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90. Yellow Submarine (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).
And our friends are all on board... La prendo un po' lunga: all'inizio di Amadeus c'è questa gag straordinaria del vecchio Salieri che suona i suoi più grandi successi a un giovane confessore che deve ammettere di non averli mai ascoltati. Finché Salieri con un sorriso amaro, intona un motivetto che la mia generazione associa inevitabilmente al coro "Sai chi è / quel giocatore che / gioca a calcio meglio di Pelè...", e quella il confessore la riconosce al volo, come noi del resto. La canticchia pure. A quel punto siamo tutti contenti finalmente di essere inciampati in qualcosa che conosciamo. Ma abbiamo anche già intuito che quel qualcosa non l'ha scritto Salieri: l'ha scritto Mozart. E così il film riesce a persuadere noi ignoranti che Mozart è davvero un genio, perché? Perché ha scritto il Requiem? il Don Giovanni? No: perché lo cantano anche allo stadio.
Yellow Submarine è la canzone da stadio dei Beatles. È l'unica che da bambino avrei saputo cantare anche se non ne avevo mai ascoltato la versione dei Beatles, anzi quando alla fine la incontrai rimasi un po' deluso, mi immaginavo un technicolor disneyano e invece è un numero artigianale, alla buona, una cosa tra amici. Davvero, Yellow Submarine è un coro di amici, ma anche di colleghi di lavoro: come quando si portano i pasticcini in ufficio per un compleanno e si stacca tutto dieci minuti prima. Perché poi i Beatles di Revolver sono ancora dei professionisti con un occhio all'orologio, e tutto questo popò di festa con megafoni e gavettoni e belle ragazze e anfetamine gialle è confinato in due splendidi minuti e mezzo. Nei dischi successivi i Beatles si prenderanno molto più tempo per lanciarsi coriandoli e altre sostanze, ma nessuna festa riuscirà mai meglio di questa.
È incredibile che Yellow Submarine non sia nemmeno tra le prime 89 canzoni in classifica, sotto ad I'll Follow the Sun, i critici hanno le pastiglie gialle nelle orecchie. Tra un paio di secoli magari i Beatles li conoscerà soltanto qualche vecchio all'ospizio. Ai giovani operatori assistenziali canticchierà A Day in the Life senza attirare nessuna attenzione, canticchierà Strawberry Fields Forever ottenendo soltanto sguardi perplessi. Finché non intonerà "In the town where I was born", e allora sì, allora sorrideranno anche loro: questa la conosciamo, l'ha scritta lei? Complimenti.
(Il Sottomarino Giallo si muove nelle profondità di un progetto più volte abbozzato e mai veramente intrapreso: un disco sull'infanzia a Liverpool. "There are places I remember", cantava John l'anno precedente; "In the town where I was born" riecheggia Ringo, e anche se nessuno è consciamente autorizzato a identificare il "man who sailed to sea", non c'è modo di scacciare dal fondale il pensiero del padre di John, il marinaio che voleva portarlo da bambino in Australia e a quel punto i Beatles non sarebbero mai nati. Yellow Submarine è anche il tentativo di trasformare un passato difficile, impestato di ricordi della guerra, in un paradiso infantile: come se un bambino avesse trovato una vecchia foto di uno degli ordigni più orribili mai concepiti dall'uomo, un cilindro pressurizzato dove qualche decina di uomini vivono gomito a gomito in attesa di uccidere o essere uccisi, e decidesse di colorarlo col pennarello più sgargiante che ha, quello giallo).
89. I'll Follow the Sun (Lennon-McCartney, The Beatles For Sale, 1964).
Io non c'entro niente, non guardate me. I'll Follow the Sun è una vecchissima canzone di McCartney – una delle prime a essere composta dal ragazzino, e si sente; è riciclata dai Quattro nel momento più disperato della loro fulminea carriera, ovvero quando nel 1964 stanno per partire per l'ennesimo tour senza un LP da vendere, e decidono coerentemente di registrare le prime cose che gli vengono in mente: qualche cover di cui fino a quel momento si erano vergognati, qualche pezzo buono ma che finirà eclissato da tanta mediocrità, qualche pezzo strano che alla fine dà a tutta l'operazione quel senso di incompiutezza che lo distingue, e siccome comunque non si arrivava alla mezz'ora incisero anche I'll Follow the Sun, con quella tipica strumentazione acustica che per un pezzo lento è la scelta più facile: vogliamo anche dire la più paracula? Ok, l'abbiamo detto.
