Dacci oggi la nostra Italia
Siamo tutti qui, siamo italiani, e cominciamo a prendere gusto alla campagna elettorale televisiva. Ci divertiamo un mondo quando Corrado Guzzanti fa Rutelli, quando Sabina Guzzanti fa Berlusconi, quando Paolo Guzzanti con la sua bella faccia sostiene che Dell'Utri e Mangano commerciassero veramente cavalli negli alberghi. Luttazzi poi, più di un comico, è un eroe (qualcosa di eroico c'è nel voler a tutti i costi stroncarsi una carriera televisiva). Anche Biagi, un eroe. Montanelli, un compagno.
Siamo tutti qui, siamo tutti d'accordo, ordiniamo centinaia di migliaia di copie del libro di Travaglio (200.000 copie vendute, pare) per informarci meglio su quello che avevamo già sentito dire, o che comunque diamo per scontato: Berlusconi sarebbe un ladro.
Siamo in tanti e facciamo un po' fatica a immaginare che da qualche parte, o addirittura in mezzo a noi, viva un'altra specie d'italiani, per i quali Berlusconi è un capace uomo politico degno di vincere le elezioni, se non proprio l'unto del Signore, il Messia che salverà l'Italia dal regime dei comunisti.
Per incontrare questi italiani occulti, che pure esisterebbero (e magari sono anche più di noi) si può arrischiare una visita al sito www.votaberlusconi.it, e precisamente al "Muro", dove ogni visitatore può lasciare "il graffito che non imbratta". Ho voluto organizzare questi graffiti in una piccola antologia tematica.
Conto il regime comunista
[L'Italia è in mano dei comunisti, forse da cinque anni, forse da cinque. È l'ultimo baluardo del socialismo reale. Non ce n'eravamo accorti? Per fortuna i comunisti sono stupidi e taccagni:]
Italia, unico paese comunista rimasto. Berlusconi, l´unico che può ancora salvarci
un accorato appello per tutto il Polo delle Libertà:battetevi duramente contro il regime comunista e mandateli tutti a casa, non ne posso piu!!
A Mosca ho visto vendere le lampadine fulminate- le comperavano per sostituire quelle buone negli uffici e portarsele a casa- capito!!??!! [capito cosa?]
I comunisti sono allo sbando, stanno giocando a nostro favore, perchè gli italiano non sono stupidi come credono i comunisti. Forza Italia, Forza Berlusconi, Forza Romagna!!!
La sinistra sta rovinando i giovani, per fortuna Silvio che ora le cose cambieranno... anche noi finalmente torneremo a poter sognare! Luciano 20anni.
RICORDATE CHE SE VINCE LA SINISTRA SIAMO VERAMENTE COTTI! I GULAG, I STALIN, I BERIA, IL MURO DI BERLINO. I COSSUTTA ECC. SONO PERSONE CHE NON CI RICORDANO NIENTE DI STORIA?
Abbiamo solo due possibilità: o Berlusconi al governo o emigrare. In questa Italia comunista non si può più vivere!
Silvio-Cristo
[Il greco chrystòs significa proprio "unto": definendosi "unto del Signore", Berlusconi si paragonava a Cristo. Blasfemo? Surreale? Questi messaggi fanno luce su una vera e propria attesa messianica degli italiani: Berlusconi è davvero l'Eletto, l'unico che può salvare il suo popolo].
finalmente dopo 50 anni abbiamo la fortuna di avere l´ uomo giusto che ci possa salvare da una crisi perenne non facciamocela sfuggire!!!!!!
IL 13 MAGGIO VEDREMO LA LUCE, QUELLA LUCE CHE FINALMENTE RAGGIUNGERA´ ANCHE NOI QUAGGIU´. GRAZIE DI ESISTERE PRESIDENTE
Silvio,regalaci una qualità di vita migliore,per noi e per i nostri figli. Attento allo straniero che vuole l´Italia. Auguri e felicità ps. titni d´occhio il tuo sottobosco politico, ciao.
Silvio ti do del tuo perche´ ormai sei quasi di famiglia volevo dirti che devi aiutare questo paese ad emergere e che solo te puoi farlo [che lapsus fenomenale quel ti do del tuo!]
Caro Berlusconi,l´onnipotenza dell´Amore che e´ presente nel tuo cuore ti dira´ sempre come agire.NON TEMERE. L.Gaspari
Silvio:ricostruisci la nostra bellissima Italia!
