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giovedì 31 ottobre 2024

Il diavolo è il mio architetto

31 ottobre: San Volfango (924-994), vescovo di Ratisbona che fece costruire una chiesa al diavolo, ed esistono architetti peggiori. 


Michael Pacher

Volfango è uno dei santi più popolari della Germania cattolica, il che meriterebbe un discorso a parte, nel senso che la Germania cattolica mi sembra un corpo mutilato a cui non è stato concesso di evolversi; è una sensazione che dovrei verificare sul campo e non ne avrò mai il tempo, ma qui più che altrove mi sembra più facile imbattersi in leggende medievali che medievali sono rimaste: oggi sono buone da rivendere come aneddoti, o per valorizzare qualche sito turistico – ma la sensazione è che già nel Medioevo la loro funzione fosse la stessa. Il caso di Volfango è esemplare: si legge ad esempio un po' dappertutto che fu il vescovo che "fece costruire al diavolo una chiesa", anche se poi nessun sito in italiano riporta la leggenda per esteso. Si tratta in sostanza di una storia messa in giro per reclamizzare un santuario, da gente che Volfango non sapeva più nemmeno chi fosse: un nome sul calendario la cui vita si poteva riscrivere a piacere. Del Volfango storico, invece, cosa sappiamo? 

Rampollo di buona famiglia, Volfango rinnega gli studi brillanti, rinuncia a una cattedra episcopale a Treviri ed entra nel monastero di Einsiedeln. Ci resta sei anni e poi scopre una vocazione all'apostolato che lo porta in luoghi ancora selvaggi e non cristianizzati (la Boemia e la Pannonia che qualcuno comincia a chiamare Ungheria, in quanto gli Ungari vi si sono appena installati). Come missionario però Volfango non ottiene risultati apprezzabili, e così ripara in Baviera, dove gli viene offerta la cattedra di Ratisbona. Stavolta Volfango accetta, ma continua a vestirsi e comportarsi da monaco, rifuggendo le glorie del ministero. In una fase in cui i vescovi ragionano da feudatari e tendono ad accrescere i territori di loro competenza, Volfango si comporta nel modo opposto e acconsente a scorporare dalla sua diocesi l'enorme provincia della Boemia, "cosi che la Chiesa li rinvigorisca". Volfango insomma aveva capito che se siamo tutti utili, nessuno è necessario; e che da qualche parte in Boemia prima o poi sarebbe arrivato un evangelizzatore migliore di lui. 

Passato a miglior vita nel 994, nel giro di cinquant'anni Volfango era già stato canonizzato, dopodiché per un paio di secoli fu sostanzialmente dimenticato. La sua riscoperta è dovuta al progressivo affermarsi di un santuario presso un lago salisburghese, l'Abersee, che a un certo punto diventa Wolfgangsee. Probabilmente per dare lustro al santuario (o per reclamarlo come proprio) i monaci della vicina abbazia di Mondsee cominciano a sostenere che sia stato fondato da Volfango, durante un periodo di eremitaggio che non risulta dalle biografie. 

Volfango avrebbe scelto il luogo dove edificare la chiesa lanciando un'accetta dal monte soprastante – antico cerimoniale d'origine pagana. Da qui un proliferare di leggende non troppo originali; quando Dio gli chiede di edificare una chiesa da solo, Volf tira un pugno a una roccia dalla disperazione, o forse per spaccarsi la mano: ma Dio la sa più lunga e la roccia diventa gommosa. Volf allora decide di soddisfare la richiesta divina facendo un patto col diavolo, il che è abbastanza incoerente e veramente poco consono a un vescovo-monaco; comunque il diavolo in questione è il solito fesso disposto a costruire qualsiasi cosa in cambio dell'anima del primo cristiano che entri nell'edificio. Ma certo, dice Volf, e firma il contratto; poi esce a cacciare un lupo, lo traveste da pellegrino, e quando la chiesa è pronta lo fa entrare per primo. Il diavolo è talmente ghiotto di anime che si getta sul lupo senza accorgersi del travestimento, da cui una zuffa tremenda e da quella volta in poi il diavolo non ha costruito più chiese, che persino a Renzo Piano le fanno fare ma lui no, basta, non lo fregano più. Nei Paesi di lingua tedesca, Volfango è patrono di diverse categorie professionali, e soprattutto dei taglialegna, per via dell'accetta.


mercoledì 30 ottobre 2024

Il crollo della mente democratica

 


– Come ogni bisestile al Ponte dei Morti eccoci qui, a pregare gli dei che non ci mandino altri quattro anni di sventura. Non tanto gli dei, quanto gli elettori statunitensi, i quali però sono altrettanto capricciosi e quasi onnipotenti, per cui in effetti che differenza fa? I nostri nipoti ci giudicheranno molto diversi dai popolani che aspettavano nel Rinascimento la fumata bianca, o nel medioevo che le campane squillassero a festa perché era nato un re? La razionalità è molto sopravvalutata, questa è la lezione che tiriamo dagli ultimi due secoli di Storia, che forse per coincidenza sono stati due secoli molto americani. È veramente assurdo pensare che il destino della terra dipenda dall'umore di un allevatore della Pennsylvania; veramente assurdo ma assolutamente vero, da cui la domanda: com'è possibile che sia andata a finire così? O è stato sempre così, salvo che non ci era ancora chiaro (per cui dovremmo quanto meno salutare lo svelamento)? O in realtà non è affatto così, le elezioni USA non essendo che una bizzarra e sempre più grottesca liturgia, al termine della quale le decisioni verranno prese sempre dallo stesso deep state – che però non ne azzecca una comunque? Non ne ho la minima idea. 

– Non ho neanche la minima idea di chi vincerà stavolta l'ennesimo round tra il Male e il Meno Peggio, e a proposito: trovo incredibile, complottisticamente incredibile, che di quadriennio in quadriennio le elezioni diventino sempre più contese e incerte – voglio dire, quante probabilità dovrebbero esserci che l'ago della bilancia debba sempre sospendersi al centro esatto? È come se nel caos crescente gli elettori USA tendessero invece a un equilibrio che in qualsiasi altra elezione avrebbe un senso; e invece duecento anni fa hanno deciso che avrebbero eletto una carica monocratica e niente, non li smuovi, sono sicuri di avere il sistema migliore al mondo e chi li può contraddire. È un sistema che carica su un solo uomo una quantità di potere crescente e intollerabile, una spada di Damocle che farebbe impazzire anche chi non avesse i problemi geriatrici di un Trump; o forse i problemi di un Trump (e di un Biden) sono quello che li immunizza dalla tensione che avrebbe ucciso chiunque altro al loro posto. O forse la tensione li ha già uccisi dentro: vuoi vedere che la demenza senile sia una malattia professionale.


– Kamala Harris invece è viva, ma questo fa di lei una candidata credibile? Lo è diventata senza nemmeno disputare delle primarie che probabilmente avrebbe perso. Con lei, fanno otto anni che i Democratici non riescono a esprimere un leader carismatico; nemmeno quando il competitor è un pagliaccio. Del resto da un leader carismatico ci si aspetterebbe che fosse in grado di cambiare le cose, e questo forse è il pensiero che sta paralizzando la mente democratica: l'idea che prima o poi le cose debbano cambiare, e che tocchi a loro cambiarle. Affrontare la crisi climatica, con i mutamenti drastici che porterà nei comparti industriali ed energetici? Accettare l'emergere di nuove potenze economiche più che militari (ma anche militari), non necessariamente rivali, ma che da qui in poi non consentiranno più agli USA di assumersi quel ruolo di gendarme mondiale che Bush Primo si caricò sulle spalle e che Biden non riesce a scrollarsi? Mettere almeno una pezza ai buchi che Biden ha fatto ovunque? A differenza del suo boss, Kamala Harris conserva le risorse intellettive necessarie a rendersi conto che l'amministrazione che rappresenta è responsabile di un genocidio in Palestina e di una guerra su larga scala in Europa. Trump ha almeno la scusa di non capire cosa succede dove e perché – dopodiché, tra un demente e un criminale immagino che il criminale sia la scelta più razionale: d'altro canto, guarda dove ci ha portato tutto questo raziocinio. Probabilmente se fossi cittadino USA alla fine voterei comunque per la Harris, per il semplice motivo che me lo chiede Bernie Sanders. Se mi sforzo, qualche motivo per preferirla a Trump lo trovo. La deriva ormai esplicitamente nazista di tanti sostenitori di quest'ultimo; il rischio (ormai concretizzato) di una Corte Suprema blindata a destra nei decenni a venire; l'idea che il tizio possa mettersi a improvvisare sul fronte di quella che tra Ucraina e Iran sembra sempre più una guerra mondiale: certo che alla fine sceglierei la Harris. Ma con la consapevolezza di dover scegliere il genocida più efficiente, quello che sporcherà meno. 

