg1 di ieri sera era tutto un polemizzare con Togliatti, che se ci pensate è fantastico. È morto nel 1964, Togliatti: ma avreste dovuto sentire, ieri sera, Paolo Mieli come gliele cantava.
Gliele ha cantate così bene e così a lungo, che non è rimasto del tempo per spiegare cosa sta succedendo in questo preciso momento a Budapest. Le immagini mostravano manifestanti intorno ai carri armati, fumogeni tirati ad alzo zero. Non erano le solite immagini in bianco e nero: era Budapest Oggi, anzi Ieri, 23 ottobre 2006. Lo speaker parlava di contestazioni violente, senza troppo spiegare da parte di chi e perché. Perché non era così importante, dopotutto. L’importante è che nel 1956 Togliatti aveva torto. Ecco, quando dico che la Storia è pericolosa, penso a questo tipo di cose.
A volte la Storia ci prende talmente la mano, che il nostro presente scompare. Nel 2006 l’Ungheria è nell’Unione Europea; Budapest è praticamente la periferia di Trieste (o se preferite, Trieste è di nuovo il porto di Budapest); una manifestazione repressa coi carri armati in una capitale dell’Unione Europea dovrebbe avere i primi titoli, e ispirare commenti allarmati. I cronisti dovrebbero per prima cosa spiegarci cosa sta succedendo, chi è che protesta e perché. E invece no, non c’è tempo. Il 2006 scompare, di fronte alla necessità di ricordare il 1956. Non è stato nemmeno fatto il nome del premier ungherese – l’oggetto della contestazione – e del movimento che la ha organizzata. Però è stato inquadrato Palmiro Togliatti. Che nel 1956 aveva torto, ormai non c'è dubbio al riguardo.
Vien da pensare. Chi è che nel 1956 minimizzava gli scontri di piazza? Il PCI, il PCUS. E oggi chi li minimizza? Un po' tutti. E il bello è che lo facciamo proprio mentre stiamo rinfacciando a Palmiro Togliatti (che è morto) i suoi errori. E se gli scontri di piazza di questi giorni fossero il preludio di qualcosa di importante, di qualcosa che non avevamo assolutamente capito? Tanto peggio. Forse ne parleranno i tg Rai del 2056.
Forse i tgRai del 2056 ricorderanno gli errori di... che so, Maurizio Gasparri. Che magari non avrà minimizzato una rivoluzione. Però ieri ha difeso a spada tratta un ex agente KGB che governa da solo una Russia post-sovietica ma ancora molto pre-democratica. Con questi argomenti: "Putin è un amico nostro, un amico di Berlusconi [...] Tra lui e Prodi, Putin ha sempre ragione, qualsiasi cosa dica. A prescindere, come diceva Totò". Per dire che si divertiranno, i nostri nipoti, nel 2056.
Questa nostra ansia di Storia è paradossale: non ha precedenti storici. Nel 1956, giusto per fare un esempio, quando gli ungheresi scesero in piazza, il tg italiano (ce n'era uno solo) si affrettò a parlarne. Gli italiani del 1956 avevano un genuino desiderio di sapere cosa stava succedendo a Budapest nel 1956. Era una città lontana, dall'altra parte di una cortina di ferro: ma era attuale, era importante, era il 1956. Probabilmente i telespettatori non avrebbero gradito una digressione di cinque minuti su quel che era successo nel 1906. Cinquant’anni erano tanti, erano una vita. Adesso un cinquantenario fa notizia.
Adesso passiamo il tempo a litigare – non sulla finanziaria, no, quella riesce a smuoverci appena per una settimana – ma sulla Resistenza. E non parlo di Giampaolo Pansa, che ha trovato la sua miniera d’oro e continua a rivendere più o meno le stesse stragi una volta all’anno, sempre con l’aria di chi scoperchia una tomba fresca. Né dei suoi lettori, che a sessant’anni di distanza ancora non si danno pace. No, io parlo principalmente di quei poveretti che si prendono su da Roma, dico, da Roma, per venire a contestare Pansa a… Reggio Emilia. E sono giovani! E non hanno evidentemente nient’altro di meglio da fare, nessuna lotta un po’ più attuale da portare avanti. No. L’attualità non c’interessa. Il precariato diffuso, lo scontro sociale camuffato da conflitto di civiltà, la mutazione camorristica della società… tutte cose interessanti, ma se permettete, la Storia ci interessa di più. Ci interessa difendere la memoria della Resistenza. Il presente è un dettaglio. Lo difenderanno i nostri figli, se ne avremo.
Una volta ho letto su un libro di un calcolo, secondo il quale questo è il periodo storico in cui il numero dei vivi ha sorpassato quello dei morti. La cosa mi aveva molto impressionato: quindi vivremmo nell’epoca più importante della Storia, quella che le contiene tutte. I drammi del passato sarebbero solo una pallida eco di quelli che viviamo noi – le conquiste del passato, solo un timido abbozzo delle nostre conquiste. Era un’idea che mi piaceva molto, perché mi aiutava a inserire la Storia nel suo giusto contesto. Non voglio dire che non sia importante, la Storia. Esiste. Ci influenza. Ma solo come ci influenzerebbe una vecchia regione inserita in un mondo che cresce ogni giorno. Immaginatele proprio così, come una piccola nazione in bianco e nero, con Togliatti e le foibe (e Napoleone e Tutankamon) circondata da altre nazioni a colori, che ogni giorno spostano i propri confini un po’ più in là. Ecco. Questa è la Storia, questo è il posto che dovremmo darle. Ne avrei scritto prima o poi.
Ma ho controllato su Internet: pare che quel calcolo sia una sciocchezza. I Morti sono ancora di molto superiori ai Vivi. E si sente, lasciatemelo dire.
(E adesso via, largo ai commenti su Togliatti).
Più cresco (più invecchio) più accumulo sospetti sulle cose che mi piacciono.
Per esempio, la Storia. Mi è sempre piaciuta. Come il vino. E proprio come il vino, comincio a diffidarne. Ho il sospetto faccia male. Di sicuro ha fatto male a tanta gente intorno a me, e chi sono io per scamparla? È una malattia, la Storia. Ti impedisce di guardarti attorno.
L’ho capito ieri sera, per l’ennesima volta. Era l’anniversario dei fatti di Budapest. Io so - più o meno - cosa è successo a Budapest nel 1956. Ma se anche non lo sapessi, in questi giorni l’avrei imparato: mi bastava guardare un tg Rai. Per dire che certe volte siamo ingiusti, nei confronti della tv pubblica. In realtà anche i tg (un po’ come me, come noi) hanno un debole per le digressioni storiche. Non vedono l’ora di imbroccarne una. Sul tg1 di ieri sera era tutto un polemizzare con Togliatti, che se ci pensate è fantastico. È morto nel 1964, Togliatti: ma avreste dovuto sentire, ieri sera, Paolo Mieli come gliele cantava.
Gliele ha cantate così bene e così a lungo, che non è rimasto del tempo per spiegare cosa sta succedendo in questo preciso momento a Budapest. Le immagini mostravano manifestanti intorno ai carri armati, fumogeni tirati ad alzo zero. Non erano le solite immagini in bianco e nero: era Budapest Oggi, anzi Ieri, 23 ottobre 2006. Lo speaker parlava di contestazioni violente, senza troppo spiegare da parte di chi e perché. Perché non era così importante, dopotutto. L’importante è che nel 1956 Togliatti aveva torto. Ecco, quando dico che la Storia è pericolosa, penso a questo tipo di cose.
A volte la Storia ci prende talmente la mano, che il nostro presente scompare. Nel 2006 l’Ungheria è nell’Unione Europea; Budapest è praticamente la periferia di Trieste (o se preferite, Trieste è di nuovo il porto di Budapest); una manifestazione repressa coi carri armati in una capitale dell’Unione Europea dovrebbe avere i primi titoli, e ispirare commenti allarmati. I cronisti dovrebbero per prima cosa spiegarci cosa sta succedendo, chi è che protesta e perché. E invece no, non c’è tempo. Il 2006 scompare, di fronte alla necessità di ricordare il 1956. Non è stato nemmeno fatto il nome del premier ungherese – l’oggetto della contestazione – e del movimento che la ha organizzata. Però è stato inquadrato Palmiro Togliatti. Che nel 1956 aveva torto, ormai non c'è dubbio al riguardo.
Vien da pensare. Chi è che nel 1956 minimizzava gli scontri di piazza? Il PCI, il PCUS. E oggi chi li minimizza? Un po' tutti. E il bello è che lo facciamo proprio mentre stiamo rinfacciando a Palmiro Togliatti (che è morto) i suoi errori. E se gli scontri di piazza di questi giorni fossero il preludio di qualcosa di importante, di qualcosa che non avevamo assolutamente capito? Tanto peggio. Forse ne parleranno i tg Rai del 2056.
Forse i tgRai del 2056 ricorderanno gli errori di... che so, Maurizio Gasparri. Che magari non avrà minimizzato una rivoluzione. Però ieri ha difeso a spada tratta un ex agente KGB che governa da solo una Russia post-sovietica ma ancora molto pre-democratica. Con questi argomenti: "Putin è un amico nostro, un amico di Berlusconi [...] Tra lui e Prodi, Putin ha sempre ragione, qualsiasi cosa dica. A prescindere, come diceva Totò". Per dire che si divertiranno, i nostri nipoti, nel 2056.
