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venerdì 30 ottobre 2020

Dolcetto o fine del mondo (come lo conoscevamo)?

Non credo sia il problema prioritario, ma ho sentito qualcuno lamentarsi anche del fatto che i bambini non potranno suonare i campanelli, stanotte. Insomma come cresceranno, senza Halloween?

Giornale di Brescia

Sinceramente non lo so, ma quando ho sentito la domanda mi sono reso conto di avere avuto una vita interessante. Certo, non come quella di chi ha assistito a una rivoluzione o a una guerra mondiale, ma non mi posso lamentare, ad esempio ho visto nel giro di un quarto di secolo la parola Halloween trasformarsi da inquietante titolo di un film dell'orrore, a festa sul calendario: prima osteggiata e poi progressivamente accettata dagli adulti, al punto che ora si domandano se potranno i loro figli sopravvivere alla sospensione di una tradizione che sembra già antichissima e non ha neanche vent'anni. E vorrei dire: tranquilli, ragazzi, anche i vostri genitori non giravano per strada mascherati il 31 ottobre, e in un qualche modo sono cresciuti anche loro; ma ecco, forse non è un buon argomento, perché in effetti: come siamo cresciuti? Non è che abbiamo preso un certo benessere occidentale pompato della Guerra Fredda come un diritto fondamentale dell'uomo, e ora non sappiamo distinguere tra un regime totalitario e un governo che ci toglie temporaneamente cinema e ristorante perché non vorrebbe intasare (scusate eh) le terapie intensive? 

Ho sentito molta più gente paventare una nuova chiusura delle scuole, e se da una parte sono felice dell'importanza straordinaria che attribuiscono all'istituzione in cui lavoro (sul serio chi se lo sarebbe aspettato, anche solo un anno fa), dall'altra ho paura che mi cada la maschera mentre recito un copione che non ho scelto: tutti si aspettano che io dica che la scuola è sicura, molto più sicura di piscine palestre e bar, e che i loro figli possono andarci senza nulla temere, il che non è vero, anche se in tv l'avete sentito dire da questo o quel medico: gente che lo dice in tv, comunque, ma si guarda bene dal ripeterlo quando si mettono nero su bianco le linee guida ministeriali. Non importa, a quanto pare la scuola deve tenere la posizione, costi quel che costi: chiuderanno i bar e i forni, ma la scuola è troppo essenziale. Che figli crescerebbero, senza cinque ore al giorno nella stessa stanza (seduti a un metro di distanza con la mascherina sul naso)? Dei disadattati, molta gente ho sentito usare questa parola: disadattati. E non posso fare a meno di domandarmi: disadattati a cosa? Al mondo come ce lo immaginiamo noi; quello coi cinema gli aperitivi, i bambini mascherati a Halloween eccetera. Un mondo che in ogni caso sta per cambiare, non nel modo più auspicato, certo, ma neanche così imprevisto. Cioè è da un po' che ce lo dicevamo, che avrebbe potuto finire così, no?


È novembre ormai, di solito a questo punto nel Mar Glaciale Artico si è già formato uno strato di ghiaccio – quest'anno no. Dall'altra parte del mondo un'altra porzione di permafrost si sta scongelando dopo decine di millenni, liberando altro metano che non sappiamo bene come interagirà con l'atmosfera. Sempre dal permafrost potrebbero arrivare altre novità indesiderate ma non del tutto impreviste: virus, batteri, cose con cui dobbiamo imparare a convivere. Il mondo che lasciamo ai nostri figli è un mondo molto diverso da quello a cui ci siamo adattati noi: richiederà altri atteggiamenti, altri valori. Che crescano disadatti al vecchio mondo, non è necessariamente un male. Tra i tanti capi di cui ci imputeranno, ho il sospetto che i lockdown del 2020 non saranno il peggiore. Scusate il pessimismo, fate conto sia la mia storia di paura per stasera.

giovedì 29 ottobre 2020

E se Leopardi fosse gay? (ce ne dovremmo interessare?)

Leopardi, 1832: Non è che per l'effetto della vigliaccheria degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi dei meriti dell'esistenza, che le mie opinioni filosofiche sono state considerate il risultato delle mie particolari sofferenze, e ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che è causato semplicemente dalla mia riflessione.


Marcos Y Marcos
Studioso di Leopardi, 2020: Ecco così stagliarsi il Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Inutile illudersi: ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sostenere che le biografie non contano. [...] Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso. Un grande poeta deve la sua grandezza anche alle esperienze e al vissuto, ergo anche alla sua affettività, al soddisfacimento o alla repressione dei desideri, alla lotta che è stato costretto ad ingaggiare con la sua contemporaneità...

Manifestanti, 2025: Toh, guarda, una statua di Leopardi! Pagava i ragazzini e pure poco! Buttiamola giù, maledetto efebofilo!



È già successo un'estate di quasi vent'anni fa. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ventilò l'ipotesi di querelare chi metteva in dubbio la “forte attrazione per le donne” di Giacomo Leopardi, “documentata da poesie e lettere”. Questa presa di posizione seguiva la scoperta in una chiesa salentina di una lettera autografa in cui il poeta si riferiva all'amico-convivente Antonio Ranieri con espressioni come «Addio, anima mia» oppure «Ti stringo al mio cuore». Già ai tempi l'ipotesi dell'omosessualità di Leopardi era una non-notizia, per più di un motivo: non era dimostrabile (simili espressioni di affetto Leopardi le riservava anche a corrispondenti dell'altrui sesso) e non era nuova: di lettere in cui Leopardi si riferiva a Ranieri con epiteti molto teneri ce n'è ben più di una.

Gli studiosi di Leopardi non ignorano la questione, anche se per molto tempo l'hanno trattata come i proverbiali panni sporchi da non lavare in pubblico. In compenso già negli anni '90 la questione era stata scoperta dagli attivisti LGBT: fondamentale fu un articolo di Giovanni Dall'Orto comparso nel 1996 su Babilonia (poi ripreso e ampliato sul suo sito web). Magari se ne ritornerà a parlare in questi mesi dopo l'uscita di Silvia è un anagramma, un saggio di Franco Buffoni che si propone come un atto di “doverosa giustizia biografica” nei confronti di alcuni poeti laureati che non avrebbero avuto la possibilità di esprimere la loro sessualità: “quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale”.

Buffoni è tutto meno che uno spulciatore di vecchie lettere a caccia di pettegolezzi. Poeta, traduttore specializzato in letteratura romantica inglese, romanziere, fondatore con Mario Mieli del primo nucleo del movimento LGBT italiano: se ha un'ipotesi sulla sessualità di Leopardi, vale la pena di esaminarla serenamente. Qui raduno alcune obiezioni preliminari, che più che smontare il discorso militante di Buffoni servono a raccapezzarmi su un fastidio, temo, che condivido con altri studiosi e lettori di Leopardi per lo più eterosessuali – cos'è che ci disturba tanto, in un eventuale outing del Conte? Siamo semplicemente omofobi o c'è qualcosa di più?


Ovviamente spero che ci sia qualcosa di più – ma non ne sono così sicuro.


L'operazione di Buffoni, e di Dall'Orto prima di lui, è manifesta: dimostrare che la comunità LGBT non nasce all'improvviso alla fine del XX secolo, ma ha antecedenti illustri e documentati, o meglio, documentabili – almeno finché il Potere eteronormativo non ci mette la mano. Il che è plausibile, ma può condurre a distorsioni non meno gravi di quelle prodotte dal Potere. “Ci sarà sempre qualcuno che […] continuerà imperterrito a ritenere che Aspasia fosse la Targioni-Tozzetti”, scrive, suggerendoci che faremmo meglio a identificare la protagonista dell'omonimo canto in Ranieri. Sarà: ma non è poi così facile vedere le fattezze del barbuto amico di Giacomo nella “dotta allettatrice” che “fervidi sonanti baci” scoccava nelle labbra dei suoi bambini, che “con la man leggiadrissima” stringeva “al seno ascoso e desiato”. Perché dovremmo escludere che Leopardi si sia sentito attratto da almeno una donna nell'atto assai poco efebico di accudire i figlioli (una MILF, diciamola tutta), e che la poesia non parli esattamente di questo? Un conto è ammettere che Leopardi possa avere avuto e manifestato pulsioni omosessuali: un altro è pretendere che queste pulsioni debbano necessariamente esaurire lo spettro della sua sessualità, come se sulla scala di Kinsey non ci fossero almeno cinque gradini intermedi.

