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lunedì 29 giugno 2015

La democrazia senza demos

Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo e ritengo che i premi di maggioranza siano una pericolosa perturbazione della democrazia. Per illustrare questa mia opinione oggi non saprei trovare nulla di meglio di questo tweet del ministro delle finanze greco.


(Fino a ieri la migliore illustrazione era questa, presa dalla voce italiana di wikipedia):


Ma torniamo a Varoufakis. Il ministro di un governo democraticamente eletto, nell'ora delle decisioni impopolari, si ricorda che in fondo non è stato eletto così democraticamente, suvvia, appena il 36%, forse è meglio chiedere cosa ne pensa la maggioranza dei greci. La maggioranza vera, non quella finta che si usa di solito per le cose di ordinaria amministrazione, come decidere chi va ai vertici internazionali e beh, sì, chi governa.

Il meraviglioso sistema dei premi di maggioranza, sistema che condividiamo con nazioni di antica e provata tradizione democratica come la Grecia e San Marino, elaborato in quel periodo glorioso che furono gli anni Venti in Italia; il sistema che ci consentirà di andare a dormire senza nessuna ansietà la sera delle elezioni legislative, conoscendo già il nome dell'illuminato leader che avrà la fiducia della maggioranza del parlamento senza per forza avere quella della maggioranza degli italiani... sembra escogitato da un animo infantile arcisicuro che non ci sia un problema tanto grande da cui non ci si possa liberare con un trucco. Basta trovare il trucco giusto, nei film di solito succede, e i problemi si risolvono di colpo e tutti poi vivono felici e contenti, the end.

C'è in molte persone probabilmente un'attesa del genere. Si farà un'elezione e quella sera vincerà Tsipras - o Renzi - e il film finirà lì. Il fatto che là fuori ci sia tanta gente, veramente tanta gente che continuerà ad avere dei problemi anche il giorno dopo, non li impensierisce più di tanto. Nei fatti, Tsipras è andato al governo portando le idee non-compromissorie di un terzo degli elettori greci; non si è sentito di tradire la sua non-maggioranza, e nel momento più critico non si è più sentito un mandato popolare sotto i piedi. Nei fatti, Renzi sta governando con una maggioranza artificiale (soprattutto alla Camera), ottenuta con un sistema elettorale contro cui si è espressa la Corte Costituzionale. A questa maggioranza artificiale Renzi non sta imponendo soltanto - com'era necessario - una nuova legge elettorale, ma anche riforme strutturali (Jobs Act, Buona Scuola) che nessuno aveva proposto agli elettori, quei pochi che nel 2013 votarono per il Pd di Bersani e non per il suo. A chi glielo fa presente i renziani obiettano che però il PD ha fatto il 41% alle europee. A chi replica che nelle tornate elettorali successive non è andato altrettanto bene, i renziani rispondono lalalala non ti sento. Ora, per quanto ridicolo l'italicum non è demenziale come il sistema elettorale greco, e può anche darsi che alle prossime elezioni legislative Renzi riesca a spuntarla e incoronarsi re del 41%. E se siete di quelli che pensano che il film finirà in quel momento, non c'è altro da aggiungere. I titoli di coda saranno bellissimi.

Io sono tra quelli noiosi che si sveglieranno anche il giorno dopo, e mi domando: cosa succederà? È da quattro anni che la maggioranza degli italiani non si riconosce nel governo espresso dal parlamento. Aggiungiamo altri cinque o sei anni. Sul serio pensate che non succederà niente? Che il 60% degli italiani se ne resterà zitto e buono? Che nessun demagogo ne approfitterà? Che nessun gruppo mediatico gli negherà l'appoggio?

Magari la democrazia - questa cosa nata effettivamente in Grecia, e proseguita a San Marino - è meno seria di quel che sembra. Forse è davvero un gioco. Ma sul serio pensate di poterlo giocare a lungo senza avere dalla vostra il consenso popolare? Quello vero, non quello di rappresentanza che si ottiene con un trucco, pardon, con un premio.

giovedì 25 giugno 2015

In che legge elettorale ti sei cacciato, Matteo Renzi

Quando nel 2014 il nuovo segretario del PD invitò Berlusconi al Nazareno, entrambi erano convinti di poter avere dalla loro parte, al massimo, un terzo degli elettori: due compartimenti stagni che non avrebbero mai potuto sommarsi. La prima bozza della nuova legge elettorale descrive perfettamente questa situazione: un'altissima soglia di sbarramento (8%) sarebbe scattata soltanto per i partiti che avessero rifiutato di coalizzarsi coi più grossi; quanto a questi, avrebbe vinto tutto chi avesse sorpassato la ridicola soglia del 35 (quasi subito ritoccata al 37). Nel malaugurato caso che nessuno dei contendenti riuscisse a sorpassarla, si sarebbe proceduto all'estrazione, pardon, al ballottaggio: che proprio a causa delle tripartizione dell'elettorato (un fatto radicalmente nuovo, al quale forse né Berlusconi né Renzi si erano ancora rassegnati) rischiava di diventare davvero una lotteria. Una legge ridicola, che rischiava di regalare qualche chance a chi non le voleva nemmeno, ovvero Beppe Grillo. Bastava un po' di buon senso per rendersene conto, e in tanti lo scrivemmo - mentre dirigenti di PD e insigni costituzionalisti erano già pronti a spellarsi le mani.

Quattro mesi dopo - Renzi nel frattempo era salito a Palazzo Chigi - le europee ci regalarono un quadro radicalmente diverso. Il PD aveva sfondato la soglia psicologica del 40%: tutto sembrava a quel punto possibile. Chi in quell'occasione faceva notare che si trattavano comunque di 11 milioni di voti (tanti, ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008) venne trattato da uccello del malaugurio. Renzi avrebbe salvato l'Italia. Restava da convincere gli italiani. Quanti? La soglia del 37 fu ritoccata al 40: in cambio il precipitante Berlusconi concedeva a Renzi il premio di lista. Non sarebbe stato più necessario allearsi coi partitini che, peraltro, stavano già scomparendo - Lega a parte. Renzi doveva semplicemente mantenere la presa salda su quegli 11 milioni di elettori che avevano già scelto lui. Non sembrava così difficile. Bastava non disgustarli. Poi ci fu il Jobs Act. Poi la Buona Scuola.

La settimana scorsa Ilvo Diamanti lo dava al 32% - c'è da dire che i sondaggi in Italia sbagliano sempre. Non sarebbe nemmeno questa grossa tragedia, se l'ultimo turno di amministrative non avesse dimostrato quello che il buon senso ci suggeriva già da un anno, ovvero che i ballottaggi sono un grosso rischio per il PD. Renzi rischia di passare alla storia per aver scritto la legge elettorale che consegnò l'Italia ai suoi avversari.