Forza Silvio senza di te l´Italia diventerà un paese del III mondo... Siamo tutti con te! NON MOLLARE.......
CIAO SILVIO! SEI TUTTI NOI! SALVACI DAL REGIME!!!! VINCI PER NOI!!!!!! NON DIMENTICARTI DEL SUD!!!!!!!
Silvio l´Italia ha bisogno di te dacci una vera democrazia e una patria libera e prospera
ZioSilvio grazie di essere entrato in politica perchè solo tu puoi cambiare il nostro bel paese! Formigoni sei troppo BONO!
Fa tutto lui
[Si alza presto, comincia presto, cambia i codici, manda a casa gli incompetenti, salva il sud, salva l'economia, ha un potere taumaturgico persino sulle squadre di calcio non sue].
Presidente cerchi di far capire che Lei concretamente governerà e soprattutto lo farà cominciando dalle 7 di mattina
FORZA CAGLIARI..FORZA ITALIA.. Silvio vincera´ le elezioni e noi torneremo in SERIE A!!!
Voglio lavorare qui al Sud e so di poterlo fare solo se qualcuno come Berlusconi me lo permette!! Chi crede nella verità vota Berlusconi!!!!!!!!!!!
SILVIONE, AIUTAMI A DIVENTARE CONSIGLIERE DI QUARTIERE.............FORZA ITALIA, PER LA GENTE, TRA LA GENTE !
Potresti aspettare che mi laurei(se ce la faro´) per cambiare tutti i codici?.Anche tu,Silvio hai studiato a giurisprudenza,capiscimi:Sai che casino?
Il VERO conflitto di interessi di Berlusconi sarebbe quello di vivere e lavorare in una Italia NON realizzando a pieno i sui programmi.
Forza Silvio! Fai di tutta l´Italia un´unica grande casa dove noi saremo tutti fratelli, i fratelli d´italia!
Silvio vinci per questo povero paese martire, dai una speranza al nostro futuro!
Silvio vinci per far si che nono vedremo più: Santoroluttazzimontanellirutelli........DAI!!!!!
berlusconi vai avanti ricordati del sud speriamo in te gli altri ci hanno presi sempre per i fondelli.
silvio, quando andrai al governo licenzia tutti quei comunisti che sono in rai e che paghiamo noi cittadini con il canone : chi paga ha il diritto di decidere
Silvio, tieni duro! L´Italia ha bisogno di voltare pagina. Salva la nostra scuola dalle balorde riforme dei kattocomunisti!!!
Onorevole, faccia entrare più donne in politica....Stefania
Flagrante paranoia
La PSICHIATRIA drogherà i nostri figli con il "Ritalin" per creare un governo TOTALITARIO. VIVA LA LIBERTA´
Se vi piace vivere con chi vi ordina di scioperare e vi sbarra la strada allora votate Rutelli è il solo che fa per Voi.
E così via.
Però non bisogna demoralizzarsi. Questi italiani occulti, tartassati dal regime comunista, sembrano molto sprovveduti. Forse il tredici maggio non troveranno la strada per il seggio. Passeranno col rosso e andranno sotto la macchina di un comunista. O sbaglieranno a mettere la croce sulla scheda. O andranno a vedere il Cagliari in serie B.
E poi, non si sa bene quanti siano. Ai sondaggi, chi ci crede? La campagna non sarebbe così rovente se l'esito non fosse ancora incerto.
In fondo può darsi benissimo che i messaggi se li faccia scrivere lui. Corrispondono benissimo all'idea che ha degli italiani: terrorizzati dal comunismo, fedeli al sogno dell'uomo forte che libera l'Italia dal male, un po' stupidi. Un'idea che non dovrebbe corrispondere al vero. Mah. Vediamo chi si sbaglia.
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venerdì 30 marzo 2001
giovedì 29 marzo 2001
Sono passati quasi due mesi da quando (2 febbraio) ho iniziato a porre la questione (banale solo in apparenza): perché sulle montagne fa più freddo?
Ho raccolto diverse risposte, alcune fuorvianti, altre ingegnose, tutte vagamente surreali. Il bello è che tra tutte c'è anche quella giusta, e credo di averla trovata. Ma non la dirò… temo il ridicolo.
Sulle montagne fa più freddo perché:
Sono più lontane dal centro della terra (dove fa caldo… o fa più freddo?).