È in casi come questi che un critico eterosessuale trova inevitabile affidarsi all'autorità di un Michel Foucault: “L'omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell'anima. Il sodomita era un recidivo, l'omosessuale ormai è una specie” (La volontà di sapere, 1976). La curiosità di Dall'Orto e Buffoni per le pulsioni del Conte non sarebbe che una delle forme più recenti della sempre mutevole foucaultiana Volontà di Sapere: e a tal proposito devo annotare che in questi mesi mi è capitato di sentire più di un interlocutore affermare che un Leopardi gay sarebbe una bella notizia per tanti studenti. All'inizio ero abbastanza incredulo che uno ragazzino potesse trarre qualche tipo di consolazione dall'esempio di un poeta dalla vita breve, dolorosa e infelice – che possa sentirsi ispirato a un approccio più ottimista dall'autore del Dialogo di Tristano (“Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei”!) Come se avessimo tolto Leopardi dalla polverosa teca degli Intoccabili Poeti Laureati soltanto per consegnarlo alla vetrina pop dei modelli aspirazionali: accanto al cosmologo paraplegico, alla pittrice invalida, all'inventore figlio di immigrati, e in generale a tutti i poeti-artisti-studiosi additati agli studenti non tanto per la qualità delle loro opere o scoperte, ma perché ce l'hanno fatta trionfando contro pregiudizi sociali o handicap fisici. Tutto un pantheon postmoderno basato peraltro sulla fallacia del sopravvissuto o survivorship bias. Non riesco a pensare a niente di meno intimamente leopardiano, ma forse sono solo un etero geloso. Pensavo che proclamando “l'infinita vanità del tutto”, il Conte avesse fatto della delusione per Aspasia una figura dell'infelicità umana, e che quindi stesse parlando anche di me, a me; quando sarò costretto ad accettare che la sua infelicità è quella di chi è costretto a “nascondere il proprio orientamento sessuale per timore della sanzione della società e della legge”, potrò ancora riconoscermi in A Se Stesso senza sentirmi rimproverare di appropriazione culturale?

Inoltre: se il vero motivo dell'infelicità di Leopardi fosse l'impossibilità di vivere la sessualità che più gli aggradava, il movimento di liberazione LGBT non solo conterrebbe la risposta alle sue angosce, ma in un qualche modo risolverebbe la sua poesia. I Tristani del futuro non dovranno più nascondere il loro orientamento, e non si sentiranno più tentati dal suicidio. Il pessimismo cosmico dei nostri appunti liceali si sgonfia in un più rassicurante pessimismo sentimentale: anche l'infelicità più radicale viene ricondotta a una più gestibile insoddisfazione sessuale.

Queste obiezioni, ora che le ho messe nero su bianco, non mi sembrano così probanti. Alla fine non sono che l'ennesimo episodio di un estenuante, plurisecolare dibattito intorno a uno degli oggetti più ingombranti della storia della letteratura italiana: la gobba di Leopardi (continua).

mercoledì 21 ottobre 2020

Avviso

"Bambino di città
cerca amici perchè non ne ha.
Si prega di guardare
sul quinto balcone:
tiene in mano un aquilone
che volare non sa".

(Nell'anno di Rodari, chiedersi se esiste una poesia più triste e altrettanto perfetta).

lunedì 19 ottobre 2020

Dear Sir or Madam

(Ci ho messo un po' per scriverlo, non gli dareste un'occhiata?) 



(Esce il 22 ottobre, dicono. Ma si può già ordinare, meglio dal vostro libraio preferito).

sabato 17 ottobre 2020

Non ci saranno mai abbastanza bus

Premessa autobiografica (si può saltare): sono cresciuto in un paese molto piccolo, e per molti anni me lo sono portato dentro; nel senso che credevo che influenzasse molto il modo in cui vedevo il mondo. Avevo la sensazione di non riuscire a percepirne non tanto la complessità, quanto la grandezza. E pensavo di avere un problema coi grandi numeri: milioni, miliardi. Per esempio non riuscivo a figurarmi non dico una guerra di milioni, ma una battaglia di migliaia di persone. È stato un sollievo molto parziale scoprire, crescendo, che il paesino non c'entrava nulla; che del mio medesimo problema soffriva tanta gente che viveva in città affollate, anzi: più grande è la città, più difficile è il rapporto degli abitanti con la grandezza, la complessità del mondo; dal momento che se vivi a Sarcazzo di Sopra sai benissimo che è pieno di gente che la pensa in tanti modi ma comunque non paragonabili a quelli di Sarcazzo di Sotto: e che entrambi i Sarcazzi non sono che una frazione della provincia, della regione, del continente, dell'universo; laddove chi abita ad es. a Roma a volte sembra manifestare una chiusura, una tendenza a pensare che l'universo sostanzialmente sia circoscritto dal Raccordo. 



Ma insomma questa difficoltà a capire i grandi numeri, le grandi distanze, è una cosa che si può superare lavorandoci. Il problema è che la maggior parte di chi ne soffre non sa di soffrirne, ed è un problema enormemente sottovalutato. A volte mi chiedo se non sia IL problema, se non corriamo seriamente il rischio di estinguerci e trascinare nella catastrofe buona parte della biosfera proprio perché non riusciamo a visualizzare correttamente le quantità. Ma siccome della biosfera non interessa granché ai lettori, pensiamo all'Italia: gli elettori hanno appena scelto, a maggioranza, di ridurre la propria rappresentatività – com'è stato possibile? Molti di loro pensavano, in buona fede, che un centinaio di rappresentanti in meno avrebbero comportato un risparmio per le casse dello Stato. In altre parole: pensavano che un centinaio di parlamentari fossero molti. Sono convinto che è tutta gente che sa contare fino a cento; quello che invece sfugge a molti di loro è quante volte bisogna contare cento per arrivare a sessanta milioni di italiani; quanto sia minuscolo il quoziente della frazione e, di conseguenza, il risparmio per le casse dello Stato. 

La cosiddetta antipolitica nasce all'ombra di questa difficoltà cognitiva: i grillini dopotutto erano quelli convinti di poter risolvere i problemi della Repubblica dimezzando lo stipendio ai propri rappresentanti – ma a proposito, che fine hanno fatto? Nessuna fine, sono al governo. Rappresentano anzi in parlamento la parte più cospicua della maggioranza che lo sostiene. E benché molti loro ex sostenitori non vogliano crederci, sono ancora loro: non sono stati comprati da Bill Gates o Soros o qualche altro grande vecchio. Non hanno tradito i loro ideali, ma nella più parte dei casi hanno dovuto tradurli in prassi di governo: ed è qui che è cascato l'asino, anzi molti. Avevano promesso mari, ma pensavano che si potessero svuotare col cucchiaio; avevano promesso monti, ma i monti non si sono spostati. Tutto questo cosa ci insegna? Alla maggior parte di noi, nulla. La maggior parte di noi è molto arrabbiata con il governo che non ha fatto nulla per fronteggiare la seconda ondata del Covid. Devo ammettere che anch'io ho parecchie perplessità sull'operato del governo, ma forse partivo talmente prevenuto nei confronti dei m5s che sono perfino stupito dal fatto che non siano scappati incendiando i dicasteri; che Beppe Grillo non stia già suonando la lira sulle rovine fumanti. Invece vedo che molta gente si aspettava da loro una marcia in più. Ma vediamo il documento:





   
Chiedo formalmente scusa all'autore se prendo il suo post come esempio di un atteggiamento mentale che ho visto molto diffuso, ma che qui sopra a mio avviso arriva a livelli di comico involontario. Avevano sei mesi, dice, per raddoppiare il parco macchine. Qui credo che il pubblico si divida: da una parte quelli che annuiscono pensosi, dall'altra quelli che aggrottano la fronte e si guardano interdetti: abbiamo capito bene? Sì, abbiamo capito bene: in sei mesi il governo avrebbe potuto raddoppiare tutti gli autobus d'Italia. E tutte le corriere – ma a quel punto anche i tram e le metro, no? Mettiamoci anche i treni. E non l'ha fatto – maledetti, perché non l'avete fatto? E cosa avete fatto in tutti questi mesi invece di raddoppiare i veicoli e... "adeguare il personale scolastico"? La risposta è sulla bocca di molti: hanno comprato i banchi. Con le rotelle. Che criminali. 

Non andrò più avanti così a sfottere gente che alla fine soffre di un disagio che condivido: le quantità. Invece di prenderli in giro, perché non mi metto a cercare quanto sarebbe effettivamente costato raddoppiare i veicoli del trasporto pubblico, e a spiegare perché un raddoppiamento del genere non era non dico economicamente, ma fisicamente impossibile? Eh, ma sarebbe complicato. E i numeri comunque faccio fatica io a calcolarli e voi a leggerli. D'altro canto, basterebbe esercitare un po' di spannometrico buon senso – quanto costa un autobus? quanti autobus servono a una città? quante città ci sono in Italia? Ma forse, ecco, molta gente pensa che un autobus non costi molto più che un'utilitaria, e che di città in Italia ce ne siano cinque o sei; e che tagliando un terzo del Senato si possa ricavare lo spazio per uno o due licei della capitale, dopodiché forse il problema è quasi risolto (mica ci sarà bisogno di licei anche fuori dalla capitale).