Come è stato possibile un capolavoro del genere? Difficile dirlo, anche se circondarsi di collaboratori mediocri, e "mettere la faccia" su qualsiasi cosa loro suggerissero, potrebbe avere aiutato. Abbiamo voluto dei leader giovani, tocca tenerseli permalosi? Ci sono stati mesi di occasioni per buttare a mare l'Italicum e ripartire con una legge decente, ma significava "perdere la faccia" e Renzi è genuinamente convinto di averne ancora una e una sola. Adesso però qualcosa sembra essere cambiato. Il professor D'Alimonte, che tanto si è speso in questi anni per sistemare il Partito Democratico, e ancora girando e rigirando sulla carcassa sembra insoddisfatto del risultato, come il saggio e prudente avvoltoio, il professor D'Alimonte dicevo, ci fa sapere che Berlusconi preferirebbe tornare al premio di coalizione, e che l'idea non spiace nemmeno a molti esponenti del Pd. "Anche Verdini sarebbe contento, presumibilmente": siam ridotti a preoccuparci di ciò che farebbe contento Denis Verdini. Su Repubblica Stefano Folli prende la palla al balzo e ci spiega che a Palazzo Chigi c'è "inquietudine", e che l'Italicum "è già in archivio", è il "vestito sbagliato per l'Italia di oggi". A me sembrava già sbagliatissimo nel 2013, ma forse l'antirenzismo mi ottundeva le facoltà. Tuttora non sono ben sicuro di quel che vedo e sento, ho il sospetto che tra Folli e D'Alimonte non vi sia che una chiacchiera estiva, di quelle che scoppiano appena entrano in contatto con qualcosa di appena appena reale. Sul serio Renzi potrebbe a questo punto decidere di rimettere mano all'Italicum, senza tema di perdere la sua prediletta faccia? E come la spiegherebbe agli italiani: scusatemi, la legge che tutto il mondo ci invidia non va più bene perché rischia di farmi perdere le elezioni?

Mi sembra di avere le allucinazioni, vedo editorialisti nudi difendere la necessità di un politico di tagliarsi le leggi elettorali su misura. Voi li vedete vestiti? Perché magari è un problema mio, anzi senz'altro. A questo punto Renzi ha bisogno di 12 milioni di voti per chiudere la partita prima di andare al sorteggio, pardon, al ballottaggio. In questo stesso punto Renzi forse ha capito che 12 milioni di italiani non li ha mai conquistati, e mai li conquisterà, e quindi? Se passa dal premio di lista a quello di coalizione, chi pensa di imbarcare? Il prudente D'Alimonte sembra consigliare Verdini: è sempre tanto saggio e prudente D'Alimonte, chissà quante centinaia di voti ci porterà in dote il popolarissimo Denis Verdini (forse anche decine di centinaia di voti). E poi? Magari c'è ancora qualche radicale sulla piazza, perché no, certo non è gente che viene gratis, ma altrimenti di chi staremmo parlando? Di Vendola? Non è un tantinello tardi? Va a finire che aveva capito tutto Civati a chiamarsi fuori - e infatti guarda, sta uscendo anche Fassina - se dopo aver tenuto il fronte del bipartitismo, Renzi cede di schianto alla prima tornata elettorale che gli va male, chiunque si ritrovi fuori dal partito avrà un potere contrattuale superiore ai peones che si sono fatti andar bene Renzi fin qui. Cioè se fa una mossa del genere, secondo me, Renzi si rovina da solo. D'altro canto che ne so io.

mercoledì 24 giugno 2015

Il giornalista che si sparò due volte

La regola del gioco (Kill the Messenger, Michael Cuesta, 2014)

Nel 1996 sul sito web del californiano San Jose Mercury News apparve per qualche giorno un'elaborazione grafica che sconvolse l'opinione pubblica americana: una specie di distintivo della CIA su cui si specchiava un fumatore di crack. Corredava il titolo di un reportage che sarebbe diventato un libro e un caso nazionale: "Dark Alliance. The Story Behind the Crack Explosion". La storia era già uscita in tre puntate sul cartaceo, ma internet - forse per la prima volta - avrebbe fatto la differenza. L'immagine elaborata dalla redazione esplicitava qualcosa che il reporter Gary Webb non aveva voluto scrivere: dietro lo spaventoso boom del consumo di crack, che aveva devastato i quartieri più poveri di Los Angeles, c'era la CIA!? Una parte della comunità afroamericana, reduce dai disordini del '92, non faticò a convincersene. Alla pagina web del Mercury cominciarono a puntare altri siti non professionali - la parola blog ancora non esisteva - liberi di fantasticare qualsiasi ipotesi di complotto: la CIA aveva inventato il crack per distruggere la gioventù afroamericana, la CIA aveva domato la rabbia dei neri coprendo South Central con quintali di polvere bianca...

Webb in realtà aveva portato alla luce qualcosa di più circoscritto, ancorché esplosivo: seguendo il processo di un mitico trafficante di LA, Ricky Ross (detto Freeway, "autostrada" per le quantità di crack che riusciva a trasportare quotidianamente), aveva scoperto che il suo fornitore nicaraguense, Danilo Blandon, era un informatore dell'agenzia antidroga federale. Blandon trattava con Ricky Ross partite di cocaina così ingenti che trasformarle in crack era diventata una necessità logistica; coi proventi finanziava la guerriglia dei Contras, che si opponevano al governo sandinista del Nicaragua, combattendo una guerra che il presidente Reagan non voleva perdere ma che il Congresso non gli consentiva di finanziare. Tutto questo sotto gli occhi della CIA, che però - come Webb puntualizzò ogni volta che ne ebbe l'occasione - non era attivamente coinvolta nello spaccio (continua sul nuovo bellissimo e velocissimo sito di +eventi!)

Webb era un buon giornalista, già vincitore di un Pulitzer, ma le sue fonti erano perlopiù trafficanti e spacciatori, in Nicaragua e in California. Il Mercury gli diede la possibilità di firmare una storia che i grandi quotidiani USA non volevano o potevano stampare: una volta pubblicata, si dedicarono con un certo zelo a demolirla. Il Los Angeles Times formò un team di più di venti persone, che ripercorsero la pista di Webb e trovarono qualche errore fattuale - del resto in venti è più facile. Il Washington Post, il quotidiano che tutti associamo al Watergate, all'eroica lotta di due cronisti contro un presidente, nell'occasione praticò nei confronti di Webb quello che da noi si chiama metodo Boffo, potendo contare su anonime fonti governative - alla CIA non dovevano essere così contenti di passare per trafficanti.

Ma a rovinare Webb fu il suo stesso quotidiano, che dopo aver venduto il suo reportage nel modo più sensazionalistico possibile, lo scaricò, dissociandosi dagli articoli già pubblicati e rifiutando di stampare gli altri già pronti. Webb non avrebbe mai più trovato un giornale disposto a lavorare con lui. Divorziò, continuò ad approfondire la sua pista, trasformò Dark Alliance in un libro pieno di storie e di dati, e 11 anni fa si sparò alla testa. Due volte. Pare che sia possibile, non è l'unico caso (naturalmente c'è chi sospetta la CIA, ma l'ex moglie è convinta che Webb si sia suicidato). Benché molte delle scoperte di Webb siano state confermate, Dark Alliance è ancora materiale controverso negli USA. I quotidiani che lo screditarono non hanno cambiato la loro versione: Webb riponeva un'eccessiva fiducia nelle versioni dei trafficanti che incontrava, gente disposta ad accusare i gringos della CIA di qualsiasi misfatto. La vita tragica di Webb ha ispirato un libro, Kill the Messenger, che l'anno scorso è diventato un film: un'ottima occasione per Jeremy Renner (che oltre a interpretarlo lo produce). Se il suo umanissimo Gary non diventa una figura memorabile non è certo responsabilità sua.