Questa nostra ansia di Storia è paradossale: non ha precedenti storici. Nel 1956, giusto per fare un esempio, quando gli ungheresi scesero in piazza, il tg italiano (ce n'era uno solo) si affrettò a parlarne. Gli italiani del 1956 avevano un genuino desiderio di sapere cosa stava succedendo a Budapest nel 1956. Era una città lontana, dall'altra parte di una cortina di ferro: ma era attuale, era importante, era il 1956. Probabilmente i telespettatori non avrebbero gradito una digressione di cinque minuti su quel che era successo nel 1906. Cinquant’anni erano tanti, erano una vita. Adesso un cinquantenario fa notizia.
Adesso passiamo il tempo a litigare – non sulla finanziaria, no, quella riesce a smuoverci appena per una settimana – ma sulla Resistenza. E non parlo di Giampaolo Pansa, che ha trovato la sua miniera d’oro e continua a rivendere più o meno le stesse stragi una volta all’anno, sempre con l’aria di chi scoperchia una tomba fresca. Né dei suoi lettori, che a sessant’anni di distanza ancora non si danno pace. No, io parlo principalmente di quei poveretti che si prendono su da Roma, dico, da Roma, per venire a contestare Pansa a… Reggio Emilia. E sono giovani! E non hanno evidentemente nient’altro di meglio da fare, nessuna lotta un po’ più attuale da portare avanti. No. L’attualità non c’interessa. Il precariato diffuso, lo scontro sociale camuffato da conflitto di civiltà, la mutazione camorristica della società… tutte cose interessanti, ma se permettete, la Storia ci interessa di più. Ci interessa difendere la memoria della Resistenza. Il presente è un dettaglio. Lo difenderanno i nostri figli, se ne avremo.
Una volta ho letto su un libro di un calcolo, secondo il quale questo è il periodo storico in cui il numero dei vivi ha sorpassato quello dei morti. La cosa mi aveva molto impressionato: quindi vivremmo nell’epoca più importante della Storia, quella che le contiene tutte. I drammi del passato sarebbero solo una pallida eco di quelli che viviamo noi – le conquiste del passato, solo un timido abbozzo delle nostre conquiste. Era un’idea che mi piaceva molto, perché mi aiutava a inserire la Storia nel suo giusto contesto. Non voglio dire che non sia importante, la Storia. Esiste. Ci influenza. Ma solo come ci influenzerebbe una vecchia regione inserita in un mondo che cresce ogni giorno. Immaginatele proprio così, come una piccola nazione in bianco e nero, con Togliatti e le foibe (e Napoleone e Tutankamon) circondata da altre nazioni a colori, che ogni giorno spostano i propri confini un po’ più in là. Ecco. Questa è la Storia, questo è il posto che dovremmo darle. Ne avrei scritto prima o poi.
Ma ho controllato su Internet: pare che quel calcolo sia una sciocchezza. I Morti sono ancora di molto superiori ai Vivi. E si sente, lasciatemelo dire.
(E adesso via, largo ai commenti su Togliatti).
giovedì 19 ottobre 2006
- fuga da Capannonia (noi puffi siam così)
Cara Piccola Impresa mia,
non credere che questo non mi costi fatica.
Tu non sei qualcuno che io possa liquidare con leggerezza. Sei stato mio padre, mio amico, mia zia. Mi hai pagato gli studi, hai pagato la macchina. Ma fosse solo questo.
È che mi sei sempre stata simpatica, Piccola Impresa. Io sono cresciuto giocando in un terrazzo sul capannone di una ZI*, e se ho mai pensato di essere organico a qualcosa, quel qualcosa eri tu. Sul serio. Io ho portato l’odor di nafta al liceo, l’ho portato all’università, e ne andavo fiero. Guardateci, dicevo, siamo l’Ultima Borghesia. Dopo di noi non ci sarà più nulla da imborghesire, pensavo (mi sbagliavo: ci sono ancora gli albanesi e i marocchini). Perciò guardateci, siamo grezzi e democratici. Niente da invidiare ai figli dei professionisti, perché i nostri papà creavano più ricchezza di loro e noi imparavamo le lingue anche meglio di loro. Niente da rimproverare ai figli degli operai: sapevano il nostro stesso odore. Piccola Impresa mia, ti ho amato tanto.
Adesso caccia il grano, però.
Lo so che non sei brutta come ti dipingono.
Non necessariamente leghista e tremontiana. Magari stavi per votare Prodi, lo scorso aprile. Ma lui continuava a pestare su quel tasto. Sempre e solo su quel tasto. L’evasione, l’evasione. Piccola impresa io ti capisco: ti sei cagata addosso. E chi non l’avrebbe fatto al posto tuo? Io stesso, se il 50% di quel che guadagno fosse in nero, non avrei votato Prodi. Invece l’ho votato, e ho fatto bene.
Perché io non sono te. Non sono organico.
Io sono la persona a cui tu stai rubando. E quindi caccia il grano.
Lo so, lo so, è assurdo, è perfino imbarazzante – perché in fin dei conti tu rubi per dare a me. Perciò, di che mi lamento? Cos’è, idealismo il mio? Ma come mi permetto di fare l’idealista nel piatto in cui ho mangiato?
Ma no, cara Piccola Impresa, niente idealismo tra noi. Solo franchezza. Io ti ho osservato per anni, e ho capito che hai qualcosa che non va. Seriamente.
Tu sei malata, Piccola Impresa mia. Tu non rubi per dare a me – questo chiamalo se vuoi effetto collaterale – tu rubi perché non sai fare altro. Tu non hai un progetto, un modello di sviluppo. Tu hai solo un’ossessione. Sei cresciuta lavorando e accumulando, e di fronte alle nuove sfide reagisci sempre nel medesimo modo: lavori e accumuli. Ma non vai da nessuna parte.
Lascia stare i dottoroni che ti dicono che va tutto bene, che sei forte, sei la spina dorsale del Paese. Cazzate. Li paghi perché ti dicano cazzate. Non è mai esistito un Paese con una spina dorsale fatta di piccole imprese. C’è solo l’Italia e – curiosa coincidenza – non funziona più. Ci sarà un motivo, scusa, se dovunque le imprese crescono, e qui da noi restano Piccole.
Perciò, piantala di vantarti per i tuoi difetti. Tu non hai deciso di restare piccola impresa, semplicemente non ce la fai a crescere. Tu non sei più il miracolo italiano. Tu sei la malattia dell’economia italiana, e questa malattia si chiama nanismo. Piantala di tesser lodi dei tuoi piccoli capannoni, dei tuoi piccoli macchinari, dei tuoi piccoli affari. La grande Valpadana, ma va là. Il bosco dei puffi è diventata, la Valpadana. Ti sei scavato una tana e l’hai chiamato modello di sviluppo. Sbagliato. Non era un modello di sviluppo. Era una tana.
Ogni tanto veniva qualche straniero a guardare, e tu li trattavi come selvaggi con le pezze al culo, Piccola Impresa. Se solo avessi studiato un po’ di più – ma non hai mai avuto molto tempo per studiare, lo so anch’io. Passava il turco e comprava un vecchio macchinario: ma sì, pensavi tu, che male c’è, avranno il diritto anche loro a farsi qualcosa nelle loro tane turche.
Ora, Piccola Impresa, posso capire i cinesi. Un miliardo e duecentomila cinesi che piombano improvvisamente nel Commercio Mondiale non sono colpa di nessuno (neanche dell’euro o di Prodi). Ma tu sei riuscita a farti fottere persino dai turchi, come hai fatto? Gli hai svenduto i macchinari ed il know how!
Tempo una generazione e loro avranno Grandi imprese. Mentre tu resterai Piccola Impresa, perché sei fatta così. Il tuo capannone, la tua piccola produzione, la tua tana. Tuo padre aveva le pezze al culo, tu hai una mercedes, tuo nipote avrà le pezze al culo. A proposito, tuo nipote è mio figlio. Caccia il grano.
Lavorare, lavorare, sempre solo lavorare. Credevi fosse un’etica, invece era un’ossessione. Non sei mai riuscito a immaginare nient’altro. Neanche un sistema migliore di lavorare. Neanche un futuro per i figli i tuoi – almeno gli operai li mandavano all’università. E tante volte se li vedevano tornare indietro fuoricorso e fricchettoni, lo so. Ma per quanto ingenuo, quello era un modello di sviluppo. L’operaio voleva evolversi in qualcosa di più colto. Ma tu, Piccola Impresa, volevi solo evolverti in Piccola Impresa. Appena l’erede manifestava chiari sintomi asinini, lo spedivi al diplomificio: poco tempo da perdere, che tanto in fabbrichetta si guadagna meglio che in banca o a scuola. Che bel risparmio di tempo, eh? Risultato: una generazione di Piccoli Imprenditori Deficienti. Tamarri e snob in una botta sola, quel tipo di gente che resta in coda per ore fuori dal Billionnaire. E poi piangi, piangi, Piccola Impresa. Potevi pensarci prima. Ma chi aveva tempo per pensare? A lavurèr.