La cosa paradossale è che in fondo chi ci governa non ragiona in modo molto diverso di così, e la questione dei banchi lo dimostra. C'era quest'estate una forte volontà di dimostrare che la scuola era al centro delle preoccupazioni del governo. Il che è fantastico, salvo che trent'anni di progressiva riduzione dei finanziamenti e demolizione del servizio educativo nazionale non è che si possono invertire in un giorno. Mi piace immaginare un pool ministeriale mentre cerca di capire dove concentrare il budget a disposizione: serve spazio, potremmo costruire nuove scuole? Sì, ma salta fuori che raddoppiarle è impossibile. Potremmo requisire altri spazi? Con quel che costerebbe renderli a norma si spende quasi più che a costruirli. Potremmo fare questo? Non ne abbiamo abbastanza. Potremmo fare quest'altro? Non ne abbiamo abbastanza. Ma ci sarà bene qualcosa che possiamo fare. Comprare i banchi. Tutto qui? Beh, non è che non abbia senso. Tanti banchi nuovi che arriveranno in tante scuole diverse, nessuno potrà dire che il governo non pensi a loro. Salvo che comunque non c'era il tempo di costruire tutti quei banchi. Nessuna fabbrica avrebbe potuto costruire tre milioni di banchi in così poco tempo, perché tre milioni... come posso dirvelo... sono tanti

A proposito, se dessimo un autobus in più a ogni comune d'Italia, quanti autobus ci servirebbero? Quasi ottomila autobus. Ma è evidente che a qualche comune ne servirebbe qualcuno in più. Secondo voi in sei mesi si potevano consegnare ai comuni una decina di migliaia di autobus? E chi li avrebbe guidati? Certo sarebbe stato un fortissimo impulso all'economia. Quindi, suppongo, il MES andava preso senza discutere. Invece abbiamo perso tempo a discuterne. 

L'altro giorno il presidente della Regione Campania, dopo aver esaminato i dati dei contagi, ha scelto di chiudere le scuole. Ha fatto bene, ha fatto male? Prima di dirlo, siamo sicuri di avere i dati che ha lui, e di saperli leggere? E lui, li avrà letti bene? Avrà qualche persona competente intorno a sé? Sarà stato abbastanza competente nel selezionarli? E i vostri presidenti di Regione, li avete scelti altrettanto competenti, o avete votato il tale per dare un segnale a talaltro? Se poi in generale vi state domandando come mai un presidente di regione abbia tanto potere (e tanta responsabilità): vi ricordate quando un parlamento riformò il titolo V della Costituzione, se eravate d'accordo o no, e perché? Ci fu un referendum confermativo anche quella volta. Vabbe', probabilmente molti di voi non votavano ancora. Qualcuno non era nemmeno nato. Inutile recriminare. Pensiamo al domani: quando dovremo scegliere un nuovo parlamento (dove saremo ancora meno rappresentati, visto che abbiamo deciso che ci sta bene così), sceglieremo rappresentanti competenti o preferiremo mandare qualche tizio simpatico miracolato da un sondaggio on line su una piattaforma privata, qualcuno che in cambio ci restituisca metà del suo stipendio (senza dubbio immeritato) e che poi magari si ritroverà ministro di una cosa che non capisce nella prossima emergenza? D'altro canto anche se volessimo votare dei competenti, dove li troviamo? I pochi che producono le nostre scuole difficilmente restano in Italia, e anche nel caso non hanno nessuna convenienza nel mettersi a disposizione della Repubblica – lo stipendio da parlamentare è ridicolo, una persona capace nel settore privato guadagna molto di più. Forse alla fine insistere sugli incapaci è l'unica opzione sensata – per prima cosa non rimani deluso, il che succede non di rado quando chiami un esperto. Anzi a volte l'incapace ti capita di rivalutarlo. Basta poco: che ci si metta un po' d'impegno, che stia attento a non fare troppi casini, che non racconti barzellette ai vertici europei, ecc.

venerdì 16 ottobre 2020

Col mio cuore vincerai

La bandiera offerta al colonnello
de Charette non era probabilmente
un tricolore, ma uno stendardo bianco.

16 ottobre - Santa Marguerite-Marie Alacoque, veneratrice del Sacro Cuore di Gesù.

[2012]. Nell'autunno del 1870 Parigi è assediata, la Francia è fottuta. Appena nominato comandante di una delle legioni di volontari formate nel tentativo, ormai disperato, di spezzare l'assedio prussiano, il colonnello Athanase de Charette riceve la visita di un Monsieur Dupont qualsiasi, che viene da Tours a portargli il dono più prezioso: uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù, recante il motto Cuore di Gesù, salvate la Francia. Era stato l'abate di Musy a concepirlo, e a farlo cucire dalle suore di Paray-le-Monial. In origine era previsto che Dupont lo portasse al comandante della piazza di Parigi, ma la città era ormai irraggiungibile. Mentre cercava un sistema per passare, Dupont incocciò nei volontari di de Charette, e l'incontro gli parve provvidenziale. Tra loro vi erano 300 zuavi che avevano appena difeso (male) Roma dall'attacco sabaudo: fuggiti dopo la breccia a Porta Pia, nel giro di un mese erano già sul fronte francoprussiano, pronti per una nuova sconfitta. Prima però accettarono di farsi consacrare al Sacro Cuore di Gesù, "l'unico vero re di Francia". La Francia per la verità era appena ridiventata una Repubblica (la terza), dopo la fuga di Napoleone III e l'ingloriosa fine dell'Impero (il secondo). Ma la situazione era un caos, a Parigi incubava lo spettro della prima rivoluzione comunista, che sarebbe scoppiata di lì a pochi mesi, tutt'intorno i prussiani dilagavano, e più indietro ancora i legionari accanto al tricolore sventolavano il Sacro Cuore. Di Gesù. Un muscolo cardiaco raffigurato solitamente con un certo realismo, avvolto in un rovo spinoso, e sormontato da una croce. Che razza di brand. Chi lo aveva inventato?

Pompeo Batoni, 1760 (chiesa
del Gesù, Roma). Una vita a
far ritratti, e l'unico di cui tutti
si ricordano è un santino.

È una storia lunga. Monaci e suore devoti al Sacro Cuore ce n'è stati per tutto il medioevo. Il cuore in questione però non era ancora esattamente il nostro: oltre a rappresentare l'affettività, era considerato la sede delle facoltà intellettive. Ma era ancora un cuore perlopiù astratto, nelle miniature rassomigliante più a una fiamma che a una pompa cardiaca. Che ne sapevano, in fondo, nel medioevo, del cuore? quel che potevano dedurre macellando altri animali: autopsie e dissezioni del corpo umano erano atti sacrileghi. Il vero e proprio culto del Sacro Cuore nasce in epoca moderna, quando ormai il cuore si è capito cos'è, quanti atri ha, quanti ventricoli. È una specie di sfida cattolica alla scienza medica: tu dici che il cuore è solo una pompa? Ebbene, dal Seicento in poi i mistici si metteranno a sognare pompe cardiache, i pittori a raffigurarle nei quadri, i combattenti a esporle nei loro stendardi. Il realismo - nei limiti dell'abilità degli artisti - è causato dalla necessità di negare qualsiasi stilizzazione simbolica: il Sacro Cuore non è un simbolo, è semplicemente e trionfalmente il muscolo cardiaco di Nostro Signore Gesù Cristo, sanguinante per i nostri peccati. Come nel quadro di Batoni, che abbiamo tutti visto almeno una volta nella vita senza saperlo (è uno dei quadri semisconosciuti più famosi del mondo), molto spesso è Nostro Signore stesso a mostrarlo, esattamente come lo vide nel maggio del 1675 una suora del convento di Paray-le-Monial, Marguerite-Marie Alacoque.

Antonio Ciseri (1888) lo fa
sembrare un tatuaggio,
per me è un no.
Mi disse: "Il mio Cuore divino è così appassionato d'amore per gli uomini e per te in particolare che, non potendo più contenere le fiamme della sua ardente carità, occorre che le diffonda attraverso il tuo tramite, e che si manifesti a loro per arricchirli dei suoi preziosi tesori che ti ho rivelato, e che contengono le grazie santificanti necessarie e salutari necessarie a rimuoverli dal baratro della perdizione; (tirate fiato) e ti ho scelto in quanto abisso d'indegnità e ignoranza per la realizzazione di questo grande scopo, in modo che tutto sia compiuto da me.

Dopodiché domandò il mio cuore, che io lo pregai di prendere, ciò che fece, e lo mise nel suo, adorabile, all'interno del quale me lo fece vedere come un piccolo atomo che si consumava in questa fornace ardente..." basta, tanto non sta più leggendo nessuno. Un simile scambio di cuori era stato descritto da una monaca tre secoli prima: ma la novità di un cuore-atomo che si vaporizza in una fornace ci suggerisce che persino l'immaginario delle suore di clausura, il luogo che immagineremmo più refrattario all'innovazione, lentamente si rinnovi.

