Pages - Menu

sabato 29 febbraio 2020

Alla fiera dell'est, per 2 ¥

"..."
"Resisti".
"Non ce la faccio".
"Invece sì".
"Sei un adulto".
"Ma è troppo..."
"Una persona rispettabile".
"Mi scappa".
"Hai una dignità".
"LO SAPETE PERCHÉ ZAIA HA PAURA CHE GLI MANGINO I TOPI???"
"Me ne vado addio".
"PERCHÉ POI NON SA COME INGRASSARE IL GATTO AHAHAH".
"Non ci siamo mai conosciuti".


https://www.facebook.com/zaiaufficiale/photos/a.172472189621371/1048409992027582/?type=3&theater

venerdì 28 febbraio 2020

Twitter, Wu Ming e una questione minuscola

[Sotto il titolo "Twitter, Wu Ming e una questione minuscola", fino al pomeriggio del 28 febbraio, c'era un lungo pezzo, tenuto per mesi nella cartella delle Bozze, in cui rivangavo un'annosa discussione coi Wu Ming e chiedo la rimozione di un tweet.

Con una notevole tempestività i Wu Ming mi hanno scritto comunicandomi l'intenzione di rimuovere quel tweet. La mail si legge qui. Questo per me chiude la discussione, e quindi il pezzo torna nella cartella da cui proveniva.

Sto riflettendo se cancellare anche i commenti – quelli critici nei miei confronti li terrei anche, mentre quelli offensivi nei confronti dei WM preferirei eliminarli

Tutto qui e grazie per l'attenzione. È rarissimo che io cancelli un pezzo, ho sempre l'illusione che tutti questi anni di archivio un giorno possano essere utili a qualche povero dottorando in storia o in psicopatologia; però stavolta mi sembra giusto così. Scusate].

mercoledì 26 febbraio 2020

Il coronavirus possiamo gestirlo, il burionismo forse no


  • Com'è sempre imprevedibile la vita. Pensavamo che la fine sarebbe giunta dai no-vax, pensavamo che alla prima pandemia la loro sfiducia nella scienza ci avrebbe perduto, e invece eccoci qua con l'economia in recessione perché tecnici ed esperti alla Burioni hanno ritenuto prudente, dopo una manciata di casi, stravolgere la vita degli abitanti di cinque regioni tra le più popolose e produttive. Dove si vede come alla fine governare sia una questione di priorità: per ora il coronavirus è sostanzialmente innocuo a bambini e preadolescenti, mentre rappresenta un rischio per gli anziani settantenni. Indovina in quale nazione il governo stima necessario chiudere le scuole onde scongiurare il più possibile che i giovinetti contraggano il virus e poi lo trasmettano ai pensionati. Sarà, non casualmente, la nazione con più pensionati e meno lauree. Tutto questo forse otterrà il risultato di arginare un paio di focolai infettivi, e poi? Nel frattempo il virus gira per il mondo, lunedì il coprifuoco sarà tolto e saremo di nuovo punto di partenza, arrivo e transito per migliaia di cittadini del mondo, infettivi e non. In quel momento forse rimpiangeremo di aver bruciato in dispositivi di controllo un po' di risorse che si potevano destinare a potenziare i reparti di terapia intensiva. Questa più o meno è l'opinione di diversi esperti: col coronavirus bisognerà convivere, pensare di poterlo fermare ai confini è come credere di poter spalare l'acqua col forcone. Eppure ci sono motivi contingenti e non banali per cui il governo non ha dato retta a loro, per cui ha dato retta a chi proponeva quarantene e tamponi a tappeto, per cui ha dato retta a Burioni.
  • Ogni organismo è la risposta della vita a un determinato ambiente: Burioni è una creatura di Twitter. È in quell'habitat che si è evoluto, dimostrando notevoli capacità di adattamento. Il pesce palla sopravvive gonfiandosi, Burioni non reagisce in modo diversissimo: si tratta di ostentare aggressività. Senza i blastaggi, Burioni sarebbe rimasto uno tra i tanti cattedratici che twittano battutine a studenti e assistenti costretti a trovarle divertenti. Blastando è diventato un comunicatore e un influencer e non ha molto senso immaginare che smetta proprio ora. L'unico vero motivo per cui vince la sua linea, invece di quella di un'Ilaria Capua, è che Burioni morde (o per meglio dire mostra i denti: la violenza verbale dell'internet essendo più teatrale che pratica). Non si tratta di un approccio puramente istintivo, o meglio negli ultimi anni Burioni ha tentato in qualche modo di intellettualizzarlo, arrivando a citare uno o più studi che a suo avviso avrebbero dimostrato quanto l'approccio aggressivo risultasse efficace contro no-vax e in generale erogatori di fake news. D'altronde non dev'essere molto difficile trovare almeno un paper che giustifichi qualsiasi nostro atteggiamento sociale, e insomma Burioni si è almeno preoccupato di trovarne uno che spiegasse quel suo bullismo che tanti ammiratori e gregari gli ha procurato su Twitter (uso "gregario" nel senso che ha nella pedagogia dell'età evolutiva: l'aiutante/mandante del bullo). E così come a un certo punto il DDT è diventato più pericoloso dei parassiti che uccideva, oggi il burionismo sta iniziando a rivelare costi sociali forse non più sopportabili nel medio-lungo termine.
  • Oltre al Burioni comunicatore, esiste il Burioni epidemiologo. Sul piano professionale, Burioni è essenzialmente un tecnico con una visione estremamente settoriale, profonda ma limitata. C'è un problema, Burioni conosce la soluzione. Il fatto che questa soluzione possa costare alla collettività più del problema è già cosa che non gli compete, e anzi lo innervosisce (ed è un nervosismo apparentemente simile a quello di un altro competentissimo tecnico, Bagnai, ben disposto a mandarci in malora per dimostrare le sue tesi). Non ha nessun senso aspettarsi da tecnici settoriali una riflessione più ampia sui costi sociali di una settimana di quarantena. Non ci devono pensare loro: ci dovrebbe pensare una classe dirigente colta e competente. Non l'abbiamo.  
  • Non l'abbiamo. Il governo è debole, sotto lo scacco di un'opposizione che ritiene di avere il diritto di pompare qualsiasi allarmismo senza limiti di buon senso, decenza e logica: e siccome nessuno glielo contesta davvero, questo diritto, in pratica Salvini e compagnia ce l'hanno davvero. Possono lanciare giorno e notte le più criminali bugie, ma ehi, libertà di opinione. In parte è un gioco delle parti: l'opposizione dovrebbe alzare l'allarmismo, le forze di governo dovrebbero schiacciarlo energicamente dando prova di serenità e competenza. Ma, ecco, sta funzionando? Continuiamo a vedere in tv e sui social personaggi che sono più pericolosi del coronavirus: persone che dicono il falso per il solo scopo di impaurire e disorientare il prossimo, e pensiamo che abbiano tutto il diritto a stare lì e intascare stipendi e gettoni di presenza. Sono passati due anni da quando in qualche ufficietto o redazione qualcuno si inventò la bufala degli africani che avevano ucciso una ragazza tossicodipendente per mangiarla: chi ha inventato quella cosa (che fece vincere le elezioni a Salvini), chi l'ha scritta è ancora al suo posto e ci sta già dicendo che il virus è uscito dal laboratorio, o che ce lo porteranno i cinesi o gli africani. 
  • Aggiungi che il resto della stampa è in crisi terminale, e cavalca l'allarmismo come l'ultimo cavallo sopravvissuto alla battaglia: per cui qualche coda nei supermercati diventa, inevitabilmente, l'assalto ai forni. Il nostro sistema mediatico sembra davvero gestito dal pilota automatico di Airplane 2, quello che scandisce "Ok panic" mentre il pilota tenta di calmare i passeggeri. Tutto questo nel medio-lungo termine ci farà più danni del coronavirus, così come durante una scossa di terremoto il panico può danneggiare i fuggitivi molto più delle vibrazioni delle strutture.

  • Siccome non ci è concesso di rinunciare all'ottimismo, propongo di trattare tutta questa surreale vicenda come una forma di vaccino, in vista delle emergenze più serie che verranno da qui in poi. Perché anche se questo coronavirus non è la peste nera che i giornalisti temono (magari con la segreta speranza di sopravvivere a un'ecatombe di colleghi e concorrenti), non è affatto detto che lo sia il prossimo, o qualche altro antico virus o batterio riemergente dallo scioglimento dei ghiacci plurimillenari. Nel frattempo, com'è noto, stiamo finendo gli antibiotici. E in ogni caso il riscaldamento globale è una realtà con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni. Per cui sì, l'apocalisse è rimandata, ma adesso sappiamo che dobbiamo lavarci le mani venti secondi, e non precipitarci al pronto soccorso, tossire nelle maniche ecc. ecc.. Tutto questo potrebbe risultarci molto utile domani. Ma allo stesso tempo non si può nemmeno escludere che domani la signora con la falce venga per bussare alla nostra porta e la trovi spalancata, semplicemente perché nel 2020 abbiamo sprangato scuole e uffici per una settimana e poi ci siamo resi conto di aver buttato via tanti soldi per niente. E insomma si sa che gridare al lupo troppo spesso ha le sue controindicazioni.
  • Vorrei aggiungere che, per quello spicchio limitatissmo di Italia che posso vedere, il mio Paese non è in preda al panico, e nessuna sceneggiata su instagram mi farà cambiare idea su questo. Ho visto medici, studiosi, insegnanti, persino pazienti gestire questa emergenza con professionalità e garbo, senza perdere troppo tempo a domandarsi se avesse un senso l'emergenza in sé, dato che il loro mestiere consiste nel gestire i problemi, non nel farsi le domande. Lo stesso varrebbe anche per me, ma è da tre giorni che sono a casa, abbiate pazienza, come facevo a non scrivere qualcosa. Fatevi coraggio che siete grandi, lavatevi le mani e ci vediamo.

domenica 23 febbraio 2020

Nessuno invoca Policarpo

23 febbraio, Policarpo di Smirne (69-155), mica un santo qualunque

Voi siete gente di rango e di gusto, chissà che santi vi appaiono se saltate un pasto. Santi importanti, santi di riguardo: a me capita al massimo San Policarpo (con un grappolo in mano).

