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Collaborazioni

giovedì 29 maggio 2025

La pisana volante

Questo quadro, dono del pittore
Giovanni Lorenzetti alla diocesi
di Pisa, sta diventando il volto più 
noto di Santa Bona sull'internet,
dove talvolta viene attribuito a
un pittore seicentesco,
Giovanni Battista Lorenzetti
(ecco, se fosse davvero un quadro
seicentesco, sarebbe un quadro
molto più interessante). 
29 maggio: Santa Bona di Pisa (1156-1207), patrona delle assistenti di volo 

A metà del Millecento Pisa ottiene la completa autonomia dall'impero e si appresta a diventare uno dei più importanti porti del Mediterraneo. Non sarà un caso che i due santi più famosi della Repubblica Pisana (Ranieri e Bona) condividano lo stesso secolo, e un'irrequietezza esistenziale che li porta a far tappa nella città che degli irrequieti è capitale: Gerusalemme.  

La vicenda di Bona ha i tipici profumi dei quartieri portuali: sua madre (Berta) viene dalla Corsica, suo padre (Bernardo) è di Pisa ma se ne va subito, quando Bona ha appena tre anni, lasciando i famigliari in ristrettezze. A sette anni Bona comincia a vedere Gesù e alcuni santi e a mortificare la carne: è ammessa in un convento di Oblate, ma verso i 12-13 anni Gesù e San Giacomo, agghindati da pellegrini, appaiono alla madre superiora e la convincono della necessità che Bona si metta in viaggio per la Terrasanta, non tanto per visitare il Santo Sepolcro ma perché lì troverà Bernardo, suo padre. Ora, questo potrebbe anche essere successo: sei secoli prima che De Amicis scrivesse Dagli Appennini alle Ande, non è escluso che qualche ragazzo, cresciuto in una città di mare, riuscisse a imbarcarsi alla ricerca di un genitore. L'indizio più convincente è l'esito amaro di questo primo pellegrinaggio: Bernardo vive davvero a Gerusalemme, Gesù e San Giacomo su questo non mentivano: ma ci viveva perché laggiù aveva messo su una famiglia ancor prima che a Pisa, con figli molto bene inseriti tra cui uno che è molto amico del Patriarca di Gerusalemme (secondo una variante della leggenda è il Patriarca addirittura). A Bona viene fortemente sconsigliato di scendere dalla nave: qualche agiografo lascia intendere che Bernardo la volesse far ammazzare.

È veramente una leggenda amara questa, non ne avete lette spesso di leggende così. Quando un'orfana si mette in giro per il mondo alla ricerca del genitore, di solito non scopre che il genitore non vuole saperne di lei. Invece di ripartire immediatamente, su suggerimento di Gesù, Bona rimane nascosta in una spelonca, ospite di un eremita al di sopra di ogni sospetto, tale Ubaldo, per nove anni, che in un'altra versione vengono ridotti a nove mesi. Come se si trattasse di una gestazione al contrario: quando Bona esce dalla spelonca, non è più figlia di suo padre, non lo rimpiange più, è libera di girare per il mondo. Il mondo però era molto pericoloso anche nel secolo XII, tanto che Bona (come gli aveva prospettato il solito Gesù in una visione) viene subito catturata da pirati saraceni che le procurano una piaga al costato da cui sanguinerà a lungo. Liberata da mercanti pisani che con una colletta le pagano il riscatto, Bona torna a casa e a quindici anni ha già alle spalle più avventure di tanti concittadini maturi; e però forse l'unica eredità che le ha lasciato il padre è l'irrequietezza dei marinai. Le visioni la spingono a nuovi viaggi, non più per mare ma per terra (con occasionali fenomeni di levitazione): in particolare al santuario di San Giacomo Maggiore presso Santiago di Compostela, che nella mappa del pellegrino medievale era agli antipodi di Gerusalemme, nel luogo più lontano in cui si potesse arrivare coi propri piedi. Il viaggio da Pisa a Santiago e ritorno, Bona l'avrebbe intrapreso almeno nove volte, inframezzandolo con tour in altri santuari famosi a Roma e in Gargano. Viaggiare evidentemente le piaceva, forse la distoglieva da pratiche masochistiche troppo estreme e col tempo divenne un mestiere, perché la strada la conosceva meglio di tutti e i pellegrini si fidavano di lei. Ritiratasi a 48 anni, Bona muore poco dopo, come succede ai vecchi marinai che non ce la fanno più a imbarcarsi ma che invecchiano di colpo sulla terraferma. Una leggenda abbastanza tarda suggerisce che nei suoi ultimi giorni San Giacomo l'abbia portata un'ultima volta a vedere Santiago, sospingendola in volo dal letto di morte; dove sarebbe riapparsa con qualche conchiglia in mano, un souvenir del viaggio. L'episodio ha probabilmente ispirato papa Giovanni XXIII, che nel 1962 ha la bella idea di nominarla patrona delle hostess.

martedì 27 maggio 2025

Il fifone di Canterbury

Quel che resta a Canterbury
dell'Abbazia originale
27 maggio: Sant'Agostino di Canterbury (534-604), evangelizzatore degli Angli, anche se all'inizio non era molto convinto.

Come abbiamo avuto modo di notare, una leggenda di santi per funzionare davvero ha sempre bisogno di trovare nel suo soggetto qualche difetto. Del monaco Agostino, grande evangelizzatore degli Angli, si ama ad esempio raccontare che in un primo momento non avesse tutta questa voglia di evangelizzarli. Anzi, giunto all'altezza di Aix-en-Provence (cioè nemmeno a metà strada), dopo aver sentito qualche notizia un po' allarmista sui costumi di questi recenti invasori della Gran Bretagna, se ne sarebbe tornato dritto a Roma con tutta la sua delegazione di quaranta monaci, che erano parecchi anche per la fine del sesto secolo. Lì avrebbe ritrovato il suo superiore, papa Gregorio Primo, che nessuno avrebbe soprannominato Magno se non avesse dimostrato, in questo e altri frangenti, una notevole testardaggine: per cui invece di rassegnarsi al fallimento della missione, o almeno nominare a capo di essa un monaco più risoluto, decise che la delegazione andava bene così e che Agostino l'avrebbe guidata fino alla Britannia (che qualcuno cominciava a chiamare Angle-Terra). Anzi nell'occasione decise di nominare Agostino abate, il che può lasciarci perplessi: cioè alla prima vaga difficoltà scappi a casa, e il boss invece di prenderti a pedate ti promuove? Magari Gregorio sperava che il rango superiore lo responsabilizzasse (e lo rendesse più autorevole agli occhi degli Angli che lo avrebbero accolto). 