Sono più lontane dalla crosta terrestre (in realtà le montagne fanno parte della crosta terrestre).
Sono più lontane dagli strati bassi dell'atmosfera (mica tutte).
Sono più alte dello strato dell'ozono (sicuro?).
Sono più vicine allo spazio.
Sono più lontane dal mare.
Trattengono i venti.
Lasciano passare i venti.
Trattengono il ghiaccio (ma chi ce l'ha portato là sopra?)
Trattengono le nuvole.
La pressione atmosferica è più bassa.
L'aria è meno densa e disperde il calore.
La loro forma convessa non trattiene il calore.
C'è meno ossigeno, che trattiene il calore.
C'è meno vegetazione (ma perché?)
C'è più umidità
C'è meno umidità
Ci sono più rocce.
Sono a nord.
Il mio campione statistico non è assolutamente rappresentativo. Ma è interessante notare come gli interrogati non siano affatto digiuni di nozioni scientifiche: lo strato dell'ozono, la pressione atmosferica, la crosta terrestre e l'ossigeno come conduttori di calore, ecc.. Il problema è saper organizzare queste nozioni secondo un principio di causa ed effetto. Le montagne sono fredde a causa dei ghiacciai, o i ghiacciai sono causati dal freddo delle montagne?
Forse è sbagliato voler istituire cause ed effetti. O voler stabilire una causa sola per un effetto solo. Pochissimi comunque davano per scontato di sapere il perché. I più procedono per tentativi.
L'inchiesta continua. (In attesa di un fine settimana col bel tempo).
Ho raccolto diverse risposte, alcune fuorvianti, altre ingegnose, tutte vagamente surreali. Il bello è che tra tutte c'è anche quella giusta, e credo di averla trovata. Ma non la dirò… temo il ridicolo.
Sulle montagne fa più freddo perché:
Sono più lontane dal centro della terra (dove fa caldo… o fa più freddo?).
Sono più lontane dalla crosta terrestre (in realtà le montagne fanno parte della crosta terrestre).
Sono più lontane dagli strati bassi dell'atmosfera (mica tutte).
Sono più alte dello strato dell'ozono (sicuro?).
Sono più vicine allo spazio.
Sono più lontane dal mare.
Trattengono i venti.
Lasciano passare i venti.
Trattengono il ghiaccio (ma chi ce l'ha portato là sopra?)
Trattengono le nuvole.
La pressione atmosferica è più bassa.
L'aria è meno densa e disperde il calore.
La loro forma convessa non trattiene il calore.
C'è meno ossigeno, che trattiene il calore.
C'è meno vegetazione (ma perché?)
C'è più umidità
C'è meno umidità
Ci sono più rocce.
Sono a nord.
Il mio campione statistico non è assolutamente rappresentativo. Ma è interessante notare come gli interrogati non siano affatto digiuni di nozioni scientifiche: lo strato dell'ozono, la pressione atmosferica, la crosta terrestre e l'ossigeno come conduttori di calore, ecc.. Il problema è saper organizzare queste nozioni secondo un principio di causa ed effetto. Le montagne sono fredde a causa dei ghiacciai, o i ghiacciai sono causati dal freddo delle montagne?
Forse è sbagliato voler istituire cause ed effetti. O voler stabilire una causa sola per un effetto solo. Pochissimi comunque davano per scontato di sapere il perché. I più procedono per tentativi.
L'inchiesta continua. (In attesa di un fine settimana col bel tempo).
lunedì 26 marzo 2001
Pollice verso, Hollywood
Allora: secondo Marco Giusti, (L'Espresso) l'assegnazione degli Oscar è la prova che il cinema americano è in grande forma: Premiati gli effetti speciali e il cinema d’avventura. Ma anche pellicole “impegnate” di stampo europeo come “Traffic” e “Erin Brockovich”. Segno che Hollywood si è appropriata di tutto il cinema. Anche di quello che non era nelle sue corde.
Invece per i critici del Manifesto, l'Oscar è l'orchestrina del Titanic, il 2001 è la "fine del cinema USA", come prova il successo senza precedenti delle pellicole non americane anche oltreoceano.