"Ehi ciao".

"Ancora tu?"

"Passavo. Vuoi dell'uva?"
Chiesa di San Policarpo a Roma (quartiere Appio Claudio)

"Sono allergico, te l'ho detto".

"Ah scusa".

"E poi cosa vuol dire passavo, Policarpo, dov'è che sei diretto che passi sempre da qui".

"Cosa vuol dire allergico?"

"Storia lunga".

"È un problema? Magari ti posso aiutare, sai, io sono un Santo".

"Lo so Policarpo, lo so".

"Ti va un'albicocca?"

"Mi brucia lo stomaco".

"Sei sempre così pallido, secondo me dovresti mangiare più frutta, te lo dico".

"Policarpo, sto lavorando".

"E io no?"

"Cioè il tuo lavoro consisterebbe nel convincermi ad assumere vitamine? te lo contano come miracolo?"

"Non lo so, in confidenza non è che mi abbiano spiegato come funziona".

"Ma come non ti hanno spiegato, scusa. Tu sei San Policarpo".

"Eh lo so".

"Sei uno dei Padri Apostolici".

"Ah sì?"

"Hai ascoltato il Vangelo direttamente dalla bocca di San Giovanni evangelista".

"Ma pensa".

"Te lo ricordi?"

"Ma sì, cioè, insomma, San Giovanni, quel... quel vecchietto".

"Vecchietto?"

"Non era un vecchietto?"

"Dovresti averlo incontrato quando aveva al massimo cinquant'anni".

"Ah sì, certo".

"Ma come fai a esserti dimenticato, Policarpo".

"Che vuoi, sono pur sempre cose successe centinaia e centinaia di anni fa".

"Io pensavo che in paradiso vi ricordaste tutto".

"Non sarebbe più il paradiso, se ci rifletti".

"Sì? Ma insomma non ti hanno spiegato cosa devi fare? Non c'è, che so, Pietro all'ingresso che dà un vademecum".

"Oh, quello".

"Mi sembra di capire che non c'è molta stima".

"Per carità, è davvero un sant'uomo. Ma sempre così indaffarato".

"Eh beh, un ruolo di responsabilità".

"Tutto il giorno su e giù a sovraintendere, non un attimo di respiro, mi domando come faccia. Sempre gentile, eh? Non si dimentica mai di salutare, buongiorno Policarpo, come va Policarpo, cioè si ricorda persino come mi chiamo".

"Perché gli altri no?"

"Gli altri? Mica tanti".

"Ma San Giovanni?"

"Giovanni quale?"

"Il tuo Giovanni, l'evangelista".

"Per carità, quello non esce mai dal suo ufficio".

"Un ufficio? A farci cosa?"

"Ma la cosa che fanno i santi di solito, come dite qui voi, l'intercessione".

"Cioè esaudisce le preghiere".

"Oddio esaudire è una grossa parola. C'è un... come faccio a spiegarti, c'è questo flusso di richieste che arriva dalla Terra, e il santo le ascolta, fa una specie di cernita, elimina le impresentabili, e le altre le indirizza a un ufficio più in alto, magari con una raccomandazione se pensa che sia veramente il caso. I santi fanno questa cosa, sono degli... degli intermediari, ecco".

"Quindi Giovanni è molto indaffarato perché deve smistare tutte le preghiere che gli rivolgono".

"Esatto".

"E anche Pietro".

"Ma un po' tutti, ti dirò".

"Ma per dire Sant'Ireneo, ce l'hai presente Ireneo".

"Ehm... Ireneo, certo".

"Era di Smirne come te, ha questo ricordo di lui bambino che ti vede nel foro che insegni il Vangelo. Rammenta "la maestà del tuo portamento; la santità della tua continenza", cioè eri una specie di torre di guardia, per lui".

"Eh ma ai bambini facciamo un po' tutti questa impressione".

"Ma voglio dire, Ireneo di Lione ce l'avrà bene un attimo per te, per darti una mano".

"Non lo so, anche con lui bisogna prendere appuntamento".

"Per vedere Ireneo? È così popolare?"

"In un qualche modo sì, c'è un posto nelle Gallie dove è vissuto dopo essere partito da Smirne..."

"Lione".

"Lì c'è ancora una comunità che lo invoca con frequenza, insomma un lavoraccio".

"Mentre tu..."

"Io? Io non mi lamento".

"Comincio a capire.Tu sei sempre qua perché in paradiso ti annoi".

"Ma che dici".

"E ti annoi perché nessuno ti invoca. Gli altri santi hanno tutti le preghiere da smistare. Ma nessuno prega più per Policarpo da Smirne".

"Smirne, già. Che poi alla fine dov'è Smirne? Non mi ricordo più".

"In Turchia".

"Mai sentita".

"Per forza, i turchi sono arrivati secoli dopo, ai tuoi tempi era una provincia dell'Asia Minore di lingua greca".

"Ecco, sì, il greco lo so parlare. Ti va un πορτοκάλ?"

"Adesso si dice arancia. Con la dominazione turca si è imposta la fede musulmana, e così tu, che all'inizio eri uno dei santi più importanti, sei rimasto senza il tuo nocciolo duro di fedeli e adesso ti aggiri smarrito per il cielo senza nessuno che t'invochi, nessuno che ti dia un senso".

"Si dice arancia ma ne ho anche di rosse, e poi ci sono le amare e..."

"E basta con questa manfrina della frutta, ho controllato. Non sei neanche il patrono dei fruttivendoli".

"Ah no?"

"No, probabilmente è un'idea che ti è venuta ragionando sul tuo nome, che in greco vuole appunto dire..."

"Tanti frutti".

"A-bop-bop-a-loom-op a-lop-bop-boom".

"Eh?"

"Scusa, non ho resistito. Vabbe' Policarpo, hai della frutta secca almeno?"

"Noccioline?"

"Sono allergico".

"Pistacchi".

"Vada per i pistacchi".

"Però mi devi promettere che..."

"Uffa Policarpo, eddai, gli altri santi non fanno così".

"...devi scrivermi un pezzo, dai".

"Ma mi piacerebbe, guarda. Però non vorrei fare di te una macchietta".

"Meglio una macchietta che niente".

"Non sono d'accordo".

"Li vuoi tostati i pistacchi".

"Si capisce".

Voi siete gente di un certo livello, chissà che santi in fila al vostro cancello. Io invece ho San Policarpo di Smirne, cui mai nessuno chiede di esaudirne. Ripeto: ho San Policarpo da Smirne, cui mai nessuno chiede di esaudirne.

Ho guardato a ponente, ho guardato a levante: non ho trovato un santo meno interessante. Policarpo, oh carpo. Policarpo, oh carpo. Policarpo, oh carpo.  A-bop-bop-a-loom-op a-lop-bop-boom.

mercoledì 19 febbraio 2020

Le canzoni dei Beatles (#145-136)

Puntate precedenti: Le 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235)(#234-225)(#224-215)(#214-201)(#200-181)(#180-166) (#165-156) (#155-146)
La playlist su Spotify.

...Sì scusate, cosa mi era successo? In settembre avevo promesso che avrei messo in fila tutte le 250 canzoni dei Beatles prima del 50esimo anniversario dello scioglimento, e poi? Sono successe tante cose, sapeste, le elezioni in Emilia, Sanremo, comunque tecnicamente i Beatles erano ancora attivi nel 1995, questo mi dà qualche margine. No, scherzo, prometto che la finirò prima. Nel frattempo, tenetevi forte, perché stavolta esce il brano che dà più soddisfazione a chiunque odi i Beatles, cioè... Revolution 9? Sì, esce anche quello (ed era ora). Ma in realtà stavo pensando a...


145. Ob-La-Dì Ob-La-Da (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).

Il testo è agghiacciante
Ogni canzone ha una leggenda che nasconde una morale: quella di Obladì Obladà ci dice che anche la ricetta più zuccherosa di Paul non avrebbe funzionato senza un po' di sale di John. Racconta che Paul, chiacchierando col musicista nigeriano Jimmy Anonmuogharan Scott Emuakpor, si lasci conquistare dal suo modo di dire "ob-la-di ob-la-da" che in yoruba vorrebbe dire qualcosa come "life goes on, bra" (la vita va avanti, fra') e si riprometta di usarlo in una canzone, da comporre magari in quel gusto tropicale che stava giusto arrivando in Inghilterra, lo ska. E infatti il protagonista del bozzetto si chiama Desmond, proprio come la star giamaicana Desmond Dekker che nell'aprile del 1968 aveva portato per la prima volta uno ska in cima alla classifica inglese, Israelites. La leggenda prosegue spiegando che una volta composto il brano, Paul non riusciva a farlo suonare ai colleghi: ovvero questi ci provavano, e anzi per una buona settimana non provarono altro, ma il brano in un qualche modo non riusciva. Troppo dolciastro? Troppo lento? Non riusciva. Finché a un certo punto Lennon, esasperato, dopo essere uscito con Yoko a fumare qualcosa, non si impadronisce del pianoforte annunciando: "Ecco come dovrebbe suonare questa cazzo di canzone": tatta-ta-tatta-ta-ta-tattatta!, dum, dum dum dum, dum dum dum, dum dum dum. I colleghi lo assecondano, un po' per scherzo e un po' per esasperazione, e Obladì Obladà prende la forma che conosciamo. E che i critici odiano: Obladì Obladà è il primo vero classico beatlesiano che incontriamo risalendo una classifica, uno dei trenta pezzi che fanno ancora parte della cultura musicale di ogni individuo non beatlemane; l'unico che sta ancora più in basso di Revolution 9. Sul serio, i critici preferiscono Revolution 9, il che letteralmente significa che un po' di rumore montato a caso è meglio di Obladì Obladà. Pure, non si può negare che il brano abbia un suo senso, anche se puntava verso una direzione che era già molto lontana dal rock nel 1968, e non vi si è mai più riavvicinata. In ogni caso, se la canzone ha preso questa forma, è anche merito di John: questo almeno dice la leggenda.