– L'amministrazione democratica, ci dicono, ha ottenuto grandi risultati per quanto riguarda l'economia. Ci fa tanto piacere; nel frattempo i giovani ucraini sono decimati, la Germania è in stato confusionale, la Corea del Nord combatte per la prima volta su un fronte europeo, i talebani hanno vietato la diffusione della voce femminile (sì, anche il ritorno dei talebani a Kabul è responsabilità dell'amministrazione Biden), i turchi fanno quel che gli pare in Kurdistan e d'altro canto che gli vuoi dire, nel mentre che Israele bombarda al tappeto Gaza e Palestina e dichiara guerra alle Nazioni Unite? Però l'economia tira, ebbene, magari c'era modo di farla tirare senza precipitare il mondo in questa catastrofe. Tutto questo, duole dirlo, è successo nei quattro anni di Biden e sarebbe successo anche senza la parentesi di Trump – stava a Biden tentare un riavvicinamento all'Iran che avrebbe allentato la tensione in Medio Oriente, e non l'ha fatto. Stava a Biden sbloccare la questione palestinese, ma siamo onesti: nemmeno Obama ci aveva provato, cosa avrebbe potuto fare il vecchietto? Stava a Biden evitare che il ritiro dall'Afganistan diventasse una rotta, e non l'ha evitato. Stava a Biden evitare che la tensione in Donbass degenerasse in guerra aperta, ed eccoci qui. Nemmeno Nixon presenta ai posteri un conto tanto sanguinoso, o almeno bisogna ammettere che i massacri perpetrati in America Latina durante l'amministrazione Nixon almeno portavano vantaggi concreti; laddove è veramente difficile capire quali vantaggi strategici siano arrivati a Washington dalla guerra in Ucraina o dal genocidio palestinese. Non dico che siano guerre perse, non è affatto detto che alla fine non le vinceranno: ma sono guerre terribilmente stupide. Potrebbe averle davvero prese un anziano in stato confusionale, o comunque una classe dirigente anziana, abbandonata alla sua inerzia.

– Otto anni fa Trump era ancora considerato un outsider rispetto al ventre molle del Partito Repubblicano; oggi né è il volto più presentabile (il meno peggio!), e la sua stramberia può essere recepita dagli elettori come rassicurante: il ricordo di quattro anni in cui tutto sembrava più semplice. Nel frattempo l'emergenza climatica comincerà a presentare il conto, il che metterà a seria prova la tenuta di tutte le democrazie – non solo gli USA. Ne abbiamo avuto un timidissimo assaggio durante il covid, per cui se vogliamo farci un'idea di come reagirà alla crisi un'eventuale amministrazione Trump2, dobbiamo ricordare come reagì nei mesi del covid. Grosso modo, come tutti i governi occidentali; con qualche lentezza, senza troppo rivendicare le sospensioni delle libertà individuali, ma la paventata fuga nella Negazione non ci fu. Il mondo non è un romanzo di David Foster Wallace, anche se le somiglianze sono innegabili. È chiaro che al suo posto preferirei un presidente che metta al primo punto all'ordine del giorno la fine della dipendenza dagli idrocarburi, ma è anche chiaro che Kamala Harris non è quella presidente.

– Una postilla su Elon Musk, che abbiamo canzonato per quattro anni perché si era comprato quella sola di Twitter, e adesso magari ci vince le elezioni. Può darsi che il capitalismo, nella sua accelerazione, abbia già raggiunto la velocità di fuga dalla realtà, per cui passeremo gli ultimi anni prima dell'estinzione di massa a finanziare missioni su Marte a un bambinone bianco un po' sudafricano. Se andrà così, non potremo dire di non essercene accorti in tempo. Avevamo tutti gli strumenti per frenare in corsa, tranne forse la volontà. Non siamo quel tipo di specie che frena, anche quando i segnali sono chiarissimi. Le formiche forse avrebbero fatto di meglio; forse faranno di meglio. Di noi magari non resterà che qualche razzetto inutile in un posto dove nessuno potrà respirare per trovarlo.

martedì 29 ottobre 2024

La fuga di Narcisso

29 ottobre: San Narcisso (96-212), patriarca dimissionario di Gerusalemme 


Non so a voi, ma a me Eusebio da Cesarea non convince mai del tutto. C'entrerà anche l'età, invecchiando si diventa diffidenti. Ci si interessa alla cronaca nera, dentro la nostra testa comincia a prendere forma un archivio, e questa cosa dell'allontanamento volontario di San Narcisso dalla cattedra di Gerusalemme ci fa suonare un campanello d'allarme di cui fino a qualche anno fa non eravamo forniti. 

Eusebio nella sua Historia ecclesiastica ammette che a un certo punto Narcisso fu accusato da almeno di tre testimoni, ma che nessuno volle credere alle accuse "perché la purezza di Narcisso, sotto ogni aspetto illibata, e la sua condotta tutta adorna di virtù risplendevano agli occhi di tutti". Di conseguenza Eusebio sceglie di non riportare le calunnie, e fino a qualche anno fa approvavo la sua scelta: contro diffamatori e pettegoli, la miglior vendetta è il silenzio. 

E però da qualche anno in qua non so cosa mi stia capitando – o forse lo so benissimo – insomma il tempo è un tarlo che mi scava e mi sussurra che se davvero Narcisso fosse stato al di sopra di ogni sospetto, nessuna voce calunniosa avrebbe potuto danneggiarlo. Evidentemente Eusebio, che scrive un secolo dopo e faceva il vescovo anche lui, in un luogo non troppo lontano (Cesarea di Siria) temeva che le accuse dei tre testimoni avrebbero potuto danneggiare la reputazione, anche se non erano mai state suffragate da prove, e anzi confutate dalla stessa giustizia divina. 

I tre testimoni avevano infatti invocato l'ordalia, procedimento non sappiamo quanto abituale nella giustizia ecclesiastica del secondo secolo: dopo aver reso una testimonianza giurata, avevano chiesto a Dio di ucciderli se dicevano il falso. Il primo teste aveva chiesto di morire in un incendio, il secondo in una pestilenza, il terzo mediante accecamento. Eusebio, pur definendoli senza mezzi termini degli spergiuri privi di qualsiasi credibilità, deve ammettere che provocarono le dimissioni di Narcisso. Il quale, riferisce Narcisso, già da anni covava il desiderio di dedicarsi alla "filosofia", ovvero alla vita ascetica: per cui un bel giorno scomparve, e nessuno sapeva più dove fosse. 

Qualche anno fa non ci avrei fatto caso, ma adesso mi sembra una fuga bella e buona. Qualcuno lo aveva accusato di qualcosa di straordinariamente infamante, e Narcisso era fuggito: sotto un tappeto di parole complimentose, Eusebio ci sta raccontando uno scandalo avvenuto nel patriarcato di Gerusalemme. Non posso sapere di cosa era stato accusato, ma dentro di me l'archivio di scandali ecclesiastici si sta già sfogliando da solo: per quali motivi un alto prelato si dimette da una cattedra? Le accuse dovevano essere ben gravi, e forse un po' più circostanziate di quanto scrive Eusebio. Il quale ha un bel da raccontarci della morte miracolosa dei tre testimoni (il primo perì in un incendio, il secondo contrasse un morbo pestilenziale, al che il terzo prese paura e confessò un complotto per diffamare il patriarca, e mentre lo confessava piangeva così forte che perse gli occhi e morì): anche dopo una riabilitazione così plateale, Narcisso restò uccel di bosco. Anzi di deserto. 

I gerosolimitani dovettero nominare un altro patriarca, Dios, a cui succedette rapidamente un tale Germanione e poi un certo Gordio. Quest'ultimo però deve avere avuto altri problemi che Eusebio non spiega, limitandosi a informarci che l'episcopato di Gordio fu bruscamente interrotto dall'improvviso ritorno di Narcisso, ri-acclamato dai gerosolimitani. A questo punto doveva essere molto anziano, magari già ultracentenario, per cui chiamò ad aiutarlo un altro vescovo e non il primo arrivato, ma Alessandro di Cappadocia, che poi diventerà Sant'Alessandro di Gerusalemme. Di lui conserviamo anche un biglietto a certi fedeli egiziani in cui riporta anche i saluti di Narcisso, notando che quest'ultimo aveva compiuto 116 anni. Qualche anno fa mi sarebbe sembrata una semplice esagerazione, ma adesso ho questo famoso campanello che non smette di squillare: un vescovo che scompare nel deserto e poi ricompare anni dopo e ne compie 116? Possibile? 