Chissà chi ha ragione… i pezzi del Manifesto mi sembrano più documentati e convincenti. Io non sono un critico, molto cinema l'ho guardato in tv, e il cinema americano è quello che mi è più familiare. Ultimamente ho notato che m'interessa sempre meno. S'avverte sempre più la sensazione che i plot siano studiati a tavolino da una commissione politico-scientifica. Ci dev'essere almeno un personaggio di colore, e non importa se ha un fisico di NBA, dev'essere più posato e ragionevole di un altro personaggio bianco, per evitare lo stereotipo. Il cattivo dev'essere punito, il cattivissimo salvato per il sequel. Ci devono essere tre grandi scene d'azione, una subito (così i ragazzini fanno silenzio in sala), una all'inizio del secondo tempo, una alla fine. Non discuto, penso anzi che sia un modo molto razionale di organizzare la sceneggiatura, ma quando inizi ad accorgertene ormai sei fuori gioco. Dopo venti minuti di Sesto senso sai già come va a finire, cosa resta?
Poi ci sono le cazzate belle e buone. Il gladiatore, per esempio, può vincere tutti gli Oscar che vuole, e Giusti può trovare Crowe "fantastico", ma resta una cazzata, di quelle che ogni tanto ti fanno dubitare di tutta la categoria dei critici, dei cinefili e dei lobbisti dell'Academy Awards (che avranno avuto le buone ragioni, ma nessuno si è alzato a dire che il re è nudo, che Ridley Scott si è bevuto il cervello, o forse è stato sostituito da un automa, come pare sia successo ad Harrison Ford in Blade Runner?).
I critici. Gente che non farebbe male a una mosca... ma una volta oltrepassata la soglia di velluto della sala, si trasformano in belve assetate di sangue. Picchia qua, taglia là, sangue a fiotti, che gran cinematografia.
Facesse almeno venire i brividi. Ma puoi portarci un bambino e vederlo sbadigliare. A un certo punto, prima di entrare nell'arena, un gladiatore si piscia addosso. Ecco, è l'unica scena in cui mi sono sentito un po' in pena. Per il resto, chi se ne frega di tutte quelle comparse mascherate a cui salta via la testa con tanta facilità. La trama, poi, è una sfida (persa) al senso del ridicolo. L'imperatore che si fa ammazzare al colosseo. Ma neanche in un cartone animato giapponese.
Sempre Il manifesto ci ricorda che a Hollywood siamo alla vigilia di un clamoroso sciopero, che dagli autori potrebbe contagiarsi agli attori. V'immaginate un anno senza cinema americano? Si starebbe davvero così male? Chi lo sa. Forse ci accorgeremmo che a vedere questi film ci andiamo più per inerzia che per altro, che alla fine delle nomination e delle sfide per gli oscar non ce ne frega niente. Come dei gladiatori di Scott. Hai un bel da vestirli alla moda, di scannarli con violenza ed eleganza. Non ci fanno neanche compassione. Sei un vecchio guerriero suonato, Hollywood. Pollice verso.
Allora: secondo Marco Giusti, (L'Espresso) l'assegnazione degli Oscar è la prova che il cinema americano è in grande forma: Premiati gli effetti speciali e il cinema d’avventura. Ma anche pellicole “impegnate” di stampo europeo come “Traffic” e “Erin Brockovich”. Segno che Hollywood si è appropriata di tutto il cinema. Anche di quello che non era nelle sue corde.
Invece per i critici del Manifesto, l'Oscar è l'orchestrina del Titanic, il 2001 è la "fine del cinema USA", come prova il successo senza precedenti delle pellicole non americane anche oltreoceano.
Chissà chi ha ragione… i pezzi del Manifesto mi sembrano più documentati e convincenti. Io non sono un critico, molto cinema l'ho guardato in tv, e il cinema americano è quello che mi è più familiare. Ultimamente ho notato che m'interessa sempre meno. S'avverte sempre più la sensazione che i plot siano studiati a tavolino da una commissione politico-scientifica. Ci dev'essere almeno un personaggio di colore, e non importa se ha un fisico di NBA, dev'essere più posato e ragionevole di un altro personaggio bianco, per evitare lo stereotipo. Il cattivo dev'essere punito, il cattivissimo salvato per il sequel. Ci devono essere tre grandi scene d'azione, una subito (così i ragazzini fanno silenzio in sala), una all'inizio del secondo tempo, una alla fine. Non discuto, penso anzi che sia un modo molto razionale di organizzare la sceneggiatura, ma quando inizi ad accorgertene ormai sei fuori gioco. Dopo venti minuti di Sesto senso sai già come va a finire, cosa resta?