I'll Follow the Sun ha il sapore acerbo, indefinito ma inconfondibile del pezzo scritto da un principiante che aveva in mente una melodia ma non sapeva ancora metterci gli accordi giusti, e mentre li cercava si è dimenticato anche un po' della melodia. Sono brani sghembi che è facile trovare nelle opere prime di molti artisti, mentre i Beatles avevano inciso già quattro album prima di cominciare a svuotare i cassetti. È probabilmente l'unico brano dei Beatles con quella progressione di accordi, ma è abbastanza per trovarcela davanti al numero 89, davanti a Yellow Submarine? Non chiedete a me, non porto pena, in questo caso fu USA Today quattro anni fa a mettere in fila 188 canzoni dei Beatles e a dichiarare, senza spiegazione, che I'll Follow the Sun si era classificata 27esima. Secondo me se l'erano dimenticata e all'ultimo momento l'hanno infilata nel primo buco che hanno trovato.
88. I'm a Loser (Lennon-McCartney, The Beatles For Sale, 1964).
I'm a Loser contiene uno dei versi più necessari della letteratura mondiale, ovvero: is it for her or myself that I'm crying? Non dico che dovremmo recitarlo tutti ogni volta che stiamo per metterci a piangere – ma quando abbiamo finito sì, vale sempre la pena di porsi il problema: per chi abbiamo pianto davvero? Come abbia fatto la Saggezza nel tardo 1964 a impossessarsi di una rockstar impasticcata che cominciava a stufarsi del carrozzone non si sa, non è chiaro – nel Libro dei Proverbi c'è una strofa gustosissima in cui la Saggezza pur di arrivare agli uomini si reca agli incroci delle strade, un luogo dove si esercitava uno specifico mestiere, che per gli autori biblici era quasi un'ossessione, ecco, invece la nostra ossessione sono le rockstar e quindi semplicemente la Saggezza non fa altro che svendersi, nei secoli dei secoli.
I'm a Loser contiene un altro verso fondamentale per la carriera compositiva di John Lennon, ovvero I'm not who I appear to be, il primo tentativo di scrollarsi di dosso quel personaggio pubblico che in quel periodo gli stava stretto (non solo metaforicamente: in quei mesi aveva preso parecchi chili, va' a sapere per quale pillola o quale crisi di astinenza da). Il pretesto narrativo è ancora quello di una insoddisfazione amorosa, ma Lennon sta cominciando a credere in quel che canta: persino la scipita rima "crown/clown" già opzionata dai Platters in The Great Pretender che si era ripromesso di non usare mai adesso ha un senso, adesso può essere cantata senza sembrare una sciocchezza: di lì a Help! il passo è breve.
I'm a Loser segue No Reply e precede Baby's in Black in quella che i beatleologi chiamano la trilogia lennoniana, i primi tre pessimistici pezzi di Beatles for Sale. Se appare meno innovativa di No Reply è per un effetto ottico: l'armonica che irrompe nell'inciso non è un ritorno alle origini ma l'annuncio di un nuovo continente appena scoperto. È una diatonica, stavolta: quando uscì I'm a Loser era il primo brano ad avere un distinguibile sapore folk se non proprio dylaniano, benché già completamente stilizzato; come se Lennon fosse riuscito a distillare quegli aspetti che rendevano in un qualche misterioso motivo Bob Dylan il personaggio più cool della sua generazione anche se non era chiaro ancora a nessuno (a Dylan meno di tutti) in cosa consistesse tutta quella coolness. Qui, come quattro anni dopo in Long Long Long, il proposito è di estrarre da Dylan la quintessenza poetica o anche soltanto l'anima pop, tagliando tutto quel grasso folk, tutta quella cultura del Midwest che ai Beatles e ai loro acquirenti non interesserebbe. Paul suona la tipica linea del walking bass, proprio come un turnista di New York o Nashville che cerchi di stare dietro con professionalità a un folksinger dagli accordi imprevedibili. È un annuncio di cose a venire: Beatles for Sale esce a dicembre, Dylan registrerà la sua prima canzone elettrica in gennaio, Subterranean Homesick Blues. Gli accordi di John non sono così imprevedibili, ma I'm a Loser è un esperimento senza il quale non avremmo avuto nemmeno You've Got to Hide o Norwegian Wood. D'altro canto se fosse davvero un capolavoro non starei citando tutte queste canzoni – sul serio quanti altri titoli ho scritto in tremila battute? I'm a Loser non è nemmeno la prima canzone che mi suggerisce Google se scrivo il titolo, il che per una canzone dei Beatles è una vera umiliazione (so why don't you kill me).
87. You Won't See Me (Lennon-McCartney, Rubber Soul).
Una delle cose che mi fa impazzire di internet è che puoi rivalutare qualsiasi cosa. Davvero, se getti via il primo strato di hater – come il primo strato di neve sporca quando ne cadeva un mezzo metro, ma che ne sapete voi millenial – ci trovi un universo di gente che ama qualsiasi cosa tu vada googolando. Prendi, che ne so, uno dei pezzi dei Beatles che ti piace di meno, prendi You Won't See Me. Vai su Beatles Bible e trovi gente che ne va matta, la gemma nascosta di Rubber Soul, dicono. Piaceva tanto anche a Bob Marley, forse per via di una cover giamaicana che a quanto pare ebbe un ruolo seminale nel definire quello ska rallentato che sarebbe diventato il reggae, ok, molto interessante, ma stiamo davvero parlando di You Won't See Me?