Peccato che sia una leggenda.

Lo so, tutti i libri la raccontano più o meno così. Del resto tutti i libri si copiano un po' a vicenda (e citano la stessa fonte diretta, Geoff Emerick). Ma provate ad ascoltare la prima versione di Obladì, quella ancora con Scott Emuakpor alle conga. Anzi, fate un esperimento: provate a farla partire nello stesso momento in cui parte la versione del Disco Bianco, quella che sarebbe stata accelerata dopo il provvidenziale intervento di John. Notate qualcosa? La versione definitiva non è più veloce. È più lenta. John non ha accelerato: magari addirittura ha rallentato. Del resto se ci pensate non è mai stato lui l'acceleratore dei Beatles, tutt'altro. Lui di solito le canzoni le portava lente: Ain't She SweetPlease Please Me, Help!, sono tutti i pezzi che Lennon avrebbe cantato con più calma, se glielo avessero permesso. L'altra cosa che fa Lennon – se davvero è stato lui – è imprimere quel forte taglio in stile ska, quel pianoforte in levare che contraddistingue la canzone e la rende il primo ska bianco inglese (ma non il primo ska europeo: Peppino De Capri era sul pezzo già nel 1966!) Salvo che la volontà di comporre uno ska era già evidente dall'inizio, no? Insomma qualcosa non torna.



Proviamo a ricostruire. Paul potrebbe essere stato affascinato da alcuni aspetti delle culture tropicali, dai ritmi e da una certa cultura del prendi-la-vita-così-come-ti-viene (anni dopo avrebbe scelto inopinatamente di incidere Band on the Run in Nigeria). Ci scrive una canzone, ma gli viene una cosa molto poco caraibica, se non addirittura kinksiana, un bozzetto che sembra preso dal disco mai realizzato sulla vita quotidiana di Liverpool: malgrado il nome questo Desmond ha le stesse aspirazioni tranquille e borghesi del tizio che canta When I Am 64. Di esotico rimane soltanto l'intervento di Scott Emuakpor, ma in questo modo la canzone non funziona, e continua a non funzionare finché John non propone di rallentarla e aggiunge quel caratteristico fraseggio in levare che con cui in passato aveva ridisegnato un altro brano di Paul, She's a Woman. Anche così, il brano continua a non convincere Paul, che qualche giorno dopo si rimette a farlo provare agli altri rischiando un'insurrezione: tanto che alla fine preferirà non correggere nemmeno l'errore dell'ultima strofa, l'inversione dei nomi "Desmond" e "Molly". I suoi interventi successivi dimostrano un senso d'insoddisfazione: il sassofono che suona durante il ritornello una melodia diversa rasenta il sabotaggio, e comunque non smette di suggerirci: guarda che questa canzone potrebbe anche essere diversa, potrebbe essere meno banale. Tanto quanto l'idea di Paul di urlare sopra il ritornello, esecrata da George Martin, e devo confessarlo: sono le due cose che da sempre mi riconciliano con Obladì: il sax che se ne va per i fatti suoi e Paul che urla come se avesse deciso all'improvviso che questa canzoncina è un brano soul. È autoparodico, è un po' patetico, è Paul che cerca di cavare il sangue da una canzone che gli era venuta troppo dolce. Perché poi si fa presto a criticarlo, ma fosse capitato a voi, di scrivere Obladì Obladà, l'avreste buttata via? Certo, rimane uno dei brani dei Beatles più stucchevoli, forse l'unico che preferisco a 45 giri anche se il supporto è un 33: Paul diventa un chipmunk, ma per il resto è davvero più ballabile. I Beatles se ne vergognavano al punto che si rifiutarono di farla uscire come un singolo nei Paesi anglofoni. Andò comunque in testa alla Top 10 del Regno Unito, ma nella versione di un gruppo scozzese, i Marmelade. Anche in Italia uscì una cover, molto probabilmente il momento più basso della traiettoria artistica di Demetrio Stratos



144. Piggies (George Harrison, The Beatles, 1968).

Hai mai visto i maialini razzolar nel fango? Tutti questi maialini, io non li compiango. In ogni guru c'è un nazista: se gli pungoli il chakra giusto prima o poi salta fuori, ma perché mai vorresti fargli uno scherzo del genere? Non si sveglia l'ariano che dorme. Viene il sospetto che molti se ne rendano conto; che la meditazione e lo zen e tutte le altre liturgie del silenzio non siano che un modo di tacitare il nazista che hanno dentro, di ipnotizzarlo. E se funziona, complimenti. Per me George Harrison resterà sempre l'amabile artista che sopportò le angherie dei colleghi fino alla fine, che non soltanto doveva scriversi le canzoni da solo ma in più casi scrisse anche quelle di Ringo, che invece di invidiare l'amico Eric Clapton per via che era più bravo, gli fece suonare un assolo nella sua canzone migliore (sul serio, ma vi rendete conto?), che organizzò il concerto per il Bangladesh, che finanziò un intero film dei Monty Python soltanto perché aveva voglia di vederlo. Il fatto che mentre dispensava tutto questo bene all'umanità, George Harrison contenesse in sé un misantropo intollerante, me lo rende soltanto più simpatico: perché in realtà ci detestava tutti, George Harrison, con un disprezzo che cominciava a trapelare già nelle sue prime canzoni (Don't Bother Me, Think for Yourself) e che era stato completamente eclissato nel 1967 dalla meditazione trascendentale, che al massimo gli ispirava testi seriosi ma non arroganti, come Within You Without You. 



Il nazista interiore però non era morto, e mentre il Guru George proseguiva i suoi trip trascendentali, persino in India riuscì a trovare il modo di sussurrargli quella simpatica canzoncina che è Piggies – l'odio per l'umanità non era mai stato così pucci. Porci a far vite da porci, guardali ogni dove. Puoi vederli fuori a cena con le loro scrofe. Piggies è il ritorno del rimosso, anche da un punto di vista musicale: dopo le sperimentazioni a tutto campo del 1967, proprio durante il soggiorno presso il Maharishi, George si rimette a scrivere strofe e ritornelli di chiara ispirazione occidentale. Nel giro di pochi mesi comporrà tutte le canzoni per cui lo amiamo, da While My Guitar a Something, ma Piggies  è un brano a sé: l'unico vero pastiche della sua produzione beatlesiana, perfetto per quella collezione di pastiche che è l'Album Bianco. Si annuncia come una filastrocca, per trasformarsi speditamente in una grottesca partitura per clavicembalo e archi: una soluzione tutt'altro che inedita per i Beatles e in generale per i gruppi che a metà anni Sessanta stavano riscoprendo le orchestrazioni, ma abbastanza nuova per George. Eppure è esattamente quel che gli serve per confinare il suo nazista interiore sul palcoscenico di un teatrino improvvisato. Puoi ascoltare Piggies per centinaia di volte prima di ammettere che sotto la simpatica filastrocca ribolle una fanghiglia inquietante. Il dettaglio più espressionista, ancora una volta, lo aggiunge al volo John Lennon con lo stesso tipico gusto per il grottesco dello sketrch degli spaghetti in Magical Mystery Tour, suggerendo i due versi "con le forchette, i coltelli e il bacon", insomma l'idea che i maialini, oltre ad amare il fango, siano pure cannibali. Piggies potrebbe per qualche verso essere debitore delle filastrocche stralunate incise l'anno prima ad Abbey Road da Syd Barrett per completare il primo disco dei Pink Floyd (a loro volta debitrici degli esperimenti di studio di Lennon), ma allo stesso tempo ha qualcosa che ricorda i Pink Floyd molto più tardi ed espressionisti di The Wall: quelli che il nazista interiore volevano stanarlo, esibirlo, processarlo. George, più modestamente, si limita a metterlo su un palco e si unisce subito al coro che gli fa il verso. Che roba, però. In soli due minuti di un disco pop.


143. Rocky Raccoon (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

"Now somewhere in the black hills of Dakota there lived the young boy named Rocky Raccoon..." Quante volte l'ho cantata questa. Davvero. Quando ti porti in gita scolastica gli spartiti dei Beatles succede questa cosa, che dopo qualche Let It Be e Hey Jude d'ordinanza, a un certo punto qualcuno propone Rocky Raccoon ed è fatta, passerai tre giorni a cantare Rocky Raccoon. È vero che la conoscono in tre, ma quei tre si divertono. È facile (quattro accordi!), è buffa, è suggestiva, ti dà una soddisfazione immediata, riesci ad arpeggiarla mentre canti e persino a mimare con la voce l'assolo honky tonk. Con un po' di impegno riesci anche a fare l'introduzione da cowboy – come tante canzoni del Disco Bianco, è facile rendersi conto che è stata composta alla chitarra acustica, in quella specie di gita scolastica per miliardari che fu il viaggio in India dal Maharishi. Dei tanti travestimenti proposti da Paul, quello western dovrebbe essere il meno opportuno e invece è quello che si ricorda con più effetto. In teoria Rocky non è meno inutile di Honey Pie; in teoria i Beatles avrebbero avuto da fare cose più importanti che scenette in costume. Ma Rocky è irresistibile, tutto qui (Honey Pie è resistibilissima). Il nonsense regala a Paul due o tre versi memorabili, ma riesce ancora a contenersi – Il dottore che entra "puzzando di gin" sembra non aver subito chiaro cosa deve stendere sulla tavola, o magari avrebbe voglia di stendersi lui; non è invece affatto chiaro cosa succeda al biblico Gedeone nell'ultima strofa, ma i Beatles ci hanno abituati ad enigmi ben più inquietanti. 

