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lunedì 30 settembre 2013

La natura di B. (e la nostra)

Ma sul serio glielo lasciamo fare?

Tutto quello che è successo, un istante dopo che è successo, ci è parso inevitabile; e adesso con chi dovremmo prendercela? Con Berlusconi? Ma Berlusconi non poteva che comportarsi così, è la sua natura: come lo scorpione che non può non pizzicare la rana, B. doveva prima o poi affossare questo governo. Potremmo prendercela con Enrico Letta. Ma anche la rana in fondo non poteva che comportarsi così: la sua unica chance era imbarcare lo scorpione e convincersi che sarebbe andato tutto bene. Era il suo ruolo e, per quanto ridicolo, lo ha portato avanti con un certo stile. Letta avrebbe potuto fare più o meno di quello che ha fatto, e tutto questo sarebbe successo ugualmente: lo sapevamo. Magari ignoravamo la goccia che avrebbe sbilanciato i piattini in equilibrio così precario (la sentenza della Cassazione) - ma in coscienza come potevamo sperare che il governo durasse molto di più?

Era nato per cambiare legge elettorale e prendere tempo, in attesa che Berlusconi decadesse o Grillo si sgonfiasse. Grillo si è rigonfiato, Berlusconi sta per decadere, ma ha preso la legge elettorale in ostaggio - e anche questo tutto sommato era abbastanza prevedibile. Nel frattempo il PD avrebbe dovuto prepararsi alla campagna elettorale più difficile, e non è andata così. Lo dico da osservatore parziale, che ha sempre evitato di infilarsi nel coro di chi critica il PD sempre-e-comunque: stavolta possiamo prendercela soltanto con noi stessi. Sapevamo che Berlusconi poteva staccare la spina in qualsiasi momento, e abbiamo perso tempo in una battaglia precongressuale estenuante, alimentando sui quotidiani polemiche inutili, fino alla catastrofe dell'ultima caotica, incomprensibile assemblea del PD. Non potendoci aspettarci lealtà da Berlusconi, o ragionevolezza da Grillo, l'unica cosa che chiedevamo è che il PD reagisse alla batosta rispondendo almeno a un basico istinto di sopravvivenza: tanto più che il candidato ormai c'è, può essere più o meno simpatico ma c'è, e le stesse primarie sarebbero pleonastiche (il che non significa che non possa convenire celebrarle, anche soltanto come cerimonia: però nessun plebiscito ci ha mai fatto poi vincere le elezioni). Niente da fare, a quanto pare: bisognava litigare sulle primarie, sulle convenzioni che nessuno sa cosa siano, sul ruolo del segretario rispetto al ruolo del candidato... intanto domani comincia la campagna elettorale, e il congresso è convocato per dicembre. Berlusconi non ha più niente da perdere e potrebbe persino vincere.

E a questo punto ritorna la vecchia domanda: ma sul serio? Stiamo davvero lasciando che un evasore fiscale milionario si metta a sparare a zero sugli avversari politici attraverso canali televisivi che ha accumulato in plateale violazione delle leggi - finché non le ha lui stesso cambiate? Gli stiamo davvero lasciando la possibilità di raccontare altre bugie a quel quinto di italiani che lo ascolta ancora e che gli è sufficiente per dettare condizioni in parlamento? Che altro deve fare, ancora, Silvio Berlusconi, per convincerci della sua natura di nemico pubblico? Cosa trattiene le istituzioni dal trarre le estreme conseguenze di fatti altrettanto estremi? In Grecia il leader di un partito neonazista è in carcere con l'accusa gravissima di essere il mandante di un assassinio. Berlusconi non è un nazista e non è un violento; in compenso quelle contro di lui non sono semplici accuse: Berlusconi ha corrotto, Berlusconi ha rubato, a Berlusconi non si dovrebbe consentire la libertà di far cadere un governo o addirittura causare la fine di una legislatura. Se questo diritto glielo riconosce in qualche perverso modo la Costituzione, violiamola pure: lo facciamo tutti i giorni quando si tratta di torturare i detenuti comuni o non riconoscere il diritto d'asilo. Inutile prendersela con B., fin tanto che lo lasciamo libero di offenderci: ma perché lo lasciamo libero? Di cosa abbiamo paura? O anche questa disponibilità a lasciarci fottere così, anche questa rientra nella nostra "natura"? Trenta mesi fa, un professore osò scrivere su un quotidiano di sinistra che un'emergenza del genere andava risolta coi carabinieri.

Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. 

Lo presero per matto - carabinieri e forze di polizia non godono di molto credito presso quel bacino di lettori. E tuttavia Asor Rosa aveva molto semplicemente ragione: contro i ladri non si mandano i generosi manifestanti; contro i ladri e i nemici della salute pubblica uno Stato, se vuole sopravvivere, si difende con la forza. Ma era già tardi, nell'aprile del 2011.

domenica 29 settembre 2013

Gli angeli non sono simpatici

Non l'ho letto (scusate)
29 settembre - SS. Michele, Gabriele e Raffaele, angeli o arcangeli che dir si voglia.

Neanche troppo tempo fa, il 29 settembre si festeggiava soltanto Michele Arcangelo, il primo vero supereroe, con le sue ali bianche e la sua lancia sempre conficcata in qualche drago: è l'anniversario della dedicazione del suo più famoso santuario, nel 493 (anche se più probabilmente è di epoca longobarda), a Monte Sant'Angelo in provincia di Foggia. I due colleghi, Gabriele e Raffaele, che nessun passo della Bibbia qualifica come "arcangeli", avevano entrambi il loro giorno dedicato, rispettivamente 24 marzo e 24 ottobre. A riunire i festeggiamenti in un giorno solo ha provveduto il Concilio Vaticano II. Cordova, città particolarmente devota a Raffaele (dopo essere stata la capitale europea dell'Islam), continua a festeggiarlo in ottobre. Un accorpamento del genere, in mancanza di altre ragioni pratiche o economiche, tradisce un certo fastidio dei teologi. Chi sono questi angeli? Da dove vengono? Cosa pretendono? Le scritture ne parlano pochissimo. Meglio diffidare. Non è un atteggiamento particolarmente moderno: l'insofferenza dei cristiani per l'angelologia è antica quanto il cristianesimo, visto che già il suo fondatore, Paolo di Tarso, metteva in guardia i colossesi dal "compiacersi in pratiche di poco conto e nella venerazione di angeli".

Michele visto da Raffaello, poco convinto (Satana fa quasi pietà). Le generazioni seguenti dovettero probabilmente scegliere tra due categorie di personaggi venerabili: i martiri o gli angeli. Scegliere gli angeli significava immancabilmente offrirsi alle derive gnostiche che circolavano liberamente in quei secolo, un tripudio sincretico e new age di personaggi alati associati ovviamente al giorno della settimana, al segno zodiacale, al punto cardinale, al tuo umore, e domani incontrerai qualcuno e dovrai fare una scelta importante. Venerare i martiri significava la guerra a tutti i paganesimi: c'è un solo Dio e vale la pena di morire per testimoniarlo. Vinsero evidentemente i più estremisti, ma gli angeli non scomparirono del tutto. Ogni tanto ritornano, sembra che i fedeli non ne possano fare a meno. Certo, nei quadri le ali fanno la differenza. I santi non ce le hanno, anche quando volano sembrano semplicemente sospesi in aria: vuoi mettere con un Michele che svolazza?

Ma chi è poi questo Michele? Il suo nome in ebraico suona più o meno "Chi come Dio?" La sua prima apparizione è in un testo biblico abbastanza tardo (II sec. aC), il Libro di Daniele, che gli ebrei non hanno nemmeno incluso nel canone della loro Bibbia - i cattolici sì, ma son di bocca buona. Qui è presentato come il luogotenente del Dio degli eserciti, il suo condottiero più fidato. Nello stesso testo esordisce anche Gabriele, "Dio è potente". A lui la voce del Signore ordina di spiegare una visione al profeta. Sembra il classico intermediario tra la divinità e l'uomo, e la redazione in greco usa per definirlo il termine classico, ánghelos. Con la stessa funzione lo ritroviamo nel vangelo di Luca, nell'apparizione angelica più celebre: è lui a informare Maria della sua gravidanza. Michele torna invece in un passo dell'Apocalisse (un testo che ha molti debiti col libro di Daniele), sempre con funzioni di alto ufficiale dell'esercito divino: i quadri che lo raffigurano nell'atto di sconfiggere un drago-serpente traggono spunto da lì. E Raffaele? Di lui parla soltanto il libro di Tobia, un altro testo dell'Antico Testamento rigettato dal canone ebraico e recuperato in quello cristiano. Nel libro Raffaele ("Dio Guarisce") fa da mezzano tra il giovane Tobia e la tenera Sara, una brava ebrea deportata con un piccolo problema: è posseduta da un demone, Asmodeo, che ammazza tutti i suoi mariti la prima notte di nozze. Raffaele sconfigge Asmodeo e cura la cecità del padre di Tobia, un novello Giobbe, tanto pio quanto sventurato. Di storie a lieto fine nella Bibbia non è che ce ne siano tantissime, d'amore poi; sicché la favoletta di Tobia e Raffaele diventa piuttosto popolare nel medioevo: ai giovani sposi viene proposto di praticare l'astinenza per le prime tre notti di nozze, dette le "notti di Tobia". Raffaele viene invocato come guaritore, anche se in questo campo la concorrenza è presto agguerritissima. Questo è più o meno tutto quello che la Bibbia ci dice su Michele, Gabriele e Raffaele.