Tu invece non hai mai capito che senso avesse, a parte quello ovvio di ennesimo ultimatum di Paul McCartney a Jane Asher: perché te ne vai in tournée quando io sono a Londra? Perché resti a Londra quando io sono in tournée? Perché non ti rassegni al tuo ruolo di lady Beatle come Maureen che faceva la parrucchiera o Cynthia che fa, beh, fa la moglie di John? Perché non ti fermi semplicemente ad ammirarmi, come qualsiasi altra ragazza della tua età sarebbe felice di fare? Quando dico che Paul è disarmante mi riferisco a canzoni del genere. John quand'è geloso senz'altro fa più paura, ma è un sentimento che si lascia facilmente interpretare come senso d'inadeguatezza. Paul invece ti lascia senza fiato, tanto genuinamente è sorpreso che una persona non lo consideri il centro dell'universo.
Nel bridge di You Won't See Me c'è un bisticcio che ricorda quello di No Reply: "I wouldn't mind if I knew what I was missing". Se ci riflettete non ha nessun senso, almeno in una delle tre proposizioni Paul avrebbe dovuto mettere un "you" come soggetto, ma non gli viene spontaneo quanto ripetere costantemente io, io, io: e del resto Jane non sta più ascoltando. In comune le due canzoni hanno anche il telefono, strumento non già di comunicazione ma di tortura per il Maschio che non riesce a controllare la linea. (Il primo verso in effetti è memorabile: "When I call you up, your line's engaged. I have had enough, so act your age"). You Won't e No Reply disattendono uno dei luoghi comuni dei beatleologi – l'assioma per cui Lennon parla sempre di sé mentre Paul preferisce inventarsi personaggi e ambientazioni. Stavolta è proprio l'opposto: Lennon in No Reply costruisce un bozzetto smaccatamente fittizio – la ragazza alla finestra che si nega al telefono – mentre Paul in You Won't See Me sembra aver perso tutti i filtri narrativi. Sta parlando di sé stesso, di una relazione che non riesce a condurre nella direzione che vorrebbe: sta esprimendo la sua frustrazione, un senso di inesorabile estraniamento affettivo che si esprime anche nel contrappunto, quella scala cromatica discendente talvolta sottolineata dai coretti – persino gli ammiratori di You Won't See Me ammettono che quegli "ooh la la" in falsetto non sono la soluzione ottimale, anche perché nella versione europea di Rubber Soul precedono gli "ooh la la la" di Nowhere Man. La scala cromatica riappare poi ribaltata, ascendente, al termine della strofa, dopo che Paul ha cantato il titolo: "you-won't-see-me", come un trucco di scena di cui Paul non riesca a stancarsi; e in effetti questa sovrabbondanza cromatica è uno degli stilemi con cui anche il profano tende a identificare un 'suono Beatles'.
Uno dei contributi inconsapevoli dei Beatles all'emancipazione di genere è il modo in cui certi verbi che definiscono il corteggiamento nelle loro canzoni diventino unisex: il caso più famoso è belong, "appartenere", usato per indicare una condizione passiva finché Lennon, ispirato dal suo amore per i giochi di parole, in It Won't Be Long, lo trasforma nel suo opposto, cantando "non ci vorrà molto prima che ti apparterrò", in luogo di "conquisterò". Anche in You Won't See Me assistiamo a un capovolgimento semantico, un lapsus dettato dal narcisismo di McCartney, che per tutta la canzone si dichiara sinceramente frustrato perché la ragazza non potrà vederlo. "Diventerò matto se tu non mi vedrai". Qualsiasi altro autore avrebbe scritto "se non ti vedrò", ma in questo specifico caso ha ragione Paul: il problema è proprio che la Asher non aveva tutto questo tempo per ammirarlo. Uno non può impedirsi di pensare che no, con un'attrice di teatro non avrebbe mai potuto funzionare; mentre per contro, una fotografa...
86. Revolution 1 (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
"Più famosi di Gesù" is for boys Più famosi di Mao, though... |
"Ma quando parli di distruzione sai che puoi includermi fuori". Lennon dice proprio "you can't count me out, in" (che forse si dovrebbe tradurre "escludermi dentro") lasciandoci la libertà di scegliere se si tratti di un'esitazione o di un lennonismo. Nessuno sa come si comporterebbe davvero in una rivoluzione, a volte basta un nonnulla per trovarsi sul lato sbagliato della ghigliottina. Nemmeno Robespierre, nemmeno Lenin sapevano come sarebbe andata a finire: tantomeno chi la rivoluzione se la trova già in casa e sta soltanto cercando di cavalcarla, spinto da un genuino interesse per il nuovo ma anche da uno strisciante terrore di perdersi qualcosa (Fear of missing out, la chiamano oggi). Per esempio Lennon era tra i tanti nuovi "rich men" che cominciavano davvero ad aspettarsi le Guardie Rosse alle porte, eppure con Revolution 1 di porte ne spalanca in tutt'altra direzione: potremmo dire che il glam rock nasce proprio con questa canzone. Non era esattamente la Rivoluzione prevista dal Libretto Rosso. Forse è una rivoluzione nel senso astronomico, quel moto che prevede che dopo una lunga rotazione ellittica un pianeta torni esattamente al posto dov'era partito, un posto dove ci sono ancora juke box che cantano shoo bee do bop, bop, shoo be doo bop...