E se Alessandro avesse portato in città un sosia da manovrare? Oppure Narcisso aveva semplicemente mentito con gli anni per sembrare più vecchio e malato ai tempi della sua prima elezione, proprio come Nino Manfredi nel conclave di Signori e signore buonanotte. In fondo ai tempi chi è che teneva i registri battesimali... gli bastava aver perso i capelli e i denti a quarant'anni, per poter dire in giro di averne sessanta o anche più, quel tipo di prelato con un piede nella fossa che viene nominato per prender tempo – dopodiché miracolosamente ringiovanisce, magari comincia anche a combinare qualche guaio da cinquantenne ancora pimpante, al punto che deve sparire nel deserto – ma alla prima occasione ritorna in città con qualche amico potente, salvo che ufficialmente ormai è decrepito, ma che importa, tanto contro di lui ci sono solo voci non verificabili, e chi vuoi che abbia l'interesse o la curiosità di verificarle? Certo non Eusebio di Cesarea.

lunedì 28 ottobre 2024

L'altro Giuda

28 ottobre: San Giuda apostolo (I secolo), (non quel Giuda, l'altro).

Antoon Van Dyck, 1616
Oggi è San Giuda, auguri a tutti i Giuda, ma immagino non ce ne siano molti a festeggiare. È abbastanza comprensibile che il nome del traditore di Gesù non abbia avuto molto successo tra i cristiani, mentre era con ogni probabilità il nome più diffuso tra gli ebrei al tempo di Gesù – che del resto più che ebrei venivano chiamati Giudei. Giudea era la provincia governata da Ponzio Pilato: gli abitanti si consideravano israeliti perché discendenti di Giacobbe detto Israele, ma quest'ultimo aveva avuto dodici figli, progenitori delle omonime dodici tribù. La tribù di Giuda, nella quale sarebbe confluita quella di Beniamino, era l'unica – se si eccettua la casta sacerdotale dei leviti – ad avere conservato la propria identità dopo l'esilio in Babilonia: le altre tribù non si sapeva bene dove fossero, e vengono tuttora chiamate le "dieci tribù perdute". Insomma Giuda era il nome più giudeo in assoluto, e non è affatto strano che fosse condiviso da ben due dei dodici apostoli – del resto anche Simone e Giacomo erano doppioni. In Marco e Matteo però la lista conta solo un Giuda, l'Iscariota. È Luca il primo a menzionare un altro Giuda, detto "di Giacomo" – il che non ci aiuta certo a identificarlo, vista la quantità di Giacomi intorno a Gesù. 

Giuda potrebbe essere fratello o figlio di uno dei due apostoli, e/o del Giacomo che negli Atti è chiamato "fratello del Signore" e che sembra aver retto la chiesa di Gerusalemme dopo la partenza di Pietro. Giuda insomma potrebbe essere fratellastro o cugino di Gesù, ma nessun evangelista sembra voler calcare troppo su questo dettaglio: per Gesù i legami di sangue non erano così importanti. Gli altri due evangelisti sinottici, in luogo di questo Giuda di Giacomo, inseriscono un Taddeo ("Di gran cuore"), per cui spesso San Giuda viene chiamato San Giuda Taddeo o semplicemente Taddeo. L'ultimo evangelista, Giovanni, ricorda tra i commensali dell'ultima cena un Giuda "non Iscariota", ed è l'unico a dargli voce, soltanto per chiedere al Signore: "Come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?" Un'ottima domanda, a cui il Signore risponde in modo abbastanza elusivo ("Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui"). 

Giuda è menzionato di nuovo da Luca negli Atti degli Apostoli, tra i Dodici che ricevono lo Spirito Santo durante la Pentecoste: dopodiché perdiamo le sue tracce. L'imbarazzante omonimia col traditore di Gesù gli ha impedito di diventare un santo veramente popolare, al punto che nessuna Chiesa sembra reclamare il possesso delle sue reliquie. Qualche leggenda lo vuole missionario e martire in Armenia, insieme a un altro apostolo di secondo piano, Simone detto lo Zelota. A lui è attribuita anche una breve lettera verso la fine del Nuovo Testamento, in cui si mette in guardia una comunità della presenza di individui empi e dissoluti che vogliono spingere i credenti a rinnegare Gesù Cristo. Ha tutta l'aria di una polemica eresiologica, il che ci fa sospettare che la lettera sia stata scritta già nel secondo secolo, e quindi non da uno degli apostoli di Gesù. La cosa paradossale è che l'autore, mentre cerca di difendere un'ortodossia, svela una cultura molto sospetta, e la conoscenza di testi che la Chiesa aveva già rigettato come apocrifi, ad esempio il Libro di Enoch. In effetti è l'unico testo della Bibbia in cui si faccia esplicita menzione di quella famosa ribellione angelica che sarebbe terminata con la condanna inappellabile per gli angeli ribelli. C'è chi ha accusato l'autore di essersi firmato Giuda per millantare la propria vicinanza al cerchio più ristretto dei seguaci di Gesù, però bisogna anche dire che Giuda era ancora un nome molto diffuso nel I secolo: non c'è motivo di pensare che non si tratti di un banale caso di omonimia.

venerdì 25 ottobre 2024

I santi calzolai

25 ottobre: Santi Crispino e Crispiniano, martiri e calzolai (III secolo)

Gruppo scultoreo policromo presso la chiesa di Saint Pantaléon a Troyes (1540-1560)

Noi pochi, noi felici, noi banda di fratelli!
Agli inglesi San Crispino ricorderà invariabilmente la battaglia di Azincourt (1415), il momento più glorioso di quella guerra dei Cent'anni che a quel punto andava avanti già da ottanta; celebre non tanto perché tre quarti di secolo dopo Crécy gli inglesi continuavano a fregare la cavalleria pesante francese più o meno nello stesso modo (pioggia di frecce e poi mischia ravvicinata), ma perché Shakespeare più tardi l'avrebbe eternata mettendo in bocca al suo re ideale, Enrico V, uno dei più celebri discorsi motivazionali. Oggi è San Crispino, dice Enrico ai suoi: chi non vuole combattere vada pure, ma chi resterà se lo ricorderà per tutta la vita, e potrà dire di avere combattuto nel giorno di San Crispino, e sarà fiero di mostrare le sue cicatrici a quelli che si struggeranno di non esserci stati, e tutto quel tipo di retorica che macina carne da cannone da millenni. Agli italiani invece San Crispino ricorda un vino da tavola in cartone. 

E altrove? Nel resto d'Europa Crispino e il suo collega Crispiniano sono soprattutto i santi calzolai. Il loro è il tipico caso di martiri che devono la loro popolarità, più che al martirio, alla professione che a cui sono erano stati originariamente associati. Chi fabbricava e riparava calzature, soprattutto nell'Europa del nord (in Italia erano meno conosciuti) ci teneva ad avere una loro immagine in bottega; se poi la categoria in città aveva una certa importanza e voleva dimostrarlo, facilmente avrebbe commissionato a un pittore una Sacra Conversazione coi due santi calzolai almeno in secondo piano, da sfoggiare nella cattedrale cittadina. Il pittore a quel punto sapeva di dover rendere i due ciabattini riconoscibili in quanto tali; e benché la tradizione più antica li volesse fratelli gemelli, spesso si preferiva dipingerne uno un po' più giovane dell'altro, così come in una bottega c'è sempre un apprendista e un titolare. Del resto "Crispiniano" significa "di Crispino": poteva esserne il figlio, o un ex schiavo rimasto a lavorare con l'ex padrone. Entrambi dovevano avere in mano simboli della professione: chiodi, suole, lame, martelletti, eccetera. 

Le leggende a volte arrivano dopo le immagini, anzi sembrano costruite a partire dalle immagini stesse, per giustificarle; da cui l'equivoco per cui gli strumenti di lavoro vengono interpretati come strumenti di tortura. Ad esempio i carnefici infilano le lame sotto le unghie, ma esse rimbalzano contro il boia; oppure i santi sono costretti a ingoiare piombo fuso, ma un goccio schizza nell'occhio del boia, insomma il boia sembra il cliente impiccione che ficca il naso nel retrobottega e finisce per farsi male.

La passio più antica, che così antica non è (VII secolo al massimo) li vuole martiri a Soissons, capitale della provincia romana detta Gallia Belgica, che rimase uno dei centri più importanti anche nel periodo dei Franchi. A Soissons già nel VI secolo era stata costruita una basilica in loro onore, con un reliquiario realizzato da Sant'Eligio, patrono degli orafi. Il prestigio del luogo di culto declinò quando Carlo Magno decise di spartire le reliquie tra Osnabrück e Roma, dove tuttora sono custodite nella chiesa di San Lorenzo in Panisperna. 