E la guerra con gli angeli ribelli? Lo scontro con Lucifero? (continua sul Post...)

giovedì 26 settembre 2013

I love shopping da Paris Hilton, tipo

The Bling Ring (Sofia Coppola, 2013)

Cioè mamma, dai, non stressare.

Il Bling Ring, quello finto
Me l'ha prestato un amico il vestito. Mi vuole fare tipo un book, o un servizio fotografico, o boh, dai insomma, mi vuole fare delle foto e mi ha detto che mi sta bene e di prenderlo pure e cioè, è perfetto, no? Cioè è assolutamente mio, adesso. Non ti preoccupare. E fatti un account su facebook invece di venire sempre sul mio con la scusa di sapere cosa combina tipo papà. E di spiarmi. Non l'ho rubato il vestito. Assolutamente.

Ma facciamo anche l'ipotesi che io questo vestito l'abbia preso da un posto, tipo, assolutamente pieno di vestiti che non si mette mai nessuno - e che questo posto, tipo, sia una proprietà, cioè, privata, però spalancata, capisci? antifurto disinserito, chiave sotto lo zerbino - mamma, ma che cazzo vuoi da me, si può sapere? Sono tua figlia, tipo. Cioè, lo sono assolutamente.

Cioè, credi davvero che non li abbia visti su youtube i video di quando sei andata con la tua amica Kirsten nella villa di quel re a Versailles e vi siete provati, tipo, tutti i vestiti e avete mangiato assolutamente tutti i pasticcini? e allora che cazzo vuoi da me, sei la cleptofreak in capo mamma. Cioè prova a dirmi che qua dentro è tipo tutta roba tua, tutta tua... Cioè non hai mai rubato niente a una festa?

Neanche quel leone d'oro sul camino?

Guarda mamma che lo sanno tipo tutti che fu un blitz tuo e di quel tuo ex, Quentin, chissà cosa aveva da farsi tipo perdonare. E questo invece cos'è. Un Oscar, alla migliore Sceneggiatura, cioè, mamma, dai, a chi la vuoi raccontare? Che poi, cioè, il punto è proprio quello. Tu le storie non le sai raccontare, assolutamente, tu sei fatta come noi. Sei una di quelle che al cinema dopo due ore di film non sanno dirti cos'è successo, chi amava chi, chi ha ucciso chi. In compenso ti ricordi benissimo tutti i colori delle scarpe e le fantasie dei vestiti, mamma, sei fatta così. Siamo fatti così. Forse è genetica, forse è cultura. Tipo che siamo troppo attente ai dettagli per interessarci dell'insieme. O forse ci nascondiamo nei dettagli perché non siamo mai riusciti a capire l'insieme. Comunque è così e vaffanculo, ok? Sei superficiale, non è una scelta artistica, sei proprio fatta così. La tua idea di profondità è riprendere i personaggi da lontano. La tua idea di introspezione è inquadrarne i brufoli da una webcam. Però ci piaci così, mamma, non prendertela. Sei sempre così triste.

C’è sempre tanto silenzio nei tuoi film, ci hai fatto caso? Sotto a tutte le playlist che ascoltano i personaggi, c’è sempre questo rumore di fondo che cambia nota da una sequenza all’altra – il rumore di milioni di ventilatori, tipo, di milioni di motori fermi a milioni di semafori, i rumori di Tokyo filtrati dai condotti di areazione fino a diventare una sola nota di rumore bianco, come in quei dischi scemi di shoegaze che per fortuna non ci infliggi più. Il rumore della gente che all’improvviso comincia a fermarsi davanti ai cancelli di Versailles. Il rumore che ci fa paura; e allora ci chiudiamo in macchina e ascoltiamo a massimo volume la musica più forte che c’è. Il rumore del silenzio che ti picchia tra le tempie al ritorno da una festa. Il rumore, tipo, della fine. Un giorno qualcuno verrà a prenderci, i sanculotti o il Los Angeles Police Department. Ci accuseranno di aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità e cazzo, mamma, avranno assolutamente ragione. Poi ci porteranno via, tipo, in un posto dove forse il rumore ci lascerà in pace.


Il Bling Ring, quello vero.
Ma nel frattempo mamma, come fai a farci la morale. Siamo quattro ladruncoli maniaci di gossip che si sono trovati con molto tempo libero nel brevissimo periodo storico in cui i vip di Beverly Hills avevano le ville su google streets, l’agenda degli impegni su tmz, e ancora non avevano collegato le cose e inserito l’antifurto. Cioè, abbiamo rubato oggetti per milioni di dollari senza rendercene assolutamente conto, e adesso siamo, tipo, in galera. E tu ora vai in giro a dire che sei preoccupata per la nostra generazione traviata dalla cultura pop e altre cazzate, mamma, la semplice verità è che stai facendo soldi su di noi. Hai scritto un film su di noi. Cioè, “scritto”. Hai comprato i diritti di un reportage di Vanity Fair, non hai cambiato una virgola. Non hai neanche fatto caso alle cose non dette, alla gelosia delle ragazze per Nick, non hai voluto approfondire – ma non è che non hai voluto – è proprio che non sai come si fa. Tutto quello che potevi fare era inquadrarci da vicino o da lontano. Un altro (o un’altra) al tuo posto non avrebbe fatto così. Si sarebbe inventato una storia, avrebbe scavato nello spazio vuoto tra le dichiarazioni dei personaggi e degli avvocati. Ci avrebbe raccontato di Nick che finalmente trova un’amica ed è disposto a qualsiasi cosa per lei, Nick che la porta nel Nevada guidando un’auto piena di refurtiva – cioè, ti immagini cosa avrebbe potuto fare un altro regista con materiale del genere? Innamorarsi di una cleptomane, seguirla nella sua follia, diventare il suo manichino, imparare a memoria tutte quelle cazzo di nomi di cui fino a quel momento non ti era mai fregato niente, Marc Jacobs, Gucci, YSL – passare in due settimane dalla flanella grunge a impartire lezioni di stile tipo “non puoi mettere zebra e leopardato assieme, devi scegliere”. Che ne avrebbe fatto di tutto questo non dico uno Scorsese, ma un Ron Howard. Ma sei passata tu. E tu la distanza tra i personaggi non ce la puoi mettere. Tu sei sempre in primo piano con loro. È impossibile non immaginarti nella tua cameretta con quelle manolo indosso. E vuoi farci la morale, cioè, insomma, tipo, dai.


Però il film si guarda lo stesso, perché c’è la mia amica Emma Watson che è tipo assolutamente fantastica, cioè, guardala. Si è mangiata il tuo film. Lo ha capito sin dall’inizio, come solo i grandi attori: si è resa conto prima di te che sarebbe stato tipo come una puntata lunghissima di The Hills, e ha fatto l’unica cosa sensata che poteva fare un vero professionista: si è studiata The Hills. Lei lo ha capito, non si trattava semplicemente di entrare in casa di Audrina e rubare qualche altro oggettino: stavolta bisognava rubarle l’anima, questo fanno gli attori seri e lei è serissima assolutamente. La sua Rachel è un capolavoro iperrealista, più vera del vero, assomiglia tipo a un sacco di quindicenni che conosciamo. Lei un Oscar non lo ruberebbe, assolutamente. Mangia in testa a tutte le starlette ex Disney di Spring Break, e a quel guitto compiaciuto di James Franco. Che poi c’è da dire che in generale tu sei molto meno autoindulgente di Korine, anche se la categoria è la stessa: usare la superficialità dei giovani d’oggi per valorizzare tipo la propria.

A proposito, Sofia, io non sono tua figlia. Ho più o meno la tua stessa età, e nessun titolo per giudicare, né te, né i tuoi personaggi. Per esempio, senti questa: il tuo film forse l’ho rubato. Cioè, non proprio, ma ammettiamo l’ipotesi che ne abbia tipo scaricato una versione – è stato più forte di me, era peggio di una villa col cancello spalancato: mi è arrivato in casa coi sottotitoli e tutto, dovevo solo premere un tasto. Ma non avrei voluto, è stata la distribuzione italiana che ha deciso di programmare dopo Venezia un film uscito a Cannes, ti immagini? I femminili ne parlavano già in marzo, se uno aveva un po’ di curiosità come faceva a tenersela? Il film però esce oggi, e ci dev’essere senz’altro una strategia commerciale dietro, ma io mi domando sinceramente quale sia: non l’ho capita. Forse è un esperimento sociologico, forse facciamo tutti parte di un’opera d’arte, tipo una gigantesca installazione di ladri di film che guardano e giudicano un film di ladri. Tipo. Cioè. Assolutamente.