Tra tante canzoni dei Beatles nate come parodie, Revolution 1 è forse l'unica a essere diventata la parodia di sé stessa. Non era l'intento iniziale di Lennon, che col brano inaugura le session ufficiali del Disco Bianco: com'era già successo con i due dischi precedenti, la prima fase della lavorazione è quella in cui si indulge di più negli esperimenti. Revolution è in assoluto il brano che sposta più lontano i limiti dell'indulgenza: Lennon a un certo punto sembra concepirlo come una lunga suite, in cui la struttura pop iniziale cede progressivamente a una lunga improvvisazione estemporanea su cui eventualmente montare qualche ulteriore esperimento di musica concreta prodotto insieme a Yoko Ono. Una suite del genere sarebbe stata una novità per i Beatles, ma un oggetto non così bizzarro in un disco del 1968: due anni prima i Rolling Stone avevano infranto il muro dei dieci minuti con Goin Home; i Mothers di Zappa avevano già inciso The Return of the Son of Monster Magnet, una lunga suite rumoristica molto apprezzata dallo stesso Paul McCartney; nel 1967 i Doors avevano sconvolto l'America con The End. I Beatles avrebbero potuto raccogliere la sfida della controcultura? Dipendeva soprattutto da Lennon, e Lennon era indeciso se contarsi dentro o fuori.
Al netto della diffidenza dei colleghi, la suite di Revolution avrebbe definitivamente portato i Beatles all'avanguardia, ma richiedeva il sacrificio di un brano che aveva potenzialità commerciali. E se c'era qualcosa che a Lennon dispiaceva buttar via, ancor meno che i soldi, era una buona canzone. Da cui una prima decisione di tagliare Revolution in due parti, la 1 e la 9: quel tipo di segregazione che poi avrebbe continuato a praticare anche una volta sciolti i Beatles, per cui malgrado il tanto sbandierato sodalizio artistico, il suo materiale e quello di Yoko sarebbero stati quasi sempre venduti in confezioni separate. Estremismo artistico, pragmatismo commerciale.
Anche nella sua versione breve, Revolution 1 non era il singolo che Lennon avrebbe voluto dare ai Beatles nel pur rivoluzionario 1968: da cui la scelta di distorcerlo, accelerarlo, com'era successo con Please Please Me e Help!, ma soprattutto prenderlo sul serio, sconfessando l'atteggiamento disincantato e ironico che dominava la versione lenta; eliminando anche l'ambiguità di quel gioco di parole, per un più franco "count me out". Così trasformata, Revolution divenne il lato B di Hey Jude e ottenne a quanto pare il risultato di confortare molti studenti in rivolta sull'appoggio 'esterno' di John Lennon: un fratello maggiore che dimostrava attenzione per le loro rivendicazioni ma resisteva alla tentazione di spararsi pose rivoluzionarie (Mick Jagger con Street Fighting Man non aveva resistito). "E comunque non capisci che andrà tutto bene..." Sì, ma bene come? Nessuno ancora lo sa, ma fidati fratello, andrà bene. È John Lennon, come fai a non fidarti.
Verso la fine dell'anno però uscì il doppio LP con la versione originale, che ora per contrasto sembrava ancora più rallentata e parodica. Anche chi conosce la storia deve farsi un minimo di violenza per ricordare che il Lennon rilassato e ieratico di Revolution 1 è anteriore a quello grintoso del singolo. Questo credo succeda proprio perché nella versione dell'album Lennon gioca con la sua canzone come fanno molto spesso gli interpreti successivi, quando provano ad aggiungere stilemi diversi ma non originali. Così anche stavolta nel Nuovo che non ti aspetti ci sono tante tracce di un Vecchio che credevi rimosso: quel ripescaggio di vecchi stilemi del rock'n'roll di cui faranno tesoro Marc Bolan e David Bowie, gli shoo-bee-doo-bop che attendono inesorabili la fine della psichedelia e il ritorno del caro vecchio juke box; quei fiati che invece di suonare una fanfara rivoluzionaria sembrano volerti ripiombare in una balera odorosa di brillantina. Non suonano nemmeno Elvis ma la sua versione ancora più bianca e reazionaria, proprio il Pat Boone di Love Letters in the Sand: La, Reb Mi Reb Mi La. E chi è il Divo che coi maoisti alle porte decide di selezionare Pat Boone sul suo juke box e sedersi in posa contemplativa a godersi lo spettacolo in attesa dell'Eterno Ritorno, magari con un basso in mano che per un'intera strofa suona una nota sola? Questa rockstar indecisa davanti al suo destino tragico di Messia della nuova Apocalisse? No, non è Ziggy Stardust, ma nemmeno ci manca molto. "E quindi non capisci che andrà tutto bene..." Sì, ma bene come? Nessuno ancora lo sa, ma ora è impossibile fidarsi.