142. I Me Mine (Harrison, Let It Be, 1970).

L'ultimo valzer, eccolo qui. Leggerete sui libri che è l'ultimo brano registrato dai Beatles, e l'unico da loro inciso nel 1970. John Lennon si era definitivamente chiamato fuori: I Me Mine fu incisa dai tre superstiti decisi ad aggiungere un brano al disco in uscita che giustificasse una scena del film in cui proprio John accennava un passo di valzer con Yoko Ono. Proprio per questo si potrebbe considerare il primo brano dei Beatles postumi, i Beatles delennonizzati, venticinque anni prima di Free As a Bird e Real Love a cui assomiglia più di quanto siamo disposti a riconoscere, perlomeno come concetto: anche I Me Mine viene registrata partendo da un vecchio nastro scartato, anche se in questo caso era di Harrison e non di Lennon. Anche I Me Mine serve a completare un prodotto audiovisivo, ovvero il film Let It Be, e viene corredata di immagini di repertorio, proprio come Free e Real Love. In un certo senso I Me Mine è perfino più finta, visto che l'originale durava meno di due minuti e fu allungato dal produttore Phil Spector col più sfacciato e disperato degli espedienti: il copia-incolla. Credo che sia evidente a chiunque l'ascolti con un minimo di attenzione: il secondo intermezzo rock è identico al primo, dopo il primo minuto e mezzo la canzone torna sui suoi passi, solo gli archi e gli ottoni aggiunti da Spector suggeriscono uno sviluppo. I Beatles smettono di essere un gruppo che suona e diventano un materiale di archivio che può essere smontato e ricomposto: è davvero la fine.



Più che appropriato che si tratti di un valzer: una cadenza che sin dal suo ingresso nel repertorio dei Beatles (Baby's in Black) aveva portato un sentore di dissoluzione e morte. Altrettanto appropriato che si tratti di un'accigliata riflessione di George Harrison sulla vanità dell'egotismo, riflessione che rischierebbe di sembrare fin troppo seriosa se George non sentisse per primo la necessità di riderci sopra, slittando improvvisamente dal valzer al rock'n'roll: il che gli consente non soltanto di introdurre l'autoparodia (nello stesso senso in cui aveva chiesto di terminare Within You Without You con un coro di risate), ma anche di ricondurre la canzone al senso del progetto Get Back!, il ritorno alle origini. Se Lennon era stato il primo dei Beatles a incontrare sui suoi passi il tre quarti, George era stato il primo a proporre l'eretica idea di slittare dai quattro ai tre quarti in una canzone, e non in una canzone qualsiasi, ma We Can Work It Out (anche in quel caso, il valzer aggiungeva un imprevisto rintocco funebre alle riflessioni di John: "life is very short"...) Il brano in realtà era stato uno dei tanti proposti da George nel 1969 e boicottati da Paul e soprattutto da John. Eppure se alla fine I Me Mine divenne una canzone dei Beatles fu proprio in virtù della reazione beffarda di John, che sentendo i tre quarti si era messo a volteggiare nella sala di registrazione con Yoko, ripreso dal regista. E fu così un brano che a John non piaceva, e che John non aveva mai suonato finì in Let It Be, soltanto per consentirci di vedere John nel suo ultimo siparietto. Di me, di me, di me, si parla solo di me. 


141. I Wanna Be Your Man (Lennon-McCartney, With the Beatles, 1963).

I Rolling Stones nel 1964, e altri ortaggi
Andrew Loog Oldham sarebbe tornato spesso con la mente a quell'incontro fortuito: cosa sarebbe successo non avesse lasciato proprio in quel momento lo studio dove i Rolling Stones provavano senza nessun costrutto? Che sarebbe successo se invece di andare dritto avesse svoltato verso Covent Garden, e non avesse mai incontrato Lennon e McCartney, in uniforme da Beatles, reduci da un pranzo di gala al Savoy Hotel, un po' fumati e felici di incontrare una vecchia conoscenza? Mesi prima Oldham aveva lasciato il loro manager, Brian Epstein, e si era messo in proprio con questi ragazzini aspiranti bluesmen di Londra, i Rolling Stones. Era persino riuscito dove il suo maestro aveva fallito: i loro ragazzini avevano firmato con la Decca, un contratto sotto tutti gli aspetti migliore di quello strappato dai Beatles alla Parlophone EMI. Peccato che questi Stones non valessero un decimo dei Beatles. Abbastanza energici dal vivo, ma scoordinati in studio, e soprattutto non avevano canzoni: non sapevano scriverle e trovarne di originali cominciava a essere difficile. Ce l'abbiamo noi una canzone quasi pronta, disse John, o Paul, o entrambi. La volete? Se fosse arrivato cinque minuti più tardi, o cinque minuti prima, Oldham non avrebbe potuto dire: sì. Non avrebbe potuto portare Lennon e McCartney allo Studio 51 con l'abbozzo di I Wanna Be Your Man, e assistere coi suoi occhi alla vera nascita del rock inglese, per partenogenesi: da una I Wanna Be Your Man ne nascono due, una più frizzante e tipicamente beatlesiana per Ringo Starr, una più violenta e fracassona che sarà la prima top10 dei Rolling Stones. Ma soprattutto non avrebbe mai convinto Mick Jagger e Keith Richards che scrivere le canzoni fosse possibile e persino facile. Lennon e McCartney erano entrati nello Studio con la strofa soltanto: a loro era bastato ritirarsi qualche minuto in un angolo per riemergere con il bridge, e a quel punto la canzone era pronta. Così almeno racconta la leggenda – quella accreditata da Oldham: già McCartney se le ricorda molto diversamente – ma è pur vero che quel bridge ha qualcosa di frettoloso e incompiuto, quel passo indietro finale di un su "ma-an" è una specie di strappo dissonante, come se l'inconscio stesse suggerendo al compositore di steccare un po', di non esagerare, se questa canzone va ceduta alla concorrenza. Gli Stones a onor del vero aggiunsero un'introduzione/coda piuttosto innovativa proprio giocata su quella dissonanza, che rivelava comunque una certa stoffa: ma incisero tutto alla carlona, con il basso martellante di Wyman in primo piano, una slide guitar piuttosto gracchiante di Brian Jones e un incedere un po' legnoso di Jagger nella strofa: "I wanna be your man" dovrebbe essere un urlo di gioia, ma si sente ancora che Jagger sta recitando. Ringo è più sciolto.

In ogni caso per gli Stones fu il decollo: non potevano saperlo, ma Lennon e McCartney si erano appena procurati i rivali più insidiosi, se non da un punto di vista commerciale almeno sul piano dell'immagine: di lì a poco gli Stones sarebbero stati accreditati dalla stampa come gli antibeatles, i poli contrari di una serie di contrapposizioni arbitrarie ma efficaci. Gli Stones erano i cattivi, rispetto ai Beatles gentili e rassicuranti: se questi ultimi cercavano di dare l'immagine più pulita, gli Stones erano accusati di non lavarsi: ma allo stesso tempo gli Stones erano percepiti come più raffinati, di nicchia, e senz'altro prediletti dalla Londra più modaiola, mentre i Beatles restavano un prodotto pop di massa per i proletari del Nord (e del Midwest). E mentre i Beatles si tenevano stretti il loro zoccolo duro di fan di sesso femminile, gli Stones furono il primo gruppo a suonare davanti a file di ascoltatori maschi.

Tutto questo, di lì a pochi mesi: nel settembre del 1963 per gli Stones un brano di Lennon e McCartney era manna dal cielo, e pazienza se si trattava di un brano originariamente pensato per le limitate capacità vocali di Ringo Starr. L'idea iniziale era sostituire l'antico cavallo di battaglia del batterista, dai tempi degli Hurricanes, Boys, con un brano altrettanto energico e meno sessualmente ambiguo. Boys era un brano teenpop americano, in originale cantato da una ragazza e rivolto alle ragazze: I Wanna Be Your Man è un affermazione perentoria di virilità sin dal titolo (con quell'americanismo, "wanna", un vezzo da vecchio bluesman o da cowboy). Ringo e Mick non vogliono più stringerti la mano o fissarti negli occhi o rivelarti un segreto od offrirti la loro fiducia: vogliono essere i tuoi uomini baby, vogliono essere i tuoi... amanti! E poi basta, il testo è semplicissimo perché Ringo dietro a piatti e tamburi aveva ben altre preoccupazioni che ricordarsi un testo a memoria, e poi si sa che i duri parlano giusto l'essenziale.



Il brano non riuscì a sostituire Boys, che continuò a resistere nelle esibizioni dal vivo: forse perché era più alla portata di Ringo, ma più facilmente perché tutto questo machismo non si addiceva al suo personaggio. Che è anche il motivo per cui I Wanna è la meno ringhiana delle sue canzoni: la sua voce di solito così inconfondibile è raddoppiata o triplicata da John e Paul, molto più entusiasti: il secondo si mette persino ad abbaiare nel finale. Un assolo brutale e arrogante, urla da spogliatoio, è proprio una cosa da ragazzi. Ma ecco, i ragazzi preferivano ascoltare i Rolling Stones. I Beatles invece erano roba da femmine. Riascoltandoli, non sembra difficile capire chi avesse più gusto nel 1963. Magari nel 1969 no, ma nel 1963 le ragazze avevano decisamente ragione, e l'avrebbero avuta ancora per parecchio. Che vergogna.