The Bling Ring, se siete onesti, è al Cinecittà di Savigliano alle 22.30; nei festivi alle 20:20 e alle 22:30.

mercoledì 25 settembre 2013

Ritorno al Futurismo

Anche quest'anno la casa editrice inesistente Barabba ricorda Carlo Fruttero con un'antologia di racconti di fantascienza che vale la pena giudicare dalla copertina, splendida, di Isola Virtuale. Su questo blog potrete leggerli, uno al giorno, per parecchi giorni. Oppure potete scaricare il tutto in vari formati, qui. Ecco il mio contributo, breve come al solito:


Il Chiaro di Luna colpisce ancora


Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.” L'alcova di acciaio, 1921.

“Professor Modena, voi ritenete che i viaggi nel tempo siano impossibili, per un motivo autoevidente, mi sbaglio?”

Angelo Modena riprese fiato e tornò a fissare il suo interlocutore nella penombra del salotto. Le mani dell'uomo aderivano ai braccioli della poltrona come se ne fossero un'estensione naturale. Sembrava aver preso forma in quella stessa posizione, pochi minuti prima, mentre il cucina il professore preparava un caffè.

Una pioggia opaca sbatteva granuli di piombo sulla parete-finestra, affacciata sulla laguna. La tangenziale di Venezia era da qualche parte oltre lo smog. Più in fondo lampeggiava il faro per i dirigibili in cima all'orribile grattacielo Sant'Elia, appena inaugurato e già annerito da un catrame che sembrava secolare.

“Non sono un'allucinazione, professor Modena. Sono perfettamente reale e potrà toccarmi, se lo desidera. Ma la prego, risponda alla mia domanda. Qual è la miglior prova del fatto che i viaggi nel tempo non siano possibili?”
“Stamattina ho scritto un appunto”.
“Sul vostro diario, certamente, eccolo qui”. L'interlocutore estrasse da una tasca esterna un taccuino ingiallito, oscenamente logoro. “Tre febbraio 1929. Ho ritrovato una vecchia edizione di un grande amore della mia gioventù, La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Oggi come ieri mi sbalordisce l'intuizione del tempo come quarta dimensione. L'idea del viaggio nel tempo è una delle più originali mai concepite, anche se purtroppo impraticabile al di fuori della finzione narrativa. D'altro canto è molto semplice dimostrare che l'umanità non potrà mai viaggiare nel tempo...
“Chi vi ha dato il permesso di frugare tra i miei appunti?”
“Il vostro diario è come sempre nel cassetto dello scrittoio. E non ricordo dove voi teniate la chiave. Stavo dicendo: è molto semplice dimostrare che l'umanità non potrà mai viaggiare nel tempo...
“...non abbiamo mai avuto visite dal futuro”.
“Molto brillante, professor Modena. È vero. Se il viaggio nel tempo fosse praticabile, noi riceveremmo senz'altro visite degli uomini dal futuro. Ma questa – se posso farle un'obiezione – non è una vera prova contro il viaggio nel tempo. Al limite è un indizio. E forse non ha valutato altre ipotesi”.
“Quali ipotesi?”
“Viaggiare nel tempo potrebbe essere molto complesso. E pericoloso. I viaggiatori nel tempo potrebbero essere costretti a nascondersi per evitare alterazioni nei rapporti di causalità, mi segue? Essi proverrebbero da un futuro che consegue dal nostro presente, ma palesandosi per viaggiatori nel tempo altererebbero questo stesso presente, generando nuove catene di cause ed effetti che potrebbero mettere a rischio la loro stessa esistenza, non so se riesco a spiegarmi”.
“Potrebbero uccidere un loro antenato”.
“Per esempio”.
“O sé stessi”.
“Non deve veramente preoccuparsi di questo”.
“Si verrebbe a creare una specie di...”
“Noi lo chiamiamo paradosso”.
“Voi del futuro, mi è lecito immaginare”.
“Proprio così, professor Angelo Modena. Il viaggio nel tempo è possibile, voi stesso lo dimostrerete tra sette anni. Ne serviranno altri tre per le verifiche sperimentali, dopodiché...”
“Questo spiega le rughe e la calvizie, professor Angelo Modena. Deve aver lavorato molto nei prossimi dieci anni”.
L'interlocutore sospirò. “Mi dispiace. Mi rendo conto di essere un'immagine perturbante per lei. Ne ho discusso a lungo coi miei collaboratori. Abbiamo vagliato diversi scenari, ma alla fine abbiamo convenuto che nulla sarebbe stato più convincente di vedere una copia invecchiata di sé stesso...
“Sulla mia poltrona, come il cattivo demone di Stavroghin. Potevo avere un infarto! E voi sareste morto con me”.
“Questo non sarebbe stato possibile. E infatti non è successo, come vede. Abbiamo un cuore di ferro, io e voi. E possiamo concederci un dito di cognac, la bottiglia che nascondete dietro all'attestato della Corporazione Futurista Israelita”.

Vi ho fregati anche quest'anno, per sapere come va a finire dovete scaricare il libro. Buona lettura!

martedì 24 settembre 2013

In diretta su Fahrenheit alle 15.

Ciao, anche stavolta non dovrebbe essere uno scherzo: tra due ore, alle 15.00, dovrei partecipare a una specie di dibattito su Fahrenheit (Radio 3) a proposito delle dichiarazioni della ministra Carrozza sull'insegnamento della Storia contemporanea nelle scuole.

...e adesso vado a leggere cosa ha dichiarato la ministra Carrozza sull'insegnamento della Storia contemporanea nelle scuole.

(Quando sarà disponibile il podcast lo lincherò qui sotto, non temete).

Update: ecco la puntata (ci vuole Real Player)

lunedì 23 settembre 2013

Non togliete gli spot a Rai YoYo

Cara Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, forse a tutt'oggi non hai ancora finito di esaminare la bozza del contratto di servizio tra ministero dello Sviluppo Economico e tv pubblica per il triennio 2013-2015. Tra le varie proposte, molto interessanti, c'è quella di eliminare le interruzioni pubblicitarie durante le trasmissioni per bambini di età prescolare. Il che significa che uno dei canali rai digitale di maggior successo, Rai YoYo, tra qualche mese potrebbe andare in onda senza più pubblicità.

Cara Commissione parlamentare, benché il tuo parere non sia vincolante, ti chiedo di pensarci seriamente, e te lo chiedo da genitore di prole in età pre-scolare: sulla carta trasformare Rai YoYo nell'unico canale senza pubblicità di tutto l'etere può sembrare una cosa buona e giusta - e pazienza per quei dieci milioni d'euro all'anno che la Rai perderebbe, bruscolini. La pubblicità è fastidiosa, sobilla appetiti e capricci; e poi i bambini a quell'età sono autentiche spugne, memorizzano gli slogan e li sputano fuori al parco mentre litigano per questioni di priorità intorno all'altalena. E tuttavia sento di interpretare un sentimento diffuso quando ti imploro di non togliere la pubblicità a Rai YoYo. Non è molto evasiva; ci offre un diversivo, un'occasione per accompagnare la creatura al vasino (e magari per cambiare canale in modo non troppo violento). Ma soprattutto è praticamente l'unica cosa che rende Rai YoYo diversa da un dvd di Peppa Pig in rotazione da due anni. Almeno nella pubblicità i prodotti ogni tanto cambiano.

Le puntate di Peppa invece no, sono le stesse tutti i giorni. Da anni. A dire il vero l'estate era iniziata con un grande annuncio: sta arrivando l'ultima serie di Peppa! Sì, quella che su internet chiunque è in grado di scaricare in inglese, a settembre sarà in italiano su Rai YoYo! L'attesa era grande, soprattutto tra i genitori che al sessantesimo passaggio delle stesse puntate si esprimono ormai per citazioni di Peppa Pig. Basta frequentare un po' il parco per rendersene conto... (continua sull'Unita.it, H1t#198).