La situazione in effetti era favorevole: il re anglo-sassone del Kent, Etelberto, aveva sposato Martha, una principessa merovingia: ovvero franca, ma soprattutto cristiana; e sembrava interessato ad approfondire la conoscenza di questa nuova religione che avrebbe accresciuto la sua sfera di influenza sia nell'Isola che nel continente. E per quante chiacchiere Agostino avesse potuto sentire ad Aix, gli Angli non erano affatto quei barbari crudeli e incivili di cui si favoleggiava: perlomeno gli schiavi angli che Gregorio aveva conosciuto a Roma lo avevano colpito per la gentilezza e la bellezza: veri angeli. E insomma non sappiamo che dose di blandizie e minacce Gregorio abbia applicato nell'occasione: fatto sta che funzionò, Agostino ripartì per il Kent, fu sistemato da Etelberto a Canterbury, e nel giro di un anno aveva già battezzato diecimila anglo-sassoni: un successo probabilmente causato dalla tolleranza con cui Agostino accettava gli usi e i costumi del popolo che lo ospitava. Agostino non fu il primo evangelizzatore dell'Isola – i Britanni erano già stati convertiti secoli prima, secondo le leggende addirittura da San Paolo – ma le invasioni anglo-sassone avevano spazzato via la cultura britanna al punto che anche in parte delle zone occidentali come il Galles, dove i britanni di cultura celtica si erano rifugiati, il cristianesimo era stato parzialmente dimenticato. Ecco perché tuttora quella di Canterbury è la prima sede vescovile di Inghilterra: anche dopo lo scisma di Enrico VIII, è al successore di Agostino sulla cattedra di Canterbury che spetta incoronare il re. Agostino avrebbe anche fondato le diocesi di Londra, York e Rochester, prima di morire nel 604. La sua biografia in effetti sarebbe fin troppo lineare – il papa lo incarica di evangelizzare gli Angli, lui ci riesce e poi muore –  non fosse per l'episodio di Aix, quella romanzesca esitazione che ricorda un po' la vicenda di Giona

(È curioso che dovendo scegliere un'ambientazione per l'episodio, una nuova Tarsis, l'agiografo abbia scelto, di tutti i luoghi in Europa, proprio Aix. Ci siete mai stati? È una bella città, ma se ci arrivate in macchina, vi sembra di non essere più da nessuna parte. È al centro della Francia meridionale, ovvero equidistante da qualsiasi cosa. Non si sente più l'Italia – anche se è ancora Provenza – e per quanto sia vicina la Camargue, non si sente ancora nemmeno la Spagna. Dovunque vogliate arrivare, quando passate da Aix sapete che siete ancora troppo lontani. A meno che non vogliate andare a Marsiglia. In quel caso siete praticamente arrivati. Ma se siete diretti a Marsiglia, ad Aix nemmeno vi fermate. Le cose stanno così oggi, quando Aix si trova al centro di un complicato groviglio autostradale. Immaginate come doveva sentirsi il viandante del sesto secolo, che arrivando ad Aix doveva avere la sensazione di essere arrivato agli estremi confini del mondo conosciuto. E invece no, era arrivato appena ad Aix. Neanche a metà strada, di solito). 

Se non si dà eroe senza battaglia, l'anonimo agiografo deve essersi posto il problema: che battaglia avrebbe vinto Agostino? Quella contro sé stesso, contro le sue paure: è perfino possibile la coscienza in letteratura nasca così, un espediente per trovare un conflitto anche in vicende dove non risulta nessun avversario esterno; non resta che dichiarare guerra a sé stessi, inventandosi uno spazio interiore. Sarebbe interessante capire quando gli eroi comincino a trionfare non contro nemici esterni (o Dei che li sviano) ma contro i propri dubbi e le proprie paure; in via provvisoria vale la pena di annotare quanti antieroi si annidino tra le pagine delle agiografie. A partire dallo stesso Gesù Cristo, che almeno in un paio di occasioni sembra a disagio col suo destino di martire; per seguire con gli apostoli, primo tra tutti quel Pietro che quando capisce che è giunta la sua ora prova persino a scappare. Lo stesso Agostino prendeva il nome di un illustre padre della Chiesa, che al suo destino di santità aveva cercato a lungo di sottrarsi.

sabato 24 maggio 2025

I discepoli erodiani


24 maggio: San Manahen di Antiochia, Santa Giovanna (primo secolo).

Il 24 maggio il martirologio romano ricorda tra gli altri due comparse dei libri di Luca evangelista, che hanno in comune la vicinanza alla corte di Erode – non Erode il Grande, penultimo re di Giudea a mandante della strage degli innocenti, ma il suo figlio secondogenito, Erode Antipatro, che in eredità aveva ottenuto la Galilea, la Perea (un'altra piccola provincia sulla riva orientale del Giordano) e il più modesto titolo di tetrarca. Il tutto col benestare dei Romani, che controllavano di fatto tutta la Palestina e stavano aspettando che la rivalità tra i tre figli di Erode il Grande degenerasse in conflitto aperto, per esautorarli. Dei tre, Antipatro fu quello che più si prestò al progetto: durante un soggiorno a Roma riuscì sia ad accusare il fratello maggiore Archelao di malagestione, sia a sottrarre al fratello minore Filippo la moglie Erodiade, che risposò malgrado fosse lui stesso già sposato con una principessa nabatea: e quando un profeta, Giovanni Battista, espresse perplessità nei confronti di un sovrano che sposava la cognata, Erode lo fece decapitare. Con tutto questo, riuscì comunque a restare sul suo traballante trono per più di trent'anni: segno che qualche astuzia dal padre doveva averla ereditata.  

Santa Giovanna compare al capitolo 8 del vangelo di Luca tra un ristretto gruppo di donne che, assieme ai Dodici, costituiva il circolo più interno del seguito di Gesù. Queste donne, spiega Luca (8,2-3) "erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità": oltre a Maria Maddalena viene menzionata "Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode". Esse assistevano gli apostoli, ma "con i loro beni", insomma non erano sguattere, bensì protettrici e finanziatrici. Un dettaglio così ce l'aspetteremmo da Matteo, l'apostolo economista, più che da Luca che invece per contrasto sembra sempre quello socialdemocratico, molto più attento a dare risalto alla presenza dei poveri. Proprio per questo la presenza di una signora probabilmente ricca e potente come Giovanna sembra un dettaglio realistico, qualcosa che Luca non aveva nessun interesse a inventarsi: ma anche qualcosa che confligge un po' con la nostra concezione di Gesù come leader di un gruppetto di fricchettoni inoffensivi, ex pescatori squattrinati. Può darsi che invece Gesù avesse anche a corte amici potenti, o almeno amiche. Sappiamo che questo non l'avrebbe salvato dalla crocifissione: eppure Ponzio Pilato ci provò a passare a Erode la spinosa pratica di Gesù di Nazareth, con il pretesto che anche se era stato arrestato a Gerusalemme, era suddito della Galilea, e quindi il palazzo di Erode (che risiedeva a in città, anche se non l'amministrava) era il foro competente.