Così come dietro ogni grande uomo c'è (quasi sempre) una grande donna, dietro a una mistica di successo c'è sempre un prelato che ne ha capito le potenzialità. Nel caso di Marguerite-Marie, fu Padre Claude La Colombière, anche lui più tardi proclamato santo (da Giovanni Paolo II). Padre Claude era un gesuita, e gesuitico fin da subito fu il tentativo di trasformare il Sacro Cuore nel brand più fortunato della Controriforma francese. Come ogni bandiera, il Sacro Cuore per trionfare aveva bisogno di sconfiggere qualche nemico in battaglia: nei primi cent'anni il nemico furono i giansenisti, una corrente teologica che rifacendosi ad Agostino aveva elaborato una dottrina della Grazia pericolosamente vicina a quella protestante. I giansenisti portavano avanti un cristianesimo austero e intellettuale, che due secoli dopo avrebbe attirato Manzoni, se vi ricordate negli appunti della maturità sotto Manzoni c'era una freccina che puntava verso "giansenismo". I giansenisti, di fronte a questo nuovo culto del Sacro Cuore, reagirono prevedibilmente storcendo il naso: sapeva di idolatria, di paganesimo, e poi insomma siamo nel diciassettesimo secolo, sappiamo tutti che il cuore è una pompa, via. Vien quasi da pensare che i gesuiti lo facessero apposta, a sventolare quel simbolo simil-pagano, continuando gesuitescamente a insistere che non era affatto un simbolo, ma il vero Cuore di Gesù, da adorare in tutti suoi atri e ventricoli e reticoli venosi. Con il cuore però si difendeva l'idea di un Gesù buono, misericordioso, disposto a perdonare i peccati a chiunque si fosse arruolato nelle sue schiere: il Gesù gesuita, insomma. I giansenisti furono più volte condannati per eresia, il Sacro Cuore si conquistò la sua festa (mobile) sul calendario (19 giorni dopo la Pentecoste). 

Questa invece è una bandiera quebecchese (dei canadesi di lingua francese)

Riprese a battere con vigore nell'Ottocento, ancora una volta impugnato come stendardo contro un nemico: non più il giansenismo, ma la rivoluzione (anche se ai ribelli della Vandea, i primi a metterlo sulla bandiera, non aveva portato troppa fortuna). L'idea che il cuore di Gesù sanguini per i peccati della Francia rivoluzionaria si fa strada soprattutto durante il disastro del 1870: rileggendo le lettere di Marie-Marguerite (beatificata quattro anni prima da Pio IX) ci si accorge che nella visione del 1675 il Sacro Cuore aveva espressamente richiesto di essere dipinto "su tutti gli stendardi" del nuovo re di Francia: il giovanissimo Luigi XIV. L'entourage di Marie-Marguerite aveva effettivamente mandato una petizione a Versailles, ma probabilmente la richiesta non era mai arrivata all'attenzione del Re Sole. Evidentemente il Sacro Cuore se l'era presa male e, 150 anni più tardi, aveva inviato la tempesta rivoluzionaria sulla casa Borbone. Poi, siccome l'empietà dei francesi perdurava, aveva insistito mandando, un secolo dopo, i prussiani. Per salvarsi non restava che pentirsi e consacrare la Francia intera al Sacro Cuore di Gesù, magari costruendo un'enorme basilica in un luogo che sovrastasse la capitale, e magari sostituendo al tricolore lo stendardo del muscolo cardiaco. Questo tentativo antico e postmoderno di riscrivere tutta la storia delle rivoluzioni francesi come una serie di punizioni divine culmina con la battaglia di Loigny, dove i volontari di de Charette si battono come martiri, indossando scapolari del Sacro Cuore e massacrando effettivi prussiani al grido di "Sacro Cuore Salvaci!", "Viva la Francia", "Viva Pio Nono". Vincono? No.

RESTA! quella parte di me, quella più quella più vicina al nulla (scusate).

Tanto ormai la guerra è persa. Tre anni dopo viene posata la prima pietra della basilica del Sacro Cuore a Montmartre, in espiazione per i sacrilegi commessi durante la Comune. Sarà consacrata soltanto nel 1919. Il Cuore avvolto nelle spine e sormontato da una croce continua a essere uno degli stendardi della Francia reazionaria e cattolica, quella che oltre confine si conosce meno. Ciò che è da noi il crocefisso. Quando in Italia qualche teocon, con l'arroganza dei neofiti, propone di cucire il crocefisso sulla bandiera, in Francia qualcuno, come una corda che vibra per simpatia, butta lì una foto col Sacro Cuore sul tricolore blu-bianco-rosso. Segue dibattito, perché per molti il tricolore è ancora una creatura massonica e satanica, e l'idea di cucirci sopra la pompa cardiaca di Nostro Signore può risultare un sacrilegio. E così via. Nel frattempo il Sacro Cuore ha riscosso successi in tutto il mondo: dopo la Francia (consacrata al S. C. nel 1873 in seguito a un pellegrinaggio di una cinquantina di parlamentari a Paray-le-Monial), anche l'Ecuador si consacrò qualche mese dopo, per decisione del suo Presidente. Alla fine, su insistenza di un'altra religiosa, Leone XIII consacrò al Sacro Cuore tutti i cristiani in una volta sola. Nel Novecento l'iniziativa passò all'altro Cuore, quello Immacolato di Maria, che attraverso i pastorelli di Fatima chiese per sé la consacrazione della Russia, proprio nel momento più complicato, il 1917. Oggi cuori se ne vedono un po' dappertutto, sono parte del paesaggio. Insomma il brand ha funzionato, padre Claude aveva visto giusto. E tuttavia è sempre più un cuore di plastica, un simbolo astratto: non quel muscolo palpitante che Marguerite-Marie aveva visto atomizzare il suo. Il quadro di Batoni, a vederlo con occhi vergini, ha un che di surrealista: non era un'idea, non era un simbolo, era davvero un uomo di carne, con un cuore di carne in mano. Questa idea della carne, la afferriamo sempre meno. Non è solo l'agnosticismo moderno, è che stiamo diventando sempre meno palpabili, sempre più virtuali, simboli di noi stessi: e davanti a un cuore di carne non sappiamo veramente cosa dire. Ci aspettiamo che rappresenti qualcosa, un'idea, uno stile, un brand, qualsiasi cosa: è impossibile che sia tutto lì, due atri e due ventricoli, una pompa. Forse siamo troppo astratti per il cristianesimo.

giovedì 15 ottobre 2020

Ma noi continueremo a studiare i bricconi

Nell'anno di Rodari, mamma perdonami, ma insomma è andata così.

[Lunedì 23 luglio 2018] 10 libri importanti per la mia vita, #2: Riguardo alle Avventure di Cipollino ho avuto di recente una discussione animata con mia madre. Io stavo notando che Cipollino mi sembrava un po' dimenticato, rispetto ad altri titoli di Rodari: come del resto era normale che succedesse, visto che il comunismo ha perso.
"Il comunismo? cosa c'entra adesso il c..."
"Eddai mamma, è l'unica fiaba dove i personaggi fanno la rivoluzione..."
"Ma io l'ho letto per vent'anni ai bambini".
"Certo mamma, ricordo benissimo, nella sezione dei cinque anni tu leggevi Cipollino perché..."
"Perché è una fiaba educativa".
"Perché è una fiaba educativa e comunista, mamma, tu lavoravi in una scuola materna comunale comunista, il prete non voleva entrarvi a benedire, eddai".
"Io non sono mai stata comunista".
"Magari non lo eri nel segreto nell'urna, ma insomma mamma, una fiaba in cui tutti gli ortaggi umili scacciano il duce pomodoro e i principi limoni..."
"Rodari forse un po' lo era..."
"Direi, scriveva sul Paese Sera".
"Ma io l'ho incontrato solo in ambito didattico, lo chiamarono nelle scuole..."
"Di Reggio Emilia".
"Comunque lo leggevano in tutto il mondo, si vede che era univers..."
"Mamma! Il mondo in cui lo leggevano era: Ungheria, Romania, Messico, Unione Sovietica, mi ricordo ancora la quarta di copertina con le edizioni in cirillico. Mamma!"
"Ma che c'entra l'Unione Sovietica, scusa, Pollicino è stato il primo personaggio che... me lo faceva leggere mio padre! sul giornalino illustrato che ci portava a casa da..."
"Quel giornalino era il Pioniere, era l'inserto dell'Unità, tuo padre comprava l'Unità, Cipollino era comunista, mio nonno era comunista, non siamo sempre stati tutti morotei in questa famiglia mamma dai".

Niente, se l'è presa.

mercoledì 14 ottobre 2020

Questa scuola non ce la sta facendo (scusate)

Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Quest’estate, dopo tre mesi e mezzo di lockdown – tre mesi e mezzo in cui abbiamo inventato una didattica a distanza che prima non esisteva – ho iniziato a preoccuparmi per la riapertura delle scuole. In un primo momento sentivo che si parlava di occupare le aule solo a metà della loro capienza, per garantire il distanziamento sociale. Sarebbe stato costoso, ma efficace. Si parlava anche di fare più turni, o di alternare didattica a distanza e didattica in presenza. Si parlava di tante cose, diciamo, fino a giugno. Avremmo potuto fare scuola nei cinema, o nei teatri. Al limite per un po’ all’aria aperta, insomma l’unica cosa chiara è che non avremmo potuto entrare nelle nostre scuole, a settembre, come se niente fosse successo.