Io lo so che per te la scuola non è mai stata importante, Piccola Impresa. Ne hai frequentata poca, e tutto quello che ti è servito l’hai imparato altrove. Ma tu eri in una fase eroica, lo capisci? Come faccio a spiegarti? Hai presente Mosè, l’attraversamento del Mar Rosso? l’Esodo! Almeno una messa alla domenica, Piccola Impresa!
Insomma, ci sono possibilità che capitano una volta sola: metter su una piccola impresa con tanta voglia di lavorare e una cultura relativamente approssimativa. Gli anni Cinquanta e Sessanta. Quella meravigliosa inflazione che ti estingueva i mutui praticamente da sola. Ti sei sentito un eroe, Piccola Impresa, e un po’ lo eri. Ma restavi un ignorante. In Mercedes, ma ignorante. Avresti dovuto calcolarlo, mica sei scemo (sei solo ignorante). Avresti dovuto investire in cultura. Mandare il tuo figlio nelle scuole giuste, proiettarlo su obiettivi importanti. E invece no.
L’operaio ci pensa. L’albanese e il marocchino stanno già iniziando a pensarci. Ma tu no. Tu – caso unico del mondo – sei convinto che si possa aver successo per più di una generazione, senza studiare. Per grazia divina, probabilmente. Tra tutte le plaghe del mondo, Dio dovrebbe aver scelto proprio la Val Padana per elargire al suo popolo preferito il suo gentile dono: la Piccolezza. Seh. Ma caccia il grano, pirla. Soffrirai? Te lo meriti. Chiuderai? Non facciamone un dramma. Se campi di nero, stai già campando a spese mie. Saldiamo il conto subito.
Tu non hai bisogno di una Tremonti-Tris. Non hai bisogno di un altro piccolo capannone, di un altro piccolo appalto in nero. Tu hai bisogno di scuole serie, scuole buone, per i tuoi nipoti (i figli te li sei bruciati).
Ma le scuole italiane fanno schifo, dici. Esatto! Perché mancano i soldi! I soldi che hai rubato in questi anni, Piccola Impresa.
La tua mercedes, la tua barchetta – e adesso piangi che non è colpa tua, che la colpa è dei ricchi veri, quelli da yacht. E invece no, Piccola Impresa. La colpa è proprio tua, che in trent’anni di furto alle casse dello Stato non sei riuscito nemmeno a mettere insieme un tre-alberi. Perché evidentemente hai un limite strutturale, una carenza, un gap. Chiamalo come vuoi. Io lo chiamo ignoranza.
Come hai detto? Sì, si può curare. Tuo nipote andrà in una scuola migliore.
Se cacci il grano.
Oppure lascia perdere. Fottitene, continua a evadere. Visco taglierà i fondi alle scuole: avremo classi di trenta monelli e professori esauriti. E tu avrai qualche soldo in più per il tuo nuovo capannone, il tuo ristorante preferito, le tue care vecchie Maldive. Cara Piccola Impresa.
Saluti alla Puffetta, mi racomando.
* Zona Industriale, o ignoranti. Non leggete mai i cartelli gialli?
non credere che questo non mi costi fatica.
Tu non sei qualcuno che io possa liquidare con leggerezza. Sei stato mio padre, mio amico, mia zia. Mi hai pagato gli studi, hai pagato la macchina. Ma fosse solo questo.
È che mi sei sempre stata simpatica, Piccola Impresa. Io sono cresciuto giocando in un terrazzo sul capannone di una ZI*, e se ho mai pensato di essere organico a qualcosa, quel qualcosa eri tu. Sul serio. Io ho portato l’odor di nafta al liceo, l’ho portato all’università, e ne andavo fiero. Guardateci, dicevo, siamo l’Ultima Borghesia. Dopo di noi non ci sarà più nulla da imborghesire, pensavo (mi sbagliavo: ci sono ancora gli albanesi e i marocchini). Perciò guardateci, siamo grezzi e democratici. Niente da invidiare ai figli dei professionisti, perché i nostri papà creavano più ricchezza di loro e noi imparavamo le lingue anche meglio di loro. Niente da rimproverare ai figli degli operai: sapevano il nostro stesso odore. Piccola Impresa mia, ti ho amato tanto.
Adesso caccia il grano, però.
Lo so che non sei brutta come ti dipingono.
Non necessariamente leghista e tremontiana. Magari stavi per votare Prodi, lo scorso aprile. Ma lui continuava a pestare su quel tasto. Sempre e solo su quel tasto. L’evasione, l’evasione. Piccola impresa io ti capisco: ti sei cagata addosso. E chi non l’avrebbe fatto al posto tuo? Io stesso, se il 50% di quel che guadagno fosse in nero, non avrei votato Prodi. Invece l’ho votato, e ho fatto bene.
Perché io non sono te. Non sono organico.
Io sono la persona a cui tu stai rubando. E quindi caccia il grano.
Lo so, lo so, è assurdo, è perfino imbarazzante – perché in fin dei conti tu rubi per dare a me. Perciò, di che mi lamento? Cos’è, idealismo il mio? Ma come mi permetto di fare l’idealista nel piatto in cui ho mangiato?
Ma no, cara Piccola Impresa, niente idealismo tra noi. Solo franchezza. Io ti ho osservato per anni, e ho capito che hai qualcosa che non va. Seriamente.
Tu sei malata, Piccola Impresa mia. Tu non rubi per dare a me – questo chiamalo se vuoi effetto collaterale – tu rubi perché non sai fare altro. Tu non hai un progetto, un modello di sviluppo. Tu hai solo un’ossessione. Sei cresciuta lavorando e accumulando, e di fronte alle nuove sfide reagisci sempre nel medesimo modo: lavori e accumuli. Ma non vai da nessuna parte.
Lascia stare i dottoroni che ti dicono che va tutto bene, che sei forte, sei la spina dorsale del Paese. Cazzate. Li paghi perché ti dicano cazzate. Non è mai esistito un Paese con una spina dorsale fatta di piccole imprese. C’è solo l’Italia e – curiosa coincidenza – non funziona più. Ci sarà un motivo, scusa, se dovunque le imprese crescono, e qui da noi restano Piccole.
Perciò, piantala di vantarti per i tuoi difetti. Tu non hai deciso di restare piccola impresa, semplicemente non ce la fai a crescere. Tu non sei più il miracolo italiano. Tu sei la malattia dell’economia italiana, e questa malattia si chiama nanismo. Piantala di tesser lodi dei tuoi piccoli capannoni, dei tuoi piccoli macchinari, dei tuoi piccoli affari. La grande Valpadana, ma va là. Il bosco dei puffi è diventata, la Valpadana. Ti sei scavato una tana e l’hai chiamato modello di sviluppo. Sbagliato. Non era un modello di sviluppo. Era una tana.
Ogni tanto veniva qualche straniero a guardare, e tu li trattavi come selvaggi con le pezze al culo, Piccola Impresa. Se solo avessi studiato un po’ di più – ma non hai mai avuto molto tempo per studiare, lo so anch’io. Passava il turco e comprava un vecchio macchinario: ma sì, pensavi tu, che male c’è, avranno il diritto anche loro a farsi qualcosa nelle loro tane turche.
Ora, Piccola Impresa, posso capire i cinesi. Un miliardo e duecentomila cinesi che piombano improvvisamente nel Commercio Mondiale non sono colpa di nessuno (neanche dell’euro o di Prodi). Ma tu sei riuscita a farti fottere persino dai turchi, come hai fatto? Gli hai svenduto i macchinari ed il know how!
Tempo una generazione e loro avranno Grandi imprese. Mentre tu resterai Piccola Impresa, perché sei fatta così. Il tuo capannone, la tua piccola produzione, la tua tana. Tuo padre aveva le pezze al culo, tu hai una mercedes, tuo nipote avrà le pezze al culo. A proposito, tuo nipote è mio figlio. Caccia il grano.
Lavorare, lavorare, sempre solo lavorare. Credevi fosse un’etica, invece era un’ossessione. Non sei mai riuscito a immaginare nient’altro. Neanche un sistema migliore di lavorare. Neanche un futuro per i figli i tuoi – almeno gli operai li mandavano all’università. E tante volte se li vedevano tornare indietro fuoricorso e fricchettoni, lo so. Ma per quanto ingenuo, quello era un modello di sviluppo. L’operaio voleva evolversi in qualcosa di più colto. Ma tu, Piccola Impresa, volevi solo evolverti in Piccola Impresa. Appena l’erede manifestava chiari sintomi asinini, lo spedivi al diplomificio: poco tempo da perdere, che tanto in fabbrichetta si guadagna meglio che in banca o a scuola. Che bel risparmio di tempo, eh? Risultato: una generazione di Piccoli Imprenditori Deficienti. Tamarri e snob in una botta sola, quel tipo di gente che resta in coda per ore fuori dal Billionnaire. E poi piangi, piangi, Piccola Impresa. Potevi pensarci prima. Ma chi aveva tempo per pensare? A lavurèr.