L'atteggiamento di Erode Antipatro nei confronti di Gesù è ambiguo, esattamente come ci si può aspettare da un tiranno capriccioso e scostante: appena lo vede se ne "rallegra grandemente, perché da lungo tempo desiderava vederlo, avendo sentito parlare di lui, e sperava di vedergli fare qualche miracolo" (Lc 23,6-11). Quando però si accorge che il prigioniero non collabora, non risponde alle sue domande, e miracoli non ne fa, Erode cede alla pressione dei capi sacerdoti e degli scribi, che dalla residenza di Ponzio Pilato si erano spostati a casa sua, e continuano ad accusare Gesù "con veemenza". Anche Erode lo insulta, lo schernisce e lo veste "di un manto splendido", con cui lo rimanda a Pilato. Un gesto che di solito viene interpretato come un segno di scherno, o di semplice ostentazione, ma potrebbe anche tradire il rispetto che Erode provava per il nuovo profeta. O addirittura una sfida ai Romani: quelli gli avevano mandato un sospetto terrorista, e lui glielo rimandava rivestito come un nobile. Quest'ultima ipotesi confligge però con un'ulteriore notazione di Luca (23,12), che ricorda come Pilato ed Erode in quell'occasione divennero amici, mentre in passato erano stati avversari. 

Quanto a Giovanna, la ritroviamo dopo la Passione tra le pie donne che recandosi a trattare con profumi il corpo di Gesù il mattino di Pasqua, trovano il sepolcro vuoto (per questo è anche chiamata mirofora, ovvero portatrice di profumi). Se nei secoli successivi le ricche matrone avrebbero rivestito un'importanza cruciale nel movimento cristiano, possiamo ipotizzare che la prima tra loro sia stata proprio Giovanna, che si reca di persona ad accudire il cadavere del figlio di un falegname, crocefisso come uno schiavo ribelle.   

Di Manahen, Luca ne parla ancora meno: lo cita negli Atti degli Apostoli in una lista di "profeti e dottori" che facevano parte della Chiesa di Antiochia, accanto a Barnaba, Simone "detto il Nero", Lucio di Cirene, e Saulo, che poi diventerà Paolo apostolo. Barnaba e Saulo sono tra i personaggi più importanti degli Atti; Manahen non è più menzionato, ma di lui Luca aggiunge che era "fratello di latte di Erode il Tetrarca". Tecnicamente, i "fratelli di latte" non sono necessariamente parenti: in comune avrebbero soltanto la nutrice che li ha allattati. In ogni caso il dettaglio ci lascia intendere come la nuovissima religione non fosse soltanto un movimento di pastori e pescatori, ma avesse già fatto breccia nella nobiltà locale.

martedì 20 maggio 2025

Il re beato e imbelle d'Inghilterra

Anonimo cinquecentesco
21 maggio: beato Enrico VI di Windsor (1421-1471), re imbelle

A pochi anni dalla morte, il culto di Enrico VI fu promosso da suo nipote Enrico VII, che in quanto fondatore della dinastia dei Tudor sentiva l'esigenza di sottolineare il suo legame con gli estinti Lancaster. E allo stesso tempo un re santo non è una cosa che si possa inventare dal nulla – non nel Rinascimanto, con in giro un bel po' di cronisti interessati a sviscerare il momento più critico del regno d'Inghilterra. Fu compilato comunque un intero libro di miracoli, da cui risultava che Enrico VI avesse resuscitato un'appestata e un supposto ladro di bestiame già appeso al cappio, e che il suo tocco fosse molto efficace contro la scrofola, a differenza ad esempio dell'ultimo esponente della casata degli York, Riccardo III. Forse il punto è che dal malvagio Riccardo i sudditi avevano paura di farsi toccare, laddove Enrico era stato tanto buono e inventarsi prodigi su di lui richiedeva meno fantasia. Ed ecco il paradosso: Enrico era venerato dal popolo proprio per i motivi per cui gli storici stavano cominciando a considerarlo un pessimo re. 

Ci fu mai un re che ereditasse un trono
e ne fosse contento men che me?
Non feci in tempo a uscire dalla culla
che venni incoronato, a nove mesi.
Mai un suddito ha agognato di esser re
quanto io ho agognato e aspiro ad esser suddito

(Enrico VI Parte II, Atto IV, scena IX)

Il padre di Enrico gli aveva dato lo stesso nome e un'eredità impossibile da gestire. Era stato un grande re, ovvero un re piuttosto fortunato, ma tant'è: quel tipo di re cui ancora oggi si può dedicare un film e chiamare a interpretarlo Timothée Chamelet; laddove il figlio al massimo si meriterebbe un Paul Dano che fissasse spesso il vuoto dietro gli interlocutori. Il padre si era coperto di gloria durante la storica battaglia di Azincourt – a vederla da vicino, una carneficina nel fango, vinta da un contingente disperato, circondato da nemici soverchianti. Una di quelle situazioni in cui o si vince o si viene completamente annichiliti; nessun valido condottiero dovrebbe ritrovarcisi, ma a Enrico V era successo: in un qualche modo aveva vinto – dopodiché aveva dato l'ordine di sterminare tutti i prigionieri, perché non aveva abbastanza uomini per controllarli. Più tardi il re di Francia, Carlo VI Valois, avrebbe acconsentito a fargli sposare la figlia, accettandolo come legittimo erede. Questo Carlo VI, da come ce lo dipingono i cronisti, ha tutto l'aspetto di uno schizofrenico: alternava periodi di lucidità a deliri allucinati, che almeno in un caso lo avevano portato a roteare le sue armi sui suoi stessi uomini, uccidendone quattro. Enrico VI non avrebbe mai avuto crisi altrettanto violente, e non è nemmeno detto che ne avesse ereditato la patologia: ma l'eredità di un nonno che era un matto conclamato poteva essere ingombrante quanto quella del padre saggio e vittorioso. Un padre che tra l'altro Enrico non conobbe mai – morto di febbre tifoide in Francia, quando Enrico aveva appena nove mesi. La guerra, che si apprestava a compiere Cent'Anni, e ad Azincourt sembrava ormai vinta dagli inglesi, conobbe negli anni successivi una svolta completamente improvista: quando Parigi era saldamente nelle mani degli inglesi e ormai restava da assediare soltanto la roccaforte di Orléans, i francesi ripresero slancio e iniziativa grazie a... una contadinella, tale Giovanna D'Arco

Dopo le prime vittorie il primogenito superstite di Carlo VI si lascia convincere a farsi incoronare a Reims – che è la città dove tradizionalmente si incoronavano i re di Francia. Gli inglesi rispondono al gesto provocatorio organizzando un'incoronazione alternativa a Parigi per Enrico, il quale dunque a nove anni deve compiere una faticosa traversata e sostare per mesi in Normandia, perché anche i dintorni di Parigi non erano sicuri dalle scorrerie armagnacche. Non è impossibile che una simile esperienza sia stata determinante a determinare la futura condotta di un re poco incline a invasioni e combattimenti. Non solo Enrico stesso era francese per metà, ma a 23 anni il rivale/cugino Carlo VI riuscì a strappargli una tregua biennale proponendogli di sposare una sua nipote, Margherita d'Angiò. Pare che Enrico si sia lasciato convincere al matrimonio perché gli emissari ne decantavano la straordinaria bellezza – dopodiché può darsi che il matrimonio non sia stato mai consumato: Enrico stesso confessava di non ricordare quando e come avesse messo sua moglie incinta di un principe di Galles. La diplomazia non cessava di inviluppare le dinastie in contorte genealogie, malgrado l'evidenza ormai dimostrasse che molti difetti dei regnanti erano di carattere ereditario, al punto che il ricorso all'adulterio a volte era un correttivo necessario. 