Poi ci sono le cazzate belle e buone. Il gladiatore, per esempio, può vincere tutti gli Oscar che vuole, e Giusti può trovare Crowe "fantastico", ma resta una cazzata, di quelle che ogni tanto ti fanno dubitare di tutta la categoria dei critici, dei cinefili e dei lobbisti dell'Academy Awards (che avranno avuto le buone ragioni, ma nessuno si è alzato a dire che il re è nudo, che Ridley Scott si è bevuto il cervello, o forse è stato sostituito da un automa, come pare sia successo ad Harrison Ford in Blade Runner?).
I critici. Gente che non farebbe male a una mosca... ma una volta oltrepassata la soglia di velluto della sala, si trasformano in belve assetate di sangue. Picchia qua, taglia là, sangue a fiotti, che gran cinematografia.
Facesse almeno venire i brividi. Ma puoi portarci un bambino e vederlo sbadigliare. A un certo punto, prima di entrare nell'arena, un gladiatore si piscia addosso. Ecco, è l'unica scena in cui mi sono sentito un po' in pena. Per il resto, chi se ne frega di tutte quelle comparse mascherate a cui salta via la testa con tanta facilità. La trama, poi, è una sfida (persa) al senso del ridicolo. L'imperatore che si fa ammazzare al colosseo. Ma neanche in un cartone animato giapponese.
Sempre Il manifesto ci ricorda che a Hollywood siamo alla vigilia di un clamoroso sciopero, che dagli autori potrebbe contagiarsi agli attori. V'immaginate un anno senza cinema americano? Si starebbe davvero così male? Chi lo sa. Forse ci accorgeremmo che a vedere questi film ci andiamo più per inerzia che per altro, che alla fine delle nomination e delle sfide per gli oscar non ce ne frega niente. Come dei gladiatori di Scott. Hai un bel da vestirli alla moda, di scannarli con violenza ed eleganza. Non ci fanno neanche compassione. Sei un vecchio guerriero suonato, Hollywood. Pollice verso.
venerdì 23 marzo 2001
I Colloqui on line
Nel sito di Wordtheque non solo è possibile scaricare gratuitamente più di 20.000 testi in 113 lingue (tra cui il Tegulu, il modenese e il klingoniano, la lingua dei cattivi di Star Trek), ma è anche possibile scaricare fiabe e poesie recitate e compresse in file mp3. Mentre le fiabe ormai sono numerose, e attingono a un solido repertorio (Grimm, Collodi, Andersen… raccomando La principessa sul pisello), le poesie sono ancora poche. C'è qualcosina del Dolce Stil Novo, qualcosina di Pascoli, e poi… ci sono tutti i Colloqui di Guido Gozzano. Quasi tutti: alcuni file sonori devono ancora essere processati: ci vorrà qualche tempo.
Sì, li ho letti io. So di non essere un attore e non ho scuse, se non che era sempre meglio che star tutto il santo giorno a cliccare. Ma perché proprio Gozzano?
Mah. Penso che fosse il mio poeta preferito (al liceo). Credevo anche che fosse facile da recitare, col suo prosaico cantabile, lo stile "di uno scolare corretto un po' da una serva". Mi sbagliavo alla grande. Qualsiasi ermetico o surrealista sarebbe stato meno impegnativo. S'imposta un po' la voce, si dispensano silenzi terroristici, e via, per male che vada… Ma questo assurdo cantastorie liberty, col suo lessico retrò, i suoi giochi metrici che sanno più di enigmistica che di poesia (quel virtuosismo un po' sciatto che spiaceva a Contini ma attira come mosche gli adolescenti), ha anche la pretesa del narratore. Bisogna raccontare la storia e far sentire la filastrocca, e non è facile.