140. Baby's in Black (Lennon-McCartney, Beatles for Sale, 1964).

Astrid Kirchher e Stuart Sutcliffe
Quand'ecco, improvvisa, la morte. In un disco dei Beatles del '64, un qualsiasi 33 giri che serve a far ballare i ragazzini, improvvisamente arriva la fanciulla in nero e impone un valzer. Sono due novità assolute per i Quattro, e val la pena di notare che arrivano alla festa assieme, forse a braccetto: la Morte, e i Tre Quarti (ok, più che un valzer ha l'aria di un country. Ma sappiamo da John che voleva essere un valzer: era il suo primo tentativo). Baby's in Black è il terzo brano della 'trilogia musona' di Beatles For Sale, i tre brani di Lennon che aprono il quarto disco irradiando un'inconsueta negatività del tutto imprevista fino a quel momento (e smentita da quasi tutto il resto dell'album).

Sono i brani in cui Lennon prende le distanze dalla beatlemania e comincia a lavorare consapevolmente a un personaggio meno superficiale. Ma se No Reply e I'm a Loser sono due tentativi più che convincenti, Baby's in Black è il passo più lungo della gamba: invece di dilungarsi ulteriormente sulle sue frustrazioni di maschio non sempre corrisposto, John vuole parlarci dell'elaborazione del lutto e... non ne è ancora capace. La ragazza potrebbe davvero essere Astrid Kirchherr, che amava vestire in nero ancor prima di perdere il suo fidanzato Stu Sutcliffe, compagno di liceo artistico di John, pittore molto promettente e improbabile contrabbassista dei Beatles ai tempi di Amburgo. La Kirchherr a Berlino aveva trasformato i rockabilly di Liverpool in un quintetto di esistenzialisti in frangetta e vestito nero regolamentare. Uno stile che era una completa rottura rispetto agli anni Cinquanta, a cui i Beatles continuavano a essere affezionati (vedi la copertina di With the Beatles) anche se non avevano ancora composto un genere di musica che la giustificasse. Per ritrarre il lutto di Astrid, John avrebbe bisogno di una tavolozza che nel 1964 semplicemente non possiede: ha in mano solo un pennarello di grana grossa con la quale abbozzare due rime abbastanza banali: what can I do? Baby's in black, and I'm feeling blue. I tre quarti sarebbero anche una scelta interessante, ma Lennon non riesce a rallentare quanto vorrebbe e invece di un valzer funebre gli esce un liscio da balera. Cosa posso fare? Gli immaginiamo sul volto la smorfia d'ordinanza dei nostri amici ai funerali. Lennon ha passato tutta la sua vita a scansare la morte ostentando indifferenza. Quando Jann S. Wenner per il Rolling Stone gli chiese: come hai reagito alla morte del tuo manager, Brian Epstein?, lui diede quella disarmante risposta che da quel momento rintocca funebre nella testa di tutti i lennonologi:

Mi sono sentito come ci si sente quando ti muore qualcuno vicino. C'è una specie di risolino isterico, ih ih, sono felice che non sia toccato a me, quel buffo sentimento quando muore qualcuno vicino a te. Non so se ti è mai capitato, ma intorno a me sono morte molte persone, e l'altro sentimento che provi in questi casi: è "cosa cazzo...? cosa ci posso fare?".

"What can I do?" Il piccolo John aveva perso il padre, ma poi un giorno era tornato. Poi aveva perso la madre, ma poi un giorno era tornata. Poi la madre se n'era andata e stavolta non tornava più. Poi se n'era andato anche Stu, il suo amico pittore. E Astrid ancora lo aspettava, ad Amburgo, e io cosa posso fare? Niente, John, non puoi farci niente. E nessuna canzone può cambiare le cose.


139. Revolution 9 (Lennon-McCartney, con la collaborazione non accreditata ma non trascurabile di Yoko Ono, The Beatles, 1968).

Numero nove, numero nove. Finalmente ci siamo. Un po' di rumore montato a caso, dicevamo – no, sul serio, dobbiamo parlarne seriamente? Questa è una classifica di canzoni, Revolution 9 risponde al criterio "canzone" dei Beatles unicamente perché uno dei Quattro si impuntò per inserirla nella scaletta di un album, dove occupa un'oscena quantità di tempo – tempo che poteva essere impiegato con Child of Nature, o Not Guilty, o qualsiasi altro brano che avrebbe reso il Disco Bianco il più grande disco doppio della storia della musica leggera; e invece verso la fine c'è questa lunga sequenza di registrazioni (per lo più prese da brani di musica classica destrutturati, con lacerti di dialoghi tra John Yoko e qualcun altro). Quasi nessuno l'ascolta per intero – compreso i critici, sospetto, tra cui quelli di Mojo, che sono comunque riusciti a far salire Revolution 9 quasi a metà classifica, ebbene sì, per questi esperti di musica metà del repertorio dei Beatles è inferiore a un po' di rumore montato a caso, e voi cosa aspettate? Uscite a registrare gli affanni delle automobili nel traffico, entro sera potreste aver prodotto un brano superiore a un terzo della discografia dei Beatles, eh, ma non è così che funziona, vero?

E come funziona?


La reazione tipica del visitatore tipico di una mostra d'avanguardia è: questo avrei potuto farlo anch'io. L'arte d'avanguardia consiste, più che nelle opere, nelle implicite risposte a questa domanda. In troppi casi la risposta è: già, però non l'hai fatto. Potevi pensarci prima. Ora è troppo tardi, l'avanguardia appunto consiste nell'arrivare per primi. È il catalogo di tutte le cose che potrebbe fare una persona se solo ci pensasse, per fortuna che di solito non ci pensa: quelli che ci pensano fanno gli artisti e non è sempre chiaro di cosa campino. Quando vai a una mostra non sai mai cosa aspettarti: masticheranno uova per poi sputartele addosso? Spiegheranno la filosofia a una lepre morta? Si faranno montare nella faccia delle protesi a forma di corna perché sì? In ogni caso potevi pensarci prima di loro: non l'hai fatto, paga il biglietto.

Quel mi fa rabbia di Revolution 9 (una rabbia che molti ascoltatori, temo, tendono a trasferire su Yoko Ono), è che Lennon mi sta prendendo in giro. Ci crede meno di me. Davvero ti piacciono i Beatles, ti sta chiedendo? Perché per me dopotutto sono una merda – oh sì, li ho fondati, e ci ho fatto anche parecchi soldi, ma se mi va posso scioglierli anche stasera. Non me ne frega un cazzo, hai capito? Ti piacciono i Beatles? Quattro scemi ancora dietro al rock'n'roll nel 1968? Perdio, ma cresci.


Tra i pochi concetti estetici che ho trattenuto dai miei studi universitari c'è la differenza tra arte sperimentale e arte d'avanguardia, che è una specie di trasferimento sul piano estetico dell'eterna lotta tra progressismo e massimalismo. E così come in politica molto spesso i massimalisti finiscono male ma vengono poi ritratti nei monumenti che i progressisti fanno costruire quando vanno al potere, così nella Storia dell'Arte quando arrivi negli ultimi capitoli trovi un sacco di riferimenti alle Avanguardie – ma il libro che stai leggendo, proprio quello, è stato impaginato e realizzato grazie alle innovazioni di artisti più sperimentali che avanguardisti. (Tutti dicono futurismo futurismo, ma vogliono quello simpatico e industriale di Depero e dei cataloghi Campari, non quello esplosivo e frastornante di Marinetti. Tutti vogliono il Dada purché sia un simpatico oggetto di arredo, quando dicono Dada pensano alle simpatiche manine di Max Ernst, gli inquietanti nonsense di Tzara non li vuole più ascoltare nessuno). E allora che ci fa un grande sperimentatore come John Lennon tra gli avanguardisti? Perché ci hai tradito così, John?

Sperimentare significa, banalmente, cercare di portare nel tuo campo qualcosa di nuovo: allargarlo. I Beatles sono sempre stati sperimentali, anche perché sono partiti praticamente da zero: o si allargava il campo o si soffocava. Sono nati sperimentali e si sono sciolti perché a furia di sperimentare non riuscivano più a riconoscersi e andare d'accordo. I primi a portare il teenpop americano negli UK, e a cantarlo con voci maschili. I primi a pettinarsi in un certo modo, i primi a scriversi canzoni da soli, i primi a mescolare i generi, i primi a incidere solchi al contrario, i primi a usare certi pedali, certi effetti, ecc. ecc. Non sempre i primissimi, ma quasi sempre tra i primi. Non c'è un album che non includa uno strumento in più, un accordo mai usato prima, un genere che fino a quel momento non sapevano suonare. È quello che rende i Beatles unici o comunque molto rari: suonare per loro significa sempre imparare a suonare, più o meno da autodidatti; ogni canzone è un esperimento e non sono tutti riusciti, anche quello è il bello.