Non è che Enrico fosse un re pacifista; ma figlio devoto di una Valois, sposo affezionato di un'Angiò, non è così strano che tra i falchi che proponevano di continuare a mandare truppe in Francia, e le colombe che suggerivano un negoziato e un disimpegno, Enrico inclinasse sempre più verso i secondi. Del resto madre e moglie avevano il vantaggio di restare a corte, coi loro uomini di fiducia (che magari a volte erano anche amanti, ma è difficile scrostare il gossip accumulatosi da secoli), mentre i falchi, essendo più propensi a combattere, a corte si vedevano meno spesso e anche i più valorosi strateghi, prima o poi finivano per morire in battaglia. Così, anche dopo che Giovanna fu catturata, processata e bruciata, i francesi continuarono a combattere e la loro avanzata, dapprima molto graduale, verso il 1450 divenne inarrestabile, coinvolgendo anche territori legati alla corona da generazioni, come l'Aquitania. Le truppe inglesi erano vittime di un circolo vizioso: la corona, dubitando di poter concludere vittoriosamente un conflitto così lungo, non vi investiva abbastanza, il che portava gli inglesi a perdere ulteriori battaglie, confermando in questo modo i dubbi della corona. Non possiamo nemmeno escludere che Enrico, animato da un sincero sentimento religioso, non fosse stato turbato dal martirio di Giovanna: per quanto gli inglesi la considerassero una strega, a corte aveva avuto la possibilità di sentire la versione dei francesi. 

Per quanto gli storici la considerino finita nel 1453, la guerra dei Cent'Anni non si concluse con un trattato di pace, ma con il ritiro degli inglesi da tutti i territori oltre la Manica (salvo Calais): il che coincise più o meno con la prima vera crisi depressiva di Enrico e l'inizio di un vero e proprio collasso dell'apparato statale inglese che prende il nome di Guerra delle Due Rose. A parte la questione dinastica, come al solito intricata (semplificando: l'inettitudine di Enrico, ultimo Lancaster, offriva alla casata degli York un argomento in più per reclamare il trono), l'impressione è quella di un regno che crolla sulle sua fondamenta, le quali evidentemente poggiavano sulla guerra infinita: centinaia di possidenti avevano perduto le loro lucrose proprietà, e il monopolio su determinati commerci, come il vino d'Aquitania; generazioni di fanti e cavalieri abituati a vivere di scorrerie nel continente, una volta tornati nell'Isola, non avevano che da trovare una nuova scusa per rimettersi a razziare, e la rivalità tra York e Lancaster era buona come qualsiasi altra. Schiacciato da un meccanismo che non aveva la possibilità di comprendere, a Enrico capitò di essere imprigionato, liberato, riportato sul trono (in stato catatonico, secondo i cronisti), imprigionato di nuovo, finalmente assassinato, rimpianto dal popolo e venerato dai successori. E quando il processo di canonizzazione si interruppe dopo lo scisma anglicano, la figura di Enrico fu ripresa da un giovane drammaturgo evidentemente affascinato dai monarchi deboli, matti o scostanti: William Shakespeare, che a Enrico dedicò una monumentale trilogia. A rileggerla, si traggono conclusioni che Machiavelli sottoscriverebbe: il re più pacifico di tutti aveva trascinato l'Inghilterra in una guerra civile, il più gentile aveva consentito ai malvagi di trionfare. Evidentemente un re non dev'essere un santo, il suo operato deve essere giudicato secondo parametri diversi. Era una tesi che i Tudor stavano già applicando.

domenica 18 maggio 2025

Il primo dei Giovanni

18 maggio: San Giovanni I papa e martire (V-VI secolo)

Una cosa che abbiamo scoperto con papa Francesco è che i nomi dei papi non sono necessariamente seguiti da un numero ordinale: anche se qualcuno cominciò subito a chiamarlo "Francesco Primo", in quell'occasione si chiarì che un papa diventa "Primo" nei documenti soltanto quando qualcuno assume lo stesso nome: fino a quel momento "primo" è un'aggiunta inutile e i papi ne fanno a meno. Ciò è vero in generale per i sovrani, ma in particolare per i pontefici, che in quanto vicari di Cristo (ossia facenti funzione, finché non torna) devono sempre contemplare la possibilità di non essere i primi, bensì gli ultimi: "Vegliate, perché non sapete il giorno e l'ora" (Matteo 25,13). Se poi vogliamo essere davvero pignoli, Albino Luciani scelse di chiamarsi Giovanni Paolo Primo: ma forse nei pochi giorni del suo pontificato non fece in tempo ad accorgersi di violare una consuetudine. 

Ecco perché, per dire, Pietro si chiama Pietro e basta: siccome nessuno ancora se l'è sentita di chiamarsi Pietro II, per ora il primo papa non ha bisogno di ordinali. Per contro, il nome di gran lunga preferito dai pontefici è Giovanni e non sorprende, vista la quantità di santi omonimi. Quanti papi Giovanni abbiamo avuto? Non esattamente ventitré, anche se il prossimo sarebbe il ventiquattresimo. Il computo cominciò a ingarbugliarsi nel decimo secolo, quando succedeva non infrequentemente che due o più prelati fossero eletti pontefici da gruppi di potere in guerra tra loro; di solito a chi vince rimane il titolo di papa, mentre quello che perde viene classificato come "antipapa" ed escluso dal conteggio. Ad esempio Giovanni XVI (997-998) fu dichiarato antipapa, ma due secoli dopo: nel frattempo i suoi successori avevano già preso i numerali successivi fino al XIX. I tentativi di correggere l'errore, come talvolta accade in questi casi, portarono a errori ancora più grandi, per cui ad esempio nessun papa si è mai imposto il nome di Giovanni XX: il che ha fornito a qualche contrafrottole il pretesto per lanciare la leggenda della papessa. Col tempo gli errori diventano consuetudini, tradizioni, e infine legge: per cui nel 1958 Angelo Giuseppe Roncalli mise un punto probabilmente definitivo alla questione, scegliendo il numerale XXIII anche se era soltanto il ventunesimo papa ufficiale a chiamarsi Giovanni. Ma il primo a chiamarsi Giovanni (e non Giovanni Primo, almeno in vita), quando visse, e che papa fu?