E invece lo abbiamo fatto.

A un certo punto (giugno era già passato, mi pare), certi discorsi sono scomparsi all’orizzonte. Il ministero ci ha informato che bastava un metro di distanza tra labbra e labbra, ovvero ottanta centimetri da banco a banco, e che se non avevamo banchi singoli ce li avrebbe procurati. E un po’ di mascherine. E il nastro colorato per dividere tutti i corridoi in corsie. Il gel disinfettante, fondamentale. Ah, forse anche qualche insegnante in più, ma avrebbero dovuto promettere di restare nelle nostre scuole per più anni, e non molti hanno accettato. Tutto qui. Per il resto la scuola dell’obbligo avrebbe riaperto a pieno orario, come chiedevano i genitori. E per carità, i genitori avevano tutto il diritto di chiederlo.

Così abbiamo aperto.

E come sta andando?

Mi piacerebbe poter dire: bene.

Il Mattino

Noi non è che ci siamo tirati indietro. Abbiamo svuotato le aule dagli arredi per distanziare i banchi il più possibile. Abbiamo istituito turni per entrare, turni per uscire, turni per fare l’intervallo. Abbiamo separato i corridoi in corsie, le scale in corsie. Abbiamo comprato i termoscanner, prima che il ministero decidesse che provare le temperature al mattino non spettava a noi. Abbiamo disseminato dispenser di gel disinfettante in tutti gli ambienti, abbiamo sperato per il meglio. I primi giorni i ragazzi ci hanno stupito per la disciplina; che restassero seduti pazientemente per quattro o cinque ore dopo mesi di lockdown domestico non era per niente scontato. Specie quando quello che avevano davanti non era nemmeno un loro insegnante. Perché all’inizio non avevamo nemmeno tutti gli insegnanti. En passant: se c’era un anno in cui il ministero avrebbe dovuto impegnarsi a evitare i soliti disastri con le graduatorie di concorso, era questo. Invece completare gli organici è stato più difficile nel 2020 che nel 2019. Però in un qualche modo, stringendo i denti e accumulando straordinari che forse nessuno ci pagherà, siamo riusciti ad aprire la scuola nella data che il governo aveva promesso ai genitori. Un grande successo. Complimenti al governo.

Sì, ma insomma, come sta andando?

Ecco, appunto.

Non è che mi piaccia fare il pessimista. In queste settimane, piuttosto di scrivere cose pessimiste ho preferito non scrivere niente. D’altro canto non posso nemmeno fingere che stia andando tutto bene. Confesso che mi sarebbe piaciuto annunciare dal fronte della scuola dell’obbligo che la linea teneva, che i ragazzi rispettavano il distanziamento, che i casi sospetti venivano immediatamente segnalati e che i genitori venivano a prenderli con la mascherina. Il che tutto sommato è anche vero: i ragazzi in classe rispettano il distanziamento (ma appena fuori non riescono a evitare di ammucchiarsi), i casi sospetti vengono immediatamente segnalati ai genitori che in linea di massima vengono a prenderli con la mascherina. Tutto più o meno come è previsto dalle direttive ministeriali, talvolta ondivaghe ma in sostanza ragionevoli. E quindi insomma sta andando bene?

Secondo me no.

Princeton University

Sono un insegnante. Tutte le mattine vado a scuola con la mascherina e faccio lezione, con la mascherina. Per fortuna le aule della mia scuola sono abbastanza ampie da consentire ai miei studenti di levarsi la mascherina, una volta seduti. Molti la tengono comunque. L’aula è periodicamente aerata; abbiamo gel dappertutto; facciamo l’intervallo separati dalle altre classi; entriamo e usciamo a un orario diverso dalle altre classi. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare, nei limiti del possibile.

E ci stiamo ammalando.

Non di covid – per adesso. Ma è quel periodo dell’anno, avete presente? Ci sono almeno due virus in giro: uno gastrointestinale, l’altro è un raffreddore. Due banalissimi virus. Io tutti i giorni faccio lezione con la mascherina, in aule aerate, e i ragazzi mi seguono osservando il corretto distanziamento. Ogni tanto qualcuno si prende il virus del raffreddore. Ogni tanto qualcuno si prende quello della cacarella.

Io li ho presi tutti e due.

Quando arriverà il Covid, perché non dovrei prendere anche quello?

C’è qualche precauzione che non ho preso? Forse ho abbassato la guardia, forse ho toccato la maniglia sbagliata, forse non ho sanificato quella cattedra prima di sfiorarla, forse sono passato troppo vicino a un ragazzo mentre andavo al mio posto? È probabile, è quello che succede quando si vive nello stesso posto tutti i giorni. Io condivido il mio ambiente di lavoro con più di duecento ragazzi: che io possa davvero distanziarmi da tutti loro per cinque ore al giorno è un pio desiderio. Presto o tardi respiro la loro aria, e loro la mia. Tra un po’ arriverà anche l’influenza stagionale: negli ultimi anni mi sono sempre vaccinato, quest’anno non ho ancora capito se ci sarà vaccino anche per me. A meno che non mi convenga contrarla, restare a casa e proteggermi dal virus peggiore.

Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Mi hanno chiesto di aprire la scuola, era il mio mestiere, l’ho aperta. Poi mi hanno chiesto di proteggerla dal virus col distanziamento, il gel, le mascherine, e in coscienza penso di averci provato. Ma appunto, se parliamo di coscienza, io questa cosa a un certo punto la devo dire: non ce la stiamo facendo. Non così. Non è un discorso politico. Per la politica ci sarà tempo. È chiaro che ci sono delle responsabilità, è chiaro che fino a un certo punto si pensava di investire risorse e dopo un certo punto si è deciso che non ne valeva la pena. È chiaro e quando avremo più tempo ne parleremo. Ora si tratta di capire semplicemente se possiamo andare avanti così. Se lo chiedete a me, per quel poco che mi compete e ho potuto osservare: no, non possiamo andare avanti così. Magari a orario ridotto: ma così no.

Mi dispiace.

lunedì 12 ottobre 2020

Nell'immensità di un rebus

È tutto un complesso di cose – l'autunno, spotify, gli incentivi turistici della regione Piemonte – che ha fatto sì che mi sia riaccostato a Paolo Conte, dopo anni di colpevole snobberia. E ora che grazie allo streaming posso riascoltarlo tutto in fila, mi capita quel che mi è già successo con altri maestri: lo spettacolo di un'intera carriera artistica è irresistibile, dopo un po' ci si innamora e basta. I primi album ascoltati anni fa su una cassettina mi erano sembrati acerbi, ora li trovo geniali e necessari. Gli ultimi che presi a nolo mi parevano ridondanti, ora invece mi suonano perfetti, insomma Paolo Conte è un genio, grazie tante, lo sapevate già, lo sapevo anch'io ma per molto tempo non mi è interessato saperlo. Ma non parlo di lui, io parlo d'altro. 


Parlo di me. Quel che mi lascia davvero incredulo, è il ricordo che ritrovo tra i solchi, del me stesso che cercava di farsi piacere Paolo Conte milioni di anni fa. No, sul serio: ero un ragazzino. Ho ricordi precisi della gita scolastica in Baviera, io che con un certo imbarazzo vado a chiedere in prestito a un ragazzo di quinta la cassettina di Aguaplano da ascoltare con un walkman, ma perché. Cosa poteva dirmi Aguaplano a sedici anni, siamo seri, con tutta la musica che c'era in giro come potevo davvero interessarmi alle vicissitudini di un avvocato di Asti rimasto bloccato in un mondo tutto suo, una specie di solaio pieno di buone cose di gusto tutt'altro che pessimo, tutta una poetica propedeutica a un dignitoso invecchiare in provincia – e dieci minuti prima stavo ascoltando, boh, Disintegration? Out of Time? Non ha senso. Non ha nessun senso. E almeno fossi stato il solo, ma no, eravamo un bel gruppetto – sui sedili posteriori, questi ragazzi di quinta si erano messi a intonare Genova per Noi, così, per il gusto di farlo, lo scrivo qua sopra perché faccio fatica a crederci. Te li immagini i giovani d'oggi ad ascoltare Paolo Conte? E forse dovrebbero, voglio dire, non è che in giro ci sia un granché di più interessante. Né suona più datato di quanto non suonasse già allora. Ma davvero, salvo un Best of in vinile tutto il mio Conte di liceale sta in cassette registrate, come i Pink Floyd e i RHCP. Non era roba che ascoltavo io. Era quello che ascoltavamo in giro. 