Basta frequentare un po’ il parco per rendersene conto: non saltate nelle pozzanghere di fango. Non è affatto divertente. Gr, gr, dinosauro. E via dicendo. Ma è la stessa cosa nella sala d’aspetto del pediatra, nel parcheggio dell’asilo, e in tanti altri spazi che i dialoghi di Peppa Pig stanno infestando come spettri. Un enorme esperimento sociale, questo sta diventando Peppa Pig in Italia. Al di là dei pregi del cartone, che è simpatico e ricco di humour, il fatto che Rai YoYo decida scientemente di non mandare in onda altro per ore intere avrà forse ripercussioni su un’intera generazione. Ah, due settimane fa la serie nuova è uscita davvero. Purtroppo siamo anche stati contestualmente avvisati che da lì in poi Peppa avrebbe occupato la fascia serale con una striscia di UN’ORA E TRENTACINQUE MINUTI. Considerate che gli episodi di Peppa ne durano cinque. Che una serie consta di cinquanta episodi. E insomma, due giorni dopo anche la terza serie era già alle repliche, e stiamo già cominciando a impararla a memoria. Per fortuna che ogni tanto c’è un spot di merendine.
Ma questa non è l’unica grande novità di Rai YoYo per la stagione 2013/14. L’altra è… Peppa Pig in inglese, a metà mattina, subito dopo le puntate di Peppa Pig in italiano. Non male come idea, e a questo punto mi sento di avanzare altre proposte per allungare il brodo in modo educativo. Perché non Peppa Pig in inglese ma coi sottotitoli in italiano? Seguita dalla versione italiana ma coi sottotitoli in inglese? Peppa Pig muta coi sottotitoli in italiano e poi in inglese? I sottotitoli senza Peppa, per stimolare la memoria visiva del bambino? E poi Peppa in francese, ça va sans dire, e in tedesco, ma ricordiamoci delle minoranze: Peppa in arabo, cinese, urdu, con e senza i sottotitoli, se ne potrebbero imparare di cose con Peppa Pig. Tanto più che se la Rai toglierà gli spot, avanzerà un sacco di spazio per introdurre sempre nuove versioni degli stessi episodi di Peppa Pig.
Oppure, cara commissione di Vigilanza, si potrebbe continuare ad accettare inserzioni dei gormiti e dei parchi acquatici e destinare quei dieci milioni di euro all’acquisto di qualche nuova serie per bambini. Qualcosa che prima o poi possa prendere il posto della maialina, perché il giorno in cui i cinquenni si stancheranno della milionesima replica non è forse lontano, e a quel punto l’esodo su Boing o Cartoonito o qualche altro succedaneo sarà inevitabile: e quel giorno farà ben poca differenza il fatto che quei canali siano farciti di pubblicità e YoYo no.
Un’altra volta magari sarebbe interessante discutere più a lungo del fenomeno Peppa Pig in Italia; uno dei rari casi in cui la Rai ha azzeccato l’acquisto di un prodotto, e invece di valorizzarlo ha deciso di buttarlo via programmandolo in questo modo massiccio, eventualmente chiudendo anche la porta agli inserzionisti. Ma si è fatto tardi, e qualcuno sta gridando che vuole il telecomando. Cara commissione, da un genitore un’ultima, semplice parola: pietà http://leonardo.blogspot.com

L'amore non basta (a scuola)

Settembre, andiamo, è ora di scrivere vibranti corsivi a proposito della scuola italiana, argomento di cui siamo tutti esperti - dopo aver scaldato panche per 13 anni è il minimo - del resto se guardi bene in piccolo sotto il diploma di maturità c'è scritto SI AUTORIZZA IL LATORE A SCRIVERE VIBRANTI CORSIVI A PROPOSITO DELLA SCUOLA ITALIANA, DENUNCIANDO L'AGGRAVARSI DI X E COMPIANGENDO IL TRAMONTO DI Y.

Del resto finché c'è gente che questa roba la legge, e la segnala, la condivide, la mette sulla bacheca, certe volte la ritaglia pure e la appiccica sulla bacheca non digitale della sala insegnanti non virtuale... Sì, l'ho fatto anch'io. Ma come si fa a riconoscere quale vibrante editoriale vale la pena e quale è del tutto dimenticabile e ti espone allo scherno di chi magari a scuola ci lavora sul serio? Credo di poter aiutare il lettore indeciso con una Guida a riconoscere la fuffa nei vibranti editoriali di denuncia della situazione scolastica italiana. 

1. Entusiasmo a strafottere.
Dare un'occhiata a quante volte compaiono parole chiave come "passione" o "entusiasmo" o similari. Se superano la media di una ogni mille battute, siamo in presenza di fuffa.

Un esempio: "Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita".

Capite, non è mica solo amoroso il trasporto, è proprio erotico. Strano, perché sono sinonimi. Comunque questo trasporto dovrebbe essere un antidoto. A cosa? Non lo dice. Allo smarrirsi nella vita. Ti senti smarrito? Prova il trasporto erotico! No, non è una linea di autobus con le lapdancer a bordo, è quella cosa che ti viene quando spieghi Ungaretti o le leggi della termodinamica. Non ti senti trasportato? È colpa della scuola italiana che fa schifo. Per colpa di chi?

2. In che anno siamo? Di solito l'opinionista ha in mente un colpevole, per quanto vago. Controlla le sue citazioni: a volte sono vecchie, sfocate come le fotocopie delle fotocopie delle fotocopie: tana fuffa.

Un esempio: "Sempre più si sta imponendo una scuola che il "sogno" di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre "i" (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione". 

Quel ministro "recente" è Letizia Moratti, le tre "i" vennero lanciate mi pare nel 2001 come slogan di una riforma (la Moratti, appunto) che in pratica non entrò mai in vigore, e fu sconfessata persino dal successivo ministro di centrodestra, Maria Stella Gelmini. Sono passati 12 anni, e "Informatica" non vuol più dire niente - almeno nelle scuole dell'obbligo dovrebbe ormai esser chiaro che non si fa "informatica", al massimo si usano un po' i supporti informatici (tablet, pc, lavagne interattive, registri digitali, internet), ma certo non per programmarli. L'Inglese non è aumentato, l'Impresa ha ben altri problemi, insomma le "tre i" esistono soltanto nel repertorio degli slogan, ed è lì che vanno a pescarli ogni tanto gli opinionisti. Che cosa nel frattempo stia effettivamente succedendo nelle scuole italiane non è che c'entri molto.

3. Maledetti pedagoghi d'oggigiorno.  Di solito l'opinionista se la prende con 'le teorie pedagogiche in voga', senza però dare l'impressione di avere un'idea precisa di cosa queste teorie dicano.

Un esempio: "Il nostro tempo non concepisce più l'allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto. L'apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo l'ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria". 

Ma dove, ma quando, ma chi avrebbe concepito l'allievo come un "computer vuoto", quando tutta la didattica sviluppata, discussa, e a volte anche imposta nelle scuole italiane negli ultimi 15 anni non fa che insistere sul concetto di "competenze", spesso (non sempre) contrapposto a quello di "nozioni"? Al massimo gli insegnanti - per continuare la metafora del computer - dovrebbero preoccuparsi di installare e manutenere un buon sistema operativo: il metodo di studio, ecc.

4. Ned Ludd vive! Molto spesso l'opinionista ha paura della tecnologia. Cioè: non di tutta la tecnologia. Soltanto di quella che non c'era ai tempi in cui scaldava la panca: quei giorni beati che (lo vedremo) sono quasi sempre l'età dell'oro della scuola italiana. Se ha fatto in tempo a vedere in fondo al corridoio una fotocopiatrice, per lui questa tecnologia sarà ok - in caso contrario starà già tuonando da vent'anni contro la scuola delle fotocopiatrici, che ha trasformato gli studenti italiani in polverosi fotocopiatori senz'anima, pallidi e indifferenti ai contenuti che memorizzano, e puzzolenti di toner. Ma più spesso se la prende coi computer.

Un esempio: "All'illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell'apprendimento, accanimento valutativo,"...

Anche quell'"accanimento valutativo" è notevole: l'odiosa novità di dover mettere i voti in pagella. Però la "morte dei libri" mi sembra più interessante. Dal prossimo anno, se il governo tiene, non sarà più obbligatorio farli acquistare. Gli insegnanti che pensano di poter tirare avanti a libri usati o fotocopie o internet saranno autorizzati a provarci. È senz'altro un duro colpo per l'editoria scolastica - che comunque ha avuto a disposizione di molti anni di vacche grasse per cauzionarsi. In ogni caso parlare di "morte del libro" può sembrare prematuro, anche considerando che quest'anno una famiglia in media ha speso 300€ per alunno per comprare questi poveri libri moribondi. Alcuni comunque si possono già fruire attraverso supporti informatici, e questo all'opinionista risulta insopportabile. Cioè se un bel giorno invece di entrare in classe e dire: aprite a pagina 15 che c'è A Zacinto di Ugo Foscolo, osassi accendere una lavagna digitale e proiettare A Zacinto di Foscolo, e poi dessi il link ai ragazzi chiedendo di parafrasare e memorizzare A Zacinto, il tutto senza passare per un libro, ecco, questo equivarrebbe alla morte delle Poesie di Foscolo.

5. Oltre il principio di non contraddizione. A volte in effetti l'opinionista si contraddice.
Vedi sopra. Prima se la prendeva con la concezione degli studenti come "computer vuoti", l'insegnamento come "riempimento del cervello di file seguendo l'ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria". Poi l'"esaltazione delle metodologie dell'apprendimento", che agli occhi di molti umili operatori del settore risulta l'esatto opposto: non si tratta di ficcare megabyte di nozioni in un cervello vuoto, ma di installare un metodo che gli consenta di selezionare più tardi con comodo le nozioni da solo. Ma per l'opinionista non va bene neanche questo: non va bene nulla che non coincida col suo ideale pedagogico che, molto spesso, si incarna in una persona: un suo insegnante.