Io lo so che per te la scuola non è mai stata importante, Piccola Impresa. Ne hai frequentata poca, e tutto quello che ti è servito l’hai imparato altrove. Ma tu eri in una fase eroica, lo capisci? Come faccio a spiegarti? Hai presente Mosè, l’attraversamento del Mar Rosso? l’Esodo! Almeno una messa alla domenica, Piccola Impresa!
Insomma, ci sono possibilità che capitano una volta sola: metter su una piccola impresa con tanta voglia di lavorare e una cultura relativamente approssimativa. Gli anni Cinquanta e Sessanta. Quella meravigliosa inflazione che ti estingueva i mutui praticamente da sola. Ti sei sentito un eroe, Piccola Impresa, e un po’ lo eri. Ma restavi un ignorante. In Mercedes, ma ignorante. Avresti dovuto calcolarlo, mica sei scemo (sei solo ignorante). Avresti dovuto investire in cultura. Mandare il tuo figlio nelle scuole giuste, proiettarlo su obiettivi importanti. E invece no.
L’operaio ci pensa. L’albanese e il marocchino stanno già iniziando a pensarci. Ma tu no. Tu – caso unico del mondo – sei convinto che si possa aver successo per più di una generazione, senza studiare. Per grazia divina, probabilmente. Tra tutte le plaghe del mondo, Dio dovrebbe aver scelto proprio la Val Padana per elargire al suo popolo preferito il suo gentile dono: la Piccolezza. Seh. Ma caccia il grano, pirla. Soffrirai? Te lo meriti. Chiuderai? Non facciamone un dramma. Se campi di nero, stai già campando a spese mie. Saldiamo il conto subito.
Tu non hai bisogno di una Tremonti-Tris. Non hai bisogno di un altro piccolo capannone, di un altro piccolo appalto in nero. Tu hai bisogno di scuole serie, scuole buone, per i tuoi nipoti (i figli te li sei bruciati).
Ma le scuole italiane fanno schifo, dici. Esatto! Perché mancano i soldi! I soldi che hai rubato in questi anni, Piccola Impresa.
La tua mercedes, la tua barchetta – e adesso piangi che non è colpa tua, che la colpa è dei ricchi veri, quelli da yacht. E invece no, Piccola Impresa. La colpa è proprio tua, che in trent’anni di furto alle casse dello Stato non sei riuscito nemmeno a mettere insieme un tre-alberi. Perché evidentemente hai un limite strutturale, una carenza, un gap. Chiamalo come vuoi. Io lo chiamo ignoranza.
Come hai detto? Sì, si può curare. Tuo nipote andrà in una scuola migliore.
Se cacci il grano.
Oppure lascia perdere. Fottitene, continua a evadere. Visco taglierà i fondi alle scuole: avremo classi di trenta monelli e professori esauriti. E tu avrai qualche soldo in più per il tuo nuovo capannone, il tuo ristorante preferito, le tue care vecchie Maldive. Cara Piccola Impresa.
Saluti alla Puffetta, mi racomando.
* Zona Industriale, o ignoranti. Non leggete mai i cartelli gialli?
martedì 17 ottobre 2006
- youTube killed the blogger stars
È da un po’ che non sento nessuno dire “il blog è morto”...
...così pensavo stavolta di provarci io. Mi contraddico, lo so (e me ne vanto).
L’occasione è l’acquisto di YouTube da parte di Google. Riassumo: YouTube è una piattaforma che permette di pubblicare e condividere video on line. Per molti anni ancora avrà un sacco di debiti; eppure Google ha sborsato un miliardo e 650 milioni di $ (in stock options) per accaparrarsela. Cosa c’è sotto?
Probabilmente i Signori delle ricerche hanno fiutato un’opportunità. Ma attenzione. In quella che una volta si chiamava new economy, le opportunità si presentano come attraversamenti del Mar Rosso. C’è qualcuno che, per grazia divina o puro culo, le scopre. Poi c’è un folto gruppetto di signor Nessuno uniti dalla fortuna di trovarsi lì proprio in quel momento, che seguendo il Mosè di turno in un tempo relativamente breve arrivano asciutti sull’altra sponda. E infine c’è la folla dei meno fortunati, che arrivano tardi e annegano. Internet è fatta così. Forse anche la vita reale è fatta così, ma che ne so io? Restiamo su Internet. In dieci anni – più o meno – abbiamo avuto tutti almeno un’opportunità. Io, per esempio, il mio mar Rosso l’ho attraversato, e ne sono discretamente soddisfatto.
È successo nel 2001. I portali erano in crisi – dietro le grafiche colorate, c’erano solo contenuti miserrimi spremuti da stagisti ingenui. L'Internet italiana era una palla. Ma era una palla molto interessante, per me, perché – a parte qualche .gif o .jpeg ancora molto lente da visualizzare – era al 100% testuale. Una palla da leggere. Ergo, serviva qualcuno che la scrivesse.
Ora, si dà il caso che scrivere sia quello che io so fare. Non ho una bella voce né una bellissima presenza. Sono timido e ho i riflessi scarsi. Ma in quel momento non servivano volti né voci. Serviva scrittura. Ci avete mai pensato? Per un attimo breve, una fortuita circostanza, una rete telematica ancora in via di consolidamento ha rimesso indietro le lancette della Storia. Niente immagini in movimento, niente audio: scrittura, come ai vecchi tempi di Gutenberg. Improvvisamente, verso la fine del Novecento, la scrittura è tornata di moda. Sono nati i blog.
Ma non potevano durare. Gli scricchiolii si sentivano già mentre mettevamo on line i nostri primi teneri diari on line. Nel maggio del 2001 presi un appunto abbastanza antipatico sui file multimediali caricati sulle pagine web: a quei tempi mi sembravano assurdi. Perché avrei dovuto perder tempo a caricare un file audio, quando potevo utilizzare lo stesso lasso di tempo per leggere il testo? Oppure: a cosa mi serve una finestra video sgranata dove una speaker legge le notizie? Non faccio prima a leggerle da solo? La scrittura è più agile, pensavo. La scrittura vincerà. Povero illuso.
Qualche mese dopo si cominciò a parlare molto delle telestreet – vi ricordate? Le tv abusive di quartiere. Giornalisti quotati ne parlavano come dell’idea libertaria del futuro. A uno come me, che campava di pane (poco) e internet, sembrava una follia. La televisione pirata? Ma non è come la radio nel ’77: una cosa è improvvisare a un microfono, un’altra saper tenere la videocamera sulla spalla; specie dopo trent’anni di tv commerciale, che ci ha assuefatti a un livello di professionismo per noi irraggiungibile. Insomma, avremmo invaso l’etere del vicinato con documentari ridicoli e talk show formato riunione di condominio. Questa, l’informazione del futuro? Ma perché invece non ci mettiamo tutti a fare della buona controinformazione su internet? È così facile. Non serve nessun corso di ripresa o montaggio: basta scrivere o leggere, scambiarsi informazioni. Lo sanno fare tutti. Lo sanno fare tutti?
Le telestreet si sono rivelate un bidone, ma mi hanno fatto capire una cosa. Chi si mette davanti a uno schermo illuminato, nel 2000, vuole vedere la televisione. Immagini in movimento. Anche se non c’è niente da muovere, non importa. Hai un reportage? In cinque minuti puoi metterlo su un blog. Puoi segnalarlo, puoi indicizzarlo, puoi inserirlo in un centinaio di conversazioni. Ma l’utente medio non vuole questo. L’utente medio vuole mettersi sul divano, spingere un pulsante e vedere una signorina possibilmente carina che legge il tuo reportage. Perché è un pirla, l’utente medio. È stato cresciuto così.
Internet non è ancora così. Ma non c’è nessuna ragione perché non lo diventi. Il destino di uno schermo è mostrare immagini in movimento: se finora si è abbassato ad essere un medium testuale, era unicamente per ragioni di banda. Ma la banda si allarga, si allarga. I video sono sempre meno sgranati – e, almeno da youTube in poi, sono condivisi e indicizzabili. In un certo senso, youTube è il Blogger del 2005. Lo soppianterà? Lo sta già soppiantando, nel modo più subdolo: blogger e piattaforme analoghe stanno diventando un supporto per i video di youTube.
Prendiamo un blog a caso – polaroid. È sempre stato un filo più avanti della media. Nel 2002 era un blog testuale: conteneva recensioni e varia letteratura. Nel 2004 era ormai un blog sonoro: i testi scritti rimandavano a contenuti audio, spesso reperibili mediante link diretti. Nel 2006 è ancora molto sonoro, ma sta diventando visivo: le finestre di youTube compaiono sempre più spesso. Probabilmente Ebi non andrà molto più avanti di così nella direzione visuale, visto che quallo che gli interessa è la musica; ma se la tecnologia continua a marciare, non c’è motivo perché altri non lo facciano. Le riprese via webcam diventeranno sempre meno sgranate; a un certo punto ci sarà la famosa scrematura, e quelli che si salveranno non saranno i migliori produttori di contenuti (ma quando mai?), bensì quelli che li sanno esibire con immagini più professionali. Per allora, le finestrelle di youTube si saranno allargate ai 21 pollici: i blog non saranno più blog. Saranno quella nuova televisione ‘popolare’ che i profeti spelacchiati delle telestreet sognavano.