La storia era complicata e Peter Landesman, già sceneggiatore di Parkland, decide di risolvere ogni ambiguità nel modo più semplice: adottando acriticamente il punto di vista del giornalista. L'ansia di semplificare non rende nemmeno un buon servizio: Webb visitò il Nicaragua più volte per approfondire, ma nel film sembra esserci andato una volta sola, fidandosi delle prime fonti che ha incontrato. L'inchiesta vera e propria è sbrigata in una ventina di minuti, dopodiché il film decide di scegliere la via meno complicata, concentrandosi su ciò che accade a Webb e alla sua famiglia. La moglie intiepidisce, il primogenito scopre vecchi altarini e fa una scenata, lo spettatore sbadiglia. Ogni tanto la CIA tira qualche brutto scherzo, ma la tensione cala subito. A un certo punto irrompe Ray Liotta, un po' a gratis: racconta la sua storia di ex combattente per la libertà e narcotrafficante e scompare, non se ne parla più. Non è neanche la prima volta che gli capita - ormai Liotta sta diventando un McGuffin vivente, i registi lo usano per alzare la tensione. Il film poi abbandona il protagonista molto prima del suicidio, attenuandone lo spessore tragico: un'altra scelta più facile che efficace. Uno degli spunti interessanti viene buttato lì nei titoli di coda: qualche anno dopo le dimissioni di Webb, molti documenti che dimostravano le sue tesi vennero de-secretati, ma l'opinione pubblica era distratta dalle avventure del pene di Bill Clinton.

Con tutti questi limiti (a cui aggiungo una Mary Elizabeth Winstead caporedattrice carinissima ma un po' fuori parte), Kill the Messenger è un film da vedere, se non altro perché è una storia di cui da noi si è parlato poco. Si racconta il giornalismo americano da un'angolazione meno celebrativa del solito, in un momento storico in cui tornano d'attualità i disordini razziali e le macchine del fango - impossibile non pensare a quel Tom Harper che sulle colonne del Sunday Times qualche settimana fa cercava di trasformare Edward Snowden in una spia russa, attingendo (per sua ammissione) soltanto a fonti del governo britannico. Il giornalismo è anche questo. Certo, Sorkin ce l'avrebbe raccontato meglio. Ma non è che può sempre raccontarci tutto lui. La regola del gioco è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:35); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15)

lunedì 22 giugno 2015

Il gender non esiste; la scuola privata non dovrebbe

Col tempo, se sei un uomo e l'umanità un po' t'interessa, cominci ad apprezzare le bugie per la quantità di cose vere che ci dicono su chi le racconta, e soprattutto su chi se le beve. Il mito del Gender, per fare un esempio, non c'è dubbio che sia un'invenzione, in gran parte magari costruita a tavolino - e forse non sarebbe complicato nemmeno risalire al tavolino in questione. Ma la forza dei miti non sta in chi li inventa, bensì in chi decide di accoglierli: nelle migliaia (milioni?) di persone a cui puoi evidentemente raccontare che in un asilo pubblico si faccia lezione di masturbazione, senza che nessuno faccia un plissé. Come i genitori che a Rignano Flaminio (perdonatemi, mi tornano in mente sempre le stesse cose), nel 2006 si sentirono raccontare che le maestre della scuola d'infanzia aderivano a una setta pedofila e durante il giorno portavano i loro figli col pulmino in un castello dove venivano seviziati - e trovarono l'idea assolutamente plausibile. Cosa c'è nella testa di queste persone, che non ritengo meno capiente e complessa della mia?

Un'enorme diffidenza per l'istituzione scolastica, senz'altro. Ma non è che una faccia della medaglia. Proviamo a voltarla. Dall'altra parte c'è una mostruosa fede nella scuola, nel suo potere di plasmare il fanciullo e il giovinetto, addirittura di farne un maschio o una femmina o altro. Se tu pensi che la scuola possa fare di tuo figlio un gay, la prima cosa che mi viene in mente è che sei pazzo - ma la metto da parte. La seconda cosa è che tu hai già paura che tuo figlio lo sia, e vabbe'. La terza è che stai riconoscendo a me insegnante un potere enorme. Posso creare omosessuali dal niente. Basta decidere che alla terza ora, invece del solito trattato di Campoformio, ci mettiamo a discutere di "amicizia e amore con il partner dello stesso sesso", ed ecco all'improvviso allignare la torbida perversione iridescente là dove fino a un momento prima c'era solo un po' di curiosità per le imprese di Bonaparte - e nessuna pulsione, naturalmente, i ragazzi non avrebbero pulsioni finché non premiamo noi i pulsanti. È chiaro che se davvero fossimo così potenti, saremmo già riusciti a farci pagare un po' di più, in fin dei conti abbiamo in ostaggio tutti i pre-puberi d'Italia cinque ore al giorno. Ecco, il punto è che ci credono. Migliaia, forse milioni di italiani ritengono che noi abbiamo in ostaggio i loro figli, e che possiamo in qualsiasi momento premere un pulsante e omosessualizzarli, transessualizzarli, trasformarli in consumatori seriali di contraccettivi e pillole abortive. Noi.

Che a pena riusciamo a insegnare l'italiano.
Questa per dire dirige un istituto comprensivo - scuole medie,
elementari, d'infanzia - chi le impedirà di selezionare insegnanti anti-gender?
Certo non Renzi.

A questo punto basta rovesciare il mito per trovarne la ratio: chi crede (o vuol credere) che all'asilo si insegna masturbazione precoce, crede o vuol credere altresì che all'asilo queste cose si potrebbero reprimere. Si dovrebbero reprimere. Non all'asilo pubblico, naturalmente: occorrerà procurarsene uno con personale opportunamente specializzato. Chi paventa moduli educativi sulla "scoperta del proprio corpo e dei propri genitali" da quattro a sei anni, considererà necessario che una scuola come si deve crei una barriera tra il seienne e il suo corpo, e soprattutto i suoi genitali. Chi trova scandalo in una lezione sul "diritto all'aborto" riterrà opportuno che una scuola insegni ai figli il contrario, cioè che l'aborto non è un diritto: e così via. Ecco: chi chiede sgravi fiscali o buoni scuola allo Stato invocando la "libertà di educazione", la "libertà di scelta educativa delle famiglie", a volte ha in mente questo. Magari non tutti. Ma alcuni sì. Vorrebbero un asilo che mettesse delle barriere tra i loro candidi bambini e i loro incontrollabili genitali; preferirebbero una scuola che creasse veri Maschi e vere Femmine, ancor prima che buoni cittadini - cittadini di che, poi? Prima viene la famiglia, e la famiglia sa cos'è bene per i propri bambini. Lo sa per definizione.