6. Per amore di Giulia. Spesso l'opinionista è ancora innamorato di una sua vecchia prof.
...ma come molte forme di amore, pardon, di trasporto erotico, esso non è che una proiezione di un sentimento che proviamo per noi stessi: siamo individui perfetti. Ne consegue che non possiamo che aver ricevuto la migliore educazione del mondo, in istituti che tutto il mondo ci invidierebbe, da insegnanti che avevano capito tutto di pedagogia. Quindi la nostra apparentemente limitata esperienza scolastica è l'unica vera prova che possiamo portare a suffragio della nostra tesi: io so che tipo di scuola è la migliore: è una scuola fatta di entusiasmo e di passione, cioè quella che ho fatto io provando tanto entusiasmo e passione, grazie a una prof (o a un prof) che mi ha fatto tantissimo entusiasmare e appassionare. Va bene. Valla a trovare. Mandale i fiori. Anche una telefonata. Le farai senz'altro piacere. Ma perché devi usare le pagine di un quotidiano, e far finta che dietro a tanto entusiasmo e passione ci sia un'idea generale di come dev'essere fatta la scuola?

Vuoi l'esempio?
"Sull'importanza vitale dell'ora di lezione mi si permetta un ricordo personale". 

Ecco, appunto, no. Bisognerebbe fare divieto a chi a scuola non ci lavora di parlarne permettendosi "ricordi personali", come se avessero una qualche rilevanza statistica. Domani scrivo a Repubblica che i treni da Verona a Modena non dovrebbero fermarsi a Suzzara, che è una fermata inutile, non ci scende né sale nessuno. Ho una qualche competenza per affermarlo? Sono un esperto di traffico ferroviario? Lavoro sui treni? Li prendo almeno tutti i giorni? No, ma... "permettetemi un ricordo personale": l'anno scorso avevo fretta e 'sto cazzo di treno non ripartiva mai, sulla stazione desolata gli avvoltoi proiettavano la loro ombra.

"Da ragazzo frequentavo alla fine degli anni Settanta le aule disadorne di un Istituto agrario specializzato in coltivazione di serre calde situato nell'estrema periferia di Milano. Alcuni dei miei compagni finirono sperduti in India, altri costeggiarono pericolosamente il terrorismo, altri ancora sono stati ammazzati dalla droga. Eravamo in quell'Istituto un manipolo di cause perse. Cosa mi salvò se non un'ora di lezione, se non una giovane professoressa di lettere di nome Giulia [********] che entrò in aula stretta in un tailleur grigio rigorosissimo parlandoci di poeti con una passione a noi sconosciuta? Cosa mi salvò se non un'ora di lezione? Se non quella passione sconosciuta che Giulia sapeva incarnare?" 

Va bene, ti ha salvato. È un modo di vederla. Un altro modo è: ha salvato soltanto te. Gli altri, quelli che sono finiti in India o in Autonomia Operaia, non è riuscita a salvarli. Forse con un approccio diverso avrebbe salvato anche loro. Chi lo sa. Forse loro avevano più bisogno di metodo che di amore; forse un altro insegnante con più metodo avrebbe potuto evitare che un paio di tuoi compagni si dedicassero all'eroina, ma magari alle sue lezioni ti saresti annoiato e ti saresti drogato tu. Impossibile saperlo.

"Questa storia non è solo la mia ma è la storia di molti. Cosa ci salvò se non quel desiderio di sapere che si propagava dalla forza della parola dell'insegnante capace di scuoterci dal sonno? Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare? Non è forse l'ora di lezione che può rimettere in movimento le vite scuotendole dall'inerzia di un sapere proposto solo come un oggetto morto? Auguro a tutti gli studenti di ordine e grado di incontrare la loro Giulia".

Cari studenti, se incontrate una Giulia, diffidate. Ve lo dice uno che, sotto la coltre di luoghi comuni, il senso dell'articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati l'ha capito benissimo: l'insegnamento come transfert erotico, l'idea che io sia dietro la cattedra per farvi innamorare, non già di me ma di Foscolo o della Guerra dei Trent'anni o dell'economia del Sudest asiatico. Non dico di essere bravo come la prof Giulia; dico che istintivamente ho sempre cercato di essere quel prof lì. Ma non perché sia convinto che si tratti del miglior prof. possibile: soltanto perché è l'unico alla mia portata. Non sono bravo con le metodologie, non riesco a insegnare un metodo di studio perché non ho mai capito io per primo che metodo di studio avessi: dipende molto dal fatto che alla vostra età non studiavo, mi innamoravo e basta. Così a volte spero che anche a voi basti questo: innamorarsi del commercio triangolare o della sintassi della frase semplice. Ma poi vi interrogo e me ne accorgo benissimo, che innamorarsi davvero non basta. Magari uno su mille ce la fa, e poi scrive sul giornale che la scuola dovrebbe funzionare così. La storia del resto la scrivono sempre i sopravvissuti, in fondo è giusto. Quel che non è giusto è che pretendono di metterci il lieto fine.

venerdì 20 settembre 2013

Lauda/Fonzie, un film di Ron Howard

Rush (Ron Howard, 2013)

Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l'effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva... "Lascia perdere", rispose la Sregolatezza, "quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia". Sai che perdita, replicò l'amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.

Questo non è il film, vi rendete conto.
Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po' ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C'è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c'è. La Lotus nera col bordino dorato c'è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell'aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale ("Fisichella", "Schumacher") smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.

Un latinismo assurdo e necessario, un'invocazione, un ringraziamento. Niki Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un'ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri.  Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota (continua su +eventi!)

Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili.

Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.

È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Niki Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Niki Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.

Otto euro.

E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.

Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.

Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.

giovedì 19 settembre 2013

L'opzione San Gennaro

19 settembre - San Gennaro (272-305), patrono di Napoli. 

Cappella del Tesoro di San Gennaro, nel Duomo di Napoli.

Da quel che ho capito andrà così: stamattina alle nove meno un quarto il cardinale arcivescovo, Sua Eminenza Reverendissima Crescenzio Sepe, entrerà nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, una chiesa-nella-chiesa (fa parte del duomo di Napoli, ma non appartiene alla Curia, bensì alla Città. È complicato). Non si soffermerà nemmeno per un istante sugli ori e i preziosi il cui valore teorico complessivo supererebbe, secondo gli esperti e i gemmologi che hanno provato a stimarlo, quello dei gioielli della Corona d'Inghilterra. Il cardinale non li degnerà di uno sguardo, e non per modestia ma perché non si trovano lì, bensì dispersi tra un caveau e i tre piani del Museo del Tesoro attiguo. Senza distrarsi, girerà un paio di chiavi nell'antica cassaforte che custodisce ben altro tesoro: due modeste ampolline. Una è praticamente vuota: il contenuto è a Madrid, ce lo portò un re di Napoli (Carlo III) quando nel 1579 fu promosso re di Spagna. L'altra è quella che avete visto nelle foto, rossa di una sostanza che forse è sangue rappreso e forse no: e che tre volte all'anno, quando il Cardinale la solleva, la maneggia, la mostra ai credenti, a volte ritorna allo stato liquido; e a volte no. È un miracolo? No, per la Chiesa è soltanto un prodigio. Non occorre credervi; d'altro canto più di uno studioso negli ultimi anni si è adoperato a dimostrare che il fenomeno è spiegabile scientificamente senza ricorrere al soprannaturale. Anche il fatto che a volte si liquefaccia e a volte no potrebbe dipendere da fattori contingenti (temperatura, pressione, sollecitazioni da parte di chi regge l'ampolla). Speriamo in ogni caso che stamattina ce la faccia, perché quando resta secca non è di buon auspicio. Su internet poi si trova di tutto, ma una bella tabella con una serie storica di liquefazioni, e magari una correlazione con avvenimenti storici più o meno fortunati (guerre, pestilenze, eruzioni, scudetti del Napoli) non l'ho trovata.

Foto di Paola Magni http://www.flickr.com/photos/42107329@N00/3943705691

Comunque, una volta esposto, il Sangue ha otto giorni a disposizione per liquefarsi; o meglio, i fedeli hanno una ottava per riuscire a commuovere il Santo con le loro preghiere. Se entro il 27 non è ancora successo niente, amen, San Gennaro non è mica obbligato. Certo sarebbe una cattiva notizia, e chi ha bisogno di cattive notizie di questi tempi? Napoli no di sicuro.

Deve già mandar giù il boccone del vulcanologo giapponese di fama mondiale che a un recente convegno ci ha fatto sapere che il Vesuvio potrebbe eruttare. Già che c'era poteva anche confidarci che sulla pizza ci vuole la mozzarella – ché non lo sappiamo, che il Vesuvio può eruttare da un momento all'altro? Ce lo deve venire a dire un giapponese? A noi che la vulcanologia l'abbiamo praticamente inventata, quando loro ancora stavano all'età del bronzo e noi già pubblicavamo i primi reportage delle eruzioni? Dico a te professor Nakada Setsuya, ti dice niente Plinio il Giovane? Ma poi davvero, è quel che si dice un segreto di Pulcinella. Persino Bertolaso, quando ancora dirigeva la Protezione Civile, ah, ve lo ricordate Bertolaso? Non esattamente un allarmista, anzi se c'era da convincere un aquilano a restare in casa durante uno sciame sismico, non si risparmiava. Ecco, proprio quel Bertolaso: forse che non lo sapeva che il Vesuvio potrebbe eruttare? Aveva anche proposto di allargare la zona rossa al Comune di Napoli. La zona rossa è un insieme di comuni molto densamente popolati che, laddove il vulcano cominciasse a brontolare, dovrebbero evacuare. Recentemente è stata ampliata: in questo momento vi abitano all'incirca 750.000 abitanti, più gli abusivi, meno gli emigrati. La quinta metropoli d'Italia, un po' più piccola di Torino, molto più grande di Genova. Per Bertolaso, il minimizzatore Bertolaso, la zona andava ampliata un po' di più, e guardando la cartina è difficile dargli torto: per quale motivo i lapilli o le nubi ardenti dovrebbero fermarsi ai limiti del comune di Napoli? C'è il problema che in quel comune risiede un altro milioncino di abitanti. Bertolaso non lo nascondeva: "Il Vesuvio è il più grande problema di Protezione Civile che c'è in Italia". Bisognava valutare se "predisporre piani di evacuazione per almeno un milione di cittadini, tra cui molti di Napoli". (Giornale della protezione civile, aprile 2010). Evacuare un milione di abitanti. Dove?