Di fronte a questa prospettiva, io non ho molto da dire. Non sono particolarmente telegenico, non ho una voce sicura, sono impacciato e distratto. Il mio mar Rosso si è richiuso da un pezzo.
Per un attimo internet ha dato un’opportunità a chi sapeva scrivere; era compito nostro sfruttarla. Chi ne ha approfittato per buttar giù un libro e piazzarlo ha fatto benissimo: sono occasioni che si presentano una volta sola.
Il Blog testuale non è più l’avanguardia, ma nessuno ci impedisce di spassarcela nelle retroguardie, o no? I blog si possono scrivere e leggere ancora (la tv non ha ucciso la radio, dopotutto).
Del resto, di che dovrei lamentarmi? La priorità era trovare una ragazza: missione compiuta. Il resto è grasso che cola.
C’è stato un periodo in cui il mondo si chiedeva quale sarebbe stato il “nome di internet”, e con questa espressione si intendeva l’assetto finale dei nuovi media (che poi media cos’è se non uno dei pezzi più importanti della nostra vita)?. Erano troppo astrusi i primi nomi, morirono con la bolla speculativa. Ora il nome è vecchio e caro: televisione.
giovedì 12 ottobre 2006
- dalla piazza al palazzo
A scuola si parla di droga
Perlomeno si dovrebbe, ma a volte mancano i supporti. Servirebbero gli esperti, e non so a chi chiedere. Le mie (in)esperienze personali non sono spendibili – né posso incartarmi in qualche terrificante “a un mio amico è successo che…”
Il libro di testo, di solito, non aiuta. Di solito al terzo anno ti piazzano la testimonianza del reduce di San Patrignano, che a 15 anni ha mollato gli studi, a 16 menava le vecchiette per una dose, a 30 è uno stimato padre di famiglia (cosa che, tra parentesi, a me non è capitata: ecco cosa mi mancava, l’eroina). È seccante che i libri scolastici siano rimasti così fermi agli anni Ottanta. Ci sono ancora le stesse cose che leggevo all’età dei miei studenti, c’è “la piazza”. Vi ricordate che suono torbido aveva la parola “piazza” nel 1984? Tavole di Andrea Pazienza, siringhe limoni e cucchiai neri. D’accordo, i ragazzini si possono bere tutto, compreso gli anni Ottanta: se hanno mandato giù Notte prima degli esami, possono digerire anche la leggenda di San Patrignano. Leggeranno e risponderanno alle domande, diligenti: se interrogati, prometteranno con sincerità di non bucarsi mai e poi mai. E magari tra sei mesi assumeranno il primo pasticcone, perché nessuno gli ha spiegato che è droga anche quella lì, che può far male.
Coi ragazzini bisognerebbe parlare delle droghe di oggi – di oggi? da quand’è che si sente dire che l’ecstasy è una “nuova droga”? Ve lo dico io: da vent’anni. Avete capito bene. Prima di perdersi nel revival degli ‘80, sarebbe il caso di accettare che sono passati anche i ‘90, e che tra un po’ arrivano i Dieci. Come mi disse anni qualche anno fa un operatore: una volta i genitori venivano da noi preoccupati: Mio figlio si fa le canne!. Quelli di oggi ci dicono: Mio figlio si fa troppe canne. Apprezzate la differenza. I genitori contemporanei hanno metabolizzato le droghe leggere; sanno che di hascisc non si muore, ma hanno anche il naso per quei piccoli dettagli che ai nostri sarebbero sfuggiti (occhi rossi? Paranoie? Sangue al naso?) La droga non è più una tragedia: è tornata a far parte del paesaggio in cui viviamo, come l’alcolismo, l’anoressia e tanti altri malanni.
Se vi va, in dieci righe possiamo anche tratteggiare la storia della droga nell’occidente postmoderno. Nei ’60, viene introdotta come strumento conoscitivo: occorre aprire le porte della percezione, vedere le cose con occhi nuovi. Nel 1969 questa è già una barzelletta: la stagione degli acidi è finita, arrivano i narcotici. Il mondo è una merda: occorre sballarsi per non sentirne l’odore. Tra ’70 e ’80 la droga è lo strumento di auto-emarginazione sociale che noi trentenni ben ricordiamo: fine delle velleità rivoluzionarie, le piazze diventano “la piazza”. Una generazione sbattuta via. Magari erano tutti cazzoni come i loro fratelli maggiori – non lo sapremo mai.
A fine '80 si spazzano via i rifiuti. Il mercato delle droghe leggere si stabilizza, alzando gli steccati di un micro-habitat alternativo (i centri sociali e poi la cultura hip-hop). Ma quelle sono briciole. Nel mondo vero si riparte da zero, in realtà con qualcosa di molto antico. La cocaina era la droga di Sherlock Holmes – la usava per migliorare le sue prestazioni. Dopo la psicadelia e la narcosi, ecco l’era della Prestazione. Più della cocaina, il vero simbolo di quest’epoca è il doping. Non siamo drogati oggi, siamo dopati: non aspiriamo allo sballo, ma soffriamo di continue ansie da prestazione. Il doping è il contrario dell’eroina: quella ci costringeva a uscire dal sistema sociale, ad abbandonare studi e lavoro. Oggi invece ci si droga per studiare di più, per lavorare meglio. Tutte cose arcisapute, ma io amo fare i riassunti.
Ed eccoci arrivati al servizio delle Iene sulla droga in parlamento: in sé, uno scandalo abbastanza secondario (i parlamentari sono ipocriti, scoop!) Ma naturalmente per me è un segno dei tempi: la droga è entrata nel Palazzo. Oppure: il Palazzo si è preso anche la droga. Per le Iene forse si trattava di demistificare i politici, ma il servizio funziona anche al contrario: istituzionalizza la droga.
Insomma, mettetevi nel ragazzino. Deve decidere se drogarsi o no. Il mattino a scuola il prof gli spiega che la droga fa male (perlomeno, la droga di trent’anni fa). Ma la sera, Italia 1 gli dimostra che oggi un tossicodipendente può benissimo arrivare in parlamento – senza passare da San Patrignano. A chi credere? Io darei più retta alle iene.
Qui non è in questione la censura – che, com’era assolutamente prevedibile, ha prodotto il doppio di polverone (martedì sera in tv, tra Mentana Vespa e Blow su retequattro si rischiava l’overdose passiva). Il ragazzino crescerà. Cercherà di diventare qualcuno. A un certo punto andrà a sbattere contro qualche limite. Scoprirà che non riesce a ballare per sei ore di seguito senza calare. A far notte sui libri senza stimolanti. A correre per novanta minuti senza un aiutino. Del resto lo fanno tutti, no? persino in parlamento. La lettura di San Patrignano non sarà servita a niente. E non è certo colpa delle Iene. In effetti, non so di chi sia la colpa. Non ci vedo bene. Dovrei prendere qualcosa – nessuno mi ha mai spiegato cosa.
Perlomeno si dovrebbe, ma a volte mancano i supporti. Servirebbero gli esperti, e non so a chi chiedere. Le mie (in)esperienze personali non sono spendibili – né posso incartarmi in qualche terrificante “a un mio amico è successo che…”
Il libro di testo, di solito, non aiuta. Di solito al terzo anno ti piazzano la testimonianza del reduce di San Patrignano, che a 15 anni ha mollato gli studi, a 16 menava le vecchiette per una dose, a 30 è uno stimato padre di famiglia (cosa che, tra parentesi, a me non è capitata: ecco cosa mi mancava, l’eroina). È seccante che i libri scolastici siano rimasti così fermi agli anni Ottanta. Ci sono ancora le stesse cose che leggevo all’età dei miei studenti, c’è “la piazza”. Vi ricordate che suono torbido aveva la parola “piazza” nel 1984? Tavole di Andrea Pazienza, siringhe limoni e cucchiai neri. D’accordo, i ragazzini si possono bere tutto, compreso gli anni Ottanta: se hanno mandato giù Notte prima degli esami, possono digerire anche la leggenda di San Patrignano. Leggeranno e risponderanno alle domande, diligenti: se interrogati, prometteranno con sincerità di non bucarsi mai e poi mai. E magari tra sei mesi assumeranno il primo pasticcone, perché nessuno gli ha spiegato che è droga anche quella lì, che può far male.
Coi ragazzini bisognerebbe parlare delle droghe di oggi – di oggi? da quand’è che si sente dire che l’ecstasy è una “nuova droga”? Ve lo dico io: da vent’anni. Avete capito bene. Prima di perdersi nel revival degli ‘80, sarebbe il caso di accettare che sono passati anche i ‘90, e che tra un po’ arrivano i Dieci. Come mi disse anni qualche anno fa un operatore: una volta i genitori venivano da noi preoccupati: Mio figlio si fa le canne!. Quelli di oggi ci dicono: Mio figlio si fa troppe canne. Apprezzate la differenza. I genitori contemporanei hanno metabolizzato le droghe leggere; sanno che di hascisc non si muore, ma hanno anche il naso per quei piccoli dettagli che ai nostri sarebbero sfuggiti (occhi rossi? Paranoie? Sangue al naso?) La droga non è più una tragedia: è tornata a far parte del paesaggio in cui viviamo, come l’alcolismo, l’anoressia e tanti altri malanni.