85. Things We Said Today (Lennon-McCartney, A Hard Day's Night, 1964).
Da-da-dan. Essere Paul McCartney significa, ad esempio, trovarsi in vacanza su uno yacht con Jane Asher, e invece di passare il tempo con Jane Asher, sprecarlo sottocoperta a sperimentare nuovi giri d'accordi e a comporre una canzone a proposito di quanto rimpiangerà il tempo passato con Jane Asher. In inglese la chiamano "reverse nostalgia", la nostalgia per quando avremo nostalgia di adesso, e in Italia l'ha brevettata Giacomo Leopardi col Passero Solitario. Però Leopardi quando scriveva "sconsolato volgerommi indietro" barava, il Passero l'ha scritta tardi e poi l'ha retrodatata. Invece Paul nel '64 aveva già la sensazione che le cose si sarebbero messe peggio – inoltre si era preso un'insolazione, la stanza puzzava di carburante, insomma la vita da ricchi non stava dando tutte queste soddisfazioni. Things We Said Today forse non suonerebbe così tetra se non si ritrovasse in un album sgarzolino come Hard Day's Night: è una delle prime canzoni in cui si inverte una delle convenzioni fin qui adottate dalla ditta Lennon-McCartney, il bridge in minore dopo due strofe in maggiore: qui è l'esatto opposto, un preludio alle atmosfere più problematiche del disco successivo. La schitarrata iniziale è una gran trovata: in una frazione di secondo ci informa che la canzone ha intenzione di suonare più acustica del solito, e prepara il terreno per il colpo di scena del bridge, quel passaggio da minore a maggiore che dà l'impressione che sottocoperta qualcuno abbia acceso la luce. Il futuro incerto sbiadisce e Paul riafferra gioioso il presente fortunato: Me I'm just the lucky kind, sono un ragazzo fortunato.
84. She Came in Through the Bathroom Window (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969)
Domenica è al telefono fino a lunedì; lunedì è al telefono con me. Il medley di Abbey Road assomiglia alla scarica finale dei fuochi artificiali. Per quanto meraviglioso, è abbastanza chiaro che è stato realizzato con gli avanzi. Tutti i colpi in canna che da soli non avrebbero detto molto, sparati a batteria, senza lasciare all'ascoltatore/spettatore il tempo di prendere fiato. Sono tutti pezzi o combinazioni di pezzi a cui mancava qualcosa, e il senso di ineluttabilità forse è dato proprio dal loro accumulo, senza un vero criterio che non sia quello di incastrarsi nello stesso contenitore lasciando meno spazio possibile al vuoto, insomma c'è uno sgombero in corso e nulla dev'essere lasciato indietro. L'unica apparente eccezione è She Came in Through, il solo pezzo completo di strofe e ritornello (anche se combinate in modo insolito). E malgrado Lennon non la trovasse un granché, fu il primo brano a trovare un interprete che la elevasse alla dignità di canzone completa, Joe Cocker nientemeno.
E allora perché anche She Came risuona in qualche modo incompiuta? Forse è solo una suggestione, la vicinanza con altri numeri più frammentari. Oppure è il testo, che sembra non avere senso ma non ha neanche quelle esibite caratteristiche di nonsense tipiche di molti brani lennoniani. Il problema con Paul è che da lui il nonsense non te lo aspetti, e lui d'altra parte non ha intenzione di avvisarti: te lo dispensa con la stessa flemma con cui ti snocciola una canzone d'amore o una filastrocca per bambini, così da lasciarti sempre il dubbio: forse ho capito male io. Quando John vuole fare il surrealista ti avverte con la musica, a volte accenna un passo di valzer o spinge la voce su territori ipnotici. Paul invece vuole mettere il surrealismo sul rhythm'n'blues e ti spiazza, è un rebus autobiografico o un brogliaccio con le prime parole che gli venivano in mente?