A Soissons Crispino e Crispiniano sarebbero giunti da Roma, per portare il Vangelo e calzature a prezzi popolari. Arrestati e fatti torturare dal magistrato Riziovaro, i due calzolai avrebbero reagito con tanta flemma che alla fine lo stesso Riziovaro si sarebbe gettato nel fuoco dalla stizza: come forse i calzolai pregano accada ai clienti petulanti e mai contenti.

giovedì 24 ottobre 2024

Il drone, il bastone e la borsetta

(Continua da qui)


Yahya Sinwar è morto da uomo, questo non si può più negare. Mutilato, annidato tra i detriti della guerra che ha scatenato, ha usato il suo ultimo respiro per impugnare un'arma e scagliarla contro il nemico. Ciò che ha reso ancora più simbolica la scena è il fatto che l'arma fosse una delle più primitive (un bastone), e il bersaglio uno dei più moderni e automizzati: un drone. Ci siamo chiesti a lungo cosa sarebbe successo quando le macchine si sarebbero rivoltate contro gli uomini: in un certo senso ci siamo. Anche se come sempre la realtà che si avvera è più sfumata delle previsioni fantascientifiche: da una parte uomini regrediti, costretti a usare pietre e bastoni; dall'altra una tecnologia che non solo uccide con spietata efficienza, ma che ormai stabilisce anche cosa valga la pena di uccidere e cosa no (gli ufficiali israeliani perlomeno sostengono di bombardare determinate aree in base a un "algoritmo"; se un giorno molto ipotetico qualcuno mai li portasse a processo, si difenderanno sostenendo che prendevano gli ordini da un computer). Questa tecnologia ufficialmente è ancora in mano ad esseri umani, i quali tuttavia tendono a delegare sempre di più, anche perché uccidere è oggettivamente un lavoraccio che produce danni psicologici – vedi il tizio che non può mangiare più carne dopo che ha schiacciato centinaia di umani con un bulldozer, come non empatizzare? C'è una vasta letteratura sull'argomento; purtroppo è quasi tutta basata sui nazisti e quindi adoperarla per descrivere gli israeliani è vietato, non si può fare, antisemitismo. Ma forse l'atteggiamento da gamer giulivi che molti soldati IDF stanno eternando su Tictoc è un tentativo inconsapevole di restare umani: e quindi stupidi, goffi, ridanciani, mentre le armi che usi diventano sempre più precise e spietate. Di Yahya Sinwar si racconta che uccidesse i traditori con le proprie mani, ed è previsto che la cosa ci inorridisca perché le persone vanno uccise a macchina. Il che implica che solo chi controlla la macchina abbia il diritto di uccidere; se poi la macchina si controlla da sola, tanto meglio per chi non può essere più ritenuto responsabile. Sinwar non poteva permetterselo, era un barbaro: un drone lo ha scovato e un razzo lo ha colpito. E non ne staremmo parlando nemmeno più. 

Ma gli israeliani hanno deciso di mostrarci le immagini. 

Cosa gli ha detto il cervello. 

Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10, era la propaganda. Glielo riconoscevamo tutti: non importa quanti errori commettesse, Israele sapeva raccontarsela e raccontarcela. Dopodiché è successo qualcosa che può veramente essere spiegato da una crisi di panico: ammesso che gli israeliani si rendano conto di quello che stanno facendo, è abbastanza chiaro a questo punto che non si rendono più conto di quello che stanno raccontando. Stanno radendo al suolo una zona in cui vivono due milioni di persone, il che è incredibile: ma è molto più incredibile che i soldati, mentre lo fanno, si riprendano e condividano pubblicamente le prove dei loro crimini di guerra. Politici e militari citano allegramente versetti della Bibbia come se per il resto del mondo fosse una cosa normale ispirarsi a mitologie vergate migliaia di anni fa. Il senso di impunità che trasmettono rimane dopo mesi sbalorditivo: sembrano semplicemente non rendersi conto che qualcuno potrebbe giudicare anche loro.  

L'ignoto addetto alla propaganda che decide di condividere le ultime immagini di Sinwar deve avere pensato che esse avrebbero dimostrato la gloria e la potenza di Israele e l'umiliazione dei suoi nemici. È successo l'esatto contrario: quell'umanissimo lancio di un bastone contro il drone ha commosso anche tanta gente che in Hamas non si riconosce, ma che tra uomo e drone non può certo scegliere il secondo. Dopotutto non è così comune vedere un leader che muore con le armi in mano: di Allende abbiamo la foto vivo con le armi, di Guevara quella in cui è già morto, ma insomma stiamo parlando già di Guevara e Allende, mentre la consegna prevedeva che Sinwar fosse trattato da lurido tagliagole circondato da ostaggi seviziati. I propagandisti israeliani forse non si rendono conto di quanto sia scontato, per chiunque non viva nella loro comunità psicopatizzante, stare dalla parte dell'uomo contro il drone. Forse avrebbero dovuto riguardarsi Metalhead, uno degli episodi meno noti di Black Mirror, perché in effetti non contiene nulla di controverso: ci sono umani che lottano contro macchine assassine. Non abbiamo la minima idea di che umani siano: non conosciamo le loro idee politiche o fedi religiose; l'unica cosa chiara è che non vogliono essere ammazzati da queste macchine, ed è tutto quello che ci serve per stare dalla loro parte, nella speranza che un giorno non succeda anche noi, o ai nostri figli. 


Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10/2023, era la propaganda; dopodiché non sono più riusciti a raccontarsi senza autoaccusarsi, in un delirio che in certe vecchie detective stories era il sintomo del senso di colpa dell'assassino. Nessuno avrebbe mai immaginato un Sinwar così umano nei suoi ultimi minuti, ma gli israeliani sono stati così poco avveduti da mostrarcelo, dopodiché – una volta preso atto dell'incredibile autogoal – hanno divulgato un altro video in cui Sinwar, ci spiegano, "poche ore prima del massacro etnico degli ebrei da lui organizzato, scappa nel tunnel che si è fatto costruire sotto casa sua a Gaza". Ecco, ora sì che Sinwar dovrebbe sembrarci un mostro; e codardo, per di più, visto che gli altri uccidono e lui scappa. Senonché. 

Senonché nel video si vede una famiglia che si sposta con un po' di bagagli. Madre, padre e bambini. Se non fosse per il tunnel, potrebbero essere i tuoi vicini di casa che vanno in vacanza. Certo, la maggior parte dei giornalisti non ha vicini di casa così: ma io un po' sì e magari anche tu, pazientissimo lettore, non vivi nel quartiere 100% ariano da cui i corsivisti di Foglio e Linkiesta ci spiegano cos'è l'antisemitismo. Per accettare che il video mostri un leader crudele mentre volge sadicamente le spalle ai suoi stessi combattenti, dobbiamo credere che sia stato girato proprio il sei ottobre, e passi; e che Sinwar non stia semplicemente aiutando la famiglia a trasferirsi in un luogo sicuro, con altre famiglie di altri combattenti. Che non abbia disertato il fronte lo dimostra il fatto che sul fronte sia morto più di un anno dopo, a guerra ormai abbondantemente persa; per il resto anche Churchill durante i bombardamenti mandava i parenti nei rifugi, forse ci entrava pure lui; forse se i suoi nemici avessero messo le mani su un filmato in cui scendeva le scale lo avrebbero anche loro montato a scopo propaganda – salvo che ehi, no, non si possono paragonare i nemici di Churchill, dimenticavo che è proibito, scusate, scusate. 