Se vi va, in dieci righe possiamo anche tratteggiare la storia della droga nell’occidente postmoderno. Nei ’60, viene introdotta come strumento conoscitivo: occorre aprire le porte della percezione, vedere le cose con occhi nuovi. Nel 1969 questa è già una barzelletta: la stagione degli acidi è finita, arrivano i narcotici. Il mondo è una merda: occorre sballarsi per non sentirne l’odore. Tra ’70 e ’80 la droga è lo strumento di auto-emarginazione sociale che noi trentenni ben ricordiamo: fine delle velleità rivoluzionarie, le piazze diventano “la piazza”. Una generazione sbattuta via. Magari erano tutti cazzoni come i loro fratelli maggiori – non lo sapremo mai.
A fine '80 si spazzano via i rifiuti. Il mercato delle droghe leggere si stabilizza, alzando gli steccati di un micro-habitat alternativo (i centri sociali e poi la cultura hip-hop). Ma quelle sono briciole. Nel mondo vero si riparte da zero, in realtà con qualcosa di molto antico. La cocaina era la droga di Sherlock Holmes – la usava per migliorare le sue prestazioni. Dopo la psicadelia e la narcosi, ecco l’era della Prestazione. Più della cocaina, il vero simbolo di quest’epoca è il doping. Non siamo drogati oggi, siamo dopati: non aspiriamo allo sballo, ma soffriamo di continue ansie da prestazione. Il doping è il contrario dell’eroina: quella ci costringeva a uscire dal sistema sociale, ad abbandonare studi e lavoro. Oggi invece ci si droga per studiare di più, per lavorare meglio. Tutte cose arcisapute, ma io amo fare i riassunti.
Ed eccoci arrivati al servizio delle Iene sulla droga in parlamento: in sé, uno scandalo abbastanza secondario (i parlamentari sono ipocriti, scoop!) Ma naturalmente per me è un segno dei tempi: la droga è entrata nel Palazzo. Oppure: il Palazzo si è preso anche la droga. Per le Iene forse si trattava di demistificare i politici, ma il servizio funziona anche al contrario: istituzionalizza la droga.
Insomma, mettetevi nel ragazzino. Deve decidere se drogarsi o no. Il mattino a scuola il prof gli spiega che la droga fa male (perlomeno, la droga di trent’anni fa). Ma la sera, Italia 1 gli dimostra che oggi un tossicodipendente può benissimo arrivare in parlamento – senza passare da San Patrignano. A chi credere? Io darei più retta alle iene.
Qui non è in questione la censura – che, com’era assolutamente prevedibile, ha prodotto il doppio di polverone (martedì sera in tv, tra Mentana Vespa e Blow su retequattro si rischiava l’overdose passiva). Il ragazzino crescerà. Cercherà di diventare qualcuno. A un certo punto andrà a sbattere contro qualche limite. Scoprirà che non riesce a ballare per sei ore di seguito senza calare. A far notte sui libri senza stimolanti. A correre per novanta minuti senza un aiutino. Del resto lo fanno tutti, no? persino in parlamento. La lettura di San Patrignano non sarà servita a niente. E non è certo colpa delle Iene. In effetti, non so di chi sia la colpa. Non ci vedo bene. Dovrei prendere qualcosa – nessuno mi ha mai spiegato cosa.
martedì 10 ottobre 2006
- Limbo lower now
In questi giorni la redazione di Leonardo è subissata da quantità indefinite di messaggi di lettori allarmati per via di questa incredibile novità – l’attesa abolizione del Limbo. Rispondere a tutte le sciocchezze che ci scrivete è impossibile. Ok, forse sarebbe anche possibile, ma molto noioso. Per questo motivo la task force teologica di Leonardo ha preparato un FAQ – o, per dirlo nella nostra nobile lingua, un “Elenco di risposte pertinenti alle domande più frequenti”.
The Limbo FAQ
1.Sono un cattolico praticante. Non rubo, non uccido, non faccio sesso inutile, ormai non commetto neanche più i peccati di omissione. Insomma, se c’è un paradiso cattolico dovrei avere un posto prenotato. L’abolizione del limbo avrà qualche ripercussione sulla mia eventuale vita eterna?
R. Altroché, caro il mio perfettino. Probabilmente pensavi a un paradiso stile Correggio, tutti belli biondi a mostrare le lorochiappe chiare carni ariane al sole. E magari non vedevi l’ora di arrivarci, in questo bel paradiso senza extracomunitari. Ebbene, con la chiusura del limbo devi rassegnarti: anche là sarà pieno di cinesi, peggio che a Prato.
2. Cinesi? Perché proprio i cinesi?
R. Se per questo, anche indiani, nigeriani, indonesiani. Considera solo che ogni anno mancano all’appello migliaia e migliaia di neonate cinesi: ti sei mai chiesto dove vadano a finire? Ebbene, da oggi lo sai: nel paradiso dei cattolici.
3. E vabbè, saranno una minoranza…
R. Minoranza sarai tu. Stiamo parlando di tutta la mortalità infantile asiatica dalla preistoria ad oggi. Si tratta di un numero incalcolabile di anime, di fronte al quale la comunità di persone che hanno ricevuto il messaggio di Gesù e han persino provato a metterlo in pratica scompare letteralmente. Senza parlare di Africa, America, Oceania, e degli uomini pii che anche senza aver ricevuto il Vangelo si sono comportati bene. Miliardi e miliardi. Insomma, con l’abolizione del Limbo, il tuo club – il paradiso dei cattolici – diventa il meno esclusivo in assoluto. Pensaci bene.
4. Ma i protestanti…
R. Niente di neanche lontanamente paragonabile. La maggior parte dei club protestanti ti fa entrare solo dietro Predestinazione – per dire, uno può leggere il Vangelo e comportarsi bene per tutta la vita, ma se non ha la Fede, sta fuori. Figurati se fanno entrare un aborto clandestino cantonese. Insomma, se il tuo aldilà ideale prevede angeli biondi cogli occhi azzurri, fatti presbiteriano.
5. Hai parlato di aborti. Non vorrai mica sostenere che…
R. Per Benedetto XVI (e i suoi predecessori) l’embrione è già vita, e la vita è un dono di Dio. Di conseguenza, fino all’altro giorno il Limbo era perlopiù il luogo deputato agli embrioni mai battezzati, che senza aver commesso alcun peccato (cosa puoi fare di sbagliato nel sacco amniotico?), portano comunque su di sé il peccato originale commesso da Adamo ed Eva. Ma se davvero il peccato originale non è così grave da impedire l’accesso al paradiso, direi che non c’è nessun divieto teologico alla definitiva santificazione degli embrioni e degli aborti.
6. Quindi abortire diventa meno grave?
R. Direi di no, anzi. Non solo resta un omicidio bello e buono, ma Benedetto XVI sta timidamente cominciando a proporre la santificazione delle vittime. Che sono parecchie centinaia di milioni, ti ricordo. Le persecuzioni degli imperatori romani sono un episodio, al confronto.
7. Ma davvero un Papa può spalancare così tanto i cancelli del cielo? E i papi venuti prima non erano infallibili anche loro?
R. In realtà nessun Papa ha mai parlato ‘ufficialmente’ di un limbo (e neanche Benedetto, per ora). La Commissione teologica internazionale avrà buon gioco a dimostrare che si è trattato solo di un’"ipotesi teologica". Insomma, di limbo si è parlato per secoli, ma non è mai stato messo in nero su bianco, come dogma, articolo di fede. Il cattolicesimo è una religione molto formale: si può discutere fino a una certa ora, ma alla fine carta canta.
8. Se il Limbo non è mai stato un dogma ufficiale, perché io, che son cattolico, ero così convinto che esistesse?
R. Perché come tutti i cattolici italiani, il catechismo te lo sei dimenticato a tre mesi dalla Cresima, ma l’Inferno di Dante ti è rimasto lì, non ti va più via. E questo la dice lunga, sulle nostre radici cristiane: molti concetti che crediamo facciano parte della nostra fede religiosa, in realtà appartengono alla nostra letteratura. Il Limbo in cui credi in realtà è l’invenzione di un grande poeta – che si considerava anche un profeta, ma che non è mai stato preso sul serio dalla Chiesa. Altrimenti l’avrebbero bruciato.
9. Bruciare il sommo Poeta?
R. La chiesa ci ha fatto il favore di considerarlo semplicemente un poeta. Ma un tizio che sostiene di aver visitato l’Oltretomba e di conoscere esattamente l’ubicazione di centinaia di anime morte (tra dannati, purganti e beati) è evidentemente un eretico. Comunque sulla lunga distanza ha vinto lui. Soltanto grazie a lui possiamo proseguire questa infinita discussione su un luogo che non c’è mai stato.
Continua (se vi va; se no, amen).