Eh.
1872.

In altre regioni d'Italia, dice il Piano. E va bene, in fondo che sarà mai ospitare più o meno un milione di sfollati della zona vesuviana per qualche giorno o mese. Il problema è un po' più a monte. In altre regioni d'Italia, questi vesuviani, come ci arrivano? Ci sono abbastanza strade per portarli in sicurezza in tempi brevi? Ci saranno, professor Nakada, noi non è mica che ci facciamo cogliere impreparati; quattro giorni fa siamo riusciti a scucire 54 milioni di fondi europei per la Statale 268, quella che corre intorno alle pendici del vulcano. I lavori stanno per iniziare – quando saranno ultimati la statale si riverserà nella Milano-Napoli con un bello svincolo. Nel frattempo, se San Gennaro ci volesse dare una mano... Esercitazioni? Potremmo farne un po' di più, questo è vero, e tuttavia con le esercitazioni bisogna andarci piano, quella volta che fecero l'antiterrorismo si scontrarono due ambulanze in piazza Garibaldi, cinque feriti. Ma insomma si fa quel che si può, e come si è affrettato a precisare l'istituto nazionale di vulcanologia, il Vesuvio è costantemente monitorato. È il vulcano più studiato del mondo.

SCOTTA! SCOTTA!
Lo abbiamo sempre avuto tra i piedi - custodisce le orme di umani che fuggivano da un'eruzione liquida di tremila anni fa. Abbiamo i calchi dei pompeiani, bloccati nel fango nella posa in cui morirono, le mani al collo, intossicati e forse ustionati da una nube ardente e velenosa. Però sappiamo anche che può riposare per secoli interi. Tra 1000 e 1600 non si registrano eruzioni sicure. Nello stesso periodo anche la venerazione per Gennaro rimane abbastanza in sordina. Sicuramente i napoletani lo invocano sin dal quinto secolo, benché non fosse stato vescovo di Napoli ma di Benevento, e fosse morto a Pozzuoli ovviamente sotto Diocleziano, decapitato dai persecutori dopo una serie di tentativi infruttuosi (i leoni non lo volevano mangiare, la fornace non riusciva a cuocerlo, ecc). La testa era poi finita nelle catacombe di Capodimonte e i napoletani vi si erano affezionati: non abbastanza però da costruirgli una chiesa, mentre a una servetta come Santa Restituta era già dedicata una cattedrale. Non si preoccuparono nemmeno di recuperare il resto del corpo, che giacque per secoli dimenticato nell'abbazia di Montevergine, surclassato da reliquie più popolari. E le ampolline? Per quanto ne sappiamo sono sempre state a Napoli, ma non ne abbiamo notizia fino al 1389, in una cronaca dove per la prima volta si descrive la prodigiosa liquefazione, durante le celebrazioni ferragostane dell'Assunta. Lo stupore degli spettatori ci fa ipotizzare che stessero assistendo al fenomeno per la prima volta; d'altro canto questo tipo di celebrazioni attirano sempre gente che si lascia stupire facilmente, e quindi insomma potrebbe anche trattarsi di una tradizione già consolidata. Però una cronaca coeva non ne parla (nemmeno quando si sofferma sui miracoli attribuiti a Gennaro), e in generale nessuno ritiene necessario farne menzione fino alla seconda metà del Cinquecento. Gennaro diventa protagonista della devozione napoletana nello sfortunatissimo 1526, quando tra un assedio e una pestilenza i napoletani fanno voto di dedicargli almeno una cappella del nuovo duomo. La pestilenza si placa, ma per assolvere il voto ci sarebbe voluto più di un secolo, e soprattutto la prima grande eruzione esplosiva da secoli, quella del 1631. Di lì in poi i lavori procedettero più spediti e la cappella fu inaugurata nel giro di 15 anni (continua sul Post...)

Il Seicento è anche il secolo in cui la devozione a Gennaro assume in letteratura le forme che mantiene ancora oggi: la cerimonia tre volte all’anno, l’ostensione delle ampolline, la liquefazione interpretata come feedback positivo del Santo alla preghiere dei presenti, l’accumulazione di quell’incredibile tesoro che i napoletani vollero sempre tenere separato dal patrimonio della Curia, che pure possedeva il resto della cattedrale: il cancello bronzeo di Cosimo Fanzago è una specie di Checkpoint Charlie, da una parte le proprietà della diocesi, dall’altra quelle della Città. Gennaro sembra apprezzare, dando una mano a mantenere l’attività sismico-vulcanica entro limiti accettabili: nessuna delle eruzioni dell’era moderna è paragonabile per intensità a quelle conosciute in età preistorica, o quella descritta da Plinio. Il vulcano sembra addomesticato, il che non significa che ci si possa fidare: continua a sbuffare, incendiare e occasionalmente uccidere, ma ha la gentilezza di farlo a intervalli regolari, con un ciclo più o meno di quarant’anni. Il che permetteva a ogni generazione di prepararsi, in quella che era la città più popolosa della penisola (Roma non l’avrebbe raggiunta fino a tutto il Novecento; se poi includiamo anche l’hinterland vesuviano, la gara non è affatto chiusa). E la nostra, di generazione? Quand’è che il Vesuvio ha sbuffato o pisciato lava ultimamente, ve lo ricordate?

No.

Non eravate vivi. Forse nemmeno le vostre mamme. Abbiamo le foto, ma in bianco e nero. Un anno già tanto difficile di suo: 1944.


E poi? Cosa sta succedendo?
1944 A COLORI!


Si è spento? Un vulcano con una storia millenaria, proprio adesso? Difficile – e comunque abbiamo fatto gli scavi, e sappiamo che sotto c’è un mare di magma che arriva fin sotto al mare vero. Quindi, come il professor Nakada ha avuto la bontà di ricordarci, il Vesuvio prima o poi erutterà. Se San Gennaro ci dà un’occhiata, potrebbe risolversi tutto con una sboffata di fumo e la solita colata lavica stile Etna. Qualche quartiere edificato praticamente sotto il cono finirebbe distrutto, Sgarbi ne sarebbe deliziato, ma tutto sommato questo è uno scenario persino auspicabile.

Un’altra possibilità è che la terra cominci a tremare e vada avanti per mesi, come nel 1631. A quel punto avremmo un po’ di tempo per evacuare senza che diventi una Caporetto con i lapilli al posto degli austriaci. E tuttavia un milione di sfollati è una cosa che non abbiamo mai affrontato nella nostra storia: c’è capitato di andare in confusione per molto di meno, anche di recente. Certo, a quel punto si potrà contare sulla solidarietà internazionale, andiamo, è pur sempre la capitale della pizza. A chi non piace la pizza? Anche agli inglesi (gli inglesi hanno votato contro gli aiuti UE ai terremotati emiliani).

La terza possibilità è che le cose vadano veramente male: un’eruzione esplosiva senza molto preavviso. Vie di fuga bloccate da milioni di fuggitivi in preda al panico, eccetera eccetera. Il professor Nakada voleva ricordarci che anche questa ipotesi non si può scartare a priori. Però ha torto se pensa davvero che non abbiamo un piano. Lo abbiamo. Ne abbiamo avuti tanti. Uno si chiamava VesuVia: più esplicito di così c’era solo “Jatavénne”. Un programma di finanziamento alle famiglie che sceglievano di trasferirsi fuori dalla zona rossa. Centinaia di famiglie si sono effettivamente trasferite un po’ più in là, spesso in un’area che successivamente è stata inglobata nella zona rossa. E la vecchia casa? l’hanno affittata. Risultato: aumento della popolazione evacuabile.