Qui devo confessare una cosa. Mi è capitato spesso di affermare polemicamente che la scuola privata mi va bene, purché sia privata davvero, vale a dire pagata da chi ci vuole mandare i propri bambini. Si tratta di una manovra retorica che è un classico di questo blog: usare il liberismo contro i liberali, il cattolicesimo contro i cattolici, il marxismo contro i marxisti ecc. Funziona sempre, ma resta una mossa insincera. Cioè alla fine non è vero che le scuole private mi vanno bene. Prendi l'imam che ha parlato al Family Day, beccandosi gli applausi dei buoni cattolici. Io non voglio che lui, con la scusa della "libertà di scelta" iscriva le sue eventuali figlie a una madrasa. Preferirei che le iscrivesse a una buona scuola pubblica, dove sentiranno magari parlare di contraccettivi e aborto, ma anche di Mirandolina e Gertrude. La stessa cosa vale per i genitori cattolici che l'hanno applaudito. Perché ci tengono tanto che i loro figli/figlie vadano a una scuola privata? Per l'ampio parcheggio, o perché il preside può licenziare un insegnante se anche solo sospetta che sia omosessuale? eccetera. Non credo che né la scuola né la famiglia possano trasformare un eterosessuale in un gay o viceversa - ma credo che possano causare un bel po' di sofferenza, e rovinare un bel po' di vite se ci provano. Una scuola che ci provasse, finanziata anche interamente da un gruppo di famiglie che ci credesse, per me andrebbe chiusa d'ufficio. Anzi aperta, nel senso in cui Lutero e Robespierre aprivano i conventi. Fuori tutti - non è che fuori sia il paradiso, anzi. C'è una società mediamente violente e omofoba, ma è l'unica che abbiamo, e sta a tutti migliorarla. Chi cerca di difendersi alzando una siepe intorno al proprio giardino (e magari chiedendoti pure un obolo per innaffiarla) non ci è di aiuto. E poi chi lo sa cosa succede davvero oltre quelle siepi, in quei giardini.

venerdì 19 giugno 2015

Mai abbastanza denti


Jurassic World (Colin Trevorrow, 2015)

In principio furono due fauci: così si chiamava in originale lo Squalo di Spielberg, Jaws. Spuntarono fuori da una spiaggia di Long Island 40 anni fa e cambiarono per sempre la storia del cinema USA. L'estate era un brutto periodo per le sale, anche laggiù - ma i tempi stavano cambiando, ormai in tutte le città aprivano mall climatizzati. Ai ragazzi che non potevano permettersi di passare i pomeriggi in spiaggia, Spielberg avrebbe offerto il brivido di una consolazione fredda e dolciastra (e tolto ogni voglia di tuffarsi per mesi o anni). Jaws fu distribuito il 20 giugno in più di quattrocento sale: a quei tempi era la strategia che si usava per minimizzare i danni delle cattive recensioni, e non è escluso che anche l'Universal avesse molti dubbi sul prodotto - lo squalo finto era così poco credibile che il giovane regista aveva deciso di esibirlo il meno possibile, compensando con la suspense la povertà degli effetti speciali. Fu un successo micidiale, che nel giro di qualche mese si mangiò al botteghino tutti i record precedenti - L'esorcistaIl padrino, la Stangata, finirono tutti nelle fauci del predatore. Era nata una razza di film (i blockbuster estivi, e i blockbuster in generale), che nel giro di qualche anno si sarebbero mangiati la Nuova Hollywood. Mostri dal budget pesantissimo, eppure in grado di adattarsi a qualsiasi ambiente: avrebbero espugnato ogni botteghino al mondo, e covato uova di mostri ancora più grossi, perché gli spettatori comunque dopo un po' si annoiano. Vogliono più sangue. Più denti. E qualcuno prima o poi glieli dà.

Quarant'anni dopo, lo squalo che terrorizzava le spiagge di Amity Island non è che un bocconcino per il nuovo Mosasauro. Jurassic World è quel classico film ipocrita che solletica il pubblico e un attimo dopo gli fa la morale: è colpa vostra se siamo costretti a darvi mostri sempre più grossi, facendo strame delle più recenti teorie paleontologiche (Niente piumaggi, anche se nel Giurassico vero c'erano: ma non c'erano nel Jurassic Park di Spielberg e Crichton, e quindi niente da fare). O pubblico viziato, che cerchi il conforto dei vecchi brand ma ti aspetti anche novità a tutti i costi, perché non resti bambino per sempre? Perché non ti accontenti di due diorama e una cavalcata su un baby stegosauro? Sei irrequieto come il complesso militare-industriale. Tu vuoi più denti perché ti annoi, loro vorrebbero qualcosa di più performante di un drone. E se ancora non lo vogliono, domani lo vorranno, e prima o poi qualcuno glielo darà. Forse lo spunto più interessante del nuovo congegno dentato di Casa Spielberg è la naturalezza con cui mostra un parco di divertimenti svelarsi in un esperimento militare. La gente vuole sempre più Sicurezza, ma anche più Divertimento - è chiaro che ogni tanto qualcosa va storto. 

Riguardo ai personaggi, sarebbe ingiusto aspettarsi più tridimensionalità di quella consentita dagli occhialini - più o meno come pretendere profondità dalle ganasce del vecchio Squalo. C'è da registrare il passaggio del caro vecchio T. Rex dalla parte dei buoni (continua su +eventi!) proprio come accadeva a Godzilla a un certo punto della sua saga, non più il nuovo mostro da combattere, ma quello vecchio che ci difende dai nuovi mostri inaffidabili. Perché la gente è insaziabile ma è anche sentimentale, dopo averti visto per due o tre film non le importa quanti esseri umani hai schiacciato o divorato: si affeziona. Meno interessanti gli esseri umani, ridotti a figurine un po' più stilizzate del solito: più che esprimere un carattere, lo evocano, sono citazioni ambulanti. C'è un Bambino Saputello e Boccoloso che sintetizza in pochi tratti tutta la poetica della Amblin (se non ne è la caricatura); un Fratello Maggiore In Preda Agli Ormoni che quando non guarda le ragazze si ficca nei guai; l'Algida Donna in Carriera che ha capito che il pubblico vuole cose più grosse, il Magnate Visionario che le commissiona allo Scienziato Irresponsabile che non si pone troppi problemi, il Sergente Ottuso che spera di farci la guerra. Tutte sfaccettature dell'uomo bianco contemporaneo e pasticcione, tutti a turno fanno qualcosa di tragicamente stupido. Chi ci salverà dalla fatale spirale Marketing-Scienza-Guerra? Il Cowboy, l'unica figurina positiva di tutto il film. L'uomo che sa domare i velociraptor, ma non vuole plagiarli. Chris Pratt fa quel che può per entrare nei suoi panni, ma è un po' troppo giovane e palestrato per assumere con naturalezza quell'autorità morale che avremmo conferito a un John Wayne - insomma alla fine risulta meno credibile del tirannosauro.