Ecco, questo a distanza d'anni mi lascia perplesso più di ogni altra cosa. Cioè io mentre facevo le versioncine o cercavo di capire gli integrali ascoltavo Gli impermeabili, e sul serio pensavo di apprezzarla? Come facevo a capire versi come "Sono venuto a suonare e di nascosto a ballare"? Come facevo a commuovermi per l'"ultima donna", o per quella che avrebbe potuto entrare nella mia vita con una valigia di perplessità? Chi era Duke Ellington per me? è possibile che lo credessi davvero un grande boxeur. Che ne sapevo del mondo adulto in cui si sbaglia da professionisti? Son tutte cose che forse comincio a capire adesso, e son trent'anni – un rebus.

Oppure appunto un rebus, intravisto su una Settimana Enigmistica che mio padre lasciava sul tavolo della cucina con gli spaghetti da riscaldare, ma arrivavo che erano le due e li mandavo giù freddi, e i rebus quasi mai li risolvevo, ma quella Settimana avrebbe potuto essere di dieci, venti, trent'anni prima, e i disegni sarebbero stati uguali, e nulla mi avrebbe mai fatto del male. E nella pagina delle barzellette, per rinfrancare lo spirito tra un enigma e l'altro, avrei trovato uomini di mezza età con velleità galanti, a volte naufraghi su isole deserte con palme e bambù, luoghi pieni di virtù: e nulla sarebbe mai cambiato (e nulla mi sarebbe mai costato). 

domenica 11 ottobre 2020

Ci fece un cenno dai vetri e fu tutto

Noi leggevamo un giorno per diletto,
noi leggevamo un giorno sul diretto,
soli eravamo e senza alcun sospetto,
sordi eravamo e senza alcun cornetto,
stolti eravamo e senza alcun concetto,
saliti a Teramo senza biglietto,
senza burro né strutto,
né pancetta né prosciutto.

Morti eravamo, senza alcun costrutto.
Sola, la morte, in sala d’aspetto,
era una morte di modesto aspetto,
povera morte senza doppiopetto,
ci fece un cenno dai vetri e fu tutto. 

(Nell'anno di Gianni Rodari, ricordarsi di questa pubblicata sul "Caffè" che comincia come una filastrocca scema da ginnasiali e poi sembra che diventi sempre più scema e invece all'improvviso si impenna e con quel "cenno dai vetri" sorpassa Montale sul filo).

mercoledì 7 ottobre 2020

L'esercito delle 150 rose

7 ottobre - Madonna del Rosario

[2011]. Quante Avemarie ci sono in un rosario? Ok, "questa la so": cinquanta. No, non proprio. Certo, nella collanina del rosario ci sono cinquanta chicchi piccoli, e a ogni chicco piccolo corrisponde un'Avemaria. Ma il rosario completo, quello da beghina seria, prevedeva tre giri di collana, per un totale di centocinquanta Ave, quindici Pater e quindici Gloria (ne parlo al passato perché con Wojtyla, sempre abbondante, siamo passati rispettivamente a 200 Ave, 20 Pater, 20 Gloria). E perché proprio 150? Siccome è l'esatto numero di Salmi della Bibbia, l'ipotesi è che il rosario sia nato nel Medioevo come rito sostitutivo, per devoti analfabeti che non avrebbero potuto leggere il salterio. E questo ci dice qualcosa sul cattolicesimo.

Prendiamo un musulmano, un protestante e un cattolico. Il primo ha un libro sacro, ma spesso non sa leggerlo: quindi lo impara a memoria. In arabo. Altrimenti non sarebbe un buon musulmano. Il secondo ha un libro sacro, ma non riesce a impararlo a memoria, in una lingua che oltretutto non parla più da secoli: quindi impara a leggere. Così può essere un buon protestante. E il cattolico? Anche lui ha un libro. Ma studiarlo a memoria è troppa fatica. Imparare a leggere? Non se ne parla. E quindi? E quindi invece di leggere guardi le figure - le chiese ne sono piene - e al posto di ogni salmo che non hai imparato a memoria, reciti la stessa preghierina. Breve. Semplice. Pratico.

Santa Vergine,
dacci l'Eurobond!
Resta da capire perché a ogni salmo si debba sostituire una preghiera proprio alla Madonna. Non è detto che sia stato sempre così. Nel medioevo la collana del rosario era conosciuta come “paternoster”, il che lascia pensare che a ogni chicco corrispondesse piuttosto la recitazione del Padre Nostro, preghiera fissata già nei Vangeli. L'Ave Maria, nella sua versione definitiva, è parecchio più tarda: così come la devozione alla Madonna, personaggio abbastanza in ombra nei primi secoli della Chiesa. Di recitazioni di Avemaria in batteria da 50 o 150 si comincia a parlare nel tredicesimo secolo, quando San Domenico, (terrore degli eretici, flagello degli albigesi) lo riceve in sogno dalle sante mani della Vergine, come arma finale contro la mala pianta delle eresie. Sin dall'inizio dunque il Rosario alla Madonna assume una valenza battagliera che oggi può sembrare curiosa: che c'entrano le vecchiette salmodianti con le guerre, ancorché sante? Ma all'indomani della storica vittoria di Lepanto – 7 ottobre 1571 – mentre genovesi e veneziani litigano su chi ne sia stato l'artefice, e se l'ammiraglio Gianandrea Doria ritirandosi dal centro dello schieramento abbia praticato una geniale strategia diversiva o più semplicemente cercato di tagliare la corda, Papa Pio V taglia la testa al toro decretando che a vincere era stata la Madonna del Rosario, con l'implicito ausilio dei milioni di vecchine recitanti avemaria a raffica.

In pratica il Papa aveva introdotto il televoto: un mantra che annulla la tua identità ma ti rende protagonista delle grandi svolte storiche. Altro che Gianandrea Doria! A sconfiggere i feroci turchi sei stata proprio tu, vecchietta analfabeta, li hai battuti tu gli infedeli saraceni, al ritmo impareggiabile di 6 avemarie al minuto (fanno 5 rosari all'ora, al netto di misteri e litanie) che nessun muezzin di Istanbul evidentemente poteva reggere. Da lì a poco la Madonna del Rosario si insedia a Pompei, diventando meta di pellegrinaggi di massa che continuano tuttora, specie in ottobre e in maggio.

Sempre a Pompei un allievo di Luca Giordano la ritrae coronata di dodici stelle, come la misteriosa donna che nell'Apocalisse compare "vestita di sole" in piedi sulla luna. Quelle dodici stelle in cerchio richiamano effettivamente un po' il rosario, ma in realtà nessuno sa esattamente cosa rappresentino: le dodici tribù di Israele? I dodici apostoli? Insomma, la donna misteriosa sarebbe la Chiesa che si espande nel mondo? Potrebbe darsi. La cosa curiosa è che quelle dodici stelle, dipinte a Pompei su uno sfondo blu, assomigliano terribilmente a...

...esatto. Vedi cosa succede ad andar per rosari. Siamo inciampati nelle famigerate radici cristiane dell'Unione europea!

Non è possibile, direte voi. Sarà solo una coincidenza. Tanto più che le dodici stelle della bandiera europea hanno una storia diversa, no? Già, a proposito, perché ci sono dodici stelle nella bandiera europea? Ecco, non è affatto chiaro.

Va detto che né il Consiglio d'Europa, che issò per primo il vessillo a dodici stelle, né l'Unione che lo copiò, erano composti da dodici membri quando lo adottarono come simbolo. All'inizio il Consiglio di membri ne aveva quindici, salvo che uno era il Saarland, una piccola regione della Germania che nell'immediato dopoguerra era amministrata dai francesi e di cui non era ancora chiaro il destino: raffigurarla con una stella su una bandiera internazionale poteva apparire come un passo ulteriore verso la definitiva separazione dalla Repubblica Federale Tedesca. Quindici no, insomma. Ma non è comunque chiaro perché non quattordici. Tredici men che meno (oltre alla sfortuna, è veramente difficile da disegnare, un circolo di tredici stelle), e quindi, insomma, dodici. Proprio come la Madonna, che coincidenza. Ma un cattolico non metterebbe mai "Madonna" e "coincidenza" nella stessa frase. Ed ecco l'autore del bozzetto della bandiera, Arsène Heitz, rivelare ai giornalisti cattolici di essere un devoto mariano, e di essersi ispirato a una medaglietta mariana che portava sul petto; ecco fiorire leggende intorno a Paul Lévy, politico belga di origine ebraiche, sopravvissuto a Dachau, convertitosi al cattolicesimo, che davanti a un'immagine della Vergine ha un'illuminazione: ma come stanno bene dodici stelle gialle in campo blu. E appena vede il bozzetto di Heitz fa di tutto affinché i colleghi lo approvino. Ma c'è di più: per la gioia di tutti i Teocon presenti e futuri il Consiglio decise ufficialmente di approvare il suo vessillo l'otto dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Insomma, sarà anche una coincidenza, ma la donna misteriosa vestita di sole e in piedi sulla luna che sconfisse i turchi a Lepanto sembra aver posato la testolina anche a Bruxelles. A pensarci bene è un po' inquietante. 

lunedì 5 ottobre 2020

Forse Facebook mi vuole fuori

La mia prima esperienza della nuova versione di Facebook fu più o meno all'inizio del lockdown. A quel tempo si poteva ancora tornare alla versione tradizionale ed è quello che feci dopo due o tre giorni: mi sembrava una specie di Twitter senza l'unico minimo pregio di Twitter, la brevità. Questo può anche darsi non significhi nulla: sono un vecchio ormai (almeno su internet) e i vecchi vivono come un'offesa qualsiasi restyling (anche l'interfaccia utente di Blogger ne ha appena fatto uno e indovinate: è uno schifo).  