Così lei che "entrò dalla finestra del bagno" può senz'altro riferirsi a una delle fan che facevano picchetto fisso davanti al suo villino in Cavendish Avenue e poi davanti alla Apple. Magari è la stessa Polythene Pam del brano precedente, e a questo punto il medley comincerebbe a raccontarci una storia; ma se è "protetta da un cucchiaio di argento" è un'eroinomane che lo usa per cuocerci la dose? più probabilmente una giovane ereditiera che può permettersi qualsiasi effrazione; nel frasario idiomatico inglese "nascere col cucchiaio d'argento" significa crescere viziati. Del resto possiede una "bank", che però forse è solo il "banco" di una palude ("lagoon"). D'altro canto è una ballerina che lavora in quindici club al giorno, il che provoca a Paul una smorfia repressa, perché conosce la risposta indicibile a una domanda che nessuno ha formulato – che sia la stessa mitomane di Drive My Car? Ma esiste un posto dove si può ballare in quindici club al giorno? Pare proprio di sì, ed è la Reeperbahn di Amburgo. E mentre ci chiediamo tutto questo, la Les Paul di George commenta il cantato, squillante e impassibile, come se tutto avesse un qualche senso. Così alla fine Paul ha lasciato il dipartimento di polizia per trovarsi un lavoro fisso – ma qui è fondato il sospetto che il nonsense mascheri una censura: forse all'inizio Paul aveva "chiamato" la polizia, per denunciare un'effrazione, una cosa veramente poco hip da raccontare in un disco nell'anno di grazia 1969. Uno non può fare a meno di notare che nei due brani più memorabili del Medley, Paul non fa che parlare di furti. Qualcuno "non gli dà mai i suoi soldi", qualcun altro gli entra in casa dalla finestra, è un'angoscia. Anche se qui sembra molto più tranquillo, si sforza di prenderla in ridere, insomma è rientrato nel personaggio.
83. The Fool on the Hill (Lennon-McCartney, Magical Mystery Tour, 1967).
E lui non li ascolta mai, lui sa che i matti sono loro. Nell'ottobre del 1967 Paul McCartney sparì per due settimane. Non disse niente neanche ai compagni. L'unico forse a sapere qualcosa era Peter Brown, il manager subentrato temporaneamente a Brian Epstein, a cui Paul a un certo punto telefonò dalla Francia perché il suo cameraman, Aubrey Dewar, aveva bisogno di un'ottica particolare per un filmato che stava realizzando – una cosina da quattromila sterline. Quando tornò, aveva pronto il video di The Fool on the Hill, da inserire in quel Magical Mystery Tour che era già in fase di montaggio, e di cui rappresenta l'unico spezzone girato con un equipaggiamento professionale. Il che ci dice varie cose, magari non tutte vere ma verosimili: che Paul si stava rendendo conto che il filmino improvvisato coi colleghi era un pasticcio, e sentiva la necessità di raddrizzarlo un po', come un manager neopromosso che di nascosto corregge le magagne dei dipendenti che non riesce a dirigere; il numero che sceglie di raddrizzare è non casualmente il più mccartneyano di tutti, ma è anche il più ambizioso e cinematografico, quello che prosegue la svolta 'technicolor' di Sgt Pepper con un'accelerazione sensibile. È un brano che aveva bisogno del giusto corredo d'immagini: con Walrus e Blue Jay Way si poteva benissimo buttarla in buffonata artistoide, ma con The Fool Paul si sta misurando con Tin Pan Alley se non con la stessa Hollywood: se non sta davvero scrivendo lo standard per un musical, vuole perlomeno dimostrare di esserne capace. I tre colleghi, anche se non stanno già boicottando, rischiano comunque di essere di intralcio. The Fool è una questione tra Paul e il pubblico: deve farcela da solo. La canzone del resto parla proprio di questo: di un personaggio preso per matto che non se ne cura, lui è l'unico che vede le cose nel modo in cui devono essere. Da questo punto di vista anche il filmato avrebbe potuto essere un campanello d'allarme: bella fotografia, d'accordo, senz'altro superiore al resto del film, ma in sostanza di trattava di un reportage su Paul che saltellava e ammiccava su uno sfondo agreste, tutto solo appassionatamente.
Poche canzoni come The Fool on the Hill spaccano il fronte dei critici e dei beatleologi. È la peggiore canzone che i Beatles hanno mai inciso, scrisse Robert Christgau su Esquire; la negazione di tutto quello che i Beatles avevano rappresentato fino a quel momento per John Landau su Rolling Stone; uno dei brani migliori dei Beatles per il beatleologo Nicholas Schaffner. A John piaceva, o perlomeno non l'ha mai osteggiata, sin dalla prima volta che Paul gliela fece ascoltare al pianoforte e lui gli consigliò di scriversela ("sennò te la dimentichi"). A chi la detestasse in effetti consiglio di riascoltarla proprio nella versione per solo piano di Anthology, senza il corredo orchestrale e quel flautino irritante.