Che anche questo secondo video non stesse funzionando, lo dimostra una definitiva ondata di tweet che a partire da un'ora dopo la diffusione del video da parte del portavoce dell'IDF, e per due giorni buoni, hanno sentito la necessità di avvertirmi che la borsetta in mano alla moglie di Sinwar fosse un modello Hermès da 32000 euro.

ah beh, uguale

Lo scrivo per ricordarmelo, perché per quanto ridicolo, è stato uno dei momenti più genuinamente orwelliani che ho mai vissuto in vita mia. I tweet provenivano tutti da opinionisti e attivisti che avendo scelto un anno fa di sostenere Israele "a ogni costo", stanno pagando evidentemente un costo altissimo in termini di credibilità e... umanità. A proposito di macchine: ormai quasi indistinguibili da bot litigiosi che ti compaiano davanti soltanto per massimizzare il fastidio e strapparti la reaction. Tutti coordinati da un algoritmo neanche troppo sofisticato, tutti improvvisamente convinti che una borsetta che si intravede per pochi secondi corrisponda a una Birkin – tutti ormai disposti a cavarsi gli occhi per evitare che vedano cose che Israele non vuole. Tutti hasbaristi improvvisati, salvo che se dopo mesi e anni di improvvisazioni ancora non siete capaci vuol dire che non era proprio il vostro campo. E tanti italiani. Troppi. Italiani che non sanno riconoscere una borsa? Ammettiamolo pure. Italiani che non si rendono conto che un modello di borsa nera vagamente simile a una classica Hermès lo puoi trovare su una bancarella del mercato a cento euro regalati? Quanta esperienza di vita, quanta intelligenza, quanto cervello dovete sacrificare per ritrovarvi a condividere una scemenza del genere? L'IDF vi vende una Hermès da trentaduemila euro e voi comprate? Che non capiate nulla di diritti civili e diplomazia, è abbastanza normale: se cercavo degli esperti mica stavo su Twitter; ma che non capiate niente di borse è inverosimile, inaccettabile, no. Nel prossimo captcha ci potrebbe essere una Birkin da riconoscere, e voi fallireste il test.  

mercoledì 23 ottobre 2024

Il frate da combattimento

23 ottobre: San Giovanni da Capestrano (1386-1456), predicatore e condottiero

A Budapest gli hanno fatto un monumento (anche se non lo tengono benissimo)

Tutte le volte che scoppia una guerra e sui social comincio a vedere le bandierine, complice l'età, mi spazientisco: ma insomma quand'è che crescono questi, come fanno a prendere tutto come una partita di calcio? "Io sto con gli ucraini", scrivono – in che senso? No, seriamente, quelli stanno sparando ai russi, e i russi stanno bombardando l'Ucraina, e tu invece cosa stai facendo esattamente a parte chiacchierarne su Facebook? Poi succede qualcosa a Gaza ed eccoli, ti spiegano perché i palestinesi dovrebbero rendere gli ostaggi, o scappare in Egitto, ecc. Di un conflitto che si protrae da decenni, non è incredibile che proprio loro conoscano la soluzione, e non è triste che se ne restino confinati in un ambiente virtuale invece di essere in prima linea a spiegarla alle opposte fazioni? Non potreste andarci, a Gaza, a spiegare voi le ragioni degli israeliani, o viceversa? 

Questa, mi rendo conto, è sempre una mossa sleale. A chi parla di guerra non si chiede mai di andarci davvero, non è così che funziona, tranne in rarissimi casi come ad esempio Giovanni da Capestrano, che quasi settantenne si ritrovò su un campo di battaglia, a Belgrado. Siccome era da anni che in qualità di predicatore sosteneva la necessità di una crociata contro i turchi, alla fine la organizzò davvero, reclutò i soldati, si arrabbiò coi generali che non erano sicuri di voler dare battaglia, in un qualche modo li convinse, e vinse. Poi morì di peste, contratta probabilmente nell'infermeria di campo, ma ormai una lezione di coerenza ce l'aveva data. 

L'ultima di tante, perché prima di espugnare Belgrado, Giovanni era già uno dei predicatori più famosi della cristianità; unanimemente considerato il successore di Bernardino da Siena, che tanti anni prima lo stesso Giovanni aveva difeso con successo a Roma dall'accusa di idolatria (l'entusiasmo con cui Bernardino promuoveva la sua bandiera col nome di Gesù era parso ad alcuni rivali assai sospetto). Ma mentre il maestro Bernardino aveva portato avanti, anche con la sua bandiera, un'azione per lo più pacificatrice, a Giovanni toccò in sorte una carriera bellicosa: ancora prima dell'assedio di Belgrado, gli agiografi descrivono le sue imprese come una serie di missioni che prevedono la sconfitta di determinati avversari: i fraticelli, le schegge impazzite del movimento francescano, ancorate a un pauperismo ormai rigettato dalla Chiesa ufficiale; gli usurai per lo più ebrei, contro i quali la polemica dei predicatori francescani diventa sempre più violenta nel corso del Quattrocento, fino ad assumere toni antisemiti; gli eretici boemi, seguaci di Jan Hus; e alla fine appunto i turchi. Tempi difficili selezionano caratteri risoluti, e Giovanni non doveva averne uno semplice. La vittoria clamorosa riportata prima di morire non facilitò affatto il suo processo di canonizzazione, perché Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II proprio nel 1456, non lo aveva in simpatia: i frati non dovrebbero attribuirsi i successi delle battaglie. Il risultato fu che gli aquilani dovettero aspettare più di due secoli prima di poterlo venerare il loro concittadino come un santo. Il sospetto è che avrebbe fatto meglio a fare come San Bernardo: restarsene in qualche convento confortevole a scrivere prediche ben tornite sul tema Armiamoci e Partite. I guerrieri da salotto sono sempre i più apprezzati, chi ha ucciso davvero Bin Laden? Nessuno lo sa; invece tutti sanno chi era Oriana Fallaci. Per fare un esempio. 

martedì 22 ottobre 2024

Seppellire Yahya Sinwar


Non vengo a onorare Yahya Sinwar. Prima del 7/10/2023 credevo che Hamas fosse stata una sciagura per il popolo palestinese, e quello che è successo dopo non mi ha dato motivi per cambiare idea. Hamas è stato il nemico che Israele si è coltivato con pazienza per molti anni, recintandolo a Gaza, separandolo dal resto della Palestina, rifiutandosi di dialogare con i palestinesi che ad Hamas non cedevano, eliminando o imprigionando i leader palestinesi che avrebbero potuto costituire un'alternativa credibile ad Hamas. Quelli Israele li temeva veramente: Sinwar no, Sinwar era la dimostrazione che i palestinesi erano barbari tagliagole; e se qualche gola israeliana veniva effettivamente tagliata nel processo, si trattava di un danno collaterale che i governi israeliani (non solo Netanyahu) erano convinti di aver calcolato. Fino al sette ottobre, un grandissimo errore di calcolo: dopodiché, tutto quello che Israele ha fatto si può interpretare anche come una crisi di panico. Un nemico ormai di cartone, un nemico che veniva tirato fuori per lo più nelle notti di estate come lo spauracchio per mandare a letto i bambini (e piatire fondi agli americani), si è rivelato un nemico vero che faceva ostaggi veri. Questo era intollerabile al punto che gli ostaggi sono stati sostanzialmente dati per persi: se descrivi il tuo nemico come un barbaro con cui è impossibile venire ai patti, scambiare prigionieri non è un'opzione. Inoltre sarebbe stata la fine politica di Netanyahu, e tra dimettersi e scatenare un conflitto su larga scala con annesso genocidio, N. non sembra avere esitato molto. Se Sinwar è corresponsabile della catastrofe che si è abbattuta su Gaza, Netanyahu è altrettanto corresponsabile della strage degli ostaggi; perlomeno la logica ci direbbe questo, ma chi è che ascolta la logica oggigiorno.

Non vengo a onorare Yahya Sinwar, ma non posso dire di trovare incomprensibile la sua traiettoria: nato profugo, cresciuto in una prigione, ha combattuto contro lo stesso nemico per tutta la sua vita, ed è morto sul fronte con un'arma in mano. La distanza da cui lo giudico una sciagura per la sua stessa causa è quella tra la mia comoda tastiera e Gaza. Se fossi nato là, sarei diventato molto diverso da Yahya Sinwar? Sospetto che mi sarebbe mancato il suo coraggio, ma a parte questo: avrei odiato i miei oppressori con meno intensità, li avrei combattuti con meno crudeltà? Non ne ho idea, e nemmeno l'avete voi. Siete soltanto nati in un posto diverso, e ringraziate. Qualcuno, proprio per essere sicuro di far nascere i propri figli in un posto diverso, ritiene giusto recintare intere popolazioni, bombardarle, e insomma permettere che dentro un recinto crescano altri milioni di persone come Yahya Sinwar. Al di là di ogni considerazione morale, mi sembra proprio che la cosa non stia funzionando: se era un esperimento possiamo interromperlo. In un certo senso è quello che Israele sta facendo: radere al suolo il recinto, fine dell'esperimento. Scopriremo che è colpa dell'Islam, come sempre, o dell'inemendabile tribalismo arabo. 