The Limbo FAQ
1.Sono un cattolico praticante. Non rubo, non uccido, non faccio sesso inutile, ormai non commetto neanche più i peccati di omissione. Insomma, se c’è un paradiso cattolico dovrei avere un posto prenotato. L’abolizione del limbo avrà qualche ripercussione sulla mia eventuale vita eterna?
R. Altroché, caro il mio perfettino. Probabilmente pensavi a un paradiso stile Correggio, tutti belli biondi a mostrare le loro
2. Cinesi? Perché proprio i cinesi?
R. Se per questo, anche indiani, nigeriani, indonesiani. Considera solo che ogni anno mancano all’appello migliaia e migliaia di neonate cinesi: ti sei mai chiesto dove vadano a finire? Ebbene, da oggi lo sai: nel paradiso dei cattolici.
3. E vabbè, saranno una minoranza…
R. Minoranza sarai tu. Stiamo parlando di tutta la mortalità infantile asiatica dalla preistoria ad oggi. Si tratta di un numero incalcolabile di anime, di fronte al quale la comunità di persone che hanno ricevuto il messaggio di Gesù e han persino provato a metterlo in pratica scompare letteralmente. Senza parlare di Africa, America, Oceania, e degli uomini pii che anche senza aver ricevuto il Vangelo si sono comportati bene. Miliardi e miliardi. Insomma, con l’abolizione del Limbo, il tuo club – il paradiso dei cattolici – diventa il meno esclusivo in assoluto. Pensaci bene.
4. Ma i protestanti…
R. Niente di neanche lontanamente paragonabile. La maggior parte dei club protestanti ti fa entrare solo dietro Predestinazione – per dire, uno può leggere il Vangelo e comportarsi bene per tutta la vita, ma se non ha la Fede, sta fuori. Figurati se fanno entrare un aborto clandestino cantonese. Insomma, se il tuo aldilà ideale prevede angeli biondi cogli occhi azzurri, fatti presbiteriano.
5. Hai parlato di aborti. Non vorrai mica sostenere che…
R. Per Benedetto XVI (e i suoi predecessori) l’embrione è già vita, e la vita è un dono di Dio. Di conseguenza, fino all’altro giorno il Limbo era perlopiù il luogo deputato agli embrioni mai battezzati, che senza aver commesso alcun peccato (cosa puoi fare di sbagliato nel sacco amniotico?), portano comunque su di sé il peccato originale commesso da Adamo ed Eva. Ma se davvero il peccato originale non è così grave da impedire l’accesso al paradiso, direi che non c’è nessun divieto teologico alla definitiva santificazione degli embrioni e degli aborti.
6. Quindi abortire diventa meno grave?
R. Direi di no, anzi. Non solo resta un omicidio bello e buono, ma Benedetto XVI sta timidamente cominciando a proporre la santificazione delle vittime. Che sono parecchie centinaia di milioni, ti ricordo. Le persecuzioni degli imperatori romani sono un episodio, al confronto.
7. Ma davvero un Papa può spalancare così tanto i cancelli del cielo? E i papi venuti prima non erano infallibili anche loro?
R. In realtà nessun Papa ha mai parlato ‘ufficialmente’ di un limbo (e neanche Benedetto, per ora). La Commissione teologica internazionale avrà buon gioco a dimostrare che si è trattato solo di un’"ipotesi teologica". Insomma, di limbo si è parlato per secoli, ma non è mai stato messo in nero su bianco, come dogma, articolo di fede. Il cattolicesimo è una religione molto formale: si può discutere fino a una certa ora, ma alla fine carta canta.
8. Se il Limbo non è mai stato un dogma ufficiale, perché io, che son cattolico, ero così convinto che esistesse?
R. Perché come tutti i cattolici italiani, il catechismo te lo sei dimenticato a tre mesi dalla Cresima, ma l’Inferno di Dante ti è rimasto lì, non ti va più via. E questo la dice lunga, sulle nostre radici cristiane: molti concetti che crediamo facciano parte della nostra fede religiosa, in realtà appartengono alla nostra letteratura. Il Limbo in cui credi in realtà è l’invenzione di un grande poeta – che si considerava anche un profeta, ma che non è mai stato preso sul serio dalla Chiesa. Altrimenti l’avrebbero bruciato.
9. Bruciare il sommo Poeta?
R. La chiesa ci ha fatto il favore di considerarlo semplicemente un poeta. Ma un tizio che sostiene di aver visitato l’Oltretomba e di conoscere esattamente l’ubicazione di centinaia di anime morte (tra dannati, purganti e beati) è evidentemente un eretico. Comunque sulla lunga distanza ha vinto lui. Soltanto grazie a lui possiamo proseguire questa infinita discussione su un luogo che non c’è mai stato.
Continua (se vi va; se no, amen).
giovedì 5 ottobre 2006
- troppo avanti per voi buzzurri
Scoop!
Solo per informarvi che questa settimana dovrebbe uscire l'ultimo film di Woody Allen, e che la recensione su Leonardo è già pronta da un mese e mezzo.
In America (sapete, io sono stato in America) ho visto un altro piccolo film assai bello e acclamato dalla critica, ma non credo che arriverà mai qua da noi. Si chiama Half Nelson e racconta di un prof di scuola media che ha due problemi. Il primo problema è una lieve dipendenza dal crack. Il secondo è che le sue lezioni di Storia ("Che cos'è la Storia? La Storia è... conflitto! Bianco nero, dolce salato, continuate voi") sono patetiche. Eppure i suoi studenti (tutti afroamericani di ghetto, ovvio, mentre lui è radicalscic da generazioni), invece di mandarlo troppo giustamente a cagare lo fissano con occhi sbarrati. Probabilmente si fanno pure loro.
Oppure forse no. Insomma, sono tonrato in Italia, sono entrato in una classe e ho provato a chiedere: Cos'è la geografia? La geografia è: fare disegni della terra! Fatemi dei disegni della terra, su. Però, come fan schifo i vostri disegni! Ma anche i primi disegni della terra facevano schifo! E così via.
Vediamo come va - ma probabilmente non è la stessa cosa, senza crack.
Solo per informarvi che questa settimana dovrebbe uscire l'ultimo film di Woody Allen, e che la recensione su Leonardo è già pronta da un mese e mezzo.
In America (sapete, io sono stato in America) ho visto un altro piccolo film assai bello e acclamato dalla critica, ma non credo che arriverà mai qua da noi. Si chiama Half Nelson e racconta di un prof di scuola media che ha due problemi. Il primo problema è una lieve dipendenza dal crack. Il secondo è che le sue lezioni di Storia ("Che cos'è la Storia? La Storia è... conflitto! Bianco nero, dolce salato, continuate voi") sono patetiche. Eppure i suoi studenti (tutti afroamericani di ghetto, ovvio, mentre lui è radicalscic da generazioni), invece di mandarlo troppo giustamente a cagare lo fissano con occhi sbarrati. Probabilmente si fanno pure loro.
Oppure forse no. Insomma, sono tonrato in Italia, sono entrato in una classe e ho provato a chiedere: Cos'è la geografia? La geografia è: fare disegni della terra! Fatemi dei disegni della terra, su. Però, come fan schifo i vostri disegni! Ma anche i primi disegni della terra facevano schifo! E così via.
Vediamo come va - ma probabilmente non è la stessa cosa, senza crack.
martedì 3 ottobre 2006
- la Storia non ci insegna nulla, 1
La scorsa settimana quasi nessuno se n’è accorto, ma è successo un auschwitz, qui, una pearlharbour.
Ora vi spiego, come lo spiegherei a un forestiero. Chissà che non diventi più chiaro anche per noi.
L'Ambaradan
In Italia, tra tanti politici anche somaticamente poco credibili, ne abbiamo uno che sembra serio e competente, quando tace. Si chiama Gianfranco Fini e viene da un partito ex fascista – ok, storia vecchia, abbiamo tutti fatto degli errori nel Novecento, e lui forse è quello che ha chiesto scusa più volte, dopo il Papa.
Una volta ha chiesto il voto agli immigrati.
Un’altra è andato in Israele, davanti al sacrario della Shoah, e ha definito il fascismo “parte del male assoluto”. Ha persino ammesso di essersi fatto una canna. Insomma, non sembra proprio un tipo da marcia da Roma, o da fuga a Salò. Quando tace.
Il problema è che ogni tanto parla. Non si sa bene il perché. Forse deve coprirsi a destra, è possibile. Comunque il risultato è un disastro. Una woundedknee, una sanbartolomeo. Si veda per esempio quel che è successo la scorsa settimana, quando, durante un convegno del suo partito sull’immigrazione, Fini ha aperto inopinatamente la bocca dichiarando che...
Ecco la parola che non mi veniva. Ambaradan.
Secondo il dizionario De Mauro Ambaradan significa “grande confusione, baraonda: creare un a. Attività, amministrazione e sim., particolarmente complessa”. Questo buffo sostantivo è una delle poche cose che ci siamo portati a casa dall’Etiopia. La parola deriva infatti dal massiccio montuoso dell’Amba Aradam, dove combattemmo una dura battaglia nel 1936. Ma valeva la pena di combattere, o no? per portare a casa una parola.