Fu un papa sfortunato. Visse tra la fine del quinto e l'inizio di quel sesto secolo che tanti disastri avrebbe portato in Italia. (Sì, per quattrocento e più anni nessun papa si chiamò così). Giovanni era il suo nome di battesimo: a quei tempi i pontefici non ne sceglievano uno nuovo. Fu un papa sfortunato, a cui riuscì di morire martire in un periodo in cui la Chiesa non era affatto perseguitata, e non per difendere la propria fede, come ci si aspetta dai martiri. A Giovanni I capitò di dover difendere i fedeli di un'altra confessione religiosa: gli ariani. Non lo fece spontaneamente – diciamo pure che fu costretto da Teodorico, re ostrogoto – ma ci provò. Meglio però fornire un po' di contesto. 

Se abbiamo passato il 500, sappiamo che l'impero d'occidente è formalmente caduto anche se non molti se ne rendono conto: tutto sommato la situazione ora è più stabile che negli anni anteriori alla Caduta. Un imperatore c'è ancora – a Costantinopoli – mentre in Italia Teodorico amministra il suo potere con una certa abilità. Riconosce il superiore prestigio dell'imperatore d'oriente, ma ci tiene a non passare per un semplice vassallo, termine che peraltro ancora non esisteva. Le dispute religiose sono un sintomo di una certa tensione tra due comunità che Teodorico vuol fare collaborare: i latini per lo più aderiscono al credo ortodosso del Concilio di Nicea, che nel 325 aveva rigettato come eretiche le idee del predicatore egiziano Ario; i barbari per contro sono fieramente ariani e hanno un loro clero che Teodorico controlla più direttamente – da cui il sospetto che la vera tensione tra arianesimo e ortodossia sia politica e non dottrinale; il clero ariano è controllato o controllabile dagli ostrogoti; quello ortodosso mantiene una notevole autonomia.

I tentativi di mantenere una pax religiosa in Italia sono ostacolati dalle iniziative dell'imperatore Giustino, che a Costantinopoli sta trattando gli ariani con sempre maggiore intransigenza. Con un editto li ha obbligati a cedere chiese e altri immobili agli ortodossi; ha altresì proibito agli ariani ufficialmente convertiti (spesso con la forza) di tornare alla loro fede originale. È chiaro che a Roma e in Italia in generale i vescovi ortodossi vedono con sempre maggior simpatia questo imperatore che tratta gli eretici col pugno duro, e questo per Teodorico è un problema: la Chiesa nicena rischia di diventare la quinta colonna dei costantinopolitani il giorno che preparassero l'invasione dell'Italia. Non era un ragionamento così paranoide: l'invasione ci sarebbe stata, anche se dovremo attendere il nipote di Giustino, Giustiniano. Per sventare la guerra di religione che si delinea all'orizzonte, l'astuto Teodorico decide di inviare a Costantinopoli una delegazione composta proprio dagli stessi vescovi di credo ortodosso: tra questi Giovanni, che se non è ancora considerato il capo indiscusso della Chiesa, siede comunque sulla cattedra più prestigiosa di tutto l'Occidente. 

Giovanni deve chiedere all'imperatore tolleranza per gli eretici. Non sappiamo quanto la cosa gli ripugni, ma non ha scelta: se la missione fallisce, Teodorico minaccia di trattare gli ortodossi d'Italia come Giustino tratta gli ariani: conversioni forzate, requisizione dei beni. A Costantinopoli, Giovanni è accolto con gli onori che si devono al primo tra i patriarchi: gli viene riconosciuto persino il privilegio di celebrare la messa di Pasqua nella cattedrale di Santa Sofia, in latino! per molti fedeli dev'essere stato uno choc. Non è affatto strano che questo dettaglio sia ancora oggi trattenuto nell'edizione più recente del Martirologio Romano ("fu il primo tra i Romani Pontefici a celebrare in quella Chiesa il sacrificio pasquale"): si tratta in effetti di un precedente prezioso per chiunque voglia ricordare almeno un caso in cui il clero ortodosso abbia riconosciuto il primato del vescovo di Roma.  

Chissà se mentre diceva Messa in quella che al tempo era la cattedrale più famosa del mondo (ma sarebbe stata distrutta durante la grande rivolta del 535), Giovanni si rendeva conto di vivere il massimo momento di gloria prima della disgrazia. In effetti, al di là dei pubblici riconoscimenti, la missione diplomatica non ottiene molto. L'anziano Giovanni fa quel che può e qualche vaga promessa da Giustino la ottiene: ma quando torna a Roma scopre che non è abbastanza, Teodorico è scontento e lo fa imprigionare. Già provato dal lungo viaggio, Giovanni si spegne in carcere il 18 maggio del 526; dopo di lui fu eletto papa Felice IV, e dopo Felice, Bonifacio II. Alla morte di quest'ultimo, sulla Cattedra salirà un certo Mercurio di Proietto, che decide contestualmente di cambiare nome, non trovando "Mercurio" appropriato per un papa. Si chiamerà Giovanni anche lui, Giovanni II; e da quel momento papa Giovanni è diventato Giovanni I, che si festeggia oggi. 

giovedì 8 maggio 2025

Se rifletti con attenzione su quello che sta succedendo, probabilmente sei un po' antisemita

Pssst, sionista...

– Eh? Chi è? C'è un antisemita anche qui?

Sei solo in casa, sionista.

– Chi è? Chi parla? 

Sono la tua coscienza.

– Ancora tu, ma basta.

Hai paura della tua coscienza?

– Ultimamente fai dei discorsi strani.

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Leggi troppo Haaretz, la devi piantare.

Circa due milioni.

– Ah. 

Circa due milioni. 

– Ehi, ma hai sentito? C'è stato un diverbio in un ristorante di Napoli.

La maggior parte vive ancora lì, ma i rifornimenti sono bloccati da quaranta giorni.

– È terribile questa cosa, no?

Quale cosa?

– Che abbiano cacciato dei clienti da un ristorante di Napoli! Solo perché erano sionisti! È forse un crimine il sionismo?

Cosa succede a più di un milione di persone accumulate in un campo profughi sotto i bombardamenti se per un mese non entra più cibo?

– Senti, ho capito cosa vuoi intendere. È terribile, terribile. Netanyahu sta proprio esagerando, lo dice anche la Segre. 

Ah, ecco.

– Ma è tutta colpa di Hamas! Perché non rilascia gli ostaggi! 

Non ci credi davvero.

– E tu che ne sai, in cosa credo. 

Ti ricordi un solo caso in cui un commando terrorista ha preso degli ostaggi e chi li voleva indietro ha reagito bombardandolo?

– Beh...

Intensivamente?

– Dunque...

Per due anni?

– Così su due piedi...

Più megatoni che in tutta la seconda guerra mondiale?

– In circostanze straordinarie...

E stop ai rifornimenti?