Non vengo a condannare Yahya Sinwar – una cosa che non sopporto più sono quelli che siccome stai scrivendo due idee su internet, ti chiedono di "condannare" persone o eventi, come se fossimo giudici o boh, filosofi morali. Giudicare è operazione delicata, c'è gente che studia molti anni prima di esserne in grado: dopodiché merita il nostro rispetto (compresa una certa corte all'Aja che chiede con insistenza e dovizia di motivazioni che Israele cessi un genocidio). Noi non siamo giudici, siamo osservatori: non siamo qui per spiegare cos'è bene e cos'è male, ma per cercare di capire come mai certe cose si risolvono in bene e altri eventi scatenano il male. Se Sinwar è stato una sciagura, si tratta di cercare di capire cos'ha portato la società palestinese a esprimerlo. Durante questa ricerca, possiamo anche commettere errori, cedere alla nostra soggettività, a un punto di vista che è sempre in parte ideologico; succede. Ma saranno errori in buona fede, inevitabili da parte di chi sta semplicemente cercando di capire un problema enorme e forse non più solubile. Viceversa, chi ha deciso immediatamente che Sinwar era il Male, e che sradicandolo si sarebbe sconfitto almeno una porzione di Male, ecco, quello non sta cercando e non sta nemmeno giudicando: si sta raccontando una favoletta per bambini e non sarebbe un grosso problema, se la favoletta non servisse a giustificare un'operazione di pulizia etnica su larga scala. Ma così come devo cercare di capire Sinwar, mi tocca cercare di capire pure quelli e quelle che si raccontano la storia di sua moglie con la borsa di Hermès. (Continua)


martedì 15 ottobre 2024

Nessuno vi ascolta, nessuno vi tocchi


Scusate.

Ma dopo tutto questo, credete che vi daremo mai più retta?

Perché un giorno sarà finita; e probabilmente siete tra quelli che sperano che finisca presto: muoia chi deve morire, e finalmente potremo parlare d'altro. Ecco.

Lo credete davvero?

Che potrete mai più parlare d'altro, e che qualcuno vi starà a sentire?

Che leggeremo i giornali in cui avete scritto che no, non era proprio un genocidio; finché non avete dovuto scriverci che sì, era un genocidio ma perfettamente giustificabile, anzi completamente imputabile alle vittime, alla loro disumanità irreducibile, alla loro pretesa di difendersi o nascondersi e addirittura – oscena bestemmia – fare prigionieri?

Sul serio pensate che vi ascolteremo un'altra volta, anche solo un'altra volta mentre spiegate quali popoli hanno il diritto di difendersi e quali no; quali uomini e donne vanno aiutati a resistere e quali no; quali possono lottare per i loro diritti e quali devono bruciare perché a quanto pare gli è capitato di nascere sui diritti degli altri; sul serio credete che ci serva ancora il vostro ragguaglio su quali esseri umani sono da considerarsi autenticamente umani, e quali tutto sommato no? 


E che da questo punto in poi ci interesserà mai qualcos'altro di voi; i vostri libri, i vostri film, i vostri concerti? Da un punto di vista abbastanza distante probabilmente sì, avrebbe senso separare gli artisti dalle volonterose trombette di Netanyahu; e quindi quando tutto questo finirà (presto!) noi potremmo raggiungere quella giusta distanza e non pensarci sostanzialmente più, come vorreste non pensarci più anche voi.

E a quel punto non avreste paura a girare per strada, che qualcuno vi veda e vi chiami coi nomi che meritate.

Ma forse a questo punto in quei begli insediamenti vista mare, che i coloni stanno già lottizzando, vi conviene opzionare un attico. E procurarvi tutta la servitù e la security che vi sarà necessaria, perché, mi rincresce, ma il giorno in cui potrete uscire per strada senza paura, senza vergogna, potrebbe non arrivare mai. 

C'è stato un massacro, e lo sapevate sin dall'inizio; e sin dall'inizio avete scelto da che parte stare. Questo vi definirà, da qui in poi. Non una parola, non un discorso, non una canzone, niente potrà cambiare quello che è successo. C'è stato un genocidio, e lo avete invocato, giustificato, difeso, festeggiato. Se credete di poter convincere qualcuno del contrario, non succederà. Non avete convinto nemmeno voi stessi. 

Perdonate se il tono vi sembra minaccioso, ma la vostra paura non dipende da me. Non dipende realmente da nessuno, se non da voi. Nel momento in cui potevate scegliere tra vittime e assassini, avete scelto gli assassini; d'ora in poi rivolgetevi a loro. Spiegate a loro cosa è bello, cosa è giusto: magari vi troveranno interessanti.

lunedì 14 ottobre 2024

Il papa che fece chiasso in sinagoga

Catacombe di San Callisto, sull'Appia Antica

14 ottobre: San Callisto papa e martire (III secolo), che una volta piantò un casino in sinagoga per farsi arrestare

Come recita il titolo, oggi è la festa di San Callisto papa, che un giorno entrò in una sinagoga e in mezzo agli ebrei che pregavano si mise a schiamazzare. Secondo i Philosophumena di Ippolito lo fece proprio per farsi portare via dalle guardie, il che ci pone un problema: possiamo dar retta a Ippolito? Probabilmente non quando parla dei suoi rivali, e Callisto era esattamente questo.

La sfortuna di Callisto è che molto di quello che sappiamo di lui ci è tramandato da persone che lo disprezzavano: Tertulliano, Ippolito. Non è affatto escluso che fosse un buon papa, il secondo a essere venerato come martire dopo Pietro, lasciando alla città un cimitero che porta il suo nome e la basilica di Santa Maria a Trastevere. Ma diventò papa ai tempi di Ippolito, e questo Ippolito non glielo poteva perdonare; lui si sentiva molto più degno del ruolo, al punto che fondò davvero una Chiesa personale, se ne nominò pontefice scrivendo nei Philosophumena che il vero papa era lui, e che i seguaci di Callisto avrebbero dovuto essere chiamati callistiani. La biografia del papa che Ippolito traccia nel nono volume del suo trattato è insomma da prendere con le molle; Ippolito aveva tutto l'interesse a farlo passare come un maneggione intrigante, "dedito al male e pieno di risorse per l'errore". E però è difficile trovare un senso alle peripezie che descrive; si intuisce che molte informazioni importanti Ippolito le ha taciute, o addirittura non le ha capite. 

Per Ippolito, Callisto nasce schiavo (e siccome non menziona nessuna conversione, deduciamo che era cristiano di famiglia). Cristiano era anche il suo padrone, tal Carpoforo, che a Callisto aveva assegnato un capitale da amministrare. Callisto lo aveva usato per creare un istituto di credito in una "piscina publica", Ippolito la chiama così. Lo considerava però un pessimo banchiere che a un certo punto aveva perso tutto, o almeno messo in giro questa voce, prima di imbarcarsi per cercare di sfuggire ai creditori, Carpoforo in primis. Quest'ultimo però si era precipitato al porto ed era riuscito ad arrivare prima che la nave partisse; ne era seguita una scena piuttosto patetica in cui Callisto si era buttato in acqua, ma era stato prontamente ripescato – perlomeno, quella che descrive Ippolito è una scena imbarazzante, ma va' a sapere se le cose andarono davvero così. 

Invece di punire il suo schiavo in quanto fuggitivo, come avrebbe avuto l'incontestabile diritto di fare, Carpoforo si sarebbe lasciato facilmente convincere dagli altri creditori a liberare Callisto, affinché recuperasse i capitali che magari aveva occultato. Ippolito però disprezza troppo Callisto per ritenerlo un banchiere fraudolento: secondo lui Callisto era semplicemente un incapace, che aveva perso tutti i soldi e cercava solo un modo per farsi ammazzare. Così un giorno lasciò detto che andava da qualche cliente insolvente e invece entrò nella sinagoga di Roma disturbando gli ebrei che stavano pregando, un reato grave. Questo lascia davvero perplessi, ma dal punto di vista storico ci dice una cosa interessante: nel Duecento, un secolo prima l'Editto di Milano, la convivenza tra diverse fedi religiose a Roma era già codificata al punto che uno dei sistemi più celeri per farsi condannare da un magistrato romano era andare a infastidire gli ebrei nel loro luogo di culto. 

Ippolito non spiega che tipo di offese Callisto avesse lanciato agli ebrei; quel che ci fa capire è che la sua condotta era indifendibile, così che quando Callisto davanti al giudice si definì cristiano, Carpoforo, che era ancora il suo padrone, negò recisamente la circostanza. 

Qualche storico non ha perso tempo a ipotizzare che Callisto avesse fatto affari con la comunità ebraica, e che la sua furia fosse quella di un finanziatore convinto di essersi fatto fregare; Ippolito, uomo di cultura e digiuno di economia, queste cose non le capiva o non voleva che si capissero. In ogni caso, interrompere una cerimonia in un luogo di culto nel terzo secolo era un crimine punibile coi lavori forzati, se Callisto si ritrovò in una miniera in Sardegna. Qui sarebbe rimasto qualche anno, fino al provvidenziale intervento di Marcia, concubina cristiana dell'imperatore Commodo, che volendo approfittare della sua posizione per fare qualcosa di buono aveva compilato una lista di prigionieri cristiani da riscattare. Ippolito ci tiene a farci sapere che Callisto non era nella lista – un usuraio fallito, a chi poteva mai mancare in città? – ma che riuscì lo stesso a entrarci facendo una gran piazzata all'emissario di Marcia. Tornato a Roma, Callisto in breve sarebbe riuscito a riguadagnare una posizione importante, come capita a certi manigoldi che non importa quante ne facciano, dopo un po' te li ritrovi in tv a spiegarti la vita e il successo. 