Se chiedete a me, un piano ce l’avrei. Si prende l’oro di San Gennaro, non quello nel museo per carità. Si può salvare anche un po’ di bigiotteria da mettere indosso al busto del Santo in processione. Ma i preziosi nel caveau – a che serve tenere per secoli dei gioielli in un caveau? Per quale motivo i napoletani di ogni ceto li hanno ammucchiati lì per anni, se non per un’emergenza come questa? Si prende il tutto, si vende il vendibile, si cartolarizza onde evitare un crollo dei prezzi, e col ricavato si fanno interventi straordinari, per esempio un enorme film catastrofista da subappaltare anche a De Laurentis, se ci avesse le palle, con tutti gli attori più famosi di Napoli d’Italia e del mondo (te lo immagini Siani e Brad Pitt che fuggono assieme dribblando i lapilli). Chi non se lo vedrebbe, un film così. Potremmo persino recuperare l’investimento: e sarebbero altri soldi per la statale e per gli svincoli e per i rifugi a prova di nubi tossiche. Ma soprattutto, dopo aver visto un film così, non avremmo più alibi. Sapremmo che viviamo alla pendici del più grande disastro possibile. Magari sarebbe più facile cambiare abitudini, magari anche cambiare residenza, svolgere esercitazioni, eccetera eccetera. E tutto questo anche grazie a San Gennaro. È il mio piano. Purtroppo, ce n’è uno più semplice ed economico: aspettare e vedere come va.

È tardi, non mi viene una battuta di dialogo tra Siani e Pitt, se volete provare nei commenti…

Non è affatto un piano miope, anzi. Non è basato, come potrebbe sembrare, sull’ignoranza o sull’imprudenza, ma su un semplice calcolo dei costi e dei benefici. Prevenire i disastri naturali costa troppo. Qualcuno potrebbe obiettare che ricostruire dopo un disastro costa ancora di più, ma non è detto che sia così. Mettiamoci dal punto di vista di un politico. Per lui la prevenzione significa tasse: tasse significa perdere le elezioni. Quindi la prevenzione ha un costo inaccettabile. Viceversa il disastro significa solidarietà. Significa gesti incredibili, che solo un’emergenza può suggerire o giustificare. Se io oggi 19 settembre propongo di investire l’oro di San Gennaro in opere di prevenzione, voi mi pigliate per matto. Ma se tra qualche mese esplode tutto sul serio, persino una proposta così diventa all’improvviso ragionevole: cos’è una collezione di gioie in un caveau rispetto al pianto della vedova, ai gemiti dell’orfano? Purtroppo, affinché la solidarietà del mondo si sblocchi, occorre che la vedova diventi vedova, e l’orfano orfano. Meglio se a portata di videocamera. Lasciare che il Vesuvio erutti o esploda può sembrarvi una pazzia, ma a un certo livello di responsabilità diventa un’opzione più praticabile, più conveniente di altre. Nel frattempo continua l’operazione di addomesticamento simbolico, anche attraverso liturgie innovative, per esempio stiamo proponendo il Vesuvio come Patrimonio dell’Umanità. Una bella contraddizione in termini, oltre che una incredibile dichiarazione di immodestia: quella montagna eruttava già venticinquemila anni fa, e continuerà anche quando ci saremo estinti – a meno che non ci evolviamo in una specie un po’ meno fatalista.

La liquefazione del sangue di San Gennaro, per quanto prodigiosa, non è un evento così eccezionale. Soltanto a Napoli sono custodite ampolline di altri quattro santi (Giovanni Battista, Patrizia, Stefano Protomartire, Luigi Gonzaga), tutte in grado di sciogliersi se invocate in un certo modo. In giro per l’Italia ce ne sono tante altre, a un certo punto probabilmente era diventato un trucco artigianale e prevedibile quanto il coniglio nel cappello. Tra le varie teorie scientifiche, la più suggestiva è quella secondo cui si tratterebbe in tutti i casi di sangue autentico, anche se non necessariamente di questo o quel santo. Quello che accade al sangue delle ampolline di San Gennaro succederebbe al sangue di chiunque di noi, se avessimo l’accortezza di custodirne magari per secoli un piccolo quantitativo in un ampolla, e poi agitarlo in un certo modo. Siamo tutti San Gennaro, insomma. Possiamo scioglierci e combinare qualcosa, o seccarci e aspettare che qualcosa ci succeda comunque. Non dipende solo da noi, ovviamente: la pressione, la temperatura, la farfalla in Brasile, le infinite variabili che possono farci esplodere o regalare alla nostra progenie una terra fertile e felice. Sarebbe molto immodesto attribuirsi tutte queste responsabilità. Ma almeno qualcuna.


martedì 17 settembre 2013

Fateci un fischio

Non credo di poter parlare a nome degli italiani, in fondo non ne frequento tantissimi. Tuttavia se mi volessi azzardare a riassumere in una frase il loro stato d'animo complessivo verso il 17 settembre 2013, credo che la frase sarebbe "Fateci un fischio".

Perché non è che certe questioni non c'interessino, anzi. Mi piacerebbe, sotto questo aspetto, poter rassicurare i politici che vanno in tv a dibattere, e i giornalisti che l'invitano, e che nessuno guarda più - non spaventatevi. Non è che non ci freghi più nulla della sorte del governo, o di quella di Berlusconi. O di Renzi che dice una cosa di Letta che dice una cosa di Renzi. Sono cose che ci appassionano ancora, però... fateci un fischio, ecco, non vi aspetterete mica che stiamo davanti al video impalati tutte le sere ad assistere al dibattito sul voto palese o sulla commissione. È una cosa senz'altro importante, che avrà ripercussioni sulle nostre vite: però nel frattempo dobbiamo viverle, abbiate pazienza, e fateci un fischio quando succede davvero qualcosa. Quando Berlusconi decade. O quando fissano la data del Congresso PD. O quando cade il governo. Nel frattempo non prendetela se cambiamo canale o se addirittura spegniamo e usciamo: non è niente di personale. Voi pretendete di avere qualcosa da dire tutte le sere, avete l'esigenza di sparare un titolo tutte le mattine, e forse a questo punto nemmeno vi accorgete che non sta succedendo niente, quasi niente, da una ventina di giorni: e che le vostre schermaglie in tv sono più noiose del raddrizzamento della Costa Concordia.

Ma davvero vi sorprende che tre talk show di politica non superino il 5% di share? Sul serio pensavate che mostrare la Santanchè tre volte alla settimana avrebbe funzionato? "Sarò forse malato, ma a me, il duello tra Marco Travaglio e Daniela Santanchè è piaciuto moltissimo: non riuscivo a staccarmi dal video", scrive Telese nella sua "apologia del talk show rissoso e inflazionato". Mi piacerebbe rassicurare anche lui: non è malato (continua sull'Unita.it, H1t#197).

Più probabilmente fa parte di un circuito mediatico molto ristretto, e molto autoreferenziale, che con le risse in tv ci campa, o ci vorrebbe campare. In mancanza di meglio, dal momento che i talk show politici non hanno tolto spazio ad altri programmi “più brutti”, come scrive ancora Telese: si sono fatti spazio nella seconda serata semplicemente perché costano poco, pochissimo. I politici sono una delle rare categorie che in tv ci viene gratis: butta via. Minima spesa massima resa: basta non raccontarsi che si sta facendo informazione, o addirittura una specie di servizio pubblico. Si sta semplicemente allungando il brodo, nella speranza che qualche telespettatore assonnato lo trovi comunque un po’ più saporoso di quello della concorrenza, e scelga di addormentarsi sul divano con la tua rissa in sottofondo.
Non è che la tv non aiuti a vincere o perdere le elezioni. Ma non è tramite i talk show, che storicamente hanno sempre funzionato da sfogatoi per un bacino di utenza che non è mai stato maggioritario. Si può loro riconoscere il (de)merito di avere lanciato sulla ribalta nazionale qualche personaggio, che quasi sempre però si è rivelato più bravo a discutere in tv che a combinare cose in parlamento o altrove (il classico esempio è la Polverini, da una poltrona di Ballarò alla Regione Lazio). L’inflazione di programmi del genere me ne ricorda una analoga a metà anni Novanta, quando Mediaset e TMC cominciarono a dar battaglia sul serio alla Rai in un terreno di gioco molto più ambito: il calcio parlato. Da un anno all’altro la seconda serata si popolò di processi e controprocessi, popolati da personaggi che non rifiutavano di incarnare le più trite opinioni da bar; le moviole della domenica furono rallentate per durare fino al martedì. L’irradiazione di tutte quelle ore di chiacchiere non creò in Italia un solo esperto di calcio in più: allo stesso modo, è difficile immaginare che tutti questi duelli verbali a base di Santanchè e/o Travaglio creino un qualche tipo di consapevolezza nello spettatore. Quel che c’è veramente da sapere ogni giorno si riduce a due o tre titoli accessibili da internet: tutto il resto è chiacchiera. Nessun sagace retroscenista da talk show seppe anticiparci la formazione del governo Letta; nessuno è riuscito mai a intercettare la confessione di almeno uno dei famosi 101 franchi tiratori pd che nel segreto dell’urna non votarono Prodi. I talk show non fanno che portare un po’ di bar in tv, per chi comprensibilmente è troppo stanco per uscire o non può permettersi la consumazione: dieci anni fa si parlava di sport, oggi di politica, non è che faccia tutta questa differenza. Poi ogni tanto succede qualcosa davvero: ecco, per favore, quando succederà fateci un fischio. http://leonardo.blogspot.com

Roberto, l'inquisitore buono

La sua capsula è custodita a Roma in Sant'Ignazio.
17 settembre - San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo

Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po' come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.