– ...misure straordinarie.

Per favore, rispondi direttamente almeno a una domanda. Almeno a una.

– Spara.

Se tu avessi un prigioniero, e non avessi quasi più cibo, sfameresti tuo figlio o il prigioniero?

– Stai cercando di giustificare il comportamento di Hamas?

È il comportamento umano.

– Hamas non è umano! Il sette ottobre! bambini decapitati!

Ti è chiaro che se ci sono ancora ostaggi vivi, e sottolineo se, Netanyahu li sta facendo morire di fame?

– È terribile. È terribile. Netanyahu sta esagerando. Ma...

Ma?

– Non ci sono alternative, capisci? 

– Hamas durante la tregua ha liberato decine di prigionieri.

– Non ci sono alternative!

Non ci sono alternative allo scambio di prigionieri?

– Ma insomma cosa vuoi da me. Ho già detto che Netanyahu ha esagerato, da parte mia è un pronunciamento coraggioso. Quando tutto sarà finito, spero che se ne terrà conto.

Quando "tutto sarà finito?"

– Dio, non vedo l'ora.

Non vedi l'ora "che sia finito"... cosa?

– Questa cosa orribile! Non finisce mai, è estenuante.

Questa cosa orribile, come possiamo chiamarla?

– Questa... questa guerra.

Questo massacro.

– Netanyahu sta esagerando.

Questo genocidio?

– Vergognati a farti venire in mente quella parola!

E come pensi che dovrà finire?

– È una parola sacra per me. Vorrei che tu almeno rispettassi la mia...

Stai aspettando che muoiano tutti? È questo che intendi, quando dici "quando tutto sarà finito"?

Non ci sono alternative! Se almeno gli egiziani se li fossero presi, ma...

Quando "tutto sarà finito", ti sentirai sollevato?

– Certo che mi sentirò sollevato.

E non ti sentirai colpevole.

– Colpevole? Io? Di cosa? È stata Hamas. 

E gli egiziani.

 – E Netanyahu. Ha veramente esagerato. L'ho detto anche prima. L'ho detto in pubblico, esistono le prove. Ho preso le distanze.

Quindi non vedi l'ora che siano tutti morti, dopodiché darai la colpa a chi dava gli ordini. 

Ma si può sapere che cazzo vuoi, oh! Ma chi ti manda?

Ehi, sionista...

– Sì? Sono un sionista, e allora?

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Ma non ti spegni mai tu?

– Circa due milioni.

– Sei un antisemita, sai.

– Sono la tua coscienza, come posso essere antisemita?

– Non lo so. Ancestrali sensi di colpa, non m'interessa. A questo punto devo scegliere. 

– O il sionismo o la coscienza.

– Israele ha diritto di difendersi.

– Dalla propria coscienza.

– Precisamente. Ti ricordi quello che disse Coso.

– Israele sarà uno Stato come gli altri quando avremo ladri come tutti gli altri.

– Ecco.

– Quindi anche assassini come tutti gli altri.

– Anche, sì.

– Stragisti come tutti gli altri.

– Può capitare.

– Così insomma, per sentirsi "uno Stato come gli altri" Israele deve dimostrarsi in grado di poter massacrare un intero popolo...

– La vuoi piantare di saltare alle conclusioni.

– Sono la tua coscienza.

– Sei insopportabile.

– Non posso darti pace.

– Devo difendermi da te.

– Devi difenderti da te stesso.

– Maledetti antisemiti, sono dappertutto, dappertutto.

– Dovresti spegnere tutti gli specchi.

– Hai sentito quel che è successo a Napoli, è una vergogna.

martedì 6 maggio 2025

La sirena di Sennara

La sirena di Zennor. 
6 maggio: Santa Sennara (VI secolo)

Partorire in generale non è semplice, ma forse non è mai stato difficile come per Santa Sennara, o Asenora, o Azenor, madre di San Budoc. Figlia del re di Brest, secondo una cronaca quattrocentesca sposò un feudatario che non doveva riservarle particolari attenzioni, dato che quando lei si trovò incinta la accusò di adulterio (ispirato dalla di lei matrigna), e la gettò nella Manica dentro una botte. 

Ora, questo è evidentemente un topos. (O un tropo. Gli americani a un certo punto hanno iniziato a dire tropo al posto di topos e ormai non c'è più modo di fermarli). I più sgamati avranno già in mente l'antecedente più illustre: Acrisio re di Argo, dopo essere stato informato dall'oracolo di Delfi che un suo eventuale nipotino lo avrebbe inevitabilmente ucciso, rinchiude la figlia Danae in una torre. Danae riesce comunque a restare incinta (potrebbe essere stato Zeus, trasformatosi in pioggia dorata; o il più plausibile zio Preto), e Acrisio la abbandona in mare in una cassa inchiodata. Vero è che in questa versione il piccolo Perseo, rinchiuso nella cassa con la madre, era già nato; ma quando finalmente approdano sulla spiaggia di Serifo, e un principe apre la cassa, è come se venisse al mondo di nuovo. Sennara invece partorisce in mare e approda con il figlioletto Budoc a Zennor, sulla punta estrema della Cornovaglia (proprio come Brest sta sull'estremità della Bretagna). È uno di quei luoghi in cui ti sembra finisca il mondo – come a Sagres, a Finisterre, o a Leuca – il che seleziona un certo tipo di abitanti. D.H. Lawrence ci andò ad abitare con la giovane moglie nel 1915, e forse perché amavano passeggiare nei pressi del promontorio, furono accusati dal controspionaggio di fare segnalazioni agli U-Boot: per quale altro motivo un buon borghese avrebbe dovuto trovarsi lì? Così lo fecero sloggiare – non prima che terminasse la stesura di Woman In Love. La leggenda potrebbe appartenere a un antichissimo sostrato indeuropeo, oppure essere arrivata nel medioevo per via letteraria: in ogni caso in Gran Bretagna ha lasciato al segno, di partorienti in zattera (o barile) ce n'è più d'una: così ad esempio viene alla luce Kentigern di Glasgow. La leggenda potrebbe essere nata per esorcizzare un ricordo traumatico: un'antica punizione per le donne adultere?    