Dite la verità: magari non è il vostro genere, ma non sareste orgogliosi di avere in squadra un elemento che tira fuori numeri così? È certo una canzone che riporta alla luce qualche traccia di un inconscio archivio musicale che Lennon e McCartney condividevano: una specie di cantina che da poco avevano iniziato a esplorare, incoraggiati da George Martin. Nel passaggio dal re maggiore della strofa al re minore del ritornello Alan W. Pollack riconosce un cliché dei compositori romantici; Ian MacDonald fa notare come il passaggio da maggiore a minore (che abbiamo già più volte paragonato al giocare con l'interruttore della luce) restituisca perfettamente la sensazione del sole al tramonto proprio sulle parole "sees the sun goes down", il momento in cui in un film si stacca dall'oggetto pienamente illuminato per inquadrarlo di nuovo, ma controluce. Il che è suggestivo, ma anche un po' didascalico.
Ancora più didascalico è il ricorso al flauto, anzi pare sia un flagioletto: Lennon lo avrebbe ripreso sarcasticamente in Glass Onion, ma a modo suo l'irritante flauto acuto di The Fool è già una parodia degli strumenti esotici che ultimamente impreziosivano i alcuni dei brani più ambiziosi dei Quattro: l'ottavino di Penny Lane, il sitar, il finto clavicembalo di In My Life. Abbiamo veramente bisogno di tutte queste cose?, si domanda Paul verso la fine dell'anno di Sgt Pepper. Non ci basta un flauto da tre penny? (In inglese il flagioletto si chiama anche "threepenny flute"). Ed è un po' la contraddizione in cui si sta dibattendo Paul, sospeso tra ambizioni da compositore adulto e un'insofferenza per tutti gli aspetti tecnici del suo mestiere: proprio come... come un regista che decidesse di fare un film senza avere la minima idea di cos'è una sceneggiatura.
82. You Never Give Me Your Money (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).
Oh, quel magico feeling, ma dov'è finito. Capita a tutti gli autori di volersi ripetere: una canzone ha funzionato, proviamo a farne un'altra più o meno così. Apparentemente, non va mai a finir bene; oppure: quando finisce bene, gli ascoltatori nemmeno se ne accorgono. Non è il caso di You Never Give Me Your Money, che nemmeno ci prova a non sembrare il tentativo di Paul di rifare un numero alla Happiness Is A Warm Gun, un brano realizzato attraverso la giustapposizione di elementi autonomi, che trasgredisce una delle fondamentali convenzioni della musica pop e popolare: tutto deve ripetersi almeno una volta. Strofa, ritornello, bridge, la gente vuole ripetizione e solo John Lennon, nel 1968 aveva deciso di non dargliela. Ma quello che per lui era stato un esperimento estemporaneo (un'operazione di avanguardia) dal 1969 in poi diventerà una delle specialità dell'ex collega, che dopo You Never Give userà lo stesso procedimento per scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili (e vendute) nel decennio successivo: Uncle Albert / Admiral Halsey, Band on the Run, la stessa Live and Let Die.
Quella che per Lennon era una semplice sfida (che una volta vinta con Happiness non aveva più senso replicare), in McCartney diventerà una tecnica, magari funzionale a stemperare la stucchevolezza dei motivetti che produce con ritmi quasi fisiologici. Prendi la frase iniziale iniziale di You Never Give, un tema quasi bacharachiano che si fischietta al primo ascolto. In altri casi McCartney aveva ceduto al richiamo dell'easy listening: stavolta no, vuole fuggire, e in effetti la canzone parla di questo. Ma parla anche del suo contrario, paradossalmente: la canzone che descrive la voglia di Paul di alzarsi da una incomprensibile riunione di affari e scappare in limousine è anche l'ennesimo tentativo di Paul di ribadire che i Beatles esistono come insieme. Tornare alle partiture difficili, ai cambi di tempo e di tonalità, come era successo un anno prima con Happiness, uno dei momenti di maggiore collaborazione durante la lavorazione del Disco Bianco. I Beatles avevano bisogno di sfide per andare avanti – un trucco escogitato nello stesso periodo era stato invitare musicisti in presenza dei quali sarebbe stato imbarazzante litigare: Clapton, Preston. Un'altra possibilità era arrivare con qualcosa di complicato, che richiedesse impegno e coordinazione. Lungo questa via prima o poi i Beatles sarebbero arrivati al prog – uno degli aspetti più sorprendenti di You Never Give è che dura soltanto quattro minuti. Qualsiasi altro gruppo del periodo con un materiale simile ce ne avrebbe messo almeno il doppio, ma d'altronde siamo nel Medley, no? Anche se forse non ce ne siamo ancora accorti.