L'avanguardia è un'altra cosa: non si pone il problema di allargare il campo, ma di chiuderlo, in un certo senso esaurirlo. Il pitale di Duchamp non è un'evoluzione della scultura, ma è un tentativo di mettere la parola fine al concetto di arte museale e di arte da collezione. Altri artisti, sperimentando, erano arrivati a produrre opere che lasciavano perplessi gli spettatori, ma che comunque venivano apprezzate dai critici e cominciavano anche a essere valutate dagli estimatori, con la conseguente deriva speculativa. Perché il problema non è soltanto che Picasso si fosse messo a dipingere i due occhi da una parte del naso: il punto è che queste cose Picasso cominciava a venderle bene. A quel punto arriva Duchamp e si pone il problema: ma davvero i critici hanno capito queste opere, le intenzioni sperimentali dell'autore ammesso che ne abbia o non stia soltanto facendo le facce a forma di cubo perché le fa già Picasso e funziona? davvero i collezionisti le stanno comprando perché ne condividono lo stile sperimentale? Non sarà soltanto una moda, una bolla, non si staranno tutti fidando dell'aura dell'artista, della sua firma, del brand? E se io, a questo punto, che possiedo la mia firma d'artista, il mio brand, decidessi di esporre un pisciatoio, cosa direbbero i critici? Sarebbero costretti a incensare anche me? Qualcuno se lo comprerebbe? Per quanti anni il museo si sentirebbe costretto a esporre il mio "object trouvé"? L'avanguardia va oltre la sperimentazione, è un insomma un metadiscorso al quale ogni tanto tutti dovremmo dedicarci: ha senso quel che stiamo facendo? La sperimentazione è un modo di evolversi, di trasformare l'arte in Storia dell'arte; l'avanguardia è un modo di astrarsi, e di domandarsi se quella Storia per caso non sia già finita o non sia da stracciare e ricominciare da capo. In questo senso, soltanto in questo senso, l'Avanguardia è antistorica, ovvero non si evolve: ogni strappo, ogni rottura, ogni desacralizzazione è definitiva e quindi non ha nemmeno senso prendersela se gli avanguardisti di oggi non hanno molte idee in più di quelle di ieri (i critici obietteranno ma hanno i loro libri da vendere). Perché in effetti il Fontana che sfregia la tela, il Manzoni che caga nel barattolo, il Banksy che distrugge il suo quadro con un telecomando dopo l'asta, o un Cattelan che espone una banana, non ci dicono molto di più di Duchamp e non è nemmeno previsto che lo facciano: semplicemente ci ricordano che è tutta una farsa e che qualcuno si sta prendendo troppo sul serio. La stessa cosa decide di fare John Lennon con Revolution 9 e questo ovviamente mi disturba. Non dovrei? Perché in effetti ho un'età. Tutti questi anni ho studiato per ridurmi a scrivere trecento pagine in onore di un gruppo pop-rock del secolo scorso che ha suonato otto anni e poi si è sciolto e mezzo secolo dopo milioni di persone in tutto il mondo non si danno pace? Davvero: non ho nient'altro di meglio da fare?

Ovviamente da un punto di vista psicanalitico sarà abbastanza facile trovare qualcosa di irrisolto nell'avanguardista: molto spesso sarà un bambino che non sopporta l'arte degli adulti perché non la capisce. Come c'è qualcosa di represso nell'artista sperimentale, nella maggior parte dei casi un giovane adulto convinto che la macchina sferragliante ereditata dai genitori si possa ancora aggiustare cambiando magari qualche pezzo. A me piacciono i Beatles perché sono sperimentali: invece Yoko Ono fa avanguardia e posso capirne la necessità, ma non posso far finta che mi piaccia o anche solo che m'interessi, non scrivo mica su Mojo. Piuttosto di ascoltarmi Revolution 9 mi riascolto di nuovo Obladì Obladà accelerata a 45 giri, che mi fa ridere.


138. Any Time at All (Lennon-McCartney, A Hard Day's Night, 1964)


In qualsiasi momento, tu basta che mi chiami e sarò lì. Adesso, davvero, secondo voi quante canzoni hanno scritto Lennon e McCartney nel 1964? Sparate un numero... intanto io ho fatto il conto: ventiquattro. Due al mese. E come hanno fatto? Beh, possiamo continuare a ripeterci che sono due geni incomparabili e arrenderci al mistero. Oppure dare un'occhiata un po' più da vicino e scoprire che a volte anche loro dovevano ricucinare la stessa canzone, magari cambiando un po' i condimenti ma nemmeno così tanto. Per esempio Any Time at All, nel terzo disco, è per ammissione di Lennon una rifrittura di It Won't Be Long, la hit mancata del disco precedente. La progressione armonica, almeno, è molto simile: invece i versi dimostrano un gigantesco passo avanti. It Won't Be Long era stato l'ultimo vero brano yeh-yeh, quasi un'autoparodia o comunque un esperimento abbastanza audace: vediamo quanti "yeh" riusciamo a infilare in una canzone, vediamo se le vendite sono davvero proporzionali al numero di "yeh". Ma persino all'apice della beatlemania, quando qualsiasi canzone sembrava miracolosamente funzionare, a un certo punto era stato chiaro che It Won't Be Long non stava funzionando come gli altri brani infiocchettati di "yeh". Non fu nemmeno scelta come singolo. A questo punto John potrebbe essersi rimproverato di aver affondato una buona canzone, caricandola di "yeh" fino all'inverosimile. E se c'era una cosa che John detestava era sprecare le canzoni, quindi riecco in A Hard Day's lo stesso non banale giro armonico, senza più "yeh" e con contenuti completamente diversi: in luogo del machismo fatalista di It Won't Be Long, un rapporto paritario e basato sulla disponibilità, già prefigurato in All I've Got to Do e ruotante intorno a una parola centrale: "sympathize". John Lennon non ne ha la minima idea, ma sta scrivendo l'inno di un esercito che ancora non esiste, e che di lì a una generazione sarà legione: i friendzonati, i servi della gleba, i ragazzi che se hai bisogno di una spalla da piangere, o anche due, chiamami a qualsiasi ora io ci sono. Detto questo, è impossibile canticchiare Any Time at All senza cedere all'impulso di mixarla con It Won't Be Long e coi suoi "yeh" ossessivi. In fondo la prima canzone è la cattiva coscienza della seconda: l'uomo in ginocchio che canta "if you're feeling sorry and sad I'd really sympathize" sotto sotto sta pensando: "non ci vorrà molto (yeah! yeah! yeah!)... prima che sarò tuo. Yeah! Yeah! Yeah!


137. Good Day Sunshine (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

Ci siamo arrivati. Risalendo dal basso, siamo arrivati al primo brano di Revolver, l'album del 1966 che tradizionalmente si gioca con Sgt Pepper il controverso titolo di miglior disco dei Beatles. (Lo so che c'è chi preferisce Abbey Road o persino il Bianco, ma lo avete notato? Ci siamo già lasciati dietro parecchie canzoni dell'uno e dell'altro. Di Sgt Pepper invece fin qui nessuna traccia). Good Day Sunshine inaugura con contagiosa allegria il secondo lato di Revolver (dopo che il primo si era chiuso coi funebri presagi di She Said She Said, per inciso: un'altra canzone che flirta con la morte e coi tre quarti). Se vi sembra strano incontrarla così in basso, e soprattutto incontrarla per prima, dovete prendervela coi critici di Vulture che la odiavano al punto di inserirla al duecentrotredicesimo posto in una classifica di 213 brani dei Beatles. Un giudizio così drastico, va detto, non è condiviso dagli altri compilatori: Ultimate Rock la inserisce tranquillamente a metà classifica, Rolling Stone all'89esima posizione, insomma è uno dei casi in cui la bassa posizione di una canzone dipende unicamente dall'idiosincrasia di un critico.

Succede di solito alle canzoni di Paul. O le ami o le odi, si dice, ma non è vero. Paul gioca spesso, è il suo modo di comporre. Salvo che non sempre hai voglia di stare al suo gioco. A volte non capisci le regole, a volte le capisci ma non ti sembrano interessanti, a volte ti annoi davanti alla lista dei personaggi, il che succedeva spesso a John: chi è questa Rita, chi è Desmond, chi Molly, perché dovrebbe fregarmi qualcosa di loro? A volte invece il gioco sembra divertente e lo accetti, ma davvero è una cosa molto soggettiva, per dire a me piace Rocky Raccoon e detesto Honey Pie, ma capisco che per alcuni possa essere l'esatto contrario. E Good Day Sunshine? Non mi ha mai dato nessun fastidio, davvero. Non capisco come Vulture possa dire che rovina Revolver: mi sembra anzi un'ottima scelta per cominciare il lato B su una nota positiva. È un brano autoperformativo: non solo parla di quanto sia bella una giornata di sole, ma vuole essere quella giornata di sole. Ho sempre trovato brillante il gioco che fa Paul intorno al solito giro di Do, nella strofa, mentre mi ha sempre lasciato perplesso il ritornello, un po' irrisolto, anche se credo che subisca l'influsso della musica indiana ed è uno dei primi tentativi di Paul di introdurre in una canzone un raga (senza che si senta troppo odore di spezie, come nei contemporanei esperimenti di George). Ma in effetti ripensandoci ha proprio un senso questo ritornello inusuale, lievemente ipnotico, come una preghiere al dio Sole. Ok, non è un capolavoro. Forse è davvero la traccia più debole di Revolver, ma al 213esimo posto, davvero? Cento posizioni sopra il collage di rumori a caso? Siamo seri, su.


136. She's a Woman (Lennon-McCartney; lato B del singolo I Feel Fine, 1964).

Dal paesello ci verrai tu
(Jane Asher nel 1963).
La mia ragazza non mi fa regali, lo so che non vien mica dal paesello. She's a Woman sembra essere nata come un'evoluzione di Can't Buy Me Love, o comunque un tentativo di fare qualcosa del genere: un numero tutto di Paul e piuttosto rythm'n'blueseggiante. Di Can't Buy Me Love condivide anche l'ambiguità, o se preferite l'ipocrisia: i soldi non possono comprare la felicità, ma Paul sembra piuttosto soddisfatto di poterli esibire con quel tipo di atteggiamento che oggi definiremmo swag: ti comprerò un diamante, amica mia, se ti fa stare bene. In She's a Woman va un passo oltre, esibendo direttamente la sua "donna" proprio come se fosse una pietra preziosa da portare il dito, e non è soltanto in cerca di rime facili quando ci avverte che lei "is not peasant". È una donna che mi capisce, è una donna che ama il suo uomo, sapete una cosa buffa della parola "donna"? Che deriva proprio da "domina", signora della casa. Per cui mi raccomando, quando Dante Alighieri dice "la donna mia", non sta dicendo che è roba sua, non sta delimitando una proprietà, tutto il contrario: sta dicendo che è la sua signora e padrona. Non è il caso della Woman di Paul: lei ha gli occhi solo per lui. Il maschilismo di Paul è meno ossessivo di quello di John, ma è anche meno problematico: non arriva mai a un punto di crisi come in I'll Cry Instead o You Can't Do That.