Invece di diventare un guerriero eroico come Perseo, Budoc si farà monaco e poi tornerà in Bretagna a fare il vescovo. Sennara invece proseguirà per l'Irlanda dove si guadagnerà da vivere come lavandaia, ma dopo la morte sarà venerata in Bretagna dalle puerpere, che quando hanno poco latte vanno a bere dal pozzo santo di Languengar, nella parrocchia di Santa Sennara. In Cornovaglia viceversa è invocata dai pescatori. Zennor è l'ultimo toponimo inglese in ordine alfabetico, ma sappiamo che qualche secolo fa si chiamava Saint Senara. Secondo gli storici però fino al 1200 il santo venerato a Zennor era chiamato "Sanctus Sinar") ed era quindi di sesso maschile. Se le cose non fossero già abbastanza ambigue, la scultura più famosa del paese è una sirena intagliata sul fianco di un palco in legno di quercia. Non un granché dal punto di vista strettamente artistico, ma raffigurazioni così antiche di sirene in Cornovaglia non ci sono. Forse nemmeno in tutta l'Inghilterra. Il palco è quel che resta di un mobilio completamente scomparso dove probabilmente venivano ritratte altre creature marine; un'iconografia folkloristica che alla fine dell'Ottocento doveva sembrare davvero poco consona a un luogo di culto cristiano, e quindi fu rimossa. La sirena però è resistita, per un qualche motivo. Sembra spuntare dalle acque e porta con sé uno specchio ovale, come talvolta accade nei quadri ad Afrodite

La leggenda che ha ispirato non è molto originale. Nella chiesa di Saint Sennara ogni tanto si univa al coro una signora bionda e pallida, dalla voce particolarmente educata. Nessuno sapeva da dove venisse e come mai, anno dopo anno, non sembrava invecchiare. Quando il migliore corista di Zennor, Mathey Trewella, scomparve misteriosamente, qualcuno ricordò di averlo visto seguire la signora dopo la funzione religiosa; forse era curioso di capire dove abitasse. La signora non si fece più viva, ma qualche tempo dopo gli abitanti di Zennor sentirono parlare di una sirena che in una baia poco lontana era emersa per chiedere al capitano di una nave di rimuovere per favore l'ancora, che le ostruiva la porta di casa e le impediva di "prepararsi per andare a messa". (Il capitano, ipnotizzato dall'apparizione, aveva subito obbedito). Dedussero che si trattava della stessa signora pallida che ogni tanto veniva a unirsi al coro, e rabbrividirono perché, a differenza del capitano, erano pescatori da generazioni e sapevano che le sirene portano sfortuna. 

Sennara dunque è sia la madre che partorisce in mare, sia la figlia che nasce sulla spiaggia. O il figlio: non ha tutta questa importanza. L'importante è che a monte di questa leggenda, qualcuno si sia salvato da un naufragio: una donna in fuga, o il suo neonato. Questo ha commosso i principi, i pescatori e i contafrottole, e migliaia di anni dopo ancora ce lo raccontiamo: e pattugliamo i mari, perché succeda ancora. 

domenica 4 maggio 2025

Giaculatoria per il tunnel del San Gottardo

5 maggio: San Gottardo di Hildesheim, monaco, vescovo, tunnel

San Gottardo, per quanto sia in ritardo,
ti invoco antico amico,
proteggimi da tutto
dalla febbre, dalla podagra, dall'idropisia, 
ma soprattutto
finisca presto questa galleria
che mi circonda,
che mi sprofonda,
sedici chilometri
nessuna luce in fondo,
pietà di me.

Tu che ubbidisti a Enrico il Litigioso,
Proteggimi Gottardo
dal camionista stanco e rancoroso,
dagli assassini in Audi,
e dagli hondisti in banco
che sfidano i monsoni con destrezza
per spiaccicarsi contro un parabrezza
come mosconi,
uomo di Dio
fa che non sia mai il parabrezza mio.

Che non sia io
l'uomo che scappa sopra quel cartello
verso il rifugio 
che è ventilato separatamente
affinché il fuoco 
non mi raggiunga incenerendo me
la mia famiglia
com'è successo pure quella volta
nel monte Bianco,
o San Gottardo,
io non lo scordo
ogni volta che entro in un traforo,
per svago o per lavoro,
vedo le fiamme il fumo
alzo la radio canta Robert Scott
come una volta a Albenga
che tamponammo in trenta 
in coda in galleria 
baby please don't go
baby blease don't go
into that big black hole
you know I love you so 
baby please

Metti la radio leggono Dϋrrenmatt
Maledett

Tu che proteggi dalla grandine, Gottardo
abbia riguardo per la mia
carrozzeria,
tu che invocato aiuti donne a partorire,
aiutami ad uscire
da questo ventre buio, eterno, scuro.
Lo giuro
non sfiderò più gli inferi stradali
per sempre starò fuori dai trafori.
Prenderò il treno
o il valico come da ragazzino:
vedevo la lancetta dell'acqua andare su
ma io di più,
vedevo già le vacche pascolar,
facevo un pieno a Bar
Cenisio,
ah io vorrei tornarci anche solo per un dì,
invece eccomi qui
intubato nel profondo.

O porco mondo,
perché ci fai così, ci agiti invano,
in viaggi vani,
in van non adeguati,
in vani agguati,
perché non stiamo sempre dove stiamo,
perché viaggiamo,
voliamo traforiamo svalichiamo
tracciando piste in cielo e sotto i monti,
fetenti Fetonti,
e non ci accontentiamo,
di un monastero in Svevia.

Gottardo che nascesti in Passavia,
fammi pussare via.
Tu che portasti in Svevia la riforma di Cluny,
portami fuori di qui,
e ti sarò grato,
dirò per te un rosario all'autogrill,
ma senza fare il pieno,
perché lì costa tutto in modo assurdo,
O San Gottardo.

sabato 3 maggio 2025

Per il sesso chiedere ai genitori

Altri tempi
[Questo pezzo è uscito sul Manifesto del primo maggio. Ne ha parlato anche Nicola Ghittoni, che ringrazio, in Morning, il podcast del Post].

Al ministro dell’Istruzione e del Merito, decisamente, piacciono le riforme a costo zero. Anche ieri, quando ha annunciato che gli studenti potranno accedere all’educazione sessuale-affettiva soltanto previo consenso scritto dei genitori, non ci ha dato una vera e propria notizia: non esiste infatti al momento, nelle scuole italiane, un vero e proprio corso di educazione sessuale e/o affettiva. Le scuole che si attrezzano in questo senso, di solito lo fanno grazie all’interessamento di insegnanti e dirigenti, in una situazione in cui non sempre ci si può rivolgere agli esperti più autorevoli; così che per cautelarsi molto spesso ai genitori viene già chiesto una firma. Insomma Valditara ha annunciato che le cose cambieranno… per restare più o meno come sono. Inoltre agli studenti che non potranno accedere all’educazione sessuale dovrà essere garantito un insegnamento alternativo, il che avrebbe perfettamente senso se il Ministero stanziasse qualche fondo per questo insegnamento: ma in questo caso non si tratterebbe più di una riforma a costo zero. Ai dirigenti insomma il ministro ha fornito un motivo in più, economico, per evitare questo tipo di iniziative; e se qualche insegnante si ostinerà a invitare sessuologi o operatori del consultorio, i ragazzi non autorizzati finiranno in biblioteca a guardare un film con un supplente. 