Altri hanno già sottolineato la curiosa misoginia del film, che sembra suggerire che una donna in carriera senza figli sia contronatura più o meno quanto un animale geneticamente modificato; resta da annotare un ultimo dettaglio, abbastanza imbarazzante: per quanto sia un film derivativo, ipocrita, maschilista e prevedibile, Jurassic World è anche maledettamente divertente. Non c'è niente da fare, i denti funzionano sempre. Lo trovate al Citiplex di Alba alle 21:00 (2d); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10, 21:30, 22:45 (2d), alle 20 e alle 22:35 (3d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d); al Fiamma di Cuneo alle 21 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 21 (2d); ai Portici di Fossano alle 21: 15 (2d); all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15 (2d); al Cinecittà di Savigliano alle 21:30 (2d)

mercoledì 17 giugno 2015

Renzi e il ballottaggio interiore

Matteo Renzi arrivò a Palazzo Chigi, 15 mesi fa - sembrano anni - non per caso ma grazie al sostegno di un blocco tutt'altro che compatto, anzi quanto mai composito e trasversale. In questo blocco vi era, naturalmente, Matteo Renzi. Per quanto risulti pleonastico, bisogna dare atto a Matteo Renzi di aver sempre sostenuto Matteo Renzi con lealtà e devozione. Tutto intorno c'era il PD: magari non proprio tutto il PD, ma molto più PD di quanto avesse creduto in Renzi alle primarie del '12 e perfino a quelle stravinte dell'anno successivo. Letta stava navigando a vista: Renzi portava una vigorosa ventata di novità e sembrava una promessa di primavera - in ogni caso una palla da prendere al balzo, mentre Berlusconi annaspava e Grillo sobbolliva nel suo brodo rancoroso.

Più in là del PD, c'era un bacino elettorale molto vasto, che andava dai delusi di Berlusconi agli orfani della sinistra che non avevano creduto né in Monti né in Bersani; alcuni di loro si erano lasciato attirare dalle lucciole a 5 stelle, per poi pentirsene una volta saggiatane l'inconsistenza - in confronto ai chip sottopelle e dentiere in 3d, il rottamatore suonava tutto sommato realista e pragmatico. E poi c'era Berlusconi al tramonto, che dopo aver divorato tutti i suoi eredi credibili sembrava genuinamente incuriosito dal giovane rivale che gli si parava davanti, e pronto a concedere qualche riforma importante in cambio dell'onore delle armi. Quando Matteo Renzi arrivò a Palazzo Chigi, 15 mesi fa, per qualche tempo non parlammo d'altro, e anche chi non lo sopportava doveva ammettere che era stato bravo ad arrivare fin lì in così poco tempo, sapendo trarre profitto da una situazione tanto confusa. Poi si sa come vanno le cose: i giornalisti per un po' lo trattarono con benevolenza, in tv lo ascoltavano volentieri senza fargli domande difficili. In Direzione i notabili accorrevano a pronunciare la loro professione di fede renziana in streaming, le europee andarono benissimo - Renzi si convinse di avere in pugno la situazione.

Neanche un anno dopo ruppe con Berlusconi: a tutt'oggi non mi è poi tanto chiaro il perché. Berlusconi si sarebbe contentato di Amato al Quirinale, Renzi impose Mattarella: ne valeva la pena? Forse si rendeva conto di quanto B. fosse inaffidabile (non ci voleva un Guicciardini) e volle togliersi la soddisfazione di anticiparlo. Da lì in poi - tu guarda la coincidenza - stampa e tv si sono accorti dell'emergenza clandestini, e non hanno più smesso di parlarne. D'altro canto quando mai è successo che in Italia tv e giornali ti impongano l'agenda e ti facciano vincere o perdere le elezioni? Quando Renzi rinunciò all'appoggio indiretto di Berlusconi, sapeva pur sempre di poter contare su sé stesso, sul suo partito, e su un bacino elettorale che andava dai delusi del centrodestra ai vedovi della sinistra. Da questi ultimi a dire il vero decise di separarsi col Jobs Act - e d'altro canto lo aveva promesso a qualcun altro, e poi non si può piacere a tutti, no? Rimaneva pur sempre il sostegno di sé stesso (Matteo Renzi), del suo partito, e di quel bacino elettorale che non cominciava a terrorizzarsi perché su Rete4 i Rom rubavano i bambini. Nel frattempo era giunto al pettine il nodo della riforma elettorale: non avendo più i voti di Berlusconi, Renzi fu costretto a sostituire qualche membro recalcitrante in commissione e imporre la fiducia ai suoi senatori. A quel punto qualche corda si spezzò: la miniscissione di Civati fu appena la punta dell'iceberg. Altri masticarono amaro e decisero, evidentemente, che gliel'avrebbero fatta pagare. Sarebbe stato sufficiente metterlo in difficoltà su qualche riforma scritta altrettanto male, e per sfortuna di Renzi, non ci vollero molti giorni a trovarne una: la Buona Scuola.

Matteo Renzi non aveva più il sostegno di Berlusconi, né di molti dei suoi ex elettori un po' in apprensione per le epidemie di ebola e di scabbia; e anche nel partito qualcuno cominciava a mugugnare. Gli restava però l'appoggio Matteo Renzi: e di una larga fetta di elettorato di centrosinistra - più o meno la quota percentuale di Veltroni, abbastanza per vincere le elezioni finché tutti gli altri avranno la buona creanza di astenersi. A questa fetta di elettorato Renzi decise di imporre la Buona Scuola, un aborto di riforma aziendalista dell'istruzione pubblica, con ricchi premi per chi piace ai presidi monocratici - no, neanche tanto ricchi a dire il vero. Poi si può discutere di quanto faccia schifo (parecchio), ma se hai rotto con Berlusconi e le sue televisioni. col sindacato e con un pezzo del tuo partito, davvero che altro ti resta da fare se non disgustare gli insegnanti di tutte le scuole pubbliche d'Italia? Nel frattempo c'è stata una tornata elettorale e si è scoperto - incredibile! - che persino quelle pippe dei Cinque Stelle, se si va al ballottaggio, si portano a casa intere province. Ora Renzi ha rotto un partito per imporre in parlamento un sistema elettorale che prevede un ballottaggio nazionale. Renzi naturalmente era convinto di vincerlo.

Ne è ancora convinto: perché è vero che non ha più l'appoggio di Berlusconi, né degli elettori delusi dal centrodestra o della sinistra; è vero che fa anche un po' fatica a imporsi al suo partito: però è altrettanto vero che in mezzo a tutte queste vicende, in questa "legislatura da brivido", non ha mai perso il suo alleato più fedele, ovvero Matteo Renzi. Alla luce di questa semplice nozione, non è poi difficile capire il senso della rivelazione concessa a Gramellini: Renzi ha fallito fin qui perché non è stato abbastanza Renzi. A chi obietta che fin qui Renzi è stato talmente renziano da rompere con tutti quelli che potevano aiutarlo o sostenerlo, proponiamo di calarsi nel suo punto di vista: 15 mesi fa tutti lo osannavano. Poi lo hanno tradito. Non hanno capito il Jobs act, non hanno compreso la genialità dell'italicum, non apprezzato la bontà della Buona Scuola. Non capiscono niente. Solo tu puoi capirmi, dice Matteo Renzi a Matteo Renzi. Perché perdi tempo con questi sfigati? A questo punto scegli: o me o loro. È tempo di ballottaggio, anche per te.

lunedì 15 giugno 2015

Chi gabella Gino Paoli

A volte mi domando che ci sto a fare qui, a spacciare cookies di terze parti - manco più la pubblicità mi fanno mettere. Poi mi capita di leggere una notizia, per esempio, Gino Paoli che fa una lezione sulle tasse.