Avete presente quello sbruffone di George W. Bush, quello che il primo maggio del 2003 dichiarò cessate le ostilità in Iraq? Ecco, per Mussolini la guerra in Etiopia era finita in 5 maggio del 1936. Tre anni dopo si sparava ancora, ma questi son dettagli. Non era più guerra, quella. Era pacificazione.
Tanta era l’esigenza di pacificare il Paese, nell'aprile del 1939 sull’Amba Aradam si combatte ancora. Oddio, "combattere". L’ordine da Roma è stroncare la ribellione, senza complimenti. Così, il nove aprile del 1936, una grotta dell’Amba Aradam viene attaccata con bombe a gas d'arsina e con iprite.
Dentro la grotta c’è più di un migliaio di persone. Moriranno asfissiati. Non sono tutti combattenti: non era una banda di guerriglieri, ma una carovana di salmerie che seguiva i combattimenti. Ci sono donne e bambini. Nessuno sa con esattezza quanti siano rimasti là sotto.
Fino a quest’anno non si sapeva nulla. Persino gli abitanti della regione non ricordano più, e hanno elaborato leggende per spiegare l’abbondanza di ossa umane in quelle grotte. È stato un giovane dottorando italiano, Matteo Dominioni, a mettersi sulle tracce del massacro, partendo da un faldone rinvenuto in un ufficio di Roma. In maggio Paolo Rumiz ci ha scritto un bel pezzo, uscito sulla Repubblica, che a tutt’oggi è l’unica cosa che si riesce a trovare in rete sull’argomento. Poi più nulla.
Ma a settembre Fini si aspetta che il colonialismo italiano sia rivalutato. E la domanda è: non si poteva rivalutare l’anno scorso? O magari non si potrebbe aspettare qualche anno ancora? Dobbiamo rivalutarlo proprio nell’anno in cui abbiamo scoperto il più grande crimine contro l’umanità commesso da un esercito italiano?
Passerà un po’ di tempo. La strage dell’Amba Aradam finirà sui libri di storia. Fini dirà altre cose, più o meno intelligenti. E in tv continueremo a dire “ambaradan” come se fosse solo “un gran pasticcio”, e non un massacro commesso da italiani come noi.
Perché noialtri siamo proprio brava gente, non c’è niente da fare. A volte, certo, combiniamo dei pasticci. Ma meritiamo di essere rivalutati.
Ogni popolo ha una sua storia di vergogne. I giapponesi non scherzano su Pearl Harbour, i francesi non fanno giochi di parole sul massacro di San Bartolomeo. Gli americani non rivalutano Wounded Knee. Nessun tedesco potrebbe dire “ho combinato un Auschwitz”. Ma noi siamo tanto simpatici, con tutto il nostro ambaradan. E ce lo meritiamo proprio, Gianfranco Fini.
Ora vi spiego, come lo spiegherei a un forestiero. Chissà che non diventi più chiaro anche per noi.
L'Ambaradan
In Italia, tra tanti politici anche somaticamente poco credibili, ne abbiamo uno che sembra serio e competente, quando tace. Si chiama Gianfranco Fini e viene da un partito ex fascista – ok, storia vecchia, abbiamo tutti fatto degli errori nel Novecento, e lui forse è quello che ha chiesto scusa più volte, dopo il Papa.
Una volta ha chiesto il voto agli immigrati.
Un’altra è andato in Israele, davanti al sacrario della Shoah, e ha definito il fascismo “parte del male assoluto”. Ha persino ammesso di essersi fatto una canna. Insomma, non sembra proprio un tipo da marcia da Roma, o da fuga a Salò. Quando tace.
Il problema è che ogni tanto parla. Non si sa bene il perché. Forse deve coprirsi a destra, è possibile. Comunque il risultato è un disastro. Una woundedknee, una sanbartolomeo. Si veda per esempio quel che è successo la scorsa settimana, quando, durante un convegno del suo partito sull’immigrazione, Fini ha aperto inopinatamente la bocca dichiarando che...
...non tutte le pagine del colonialismo sono negative: se pensiamo a come sono ridotte oggi l’Etiopia, la Somalia e la Libia e a come stavano sotto l’Italia, credo che ci debba essere una rivalutazione del ruolo italiano in quei paesi.Tutto questo, nel 2006: quando ormai tutti gli storici (anche quelli un po’ revisionisti) hanno raggiunto un certo accordo sul bilancio del colonialismo italiano in Africa. Pare in effetti che almeno una cosa buona, noi italiani, l’abbiamo fatta: andarcene. Pare che l’Etiopia sia stata la più grande fregatura che Mussolini combinò agli italiani e a sé stesso: la guerra lo isolò sul piano internazionale, spingendolo ad allearsi con Hitler. Tra Etiopia e Spagna, il duce cercò di autoconvincersi di essere alla guida di una potenza militare in grado di sfidare l’ordine mondiale, e il guaio è che ci riuscì. Ma secondo Gianfranco Fini a questo punto ci dovrebbe essere una rivalutazione. Non siamo neanche riusciti a pompare il petrolio in Libia, ma qualche infrastruttura l’avremo ben fatta, o no? Qualche ferrovia, qualche ospedale. Perché non rivalutarci un po’? Siamo brava gente, un po’ pasticciona ma dal buon cuore. Certo, a volte rischiamo di perderci nel nostro auschwitz. Volevo dire nel nostro pearlharbour. Volevo dire nel nostro ambaradan.
Ecco la parola che non mi veniva. Ambaradan.
Secondo il dizionario De Mauro Ambaradan significa “grande confusione, baraonda: creare un a. Attività, amministrazione e sim., particolarmente complessa”. Questo buffo sostantivo è una delle poche cose che ci siamo portati a casa dall’Etiopia. La parola deriva infatti dal massiccio montuoso dell’Amba Aradam, dove combattemmo una dura battaglia nel 1936. Ma valeva la pena di combattere, o no? per portare a casa una parola.
Avete presente quello sbruffone di George W. Bush, quello che il primo maggio del 2003 dichiarò cessate le ostilità in Iraq? Ecco, per Mussolini la guerra in Etiopia era finita in 5 maggio del 1936. Tre anni dopo si sparava ancora, ma questi son dettagli. Non era più guerra, quella. Era pacificazione.
Tanta era l’esigenza di pacificare il Paese, nell'aprile del 1939 sull’Amba Aradam si combatte ancora. Oddio, "combattere". L’ordine da Roma è stroncare la ribellione, senza complimenti. Così, il nove aprile del 1936, una grotta dell’Amba Aradam viene attaccata con bombe a gas d'arsina e con iprite.
Dentro la grotta c’è più di un migliaio di persone. Moriranno asfissiati. Non sono tutti combattenti: non era una banda di guerriglieri, ma una carovana di salmerie che seguiva i combattimenti. Ci sono donne e bambini. Nessuno sa con esattezza quanti siano rimasti là sotto.
Fino a quest’anno non si sapeva nulla. Persino gli abitanti della regione non ricordano più, e hanno elaborato leggende per spiegare l’abbondanza di ossa umane in quelle grotte. È stato un giovane dottorando italiano, Matteo Dominioni, a mettersi sulle tracce del massacro, partendo da un faldone rinvenuto in un ufficio di Roma. In maggio Paolo Rumiz ci ha scritto un bel pezzo, uscito sulla Repubblica, che a tutt’oggi è l’unica cosa che si riesce a trovare in rete sull’argomento. Poi più nulla.
Ma a settembre Fini si aspetta che il colonialismo italiano sia rivalutato. E la domanda è: non si poteva rivalutare l’anno scorso? O magari non si potrebbe aspettare qualche anno ancora? Dobbiamo rivalutarlo proprio nell’anno in cui abbiamo scoperto il più grande crimine contro l’umanità commesso da un esercito italiano?
Passerà un po’ di tempo. La strage dell’Amba Aradam finirà sui libri di storia. Fini dirà altre cose, più o meno intelligenti. E in tv continueremo a dire “ambaradan” come se fosse solo “un gran pasticcio”, e non un massacro commesso da italiani come noi.
Perché noialtri siamo proprio brava gente, non c’è niente da fare. A volte, certo, combiniamo dei pasticci. Ma meritiamo di essere rivalutati.
Ogni popolo ha una sua storia di vergogne. I giapponesi non scherzano su Pearl Harbour, i francesi non fanno giochi di parole sul massacro di San Bartolomeo. Gli americani non rivalutano Wounded Knee. Nessun tedesco potrebbe dire “ho combinato un Auschwitz”. Ma noi siamo tanto simpatici, con tutto il nostro ambaradan. E ce lo meritiamo proprio, Gianfranco Fini.
lunedì 2 ottobre 2006
- è già ottobre
Come stai? Un mese fa eri in America
Sul serio? Mi sembra di star bene.
Non fosse per qualche sciocchezza ogni tanto. Per esempio: per strada sorrido ancora agli sconosciuti. Me la farò passare.
Sul serio? Mi sembra di star bene.
Non fosse per qualche sciocchezza ogni tanto. Per esempio: per strada sorrido ancora agli sconosciuti. Me la farò passare.