Tanto basta perché l’associazione Pro Vita & Famiglia annunci un “passo storico contro il gender nelle scuole”: dopo anni di incessante lobbying dovrebbero essere i primi ad ammettere di non aver ottenuto un granché, ma rispetto al resto dell’Europa è comunque tanto. Come ci aveva fatto notare l’Unesco già dal 2023, gli altri Paesi UE a non riconoscere un corso obbligatorio di sessualità e affettività sono Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Questo malgrado già nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia segnalato l’importanza dell’educazione affettiva nella prevenzione delle violenze di genere. Nessuno ritiene che trascorrere qualche ora a parlare di sentimenti e contraccettivi risolva tutti i problemi, ma la scuola è il presidio sociale dove i ragazzi almeno possono scoprire di averne. Tanto più in un periodo in cui le autorità sanitarie segnalano un aumento allarmante di infezioni sessualmente trasmissibili che parte proprio dai giovani, e che non si fatica a collegare con il declinante uso dei profilattici. 

In questa, come in altre occasioni, il governo esprime la sua idea di una società divisa in compartimenti stagni, primo dei quali è la famiglia: solo ai capifamiglia spetterebbe il diritto di disporre della salute e del comportamento sessuale dei propri figli. Il fatto che i figli frequentino comunque le stesse scuole degli altri cittadini è visto come un disturbo; se proprio la scuola pubblica non si riesce a smantellare, non resta che ostacolarla con più burocrazia possibile, trasformando gli insegnanti più volonterosi in segretari costretti a sollecitare e raccogliere consensi firmati. Quando poi i capofamiglia diventano troppo aggressivi, la risposta del governo è la repressione: per cui non è così paradossale che nella stessa conferenza stampa Valditara abbia annunciato pene più aspre per chi picchia i prof. 

Malgrado tutto questo la scuola funziona, e continua a mettere di fianco ragazzi di estrazioni sociali e culture diversissime. Persino in biblioteca, dove a guardare un film assieme si ritroveranno i figli dei cattolici terrorizzati dal “gender” e i figli dei genitori musulmani ugualmente sospettosi nei confronti dell’affettività e sessualità occidentale. Magari scopriranno di avere molte più cose in comune: proprio come i loro genitori, in un certo senso. Forse saranno i genitori, a quel punto, a rimpiangere quelle ore mancate di educazione affettiva. E sessuale.

venerdì 2 maggio 2025

Uccidere gli schiavi non era reato

2 maggio: Santi Espero, Zoe, Ciriaco e Teodulo, un'intera famiglia martire in Attalia, II secolo

È bella la Panfilia, ci sono stato. 

Questo gruppo di martiri costituisce un nucleo famigliare: Ciriaco e Teodulo erano i figli di Espero e Zoe. A differenza della maggior parte dei martiri dei primi secoli, la condanna a morte non è attribuita a un imperatore o a un suo delegato, ma al padrone di casa, un tale Cato o Catlo (Catullo?), possidente di origine romana impiantato in Panfilia: del resto erano suoi schiavi. Il cristianesimo si stava diffondendo in tutte le classi sociali, e il suo messaggio egalitario doveva essere particolarmente apprezzato tra gli schiavi. Ciriaco e Teodulo, in occasione della nascita di un figlio del padrone non accettano di partecipare ai festeggiamenti mangiando cibo che sospettano consacrato alla Dea Fortuna, molto venerata nella casa. Catlo glielo ordina, loro disobbediscono; Catlo li fa torturare, loro non cedono. Decide infine di chiuderli nella fornace insieme ai genitori, come i tre ragazzi del libro di Daniele. Ma a differenza che nella Bibbia, i quattro non escono più sani e belli che mai: vengono probabilmente inceneriti, ma la Chiesa ne ricorda il sacrificio. È un ricordo stringato, conservato nei sinassari bizantini, privo di miracoli che attenuino l'orrore dei fatti. Il che ci porta più facilmente a domandarci: può essere successo davvero? 

La prima risposta, istintiva è: no. Le agiografie sono tutte più o meno leggendarie, perché questa dovrebbe dire la verità? Semplicemente perché non contiene nessun dettaglio favoloso o miracolistico, e non coinvolge nemmeno qualche celebrità come Decio o Diocleziano? Non è lo stesso supplizio – la classica fornace – già abbastanza favolosa, perché suvvia: chi è che si sbarazzerebbe così non di uno, ma di quattro schiavi di proprietà? Una famiglia mediamente benestante poteva permettersene appena uno. Disfarsi di due ragazzi nel fiore degli anni equivaleva a dar fuoco a una proprietà immobile. Bisogna essere pazzi per farlo volontariamente, ma è appunto questo il problema: i pazzi pur troppo li abbiamo da che mondo e mondo. La dimostrazione è a portata di clic ormai. Faccio l'esperimento, digito "family killed by a landlord". Come può indovinare chi è abituato a fare ricerche simili, il primo risultato è localizzato in Florida. Per qualche motivo, che avrà a che fare con l'antropologia ma anche con l'abilità dei cronisti del luogo nell'indicizzare i propri contenuti, la Florida è sempre in cima ai risultati della cronaca nera. Non so in tutto il mondo quanti padroni di casa abbiano bruciato nel camino i resti di una famiglia di quattro membri negli ultimi anni, ma sicuramente è successo a Pasco County nel giugno scorso. E ora immaginiamo lo storico che si porrà lo stesso problema, tra mille anni, che noi ci poniamo nei confronti di Catlo: può essere esistito un mostro del genere? Per qualche motivo credo che si farà meno dubbi lui, di quanti me ne sono fatto io. 

Da un punto di vista strettamente legale, Catlo non doveva temere nessun procedimento nei suoi confronti; nel secondo secolo il testo di riferimento per quanto riguardava gli omicidi era la lex Cornelia varata da Silla nell'82 a. C., che in effetti colpiva i padroni che uccidevano gli schiavi, ma solo per ingiusta causa. La disobbedienza di Ciriaco e Teodulo al padrone era una causa già sufficiente. Non è chiaro se anche i genitori avessero disobbedito, ma anche in questo caso è difficile immaginare che un uomo libero avrebbe denunciato Catlo. L'unica consolazione che restava ai compagni schiavi era ricordare i quattro caduti, consegnando i loro nomi alla Storia: e ce l'hanno fatta, ne stiamo parlando ancora quasi duemila anni dopo. Il cristianesimo si è diffuso anche per questo motivo: dava agli schiavi una possibilità di esprimersi, di dare un nome a sé stessi e ai propri martiri. 

(Il terzo risultato che mi dà Google è Joseph Czuba, un settantatreenne di Planfield, Illinois, condannato per aver ucciso un bambino di 6 anni di origine palestinese, Wadee Alfayoumi, e per aver ferito sua madre, Hanan Shaheen. Il duplice accoltellamento è avvenuto il 14 ottobre del 2023: com'è stato appurato dal processo, Czuba era sconvolto per le notizie che arrivavano dalla Palestina. Gran parte di queste notizie, lo sappiamo, erano false o grottescamente esagerate. Wadee è stato colpito 27 volte. Ricordo il suo nome).