No, ovviamente è più complicata di così. L'avrete sentita anche voi: Gino Paoli, in qualità di non si sa bene cosa, è stato invitato come relatore a una cerimonia di consegna di diplomi di un master universitario altamente patrocinato dall'Agenzia delle Entrate. Nell'internet che frequento - e sui giornali che sfoglio - la cosa fa notizia perché Gino Paoli è tuttora indagato per evasione fiscale. Perlomeno, il taglio con cui viene riferita la notizia è sempre questo. Non so se la responsabilità sia del Fatto Quotidiano e se gli altri organi di stampa gli siano andati a ruota, o se ormai l'impostazione del Fatto sia talmente egemone che tutti la imitano, anche senza rendersene conto; fatto sta che per due giorni sui giornali e su internet ho letto che chi è indagato (per evasione fiscale) non dovrebbe permettersi di esprimere opinioni.

Mi domando se chi scrive queste cose sui giornali, o le rimbalza sui social, non è mai stato indagato per evasione fiscale. Probabilmente no, altrimenti se ne starebbero tutti zitti per coerenza, vero? A me l'anno scorso l'agenzia delle entrate ha chiesto certi estratti conto del 200x per un accertamento, probabilmente dovrei chiudere il blog finché non si fanno più vivi. Invece scrivo. Mi sento quasi obbligato.

Scrivo perché nell'internet che vorrei, e sui giornali che volentieri comprerei, Gino Paoli che parla di tasse non farebbe notizia perché è indagato per evasione - capirai - ma perché il signore che si lamenta della burocrazia e della mancanza di buonsenso, è lo stesso che da presidente della Siae chiese e ottenne di raddoppiare la prestazione patrimoniale imposta nota come "copia privata". Ovvero un tizio che ha voluto che pagassimo di più per ogni cd vergine, chiavetta usb, lettore mp3, pc, eccetera, e quel di più (più o meno 200 milioni di euro) lo devolvessimo alla Siae. Un piccolo rimborso per tutte quelle canzoni e film che potremmo salvare sui nostri supporti - e se non salviamo nulla di scritto dal signor Paoli e colleghi? Niente, dobbiamo pagare lo stesso. Ecco, quel signore che ha ottenuto 200 milioni di euro così, è lo stesso che è andato alla Camera di Commercio di Genova e ci ha spiegato che le tasse italiane sembrano ancora le gabelle medievali. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno l'avesse fatto presente, ma continuo a scrollare e niente, non ne ha parlato nessuno.

Così ne parlo io. A volte mi domando ancora che ci sto fare qui - tempo cinque minuti e mi rispondo.

giovedì 11 giugno 2015

Guarda che ti sei spiegato benissimo, Matteo Renzi

A questo punto mi sembra di aver notato una cosa: quando Matteo Renzi si trova davanti a un problema, un qualsiasi problema, non fa mai finta di non vederlo. Questo gli fa onore. Purtroppo lo stesso Matteo Renzi, quando si trova davanti un qualsiasi problema, tende a liquidarlo sempre come un problema di comunicazione.

Prendi la legge elettorale. Alcuni la trovano liberticida, ebbene, con questi Matteo Renzi è disposto a discutere, perché probabilmente se la trovano liberticida è anche un po' colpa di Matteo Renzi che non è riuscito a spiegare quanto sia invece democratico regalare il 54% al partito che si aggiudica il 40%.

Oppure, nel caso della Buona Scuola: possibile che ci siano insegnanti che non riescono a capire quanto sia importante competere per ingraziarsi i dirigenti scolastici? Evidentemente c'è un problema, e Matteo Renzi non nega che ci sia, quindi propone di riaprire discussioni a tutti i livelli. E in tutte queste discussioni, Matteo Renzi o qualcuno in sua vece porterà una lavagnetta o una presentazione in powerpoint in cui spiegherà quanto è buona la scuola in cui gli insegnanti vengono selezionati arbitrariamente dai dirigenti. Se fin qui non abbiamo capito, Matteo Renzi se ne fa una colpa: c'è stato un problema di comunicazione. È evidente che non si è spiegato bene. Se si fosse spiegato bene, avremmo capito e oggi saremmo dalla sua parte, non sciopereremmo più.

A un certo punto della vita qualcuno ti insegna che i cretini, purtroppo, esistono. Non tanti quanto generalmente si creda: ma sono comunque una minoranza di cui tenere conto. Minoranza trasversale per eccellenza: esistono cretini di tutte le età - le temps ne fait rien à l'affaire - di tutti i sessi, di tutte le fedi politiche e religiose (esistono persino cretini atei); educati e maleducati; coltissimi e ignoranti, questi ultimi assai meno pericolosi dei cretini laureati. I cretini non hanno poi colpa se sono fatti così: prendersela con loro, oltre che sciocco, è invero controproducente, perché nulla caratterizza un cretino più della tigna che li assale se qualcuno glielo rinfaccia. A un certo punto della vita impariamo - chi fa carriera negli scout prima di altri - a trattare i cretini con diplomazia. Ciò è già metà dell'opera, perché quando sai gestire i cretini, anche chi cretino non è te ne dà atto. Si impara per esempio a non dire mai: "Non hai capito", che è la classica frase che fa imbizzarrire il cretino che vorresti montare. Al massimo gli dirai: "Mi sono spiegato male". Ecco, Matteo Renzi non fa che dirci: mi sono spiegato male. Mi spiegherò meglio. In storia della filosofia si chiama intellettualismo etico: l'idea che esista un solo Bene, e che chi non lo sceglie possa avere solo un difetto di comprendonio, cui il buon Socrate sperava di ovviare con un po' di ironia, maieutica ecc, e Renzi con una migliore gestione di twitter e delle ospitate in tv. Sia come sia, ogni volta che parla di un problema di comunicazione, io ho la sensazione che mi stia dando del cretino.

Ecco, vorrei tentare di confortarlo su questa cosa: no Matteo Renzi, tu non hai un problema di comunicazione. Io trovo anzi che tu comunichi benissimo le cose che pensi e che vorresti realizzare - e che in parte hai già realizzato. Volevi vincere portando il Pd più al centro, lo hai detto e lo hai fatto - e se continui a pigliare meno voti di Veltroni nel 2008, non è un problema di comunicazione: è proprio che in questa cosa (comunicata benissimo) ci credono meno italiani di quanti credevano a Veltroni nel 2008: meno male che nel frattempo Berlusconi è bollito e Grillo non ha un progetto.

E anche la Buona scuola, davvero, non ha un problema di comunicazione. Se scioperiamo, se smettiamo di votare il Pd, è proprio perché abbiamo capito benissimo che tipo di scuola hai in mente: e semplicemente non è la scuola che abbiamo in mente noi. Tu e noi rappresentiamo interessi diversi, e quindi siamo in lotta, come sempre dovrebbe accadere in democrazia. Continuare a spiegare affannosamente le stesse cose, con gli stessi slogan; a sbracciarsi alla lavagna; potrebbe essere controproducente. Spero di essermi spiegato bene.

martedì 9 giugno 2015

Dio è il mio cingolo di scorta

Fury (David Ayer, 2014)


Stanno arrivando. Sono assassini fanatici e suicidi innamorati della morte; mentre ci fanno fuori rendono lodi al loro Dio. Prenderanno le nostre donne, schiacceranno i nostri figli sotto i cingoli. Asfalteranno la nostra terra e la chiameranno pace. Sono gli americani. E noi... siamo i tedeschi?