Con questo brano, caratterizzato da una secca spennata in levare di Lennon che era piuttosto inusuale per i tempi, Paul pensava di avere trovato il singolo per il Natale 1964: finché Lennon non si inventò I Feel Fine, che parte in fondo dalle stesse premesse di She's a Woman: una strofa blues corretta da un bridge più pop, un testo maschilista e possessivo e allegramente materialista che dà forma ancor meglio di She's a Woman alle gioie della vita di coppia, vere o presunte che fossero ("her baby buys her things, you know, he buys her diamond rings"). È l'ultima volta che Paul perderà il derby per il singolo contro il collega: a partire dal 1965 e praticamente fino alla fine non sbaglierà più un colpo. We Can Work It Out segnerà il sorpasso sulla Day Tripper lennoniana, Paperback Writer manterrà il distacco su Rain, Penny Lane non eclisserà Strawberry Fields, ma Hello Goodbye, Lady Madonna, Hey Jude sanciranno una posizione di preminenza che John non riuscirà più nemmeno a contestare: dal 1965 Paul è l'uomo dei singoli. Nel frattempo Jane Asher lo aveva lasciato ma ehi, non si può sempre avere quello che si vuole, cantava il tizio.

martedì 18 febbraio 2020

I test Invalsi vanno presi sul serio (Aldo Grasso non lo fa)

Gentile dottor Aldo Grasso,
le scrivo ma non pretendo risposta, non credo nemmeno mi leggerà mai. Mi sembra comunque utile far notare che il suo ultimo, brevissimo intervento sull'Invalsi contiene in meno di duemila battute una densità impressionante di nozioni fuorvianti e/o false. Quel che è peggio, dottor Grasso, è che non credo che lei se ne sia reso conto. A monte ci sarebbe tutta una discussione da fare, sulla dimensione allucinata in cui vivete voi opinionisti dei quotidiani italiani, una specie di grotta in cui le ombre della realtà fattuale compaiono solo distorte in forma di fattoidi: quel tipo di news leggere che i giornali pompavano sulle colonnine delle homepage perché simpatiche e acchiappaclic ancorché irrilevanti. (Parlo al passato perché non vado più sulle homepage – dovrei? Per leggere cosa?)

Per farle un esempio: quando lei scrive "la verità è che la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni: presto sostituirà i voti con le faccine", si riferisce al singolo caso di una scuola primaria di Modena in cui ai genitori, oltre alla pagella – c'è scritto persino nel titolo, oltre alla pagella – è stato consegnato un questionario di autovalutazione con le faccine. Tutto qui. Non è un sistema alternativo alla valutazione in decimi: è uno strumento in più offerto ai genitori e agli alunni. È necessario leggere molto velocemente non dico l'articolo, ma persino il titolo, per giungere alla conclusione che una scuola primaria abbia sostituito i voti alle faccine. È necessario uno sforzo di fantasia ancora più ardito per suggerire che quel che succede in una scuola di Modena stia per diventare la norma in tutte le scuole della Repubblica. Infine, è rivelatore di una prolungata disattenzione nei confronti del sistema educativo nazionale pensare che la valutazione in decimi stia per essere soppiantata, quando chiunque sia cresciuto e abbia avuto figli negli ultimi 50 anni può testimoniare il contrario: i voti in decimi nella scuola dell'obbligo si usano molto più oggi che quando eravamo studenti noi. Io, un signore coi capelli bianchi, ricordo bene di non essere stato valutato in decimi fino al liceo, passando per ben due esami in due scuole di Stato. Oggi invece i voti si danno in decimi persino ai bambini di sei anni. È meglio, è peggio? Se ne potrebbe discutere. Quel che proprio non si può fare, dottor Grasso, senza truffare i propri lettori, è estrapolare da un articolo una notizia falsa (non è vero che una scuola di Modena ha sostituito i voti con le faccine) ed esibirla come evidenza del fatto che "la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni". Due bugie in due righe.

Tra tante cose a cui resiste la scuola italiana (dottor Grasso) c'è anche questa manifesta cattiva fede da parte di chi partecipa al dibattito sulla carta stampata. Qualche giorno fa lei ha appreso che la certificazione delle prove Invalsi era stata tolta da un documento definito come "curriculum degli studenti", una di quelle importantissime cose destinate ad ammuffire in un cassetto, e ne ha dedotto che il governo intendeva "secretarne i risultati". Ovviamente non è così: i risultati Invalsi continueranno a essere pubblicati, come ogni anno. E come ogni anno molti giornalisti non li leggeranno, ma preferiranno fraintenderli in toto come ha fatto lei, ostinando a riproporre la bufala estiva per cui "uno studente su tre in terza media ha problemi di comprensione del testo": non è vero, l'abbiamo detto in tanti che non era vero, ma a quanto pare dire il vero è l'ultima delle priorità dei giornalisti che si occupano della scuola.

"Se una classe va male, a volte, il docente non è esente da demeriti", scrive lei, e sembra fin troppo ragionevole, quando invece sta completamente fraintendendo il senso di una rilevazione statistica come la prova Invalsi, che non è stata mai concepita per dimostrare che "una classe" (o addirittura uno studente) va male: come ogni rilevazione statistica, ha un senso soltanto quando il campione è più esteso, e il campione delle prove Invalsi è il più esteso di tutti. Ci può servire al massimo a capire se una scuola ha risultati inferiori alle altre scuole del suo territorio; se un territorio ha problemi rispetto agli altri, eccetera. Usarla per giudicare il singolo individuo (o addirittura il suo singolo insegnante) non ha senso, perché per quanto possa essere "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà", una singola prova Invalsi non serve a niente. Cento, mille, un milione di prove Invalsi, qualcosa ce lo dicono. Una sola no, dottor Grasso, e guardi che non serve essere esperti di didattica per capirlo. Basta un po' di buon senso, e qualche nozione di statistica.

Gentile dottor Grasso, io capisco benissimo che scrivere millecinquecento battute per un quotidiano significhi semplificare: lei però è andato oltre. Certo, discutere delle prove Invalsi non è facile. Chi le scrive ha avuto l'opportunità di osservarle abbastanza da vicino sin dalla loro introduzione, in qualità di somministratore, correttore, tecnico di laboratorio, eccetera. Col tempo ho cambiato idea su molte cose e anche al momento ho la sensazione di covare due opinioni contraddittorie. Le metto qui sotto anche se probabilmente non le interessano.

– La prima opinione è che, per quanto interessanti, i test Invalsi non valgono la spaventosa quantità di risorse che vi vengono destinate, e che quindi avevano ragione i Cinque Stelle (si renda conto, avevano ragione i Cinque Stelle): sarebbe meglio abolirli. Tanto ci dicono più o meno quello che ci dicono le indagini campione OcsePisa (e quando non lo dicono gli statistici decidono subito che è a causa del "cheating", insomma l'indagine a tappeto deve conformarsi all'indagine a campione, e allora perché continuare a fare l'indagine a tappeto, a parte il motivo comunque degno che c'è bisogno di spenderci dei soldi e c'è chi ci campa da dieci anni?)

– La seconda opinione è che, se proprio non si possono abolire (e gli stessi Cinque Stelle non hanno fatto il minimo sforzo in tal senso; se ne sono strafregati, hanno lasciato per due anni il ministero a un leghista, mentre adesso la maggioranza è appesa a un tizio che è capacissimo di fare degli Invalsi un casus belli) insomma se proprio non si possono abolire, bisogna farli seriamente: e quando dico seriamente, dico che non solo vanno motivati gli insegnanti, ma soprattutto vanno motivati gli studenti. Altrimenti il quadro viene completamente falsato. Se tu spieghi allo studente che è una mera formalità che non serve alla sua valutazione, anzi (peggio!) soltanto alla valutazione del suo formatore (e quindi se mette le crocette a casaccio è il suo formatore che si ritrova nei guai!) tu non è che puoi lamentarti del fatto che i risultati siano deludenti. Quindi sì, l'Invalsi, se proprio dev'essere fatto, dovrebbe essere fatto seriamente e si deve trovare un modo di farlo pesare sulla valutazione dello studente, in tutti i passaggi. Volete la valutazione? Ok, ma occorre che tutti sappiano che non sarà un letto di rose: sarà ansiogena alle primarie, ansiogena alle secondarie, ansiogena sempre. Altrimenti questi per quattro ore ti piazzano crocette a caso e poi sulla base di queste crocette messe a caso qualche funzionario al ministero deciderà che la scuola X è meno buona della scuola Y, la provincia Z produce didattica meno qualitatevole della provincia W e altre agghiaccianti puttanate che tra vent'anni ci rideranno in faccia.

Se quindi fosse arrivato fin qui a leggere sarebbe sorpreso di sapere, dottor Grasso, che alla fine io non sarei affatto contrario all'inserimento della singola valutazione Invalsi sul "curriculum dello studente" o su qualsiasi altro foglio di carta destinato a infilarsi in un cassetto e a non dare più fastidio. Ma non perché credo che si tratti di "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà" (mi domando se prima di scrivere questa cosa ne abbia mai simulato uno, giusto per farsi un'idea meno preconcetta). Per me si tratta soltanto di motivare in un qualche modo lo studente a mettere le crocette nel posto giusto, tutto qui. L'Invalsi non serve a valutare lui, questo dovrebbe essere chiaro a tutti, ma a valutare i suoi docenti (e nemmeno i singoli): ma se lui non lo prende seriamente, l'Invalsi non funziona e con quel che ci costa è davvero un peccato.