In particolare papa Zefirino lo avrebbe nominato amministratore della catacomba dove venivano sepolti i cristiani di Roma, e che proprio qui viene nominata, per la prima volta, cemiterium. Callisto avrebbe anche approfittato della sua posizione per istillare nel papa quelle idee eretiche, modaliste e ispirate alla predicazione dell'eresiarca Sabellio, che in seguito avrebbero convinto Ippolito della necessità di staccarsi dalla Chiesa di Roma. Si capisce leggendo che Ippolito deve assolutamente convincerci di questo, e allontanarci il più possibile dal sospetto che tanta rabbia contro Callisto derivi dal fatto che alla morte di Zefirino, a prenderne il posto fu Callisto e non lui. Persino Ippolito però deve ammettere che, una volta divenuto papa, Callisto non scomunicò lui, ma Sabellio: e allora cosa scrive? Scrive che lo fece "perché aveva paura di me", "nella speranza di placare le accuse delle Chiese nei suoi confronti". E però noi sappiamo che le "Chiese" accettarono di buon grado la nomina di Callisto, e che solo un pugno di fedeli seguì Ippolito. Per cui ci è facile immaginare che la biografia sconcertante scritta dal suo avversario nasconda un percorso più dignitoso. 

Anche il fatto che Callisto avesse fatto carriera prestando denaro non significava necessariamente che fosse un maneggione. Sappiamo che la Chiesa, come altre comunità religiose, svolgeva una funzione di previdenza sociale sempre più importante, e quindi accanto a ministri e predicatori il ruolo degli amministratori era tutt'altro che occasionale o periferico. Questa cosa un teologo come Ippolito forse davvero non la capiva, o comunque aveva deciso di non farcela capire. Un altro motivo di scandalo era la sua determinazione a riaccogliere nella comunità i peccatori pentiti, compresi gli apostati – forse, da bancarottiere, comprendeva l'importanza di dare a tutti una seconda possibilità. Ippolito non ci racconta della morte di Callisto, il che ci fa sospettare che sia morto davvero martire durante le persecuzioni dei Severi (secondo una leggenda, gettato in un pozzo); perché se invece fosse morto in qualche meno eroico, sicuramente ce l'avrebbe raccontato.

giovedì 10 ottobre 2024

Nessuno si aspettava Giovanni XXIII

11 ottobre: Sant'Angelo Giuseppe Roncalli, che per soli cinque anni fu Giovanni XXIII e la Chiesa non è più stata la stessa


Forse stasera non ho così voglia di scrivere una vita di Giovanni XXIII, abbiate pazienza. Invece qualche settimana fa passavo da Brescia, il che c'entra assai poco perché Giovanni XXIII è nato in provincia di Bergamo. Ma io invece passavo da Brescia e dopo un po' mi sono accorto che c'era il gay pride, che a BS a quanto pare cade in settembre. Così, non avendo niente di speciale da fare, ci siamo fatti un pezzo di gay pride, che forse non ne avevo mai fatto uno (per pigrizia più che per omofobia, ma soprattutto perché di solito cadono in giugno e puzzo di sudore solo a pensarci). Mi è sembrata una festa tranquillissima, salvo che ogni tanto c'era della gente in tenuta sadomaso, i quali poi erano i più tranquilli di tutti. C'erano tutte le classiche cose del corteo generalista, compresi i radicali che non riescono a stare al loro posto, prendono le scorciatoie, cercano la rissa, ecc., tutto veramente regolare. Più in là c'era il classico soundsystem techno con le drag queen che sarebbe stata l'unica cosa che i giornalisti avrebbero ritenuto necessario fotografare, ma noi stavamo verso la coda, dietro un furgoncino che metteva musica più allegra e a un certo punto le ragazze che ballavano sul furgone si sono fermate e una ha detto: "questa la dobbiamo cantare tutteeeeeee!", e ha fatto partire, ha fatto partire

Ti ringrazio mio Signore e non ho più paura, perché

con la tua mano nella mano degli amici miei,

cammino con la gente della mia città

e non mi sento più solo.

E si sono messi a cantare tutte, tutti, tranne effettivamente me che non ci riuscivo per via di un rospo in gola e alcune lacrime.

Immagino di dover spiegare. Ti ringrazio mio Signore è un canto di chiesa, di quelli che si fanno con la chitarra. Io a dire il vero l'ho suonato anche con l'organo, a messa. Ma più spesso con la chitarra: l'ho fatta lenta e in Do alle messe dei vecchi, l'ho fatta veloce e in Re alle messe dei giovani. L'ho fatta ai matrimoni e (spero di non averla fatta ai) funerali, l'ho suonata e l'ho cantata e poi un giorno me la sono dimenticata e per ricordarmela dovevo capitare, di tutti i posti al mondo, al gay pride di Brescia. Cantavano tutti. Può darsi che si tratti del peculiare ecosistema di una città che ormai è tra le più progressiste in Italia (senza aver smesso un attimo di essere democristiana: è il resto d'Italia che ha fatto diversi passi indietro). Ma alla fine questo è il tipo di canzone che cantavo quando crescevo in una parrocchia, negli anni Ottanta. Magari mentre questionavo col parroco o polemizzavo con il nuovo catechismo di Wojtyla. Nel frattempo cantavamo

Amatevi l'un l'altro come Lui ho amato noi,

e siate per sempre suoi amici.

E quello che farete al più piccolo tra voi,

credete, l'avete fatto a Lui.

Ed era l'unica cosa su cui fosse necessario essere d'accordo. La Chiesa in cui credevo era questa cosa qui, e non era nuovissima, ma neanche tanto vecchia: aveva l'età delle Seicento che ancora si vedevano in giro. Le preghiere erano tutte nuove, belle traduzioni dal latino degli anni Sessanta, in un italiano semplice ed elegante. I discorsi erano ancora relativamente contemporanei. Era una Chiesa moderna e non si vergognava di esserlo. A farla uscire dal guscio, a dare perlomeno la prima martellata, era stato un certo Angelo Giuseppe Roncalli, che tutto sembrava tranne un rivoluzionario. Ma sono i migliori, col tempo l'ho capito. 

Tra tanti aneddoti si racconta che Monsignor Roncalli, quand'era ancora patriarca di Venezia, visitò il palazzo vescovile di Lodi e vide un quadro che ritraeva un papa. Quando chiese che papa fosse, si sentì rispondere: Giovanni XXIII; al che obiettò, forse scherzosamente, che non si trattava di un papa ufficiale, bensì di un antipapa. Che però aveva avuto l'indubbio merito di indire il concilio di Costanza, un passo decisivo nella riconciliazione dello scisma avignonese: e però pur sempre un antipapa. O no? Forse la questione non era chiara, del resto tra tutti i nomi dei papi, "Giovanni" è il più utilizzato e anche il più problematico, tanto che tuttora non risulta un Giovanni XX omologato. Forse proprio per evitare l'imbarazzo di decidere se il XXIII era stato un papa o no, dal quindicesimo secolo in poi i papi avevano smesso di chiamarsi Giovanni. Fino al 1959, quando Pio XII morì e Roncalli arrivò per il conclave a Roma, in un'atmosfera di basso impero (un prelato aveva venduto ai giornali le foto del papa morto en déshabillé). Sapeva di avere qualche chance, per vari motivi, non ultimo la sua anzianità: già da qualche anno i cardinali mormoravano che dopo il lungo papato di Pio XII ne serviva uno più breve, di transizione. Però a ben vedere tra i cardinali ce n'erano tanti persino più anziani di lui.