Un mese fa sono stato poi costretto a passare a questa nuova versione, e nel frattempo si è verificato un fatto che magari è solo il risultato di una coincidenza, ovvero: ho iniziato a stare su Facebook molto meno, specie da desktop. Insomma la nuova interfaccia che a detta degli osservatori esperti dovrebbe rappresentare un ulteriore passo verso la mia profilazione di cliente/merce, per ora sta riuscendo soltanto dove i discorsi degli esperti e dei critici avevano fin qui fallito: mi ha fatto stancare di Facebook. Ripeto, può anche darsi che non sia vero: settembre è stato un mese molto difficile per me, a volte non c'era letteralmente tempo per mangiare o dormire, e quindi anche per necessità teoricamente meno impellenti come farsi un giro su Fb. Può anche darsi che si tratti solo di un periodo di stanca, e che tra qualche mese mi rimetterò a litigare coi renziani o a sfottere i milanesi o a irrompere in una conversazione di aspiranti costruttori del Ponte sullo Stretto per avvertire che tra Reggio e Messina ci stanno tre km (credo che sia in assoluto la cosa che ho fatto più volte, è una specie di gag ormai). Insomma può darsi che mi adatterò, anche perché sono piccolo ben oltre il limite dell'insignificanza, Fb è ormai il mio habitat, e se l'habitat cambia non ho molte scelte: o mi adatto o scompaio. D'altro canto.

D'altro canto tutto questo potrebbe anche essere voluto: dopo avermi tenuto a pastura per una decina di anni (che su internet equivale a un Triassico), il Grande Algoritmo potrebbe anche aver deciso che di uno come me non sa che farsene. Non compro, non vendo, non clicco sugli spot, mi faccio vivo solo ogni tanto per cercare di bloccarne uno che mi offende. Tutto quello che faccio è discutere (ciozzare, si diceva dalle mie parti) e questo magari per un po' gli è stato utile, ma da qui in poi molto meno. Tutto questo vale per me e per altri milioni di ciozzatori, pardon, conversatori, che insistono in questa cosa anacronistica di usare Fb come un forum, una chat scritta, una cosa che Fb non ha mai voluto essere e che sarà sempre meno. E in effetti devo dire che l'aspetto del vecchio Fb che mi manca di più è proprio quello più anacronistico, che più mi ricordava la vecchia internet 1.0: i caratteri piccoli. Una volta tutto era scritto così qui sopra, poi sono arrivati i webdesigners presbiti e gli analfabeti e oggi pure le riviste specializzate pubblicano tutto in corpo sedici. Tutto questo malgrado qualche studio, e l'esperienza dei lettori seri dica il contrario: i caratteri piccoli aiutano la concentrazione – e se sei prolisso come me sono l'unica speranza di far digerire a qualcuno un muro di testo. Forse Fb oggi mi cattura meno proprio perché è scritto più in grande, e forse è scritto più in grande proprio per allontanare i conversatori seriali e prolissi come me, che a parte ciozzare non fanno nulla di veramente utile per Zuck e soci. Può anche darsi che disorientiamo l'Algoritmo, con tutte le parole che usiamo quasi sempre fuori contesto: di questo Algoritmo sappiamo molto poco, ma essendo un'intelligenza artificiale di sicuro ha problemi con l'ironia e quindi non ci capisce, la frastorniamo, del resto parliamo di un'entità progettata per spaventarsi quando vede un capezzolo. 

Forse è semplicemente ora di andarsene, anche se non sono quel tipo di persona che se ne va. Di solito resto finché l'interfaccia non muore: vedi i vecchi aggregatori (voi eravate all'asilo), i feed rss, vedi Friendfeed, eccetera. Forse dovrei semplicemente cominciare a capire come funziona Reddit, e aver pazienza che tra un po' tutti quelli che mi piaceva seguire su Fb li troverò lì, tranne qualcuno invece morto e quindi assente, indifferente. Ormai si è capito che gente siamo, più o meno gente verso i cinquanta che ha più voglia di leggere che cliccare sui video, tranne ormai i video delle canzoni di Paolo Conte che una volta ci sembrava il nonno e adesso è il più aitante, la mascotte della comitiva. La prospettiva di essere l'ultima generazione di veri lettori è un po' deprimente, ma magari è viziata dal punto di vista. 


Aggiungo che non c'è nulla di così strano e traumatico: sin da molto prima di Internet la mia esperienza di utente è sempre stata tangenziale e parassitaria. Molto prima di essere un utente di Fb che non cliccava sulle inserzioni ero un telespettatore che non guardava gli spot, un lettore che fotocopiava i giornali, un ascoltatore che si registrava i nastroni alla radio. Tornando a internet, quando entro in un ambiente di solito è perché ho un contenuto da promuovere, ovvero di solito questo blog. In sostanza mi metto lì a mò di buttadentro, un uomo sandwich che piazza link senza vergogna. È proprio questo atteggiamento che richiede che io poi mi fermi a far due chiacchiere con gli altri utenti e alla fine mi affeziono: questa cosa è successa soprattutto su Friendfeed e su Facebook (che di Friendfeed ha parassitato il codice). Meno su Twitter, che paradossalmente è un ambiente più adatto ai buttadentro, ma decisamente più bar della stazione che bar di quartiere. Quello che sto cercando di dire è che non sono mai stato semplicemente una merce: non mi sono mai illuso sul fatto che Zuck avesse priorità diverse dalle mie, e cercavo nel mio piccolo di sfruttare i suoi algoritmi per promuovere le mie. E continuerò a provarci, anche se ho la sensazione che di essere ormai stato scoperto e allontanato, non come individuo ma come categoria. 

Insomma quello che sto cercando di dire, in fondo al muro di testo, è che esisto. È l'unica cosa che sto cercando di dire da quasi vent'anni che son qui, evidentemente ci tengo molto, anche se a volte non mi ricordo più il perché. Forse lo sapranno gli algoritmi che processeranno questo blog in futuro, molto più intelligenti e comprensivi di quanto io non sarò mai. È a loro che chiedo adesso scusa per tutto quello che potrebbe offenderli, l'ironia, o le parolacce, o i capezzoli. 

domenica 4 ottobre 2020

Siamo tutti Francesco? (No, ma ci piacerebbe)

 4 ottobre - San Francesco d'Assisi (1182-1226)

Il culo era proprio un selling point.
[Anche questo è un pezzo molto antico 2011!, che ho sempre trovato insoddisfacente, ma per farlo meglio dovrei buttarmi sul serio sulle Fonti Francescane e non ho il tempo, probabilmente non l'avrò mai. Aggiungo solo che il ritratto di Cimabue non è esattamente il più antico, ce n'è credo un altro a Bologna].

Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali? Primo grandissimo poeta della letteratura italiana, con quel Cantico delle creature pieno di k che piacciono ai giovani? Ce ne sarebbe da scriverci un libro. Ma lo hanno già fatto in tanti. E anche a proposito dei libri su San Francesco si potrebbe scrivere un libro. Ma hanno già fatto anche questo. Quindi a questo punto che si fa?

In San Francesco al massimo ci si può specchiare. Nel senso che è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante. Per esempio io, se penso al mio San Francesco, lo vedo ormai un po' datato; ma non datato al dodicesimo secolo; piuttosto agli anni Settanta, che sono quelli in cui sono cresciuto leggendo anche la bio a fumetti di San Francesco sul Piccolo Missionario; guardando il film di Zeffirelli (la cosa più gay che si poteva proiettare in un cinema parrocchiale); cantando le canzoni di Forza Venite Gente, il più fortunato musical da oratorio della storia (brevissima) dei musical da oratorio.