Se il Medley finale di Abbey Road è un album-nell'album, una specie di miniatura in cui tutto sembra muoversi più velocemente, You Never Give Me è un medley-nel-medley. Al tema iniziale – l'unico destinato a tornare più tardi – subentra un movimento vagamente ragtime, con un pianoforte accelerato da Paul per dare quella qualità da pianista-nel-bordello, e un cantato quasi recitativo in cui dichiara con qualche licenza poetica che la ditta è fallita. Ma c'è ben di più nell'aria e Paul non perde tempo a dircelo: tempo sedici battute e la musica cambia di nuovo, mentre Paul ci informa che è finito il feeling, oh, quel magico feeling. Ora è solo una progressione di tre accordi, e i cori di George e John (vagamente evocativi di A Day in the Life) ci danno l'impressione che i Beatles siano finalmente arrivati in quello che fino a quel momento poteva sembrare l'ennesimo siparietto vintage di Paul. Proprio a questo punto cominciano i forsennati cambi di tempo che portano all'ultimo momento, quello della fuga in limousine: un sogno di evasione che se non "è diventato vero oggi", come canta Paul, comunque si sta già realizzando nella musica. Se You Never Give riesce a riscattarsi dal suo destino di "Happiness Is a Warm Gun 2" è anche perché compie il tragitto inverso: se Happiness è un brano sperimentale che alla fine collassa in un doo-wop anni '50, You Never Give è un brano confidenziale che poi diventa un ragtime, poi un brano dei Beatles e nel suo ultimo mezzo minuto non assomiglia più a niente, è in fuga da tutto: è rock, è una filastrocca ("1-2-3-4-5-6-7...") scandita da un funereo arpeggio che suona Beatles senza assomigliare a nient'altro i Beatles abbiano mai inciso; è la libertà che ci aspetta in campagna quando tutta questa pazzia sarà finita. Questione di mesi, di settimane ormai.
81. I Will (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
"It verges from the sublime to the ridiculous!" (Paul McCartney, all'inizio della take 13). Chi sa da quanto t'amo / lo sa che t'amo ancor. I Will è una delle poche canzoni del Disco Bianco (1968) che avrebbe potuto essere incisa anche un paio di anni prima, se non addirittura nel 1964 – con un arrangiamento più convenzionale, ovviamente, ma I Will l'avremmo potuta ascoltare persino in Help! o in Beatles for Sale. All'interno di un lungo doppio album centrifugo, ripieno di trovate e canzoni che si sforzano tutte in un qualche modo di sembrare diverse, I Will è il brano meno eccentrico, quello che gira più vicino al centro di gravità del gruppo: i Beatles fanno brevi canzoni d'amore, le hanno sempre fatte e non possono smettere nemmeno adesso, Rivoluzione o no.
Se Paul torna al limitatissimo frasario amoroso di qualche anno prima non è ancora per nostalgia: I Will non è una citazione dei 'vecchi Beatles', né una parodia. Allo stesso tempo, gran parte dell'incanto di I Will sta proprio nel suo ritrovarsi in mezzo a quel gran pasticcio che è il Disco Bianco, tra un inno protofunky all'Amore dei Macachi e un'invocazione di John alla Moglie-Madre. In altri dischi sarebbe un numero abbastanza convenzionale: tre strofe, due bridge e pedalare. Una formula che tanta fortuna aveva portato ai Beatles, ma che nel 1968 li aveva comprensibilmente annoiati e questo è uno dei paradossi del Disco Bianco: una lunga festa dove a volte si perde tempo a fare cose stupide e inutili, e in altri casi si taglia anche più corto del necessario. Raramente si ricade nel giusto mezzo ma questo è il caso di I Will. Perché farla durare due minuti e mezzo se ne basta uno ad allestire tutto il necessario? Così la strofa dopo il bridge contiene già le variazioni che preparano il finale, che pure arriva a sorpresa, camuffato da secondo bridge. Una costruzione piuttosto sofisticata, per un mini-brano che si presentava come l'ennesima variazione sul giro di do. La chitarra acustica ribadisce con fraseggi puntuali la sua prominenza sul Disco Bianco, mentre la scelta di doppiare il basso con la voce lascia perplessi ma diventa il punctum della canzone, il motivo per cui te la ricordi al primo ascolto e non la dimentichi più. Sappiamo che la notte in cui la registrò, Paul forse cercava qualcosa di diverso: aveva in mente forse un arrangiamento più latineggiante e tentò di condurre John e Ringo sui sentieri impervi della bossanova (George era assente). Ma lo sappiamo perché abbiamo ascoltato Anthology: il risultato finale è una canzoncina apparentemente semplice, non molto latineggiante. Paul sapeva fare un passo indietro, ogni tanto.
Grazie per il bellissimo post. Solo una cosa: quando (mi auguro!) raccoglierai tutti questi articoli sui Beatles in un libro, ti prego di correggere il Re bemolle in Do diesis! Alla fine di Revolution.
RispondiEliminaP.S. mi aspetto una nota a piè di pagina!
non sono sicuro di avere capito la differenza
RispondiEliminaSe sei in La maggiore, la nota che fa parte dell'accordo è Do#, non Re bemolle. Hanno lo stesso nome e corrispondono allo stesso tasto sul pianoforte, ma hanno due funzioni diverse nell'armonia. Un fatto di ortografia musicale, per così dire
EliminaSu Revolution, qualcuno dice che nella versione ambigua (in/out) Lennon forse si considerasse ancora possibilista, mentre poi fosse più sicuro del proprio pacifismo. Mah
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