Certo, su milioni di studenti prima o poi ci sarà senz'altro quello che si suiciderà, probabilmente per problemi suoi che il giornalista di turno preferirà sintetizzare con un bel titolo acchiappaclic, del tipo "si lancia dalla finestra: aveva sbagliato l'Invalsi". E a quel punto lei o il suo successore si ritroverà davanti l'incombenza di scrivere millecinquecento caratteri su quanto sia disumana la scuola moderna, con tutti questi test a crocette che pretendono di descrivere le nostre capacità e non ci perdonano nemmeno una debolezza. E vabbe', la scuola italiana resisterà anche a questa cosa, la scuola italiana resiste a qualsiasi cosa. Coi miei più distinti saluti, e qualche scusa per averla tirata in ballo – i miei pensierini funzionano meglio se ci metto in mezzo una firma famosa e me la prendo con lui. Non me ne voglia, suo eccetera.

martedì 11 febbraio 2020

Pietà di Morgan (sonata patetica)

Morgan ha più o meno la mia età, quindi non c'è mai stato un periodo della mia vita adulta in cui non ne abbia sentito parlare – il più delle volte perché, mi dicevano, si stava autodistruggendo. E vabbe' agli artisti capita, però, davvero: Jim Morrison nel '66 era uno sconosciuto, nel '67 incise Light My Fire, alla fine del '71 era morto. Janis Joplin, John Belushi, Amy Winehouse, ci siamo capiti. Morgan ha iniziato ad autodistruggersi mentre io ero matricola all'università e ora ho i capelli bianchi e non pubblico articoli accademici da boh, un decennio? Non voglio dire che ci seppellirà – immagino sia il compito che spetta a Vasco Rossi – però credo abbia perso meno capelli di me, preso meno chili, insomma la sua strategia di autodistruzione lascia molto a desiderare e produce risultati quasi indistinguibili dal logorio dell'esistenza di un cristiano standard con un lavoro i figli il mutuo. Del resto cosa c'è di più mortale della vita. Vivre, c'est très dangereux pour la santé, diceva un tale.
Fammi entrare per favore
Nel tuo giro giusto
Ho bisogno di socializzare
Di uscire dal mio guscio
Morgan a Sanremo ha fatto il Morgan. È stato incontrollabile, è stato insopportabile, bullistico, eccetera. Nessun dubbio, e però persino Sanremo conosce traiettorie di autodistruzione molto più nette e verticali, vedi Tenco. Morgan poi è esattamente la persona da cui ti puoi aspettare quel che è successo, e chi lo ha scritturato soprattutto non ha margini per stupirsi, né per lagnarsi. Bugo senza Morgan non sarebbe stato selezionato, e senza un Morgan così assolutamente Morgan sarebbe facilmente scomparso verso lo sfondo del festival, dove vanno a languire gli zarrilli. Bugo ha un disco in uscita e ora una ventina di milioni di italiani sanno chi è. Morgan non incide più niente da anni e forse per un po' è meglio che non si faccia vedere in Rai – ok, la Mediaset gli ha già aperto le porte, ma lui per primo sa quanto siano girevoli. Quindi sì, Morgan è un tizio che sopravvive facendo spettacolo di sé stesso, ipotecando lotti di credibilità che non riscatta quasi mai. Il paragone con Sgarbi non funziona, Sgarbi non muore mai, non si consuma, è infestante come la gramigna. Morgan non sembra altrettanto immortale: diamo tutti per scontato che abbia ancora un piccolo patrimonio di visibilità e reputazione che però si sta mangiando, proprio come i rentier del tempo che fu si mangiavano la terra dei genitori.

Morgan ha più o meno la mia età, e come faccio a non capirlo. Si tratta di uscire vivi dagli anni Ottanta in Valpadana, dalla rockstar nell'era della sua riproduzione di massa, quella sensazione diffusa per cui eravamo tutti convinti che una vita da David Bowie o anche solo Simon Le Bon ci spettasse per diritto di nascita: bastava credere ai propri sogni e sperare che i genitori non mandassero in malora la fabbrichetta, il mobilificio. Ne siamo usciti quasi tutti, Morgan no: forse perché aveva appena un briciolo più di talento di altri, o forse perché ne aveva troppo poco per accorgersene, ma insomma gli è capitato questo destino di prigioniero di una dimensione dismessa, una tempolinea che non frequenta più nessuno: invece di invecchiare sbiadisce come le copertine dei Rockstar e dei Ciao2001 chiusi in uno scatolone del solaio. Morgan ci imbarazza come un Dorian Gray distorto, e allo stesso tempo ci riconcilia con la nostra mediocrità, perché lui ha effettivamente vissuto la vita di eccessi e avventure che volevamo vivere a sedici anni, e non sembra poi questa gran vita dopotutto.

Morgan del resto ha un problema, e lo sappiamo tutti qual è il suo vero problema, vero? Ecco, questa è una cosa che sento dire praticamente da sempre. Non mi è mai capitato di assistere a una conversazione su Morgan, anche solo a uno scambio di battute su un social, senza che non arrivasse qualcuno a ribadire l'ovvio, a rimarcare che insomma, dai, lo sappiamo perché si comporta così. Lui stesso, bisogna ammetterlo, non ha mai fatto molto per smentire la vox populi. E però insomma se parliamo di Sanremo, di uno spettacolo dove ci si aspetta che conduttori e artisti alle soglie dei sessant'anni ballino e cantino arzilli alle due del mattino, vuoi vedere che l'unico a indulgere nell'uso di eccitanti e vasodilatatori debba essere necessariamente Morgan? Inoltre: quand'è che cominciamo a dirci che le dipendenze non sono il movente, ma un sintomo? Sono anche uno straordinario moltiplicatore di casini, nessuno lo nega. Ma nessuno mi leva il sospetto che Morgan sia più che altro vittima del suo personaggio. Le dipendenze ti tirano fuori il peggio, esagerano i tuoi colori naturali, e si dà il caso che Morgan per campare abbia bisogno di dare il peggio di sé.

Morgan ha più o meno la mia età (e il mio sesso) e quindi non avrebbe mai potuto davvero piacermi. L'invidia mi ha sempre impedito di apprezzare i coetanei, o forse semplicemente non suonava musica che m'interessasse. Sotto la maschera da maudit mi sembrava di indovinare un piazzista e devo dire che a un certo punto ho persino iniziato ad ammirarlo proprio perché riusciva a rivendersi come un intellettuale ripetendo due o tre nozioni da ginnasio; gli bastava recitare un verso uno di Omero perché Simona Ventura andasse in brodo di giuggiole, Mara Maionchi ne parla ancora bene e in un certo senso ha ragione lei, oltre a un certo livello la cialtronaggine diventa una forma d'arte e lui quel limite spesso lo superava. Finché non succedeva qualcosa di imbarazzante, al che mi accorgevo che Morgan mi faceva pena, anzi addirittura che cominciavo a preoccuparmi per lui come per un fratello minore: che insomma stavo invecchiando più rapidamente. Ed è una cosa che mi fa rabbia, preoccuparmi per le persone che nemmeno conosco, come se quelle che conosco ed amo non mi bastassero, non mi avanzassero. Poi a un certo punto ho messo a fuoco una cosa, una cosa di cui non mi pare parlino in molti, quando capita di parlare di Morgan. La pena che provavo per lui era una reazione morale al fastidio fisico di sentirlo cantare. Avete presente la voce di Morgan? È una tortura, sia per chi l'ascolta che (suppongo) per chi la sta usando.

È un chiavistello arrugginito che non scatta più e lo stesso deve girare, girare, è straziante. Ogni verso è uno sforzo, uno strappo a una catena. Morgan ha perso la voce a un certo punto, e non gli torna. Per un po' è sembrata una menomazione momentanea, ma sono anni ormai: anni in cui ha praticamente smesso di incidere. Ci sono cantanti che sono riusciti a fare delle loro difficoltà laringali un punto di forza, ma non è il suo caso. Morgan aveva un suo timbro e l'ha perso, e si è ritrovato a trentacinque anni incapace di fare l'unica cosa che sapeva fare per campare. Poi certo, il narcisismo che serviva per non mollare a vent'anni e ti impedisce di capire dove ti trovi a quaranta; le dipendenze che ti tirano il peggio, la tv che ti chiede di fare la ruota finché non cadi e poi ti butta senza complimenti, tutto probabilmente vero. Ma niente mi toglie l'idea che alla fine certe scenate non siano che i pezzi di bravura di un tizio che deve rivendersi come cantante, cantando il meno possibile. Va bene, sì, la maschera è quella di un cialtrone arrogante, d'accordo, ma lo capite che sotto c'è un signore di mezza età con le corde vocali a brandelli? Poi uno dice le dipendenze: vorrei vedere voi cosa v'inventereste al posto suo.

Morgan alla fine ci prova a suonare, a cantare (anche se non dovrebbe più), a farci divertire, Morgan qualcosa combina sempre. Spero di continuare a sentirne parlare finché campo, perché in fondo mi ha sempre fatto ridere e litigare, che è una cosa che mi piace, ma soprattutto mi ha sempre fatto sentire meglio di lui: più colto, maturo, sobrio. I feticci televisivi a questo servono: a concimare il nostro piccolo vasetto d'autostima, a sentirci migliori di gente che alla nostra età si comporta più o meno come i compagni di classe antipatici che avevamo alle medie, e guardate che ci vuol talento anche per comportarsi così a quarant'anni. Quasi cinquanta. Jim Morrison a 27 si era già chiamato fuori, ricordiamo.

domenica 9 febbraio 2020

Non dimenticarti di ricordare di non scordarti di rammentare che che che

Ogni anno il Ministero mi manda un pdf sul Giorno del ricordo; ogni anno un po' più sbiadito, come se tutti i febbrai lo ristampassero, lo scannerizzassero, lo pidieffizzassero per rimandarmelo l'anno dopo.