Se Fury ha un merito, non è la tanto vantata accuratezza storica, che anzi lascia parecchio a desiderare; e nemmeno la pretesa di rendere la Seconda Guerra Mondiale l'inferno in terra che è stata (come molti horror della sua generazione, Fury si accontenta di esibire l'orrore invece che suscitarlo). Il vero risultato di Fury è aver portato un po' di relativismo storico in quella che è rimasta l'unica guerra buona: aver violato in punta di piedi il tabù per cui si può raccontare il Vietnam dalla parte dei vietcong, la Secessione dalla parte dei sudisti - ma la Seconda Guerra Mondiale non si discute, la Seconda Guerra Mondiale è il Bene contro il Male, fine. Non che Ayer tenti di raccontarla dalla parte dei nazisti; ma nel trasformarla in un videogioco rende per un attimo le parti intercambiabili. Brad "Wardaddy" Pitt è un americano che parla tedesco e avrebbe potuto nascere tedesco; odia i nazisti ma sa che sarebbe altrettanto incapace di arrendersi; di fronte a un intero plotone di SS-Waffen, si comporta come la più fanatica delle SS.

Fury arriva quasi vent'anni dopo il Soldato Ryan, dal cui confronto non riesce a sottrarsi. È una lotta impari, come quella tra un panzer Tiger e un carro Sherman: Spielberg aveva in mano un racconto solido, Ayer è partito dai carri armati, e tra una battaglia e l'altra non sa bene come gestire i suoi uomini. Se Fury fosse un film di serie B - se esistesse ancora, la serie B, come concetto cinematografico - sarebbe il primo del campionato, perché a suo modo è un film agile e solido. Ma l'idea che per realizzarlo Pitt, LaBeouf e compagnia si siano addestrati come veri carristi, e abbiano passato giorni interi a sudare, insultarsi e lasciarsi cicatrici in faccia, lascia perplessi. Questo è un film di idee povere, ma buone, che avrebbe dovuto essere realizzato al risparmio: attori scarsi e scazzati, tre location e pedalare. La precisione filologica, addirittura l'idea matta di far scendere un campo un vero Tiger I (che su quel fronte nell'aprile '45 era in realtà piuttosto raro), finisce per ottenere il risultato opposto: trasforma tutto in uno smagliante videogioco 3d. Anche perché Ayer non sa sottrarsi a una certa sintassi action, e prima di far esplodere le sue bare cingolate vuole mostrarle mentre si aggirano sul teatro delle operazioni in elaborati passi di danza. Ma se non si sono mai fatti molti film spettacolari sui duelli tra carri armati, forse c'è un motivo.

Quanto alla storia, sembra veramente buttata giù da un ragazzino traumatizzato dal Soldato Ryan (continua su +eventi!): non ne ha capito molto - forse era troppo piccolo - ma non riesce a non tornarci sopra, come chi soffre di stress post-traumatico. Addirittura c'è un artigliere (LaBeouf) che cita la Bibbia in continuazione, come il cecchino Clip. Spielberg però lo usava in senso ironico: il Dio che gli armava la mano, a un certo punto sembra cambiare partito. Ayer invece si lascia trascinare dalla suggestione biblica, dopo un po' comincia a mettere versetti in bocca anche a Brad Pitt e probabilmente non si rende conto che trasformare due rottami di guerra in due martiri che cantano Isaia può essere un po' discutibile. Spielberg aveva inventato un capitano carismatico dal passato misterioso, per poi rivelare che si trattava semplicemente di un maestro di scuola. Brad "Wardaddy" sbuca fuori dal nulla, è un maestro di vita dai modi assai più spicci: ti costringe a sparare e poi ti procura una donna per la notte. Come punto di vista, Spielberg aveva avuto l'idea originale di usare la matricola senza esperienza, evitando però il rischio di farne un film di formazione: Upham restava un codardo sino alla fine, quando sparava al nemico disarmato (al punto che il suo nome è diventato sinonimo di contendente imbelle). Ayer riprende l'idea e la declina nel modo più banale: il giovane dattilografo Norman (Logan Lerman) ha 24 ore di tempo per imparare a uccidere tedeschi, baciare tedesche e diventare un eroe. Spielberg rifletteva sull'eroismo, sul senso che può avere una singola vita in un conflitto mondiale. Ayer non riflette: non sapendo bene come si fa, preferisce gestire la questione su un piano bestiale che è semplicemente il più comodo: tu-ragazzo-impara-a-uccidere-o-muori.

Spielberg, soprattutto, non ha mai messo in bocca a un personaggio una massima così scema come "gli ideali sono pacifici, la realtà è violenta": una puttanata neocon che manda all'aria tutta la fedeltà storica e svela l'età del film meglio di un orologio da polso in un peplum - chi mai nel 1945, con l'Europa contesa tra Marx e Nietzsche, avrebbe osato parlare di "ideali pacifici"?

Fury è al Cityplex di Alba (19:45, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:45); all'Impero di Bra (20:00, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinecittà di Savigliano (21:30)

mercoledì 3 giugno 2015

Brad Bird che veniva dal futuro



Tomorrowland
(Brad Bird, 2015).

A 11 anni il piccolo Brad fu condotto, come tutti, a Disneyland. Quando fu ora di tornare a casa in Montana, i genitori non riuscivano a trovarlo. Alla fine lo scoprirono nel tempio, mentre discuteva coi Nove Vegliardi. Brad, cosa stai facendo? Perché disturbi questi vecchietti? Mamma, papà, lasciatemi stare, non sapete che il mio posto è qui? Da grande farò l'animatore. Darò vita alle cose. Sono nato per questo.

Tomorrowland è un film strano. Se all'entrata vi aspettate quanto promesso da trailer e locandine, un film action per famiglie, potreste anche rimanerci male. Intendiamoci, l'action c'è, e neanche troppo edulcorata - c'è una bambina che stacca la testa ai suoi nemici, che però si rivelano androidi, quindi niente sangue e per i bambini pare sia ok - ma l'intreccio è più contorto e sgangherato del solito, con tanti snodi appena accennati o lasciati in ombra; insomma non c'è dubbio che Lindelof sia passato di qui (c'è una corporazione segreta in un luogo al di là del tempo e dello spazio, e persino un arcano conto alla rovescia bislacco, per gli incurabili nostalgici di Lost).

Tomorrowland appartiene anche a quel filone trasversale di film con cui la Disney sta rimodellando la sua immagine, trasformando la sua storia gloriosa in mitologia. Se Saving Mr Banks era l'apologia del lieto fine a tutti i costi, Tomorrowland ci informa che solo l'ottimismo può salvare il mondo: nella fattispecie, l'ottimismo delle esposizioni universali e dei parchi a tema, insomma l'ottimismo Disney. Se a dispetto di tante premesse il film non suona falso, è perché a raccontare questa storia è uno dei pochi che hanno il diritto di crederci: l'ex bambino prodigio Brad Bird, folgorato a 11 anni da una visita ai Walt Disney Studios. Bird che a 14 anni terminava il suo primo corto d'animazione, che a 24 disegnava già per la Disney (Red e Toby); che dopo aver lavorato un po' per Spielberg e per i Simpson, ha diretto il Gigante di ferro, gli Incredibili e Ratatouille.