E tuttavia le cose non sono così semplici - le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l'abito a seconda della convenienza), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l'Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, "martello degli eretici", a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.

Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l'amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all'Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell'opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come "indiretto", e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all'orizzonte c'erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V - uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia - aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l'autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.

Bellarmino non c'è mai nei film dedicati ai inquisiti.
Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant'anni ed era recluso da sei. L'opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po' a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose: non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l'esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de' Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. Sappiamo molto di più sull'altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto cardinalizio da tanto tempo - avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all'austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d'Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. C'era poi in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l'equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell'elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l'elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo: fanno tutti così. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant'Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo (continua sul Post...)

venerdì 13 settembre 2013

La schiuma dei giorni difficili

Mood indigo - La schiuma dei giorni (L'Écume des jours, Michel Gondry, 2013).

Colin vive felice in un mondo assurdo, dove le scarpe abbaiano, il jazz ti allunga le gambe e l'esistenzialismo si assume in pasticche. In questo mondo decide di innamorarsi, cioè di crescere lavorare e soffrire. Colin è un'invenzione di Boris Vian, incredibile trombettista e scrittore che morì nemmeno a quarant'anni, in un cinema, mentre assisteva alla prima di un film tratto da un altro suo romanzo.

Sta terminando la stesura del quindicesimo volume dell'Enciclopedia della Nausea, o una cosa del genere.
Boris Vian ha vissuto poco e faticosamente; in quel poco ha scritto parecchio - tra cui una manciata di canzoni meravigliose - e non si esagera a definirlo un cardine della cultura francese del XX secolo: ha radici solidissime piantate in territori diversi, il surrealismo e lo swing, frequenta Sartre e Camus in quel breve ma cruciale periodo in cui l'esistenzialismo è un fenomeno di costume. Con lui arrivano a Parigi il bebop, la narrativa pulp e la fantascienza; senza di lui inoltre Gainsbourg non avrebbe mai pensato di scrivere canzoni a partire da sciocchi giochi di parole, e quindi insomma il pop francese sarebbe totalmente diverso da quel che è. Anche Gondry sarebbe diverso, forse non avrebbe mai girato l'Arte dei sogni. Insomma La schiuma dei giorni era un film che sulla carta aveva tutto per funzionare, e in effetti, a modo suo, funziona: e se vi sembra invece che qualcosa non vada, se vedete che qualcuno comincia a uscire dalla sala, e anche a voi vien voglia di farvi un giro e risparmiarvi il finale, vi invito a considerare l'ipotesi che il problema non sia Gondry. D'accordo, questo è il film in cui spalanca la sua valigia dei trucchi, mostrandocene il fondo; non è che siano pochi, ma dopo un po' sono sempre gli stessi: ancora art-attak a passo uno, ancora trovarobato vintage, ancora lana dove dovrebbe esserci carne. D'accordo, certe scene sembrano semplicemente non funzionare, soprattutto all'inizio si percepisce una concitazione che serve a distrarre lo spettatore quando il trucco non è troppo buono; la stanza che diventa sferica non sembra davvero sferica, il picnic tra pioggia e sole lascia perplessi, d'accordo, l'illusionista non era in giornata, però non è quello che vi fa sentire freddi. Ve lo ricordate il libro? Quand'è che l'avete, ehm, riletto? (continua su +eventi!)

Non è una domanda peregrina. Non mi ricordo più chi consigliava di leggerlo almeno tre volte nella vita: a vent’anni per innamorarsi, a quaranta per scoprirne il contenuto politico, a sessanta per capire la disperazione. Chiunque sia stato a darmi questo consiglio, vorrei ringraziarlo per avermi fatto sentire sessantenne a venti: per me La schiuma è sempre stato un libro disperato sulla malattia e la morte; non sono mai riuscito a trovarci né molta politica né molto amore. Quest’ultimo in particolare mi è sempre sembrato un pretesto: i personaggi di Vian sono automi caricati a molla che si innamorano perché decidono di innamorarsi, del primo automa che trovano a una festa; dopodiché i giochi sono fatti e la pista porta dritta dalla città danzante a un paludoso cimitero. Gondry non li rende più automatici di quanto non fossero già, anzi in certi casi riesce ad aggiungere brio dove Vian non aveva avuto voglia o tempo o necessità di mettercene. Se qualcosa è stato tradito, forse è quel cinismo che traspare sempre dietro le sue invenzioni stralunate: apro il libro a caso, trovo un colloquio di lavoro. È per pagare le cure a mia moglie, spiega Collin.

“Mi dispiace per lei. Quando le donne si ammalano, non sono più buone a nulla”.


Dove l’avete già vista? Un indizio che non vi piacerà: FABIO VOLO.

E non è uno scherzo. È la Schiuma dei giorni, un romanzo di automi che dicono troppo spesso la verità. Lo sceneggiatore ha fatto un lavoro egregio, ma se ha voluto perdere qualcosa, è stato precisamente questo stile tranchant che ci avrebbe reso ancora più freddi davanti allo schermo. E non ne avevamo bisogno. Non riusciamo a simpatizzare con Collin, non riusciamo a soffrire con Chloé, a dispetto dei mille trucchetti imprevedibili che Gondry snocciola senza entusiasmo, ci rendiamo conto che la storia è molto prevedibile e finirà male. E forse è esattamente quello che Vian voleva che provassimo: disagio e disperazione. Forse era prevista persino la curiosa simpatia che proviamo per i due personaggi secondari, meno perfetti e quindi più umani: Chick, l’amico di Collin che si droga di conferenze di Sartre, e Alise soprattutto, la splendida Aïssa Maïga, che deve rappresentare il rimpianto per tutte le vite che non abbiamo vissuto, tutte le avventure a cui ci siamo presentati in ritardo. “Se stavolta arriviamo primi noi cambieremo la storia! Diventerà il nostro romanzo”. Ma la storia è già stata scritta, è già diventata un feticcio culturale (dopo la morte dell’autore, come al solito), e i personaggi non possono farci più niente.

Anche Gondry non poteva farci niente. Di suo ci ha messo una curiosa cornice – una catena di montaggio di dattilografi – che ci autorizza ad accostarlo all’altra importante trasposizione cinematografica di quest’anno, Il grande Gatsby di Luhrmann. Due testi brevi e ingombranti, due registi che non si lasciano intimidire e si prendono un sacco di rischi, ma continuando a rivendicare una fedeltà al testo quasi maniacale e molto artificiale. Entrambi cominciano in quinta e dopo un’ora sembrano senza benzina: cosa c’è che non va? Forse quello che non va siamo noi spettatori cosiddetti colti, con pretese precise, idee molto chiare su cosa vorremmo vedere, salvo poi annoiarci perché dopo i fuochi artificiali il film va esattamente dov’è previsto che vada. Ed entrambi i registi aggiungono alla storia originale soltanto una cornice che esibisce la composizione del romanzo (i flash forward farlocchi in cui il protagonista “diventa” Scott Fitzgerald e si mette a scrivere Il grande Gatsby), puntando il dito su quella cosa che non so se chiamino ancora “letterarietà”… ma in parole povere è come se Gondry e Luhrmann sentissero la necessità di dirci ehi, non prendetevela con noi, è un libro, ricordate? Nel libro le cose vanno così, non ci possiamo fare niente se dopo un po’ vi annoiate. Una volta pensavo che i libri andassero sempre letti prima dei film; adesso mi piacerebbe brevettare una pillola per scordarmeli all’istante quando entro in sala. Mi domando a quel punto come avrei reagito a Mood Indigo, forse come uno di quelli che ieri sera si alzavano e se ne andavano via, che razza di film assurdo. La cornicetta letteraria supplisce anche alla carenza di finali lieti e rassicuranti: certo, le due storie finiscono male, però… qualcun altro sopravvive e le scrive, e questo dovrebbe consolarci. Funziona? Insomma, se uno si dimentica che entrambi gli scrittori sono morti in miseria, e che tutto il successo postumo è in un qualche modo indesiderato, ingiusto, un equivoco…

Ma forse il problema è ancora a monte. Non riesco più a emozionarmi, non riesco più a innamorarmi, non ho più tempo, la maggior parte lo passo a spazzar polvere e ragnatele, ne crescono di fittissime in poche ore, e i vetri, i vetri sono così schifosi a vedersi, quasi mi consola indovinare che tra un po’ si chiuderanno del tutto.

(Oppure potrebbe trattarsi di Audrey Tatou, una scelta sbagliata, secondo me. Se mai riuscirà a liberarsi da Amélie, non è certo con un film surreale come questo. Rischia di sembrare un sequel, Il fantastico mondo 2 – L’Agonia, ecco, e Gondry non è Jeunet. Ha una valigia più piccola, mi dispiace).

La schiuma dei giorni è comunque un film che va a visto al cinema Fiamma di Cuneo, tutti i giorni alle 21, tranne sabato alle 20 e alle 22:40, e la domenica pomeriggio alle 15:10 e alle 18, senza intristirsi troppo, non siete mica obbligati a innamorarvi ammalarvi e morire.