Roncalli aveva il vantaggio di essere italiano (il suo principale competitor fu un patriarca armeno), e tra gli italiani, il più cosmopolita: è un dettaglio può sfuggire, ma prima di arrivare a Venezia Roncalli aveva avuto una carriera più diplomatica che pastorale, da nunzio apostolico in Bulgaria (dove era riuscito a impedire molte deportazioni verso i lager), in Turchia e in Francia (dov'era riuscito a salvare la cattedra a molti vescovi che avevano collaborato coi nazisti). Una virtù dei diplomatici è proprio quella di saper nascondere la propria personalità, così che nel conclave del 1959 Roncalli risultava uno dei candidati più interessanti proprio perché nessuno lo conosceva veramente: sembrava affidabile, e rassegnato a durare poco. Assumendo il nome di Giovanni e il numerale XXIII risolse un problema, irrisorio ma indicativo: proprio perché aveva poco tempo a disposizione, forse Giovanni voleva utilizzarlo per risolvere problemi, pendenze. E a proposito di pendenze, c'era un Concilio che aspettava di essere concluso ormai da novant'anni, quando gli italiani avevano conquistato Roma interrompendone definitivamente le sessioni

Pio XII, che aveva avuto molto tempo per affrontare la pratica, aveva convocato una commissione che aveva lavorato per tre anni prima di giungere alla conclusione che Santità, il concilio era meglio non convocarlo, non chiuderlo, lasciare tutto così, aspettare, non si sapeva neanche più esattamente cosa, chi. Lo scoprimmo nel 1959: il mondo stava aspettando papa Giovanni, che invece di concludere il Concilio Vaticano I decise di indirne un secondo. La Chiesa che conosciamo oggi, quella in cui qualcuno di noi è cresciuto litigando e schitarrando, deve probabilmente a questa decisione la sua sopravvivenza nella società. Roncalli aveva poco tempo e lo usò, oltre che per stravolgere la Chiesa, per creare l'icona del papa contemporaneo, quello che si frappone tra i potenti della terra chiedendo pace, che scrive le encicliche rivolgendosi non ai cristiani ma a tutti gli uomini "di buona volontà" (anzi, le fa scrivere ai suoi collaboratori: Giovanni XXIII non credeva giusto nascondere il gioco di squadra e a volte lo rivendicava). Il papa buono che abbraccia i bambini, che fa un'improvvisata all'ospedale e lo scambiano per Babbo Natale, per via dell'ermellino rosso. Quello che tutti dopo di lui hanno cercato di reinterpretare, tranne Ratzinger, Ratzinger no, ermellino rosso a parte.

Giovanni XXIII è il patrono di tutte le persone che passano la vita a sopportare diplomaticamente il prossimo, ingoiando magoni e andando avanti, perché sognano di arrivare un giorno sul trono più alto e quel giorno faranno quello che vogliono, tirando giù il mondo se è necessario: questo non succede ovviamente quasi mai, ma quando succede è fantastico, gloria a Giovanni XXIII.

L'amore non ha prezzo, non misura ciò che dà

l'amore, confini non ne ha.

Rit.: Ti ringrazio mio Signore, e non ho più paura, perché...

lunedì 7 ottobre 2024

Cosa ricordare il sette ottobre

Israele ammette un'"immensa quantità di fuoco amico" il 7 ottobre 
(Electronic Intifada)


Il sette ottobre credo sia importante ricordare soprattutto quello che è successo – perdonate l'ovvietà, ma vedo che per molti non è così, e quindi ora io qui scriverò quello che penso sia successo, per ricordarlo meglio a me e agli altri. Potrei ovviamente sbagliarmi; nel qual caso non avete che da correggermi, possibilmente segnalandomi prove documentarie che smentiscano quel che scrivo adesso qui. Non c'è nulla di male ad avere delle forti opinioni, quel che un tempo si poteva ancora chiamare un'ideologia: non c'è nulla di male finché le opinioni restano fondate su dati reali: non li nascondono, non li deformano, non li inventano. A quel punto l'ideologia si mette tra noi e la realtà, il che è pericoloso perché a volte la realtà è un muro e l'ideologia può mandarci a sbattere. Anche questa era un'ovvietà – per alcuni, fino allo scorso sette ottobre. 

Il sette ottobre alcuni commando di Hamas hanno violato i confini della Striscia di Gaza (dove milioni di palestinesi erano tenuti sostanzialmente prigionieri da più di un decennio), eludendo la vigilanza dell'esercito israeliano con una facilità che ha sorpreso anche loro. È in effetti difficile immaginare che la stessa intelligence israeliana che in queste settimane è riuscita ad azzerare la gerarchia di Hezbollah (con un'opera di infiltrazione che deve essere durata anni) non si sia resa conto di quello che sobbolliva un anno fa nella Striscia; ma restiamo su quello che sappiamo. Sappiamo che i miliziani hanno fatto irruzione in alcuni kibbutz, e in un festival musicale organizzato sciaguratamente troppo vicino alla Striscia. Sappiamo che la priorità dei miliziani era fare prigionieri, da scambiare con quelli che Israele detiene nelle sue prigioni. Soprattutto al festival, però, i potenziali ostaggi erano troppi: i miliziani non potevano gestirli tutti, e nel frattempo l'esercito israeliano si stava riorganizzando. Quando è intervenuto, lo ha fatto con la mano pesante: elicotteri e carri armati. A quel punto gli ostaggi sono diventati carne di cannone; sia i miliziani sia gli effettivi israeliani probabilmente preferivano eliminarli che lasciare che il nemico li prendesse vivi. Ne sono morti più di un migliaio; di alcune decine si sa per certo che sono stati uccisi dal fuoco amico; le foto dei parcheggi e dei kibbutz bombardati ci fanno sospettare che siano parecchi di più. I miliziani sono comunque riusciti a riportare nella Striscia più di duecento ostaggi. Che in una situazione così concitata qualcuno possa avere perso tempo a torturare o stuprare i prigionieri che doveva custodire è controintuitivo ma non improbabile: durante una battaglia la gente perde la testa e perde i freni. Fin qui però nessuno ha prodotto testimonianze attendibili di questi stupri e di queste torture; e questo malgrado qualcuno sostenga ancora che sarebbero state "sistematiche". 

Per l'apparato difensivo, e in generale il governo israeliano, il sette ottobre è stato un disastro senza precedenti, che ne ha evidenziato debolezze insospettabili; per la società israeliana, uno choc da cui forse non si è ancora ripresa. Invece di ammettere un fallimento storico, e rassegnare le proprie dimissioni, il primo ministro Netanyahu (puntellato da una maggioranza che include formazioni esplicitamente razziste) ha scelto di avallare e propagandare le più oscene fake news: i quaranta bambini decapitati o cotti al forno, gli stupri sistematici, le mutilazioni eccetera. Queste storie, messe in giro per lo più dall'organizzazione privata che si occupava (male) di raccogliere i corpi, sin dall'inizio sembravano poco credibili a chi cercasse di conservare un minimo di oggettività; eppure Netanyahu le ha ripetute a Biden e Biden le ha ripetute al mondo. Presto o tardi sono rigettate come false anche dalla stampa israeliana; e ciononostante a un anno di distanza ammorbano ancora il dibattito, al punto che ho la sensazione che molti filoisraeliani, quando chiedono di ricordare il sette ottobre, ti stiano chiedendo ancora di ricordare i quaranta bambini decapitati. Non il fallimento dell'intelligence, non il disastro militare, non il fuoco amico che fa centinaia di vittime; meglio ricordarsi di bambini mai esistiti. Netanyahu li cita ancora.

Il resto lo sappiamo. Sostenuto acriticamente dall'amministrazione USA e dai solerti alleati occidentali – che non gli hanno fatto mancare armi e munizioni – Netanyahu ha trovato nel sette ottobre il pretesto per radere al suolo Gaza e decimarne gli abitanti. Come durante il sette ottobre, anche in seguito non ha mostrato di considerare la liberazione degli ostaggi una priorità. Il tizio è anziano e forse non sopporta l'idea di andarsene prima di vedere l'Armageddon che più di molti altri ha contribuito a provocare; il che forse spiega la sua necessità di estendere il conflitto. Invece di chiuderla una volta per tutte con Gaza (il che significherebbe ammettere che gli ultimi ostaggi non torneranno più) negli ultimi mesi ha aperto un fronte di terra in Libano, bombardando anche postazioni yemenite, siriane e... russe. L'Iran è il prossimo, e anche la Francia pare debba stare molto attenta. Una simile escalation, un anno fa, non la prevedeva nemmeno il più pessimista degli osservatori. E invece sta succedendo, davanti ai nostri occhi. Più della deriva senile di Netanyahu, che continua a coprire i propri pasticci combinandone di più grandi, a spaventare è la catastrofe morale del Paese che tutto sommato ancora lo sostiene (malgrado non manchino preziose voci di dissenso). Alla società israeliana può essere riconosciuta perlomeno l'attenuante del panico; credevano di essere una democrazia occidentale, si sono svegliati secondini di un ribollente carcere all'aperto. Più difficile perdonare i filoisraeliani nostrani, completamente succubi di una propaganda che anche in Israele è considerata di basso livello. Per anni ci siamo domandati com'è possibile che in certi momenti storici un genocidio possa verificarsi senza che i testimoni muovano un dito, senza che smettano di trovarlo necessario e meritorio; dal sette ottobre del 2024 non ce lo domandiamo più.