Tomorrowland è anche, a quanto pare, uno dei peggiori flop della Disney degli ultimi anni... (continua su +eventi!) Cosa non ha funzionato? Non saprei. C'era veramente tanta carne al fuoco: l'accostamento bizzarro tra l'ottimismo titanico di Bird e il pessimismo vagamente paranoide di Lindelof, con una bella spennellata spielberghiana - però stesa troppo rapidamente. È un film che per un'oretta accarezza il bimbo rannicchiato in ogni spettatore, sussurrandogli "tu sei speciale, tu puoi salvare il mondo": finché a un certo punto Lindelof non prende il sopravvento e per voce di George Clooney gli urla: no, non sei speciale, non farti fregare. Ti hanno fatto solo vedere una réclame. Un invito a una festa che non c'è mai stata - tutto questo non è terribilmente lindelofiano? Segue una serie di colpi di scena un po' gratuiti, come le attrazioni di un parco a tema, tra cui spicca per arroganza una rapidissima tappa a Parigi con la Tour Eiffel che diventa la rampa di lancio di una capsula steampunk. Nel finale l'ottimismo Birdiano riprende il sopravvento.

Tomorrowland è anche la sua autobiografia fantastica: la storia di un cinquantenne che ha la sensazione di essere arrivato nel mondo degli adulti all'improvviso. Proprio come il personaggio di Clooney (che un po' gli somiglia), espulso dal mondo del domani. Più che un raggiungimento della maggiore età, è stata come una Caduta. Lui s'è arrangiato in un qualche modo: ha pure diretto un Mission Impossible, però c'è qualcosa nel mondo degli adulti che lo lascia evidentemente perplesso, e Tomorrowland alla fine parla soprattutto di questo. Più che un film ottimista, è un manifesto contro il pessimismo dei film catastrofici. Perché vi piacciono tanto?, si domanda il piccolo Brad. Pandemie, terremoti, guerre termonucleari, sul serio tutto questo vi affascina più dei cari vecchi razzi, dei viaggi spaziali, dell'epica degli astronauti? Dopo essersi interrogato sul problema, Bird si è anche dato una risposta, e nel finale del film l'ha messa in bocca a Hugh Laurie in versione scienziato matto. Ora mi giocherò quel poco di faccia che mi resta, ma il suo discorso finale è una delle cose più interessanti che ho sentito al cinema quest'anno. Certo, chi tiene al proprio status di intellettuale preferirà qualche massima intensa in bocca ai pensosi personaggi di Sorrentino, mentre quello che dice il vecchio dottor House, conciato da imperatore nero dell'ultramondo, sembra il classico spiegone da fumetto. E però alla fine la sua diagnosi è impietosa come ai vecchi tempi: noi preferiamo le catastrofi perché sono comode. La disperazione è comoda: che bisogno c'è di alzarsi dal divano e rimboccarsi le maniche, se l'umanità ha i giorni contati? Ovviamente Brad non ci sta. Ci vuole salvare (il che va benissimo. Che ci voglia salvare la Disney, ecco, è già un po' più inquietante).

 Tomorrowland è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:30, 17:00, 20:00, 22:40); all'Impero di Bra (22:30); al Fiamma di Cuneo (15:10 18:00 21:10); al Cinecittà di Savigliano (21:30).

martedì 2 giugno 2015

Pro Evolution Politics

Questa foto è bellissima, anche se non sono sicuro del perché.

Certo ognuno è libero di fare quel che vuole nel tempo libero, e quasi qualsiasi cosa tu faccia nel tempo libero è meglio che guardare le dirette fiume elettorali di Mentana e compagnia. Per dire che non ho niente contro l'oggetto in sé, anzi per una curiosa intermittenza del cuore la play mi ricorda quelle mie sporadiche visite in Federazione, quando in attesa di cominciare un'assemblea i ragazzi della Sinistra Giovanile organizzavano veri e propri tornei - e chi vinceva magari adesso è gente che fa il sindaco, insomma tutto torna, in teoria.

Sarebbe in ogni caso sbagliato trattare la foto da lapsus, quando a divulgarla è stata niente meno che Filippo Sensi. Può Sensi farsi scappare un messaggio sbagliato? Assolutamente no, è un genio della comunicazione e della disintermediazione. Ma metti per assurdo che un giorno facesse un errore persino lui, in fondo è umano; pensi se per errore gli capitasse di associare Matteo Renzi al passatempo da bimbominchia per eccellenza, nella nazione dal bacino elettorale più anziano del mondo. E ribadisco che non ho nulla contro la play, ma chiedi a un cinquantenne in su cosa ne pensa dei videogiochi e degli adulti che ci giocano - e chiedi alle signore. D'altro canto Sensi è un genio, quindi è più semplice pensare che lui abbia capito qualcosa e io no.

Azzardo: vi ricordate di quando Renzi era il Giovane Rottamatore? Ecco, forse Sensi ha pensato che era ora di ricordarcelo perché, sul serio, sembra passato un secolo. E questo a prescindere dai risultati, che tutti si stanno ingegnando a trovare positivi, anche se non sono piaciuti a nessuno. A un secolo di distanza, in cosa è consistita la rottamazione di Matteo Renzi? Nel farsi andar bene Emiliano in Puglia, nel sopportare De Luca in Campania, nel candidare la Paita in Liguria? Ho sentito osservatori autorevoli sostenere che la Moretti era la più renziana dei candidati (è quella che è andata peggio). Ora se per favore mi seguite un attimo nell'universo parallelo in cui Bersani ha vinto le elezioni del '13, ditemi, chi avrebbe gareggiato in questa tornata elettorale per il Pd in Veneto? Alessandra Moretti, esatto. E in Campania? in Liguria? in Umbria? in Puglia? Non c'è nessun candidato alle regionali che non avrebbe potuto correre con Bersani, e nei fatti le percentuali sono più o meno le stesse che prendeva il Pd di Bersani. Ma la musica è cambiata, direte voi. Sì, la musica è cambiata di parecchio. Però gli orchestrali sono gli stessi di prima, il grande Rottamatore sta svelando insospettate doti di riciclatore, e in certi casi ci si domanda se non ci stia mettendo una certa tigna: trasformare la Moretti in renziana di ferro è una specie di scommessa, come trasformare Migliore in un blairiano, come fare sorgere figli di Abramo da queste pietre.

Ora se c'è un'analisi che mi sarei aspettato, tra domenica e lunedì, è quella dei renziani delusi. Perché d'accordo, una classe dirigente non s'improvvisa, in ispecie al sud; del resto i candidati meno vicini a Renzi sono quelli che hanno portato più voti. Però davvero i numeri, tra le tante cose che possono dire, dicono anche che il Pd sta tornando ai valori del '13, e questo forse perché tutta questa ventata di nuovo non è arrivata, s'è fermata molto presto tra Firenze e Roma - già a Bologna si faceva molta fatica a sentire un refe, per tacere di Napoli o Verona. Questo mi sarei aspettato dai renziani, e invece niente. C'è chi festeggia il 5-2, anzi il 17-3, c'è chi pubblica la cartina d'Italia tutta rossa, chi se la prende coi sostenitori di Pastorino ecc. ecc.. Nessuno che si lamenti di quanto poco Renzi sia stato renziano in quest'occasione. D'altro canto come fai a prendertela con lui - sarà colpa dei sottoposti, lui è così giovane, un presidente che gioca alla play ce l'abbiamo solo noi. E oggi è già in grigioverde! Quanto dinamismo.