Insomma che Francesco era il mio Francesco'70? Un fricchettone. Però di buona famiglia. Zeffirelli lo aveva capito benissimo, e la parte più interessante del suo film probabilmente è quella in cui la famiglia lo tratta un po' come si trattavano i figli da disintossicare, che fanno il gioco del silenzio e ti abbracciano, poi un mattino te li trovi sul tetto, “guarda mamma adesso volo”

E prima o poi – come tutti gli eroi medievali di Zeffirelli – ti mostra angelico il culo. Erano tempi così. La colonna sonora, tutti lo sanno, la canta Baglioni. Invece non tutti sanno che in originale era di Donovan, esatto, sì, Dolce Sentire è Baglioni che canta su Donovan, e finì nei canzonieri liturgici, avete presente, quelli posati sui banchi di chiesa, con Noi vogliam Dio e Symbolum '77 (Tu sei la mia vita / altro io non ho). Si cantava di regola durante la comunione. Non che nessuna autorità ecclesiastica l'abbia mai omologata, ma i preti facevano finta di niente, erano anni così. Pur di avere giovani in chiesa avrebbero aperto le porte anche ai Black Sabbath.

Questo insomma era il mio Francesco '70-80: l'unico Santo che ci fosse vicino in quel periodo in cui volevamo stare in parrocchia ma anche farci crescere la barba, azzuffarci nei fienili e magari farci le canne. E i soldi di papà ci pesavano un po' in tasca. Fossi nato giusto qualche anno prima probabilmente sarebbe stato un tizio più tosto, come quello che fa la morale a Totò e Ninetto in Uccellacci: un estremista intransigente che rifiuta il concetto di proprietà privata (perché in fondo il pauperismo medievale consisteva in questo), occupa chiese diroccate e insieme ad altri giovani disadattati fonda comuni maoiste sul filo dell'eresia. Ma ormai gli anni Ottanta incalzavano. I tempi erano maturi per un Francesco diverso, un Francesco rockstar. In realtà in questo blog io vorrei trattarli un po' tutti da popstar, i Santi; ma nel caso di Francesco l'approccio è perfino banale, voglio dire, la Cavani per il suo film francescano a colori scelse Mickey Rourke. Mickey Rourke! Che abbraccia un crocefisso di Cimabue buttato lì per caso e ci si struscia sensuale! Mickey Rourke nudo coi tatuaggi che si masturba nella neve! Ma vediamo il filmato.

Cioè, capite, Mickey Rourke. Agli altri santi, quando va bene, affibbiano Castellitto (quando va male Beppe Fiorello).

Però è finita anche quella fase – e pensando a Mickey, oserei dire che non è finita bene. A questo punto mi domando con che Francesco stiano crescendo i ragazzini di oggi. Esce ancora il Piccolo Missionario? Ok, il Francesco ambientalista funzionerà sempre, ma è plausibile, mi chiedo, un Francesco teocon? Perché no, dopotutto aveva la fissa per le crociate (a proposito, una delle molle per la conversione potrebbe essere stato un attacco di panico: partiva per la guerra, ma c'era già stato e non gli era piaciuta affatto, soprattutto l'esperienza della prigionia: mettersi addosso un sacco e fare il mendicante poteva essere un'exit strategy, ma il senso di colpa per essersi ritirato dalla lotta alla fine potrebbe avere prevalso e averlo portato in Terrasanta; è un'ipotesi come un'altra, ma Francesco ormai uno specchio, per cui l'ipotesi probabilmente somiglia meno a Francesco che a me).

Che altro potrebbe essere tornato di moda in questo momento? Di sicuro non il pauperismo, uno stile di vita che in fin dei conti consiste nell'elemosina: è un fenomeno tipico dei periodi di boom economico, ma quando il ciclo finisce la gente sbarra le case e comincia ad aver paura dei lebbrosi e degli zingari. Invece dovrebbero andare forte le stimmate: per molti secoli ne è stato l'unico portatore ufficiale. E in generale la sua sensibilità nazionalpopolare (ha inventato il Presepe vivente).

Sotto la superficie dello specchio, Francesco resta lì, aspetta le generazioni che verranno e lo vedranno in un modo diverso. Inutile ormai domandarsi chi fosse veramente - nel suo ritratto più antico e verosimile (quello di Cimabue nella Basilica inferiore di Assisi) è semplicemente un uomo che conosce il dolore e la povertà, e che da otto secoli, senza abbassare lo sguardo, sembra fissare proprio noi.

giovedì 1 ottobre 2020

Teresina, pallina di Gesù

1 ottobre - Santa Teresa di Lisieux, AKA Teresa del Bambin Gesù AKA Teresa del Sacro volto, vergine e dottore della Chiesa (1873-1897)

[Questo è in assoluto il primo pezzo sui Santi comparso sul post, il primo ottobre del 2011]. Può anche darsi che a un certo punto, dopo cinquant'anni di roselline, bacini, bambini Gesù e altri bamboleggiamenti, anche gli uomini di Chiesa non ne potessero più, di Santa Teresa del Sacro Volto e del suo cattolicesimo così irrimediabilmente pucci che nella prima metà del Novecento aveva scatenato una vera e propria Thérèse-mania nella profonda provincia francese. Però a quel punto forse si è un po' esagerato sull'altro versante, volendo per forza vedere in lei uno spessore intellettuale che l'ha esposta alla furia di esegeti intransigenti come Simone Weil e fior di analisti lacaniani. Al punto che vien da dire: lasciatela stare! in fondo era solo una ragazzina.

Certo, nei suoi nove anni di reclusione volontaria in convento le era capitato anche di desiderare un futuro da Dottore della Chiesa (ma anche da Guerriero, da Apostolo, da Martire: tante strade tutte troncate dalla tbc). Sono quelle cose che si dicono da ragazzini, appunto. E invece ce l'ha fatta: nel 1997 Wojtyla l'ha nominata Dottore, proprio lei! terza donna a entrare nel club dopo Teresa d'Avila e Caterina di Siena. Per intenderci, Agostino da Ippona per ottenere lo stesso titolo ha scritto le Confessioni e la Città di Dio. Tommaso d'Aquino ha messo giù la Summa Theologica, dimostrando l'esistenza di Dio tipo in cinque modi diversi. Teresina, dal canto suo, non lascia visioni particolarmente mistiche né edifici teologici o meditazioni metafisiche. Cosa v'aspettavate, del resto, da una ragazza morta a 24 anni? Poco più di un best seller del primo Novecento, Histoire d'une âme, l'autobiografia sgarzolina di una ragazza sveglia che perde giovanissima la mamma, vede le sorelle maggiori entrare in convento, vorrebbe seguirle subito ma il prete severo le dice di no, allora fa un viaggio lungo lungo fino a Roma per chiedere al Papa se la fa entrare subito in convento e il Papa le dice: vediamo. Suo più grande desiderio, spiega al lettore, era diventare una pallina, un giochino nelle mani del Bambin Gesù. Tutti ci vedono subito il desiderio di umiltà, ma la pallina ha pur sempre qualcosa di sfuggente e capriccioso, che ti colpisce nei fotoritratti (fu una delle prime sante di cui circolassero immagini fotografiche, e questo può spiegare parte del suo successo).

Le consorelle fotografate da Thérèse.

È davvero ingiusto ridurla a Shirley Temple del cattolicesimo: Teresa studiò e scrisse molto, conobbe la sofferenza e il dubbio, che la tormentò negli anni della malattia. Però a noi piace ricordarla un po' così, più ragazzina che intellettuale, in posa da Giovanna d'Arco mentre prova il suo nuovo dramma con la filodrammatica del convento (i testi li scriveva lei); fanciullina vezzosa tutta contenta perché il suo ragazzo Gesù è il più figo del Creato mentre il fidanzato della sorella Giovanna, per quanto sia “una creatura molto perfetta”, è “pur sempre una creatura”. Quando le arriva la partecipazione delle nozze, lei risponde scrivendone una tutta per sé, traboccante come si vede di cristianissima umiltà:

“Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione [...] Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare”.

Non è in castigo, è in posa da Giovanna d'Arco

Una cosa che mi fa impazzire dell'Ottocento è che tutto è già pronto per Freud, ma Freud non è ancora arrivato. Così nei diari e nelle lettere nessuno ha ancora alzato nessun schermo protettivo, e insomma tutti ti squadernano i loro complessi senza accorgersene, fanno una gran tenerezza. Una lettera del genere finisce dritta nell'autobiografia di un Dottore della Chiesa senza che nessuno abbia trovato niente da obiettare. Il libro è tutto pieno di perle così: per esempio, quando l'altra sorella prediletta che ancora vive nel mondo, Celine, riesce a farsi invitare a un ballo, Teresa non si vergogna a supplicare il Signore “d'impedirle di ballare”, con tanto di lacrimoni, finché “Gesù si degnò di esaudirmi”.

Tra le braccia del suo primo cavaliere, Celine si blocca, umiliando il povero ragazzo e costringendolo a una fuga ingloriosa. Quando lo viene a sapere, Teresina esulta senza vergogna e ringrazia Gesù di aver rovinato la serata alla sorella prediletta, che non a caso entrerà in convento poco dopo e l'aiuterà a scrivere quell'autobiografia che le porterà tanta gloria. Teresa è vicepatrona di Francia, patrona delle Missioni, dell'Australia e della Russia, tutti posti dove la pallina di Dio avrebbe rimbalzato volentieri. Se avesse avuto il tempo.