Mi accorgo che non sono dell'umore giusto per parlare (bene) di Gozzano. La lettura integrale mi ha un po' stomacato. Tra tante cose che il solito Montale ha scritto di lui ne ricordo una apparentemente incomprensibile: "Gozzano [come Rossini] va preso col cucchiaino". In effetti è un poeta dolciastro, specie a un secolo di distanza, quando non siamo più abituati a tante rime, tanta narratività, tanta ironia. Almeno in poesia. Ma forse Gozzano è il poeta preferito di chi non ama molto la poesia, e ancor meno i poeti. Certo, la sua antiretorica dopo quasi cent'anni suona fin troppo retorica. Ma io non ne so ancora fare a meno. Mi sorprendo a volte a citarmi addosso versi suoi (o anche di Petrarca, Dante, Leopardi, che lui, senza sospetto d'essere postmoderno, copiava pari pari; e io, ignorantello, lo prendevo in buona fede). E in fondo credo che a questo serva la poesia: a venirci in soccorso quando non sappiamo esattamente cosa dire o cosa pensare. Un verso che mi ritorna ossessivo, in questi giorni, è il seguente:
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi.
(L'ipotesi)
È triste ma è quasi sempre vero. Non in questo specifico caso, però.
Volete scaricare qualche Colloquio?
Vi sconsiglio assolutamente La signorina Felicita: sarà anche un capolavoro, ma supera i 25 minuti: meglio rimandare al tempo della banda larga. Troppo lunghe sono anche Paolo e Virginia e L'amica di nonna Speranza. Lunghetta anche Le due vie, ma è la mia preferita. Cocotte, un po' gerontofila, l'ha letta una mia collega (la stessa della Principessa nel Pisello). Chi volesse solo un assaggio senza perder tempo consiglio L'ultima infedeltà, che è appena un sonetto.
giovedì 22 marzo 2001
Ventimila in piazza contro il Global Forum, ma la polizia chiude le porte. Quando una parte del corteo cerca di sfondare con sassi e bastoni il cordone che "protegge" piazza del Plebiscito gli agenti sbarrano ogni uscita e suonano la carica. Sono eccitati e su di giri.
La battaglia dura meno di un'ora ma è violentissima. Almeno in duecento passano dal pronto soccorso, i fermati sono una quarantina. Alla fine i poliziotti tornano nelle strade a raccogliere come trofei le bandiere lasciate per terra. (Dal "Manifesto" del 18 marzo)
Il segreto di Pulcinella
Quando si vede un manganello, bisogna almeno assumersi la responsabilità di dire: questo è un manganello. La globalizzazione, le multinazionali, cose indifendibili, lo sappiamo. Comunque questo è un manganello. Girava nelle mail la settimana scorsa.
Anche la polizia, quando mena, è indifendibile, e io non starò qui a fare pasolinismi a braccio. Ma non trovo nulla di eroico nell'affrontare la polizia con "sassi e bastoni". Sarebbe ridicolo, se non fosse criminale. Perché poi alla fine le prendono sempre quelli più sprovveduti, quelli che credono di partecipare a una manifestazione non violenta (ma loro non l'avevano visto, il Pulcinella con manganello?)
Come sarebbe andata al Global Forum lo si sapeva già. Cosa fosse esattamente questo Global Forum, non è mai interessato a nessuno. Discutevano del divario tecnologico tra Nord e Sud del mondo: non mi sembra che si meritassero manganellate. Voler irrompere a un forum "con sassi e bastoni " che significato aveva, esattamente?
Qualsiasi vertice internazionale sta diventando il pretesto per queste battaglie campali, che ogni volta sono più violente. Il pretesto per la polizia di scatenare le sue energie peggiori. Così tra un po' in Italia non sarà più possibile fare una manifestazione pacifica. In fondo, non è improbabile che tra tre mesi il ministro degli interni sia un uomo di AN, o magari un leghista (lo abbiamo già avuto). Forse è proprio quello che ci stiamo aspettando? O ci stiamo aspettando che ci scappi un morto, un martire della globalizzazione?
Per quanto possa interessare, io dico la mia: il movimento anti-globalizzazione italiano è vittima, ancor prima che delle cariche della polizia, delle frange estreme che si comportano da agenti provocatori, facendo il possibile affinché una manifestazione degeneri puntualmente in rissa. Armarsi con patetici surrogati delle tute antisommossa dei 'nemici', vestirsi in bianco per dare maggior risalto televisivo al sangue, sono atteggiamenti che non hanno niente a che vedere con la protesta democratica. C'è una bella differenza tra un non violento e un kamikaze (questo è il segreto di Pulcinella).
La battaglia dura meno di un'ora ma è violentissima. Almeno in duecento passano dal pronto soccorso, i fermati sono una quarantina. Alla fine i poliziotti tornano nelle strade a raccogliere come trofei le bandiere lasciate per terra. (Dal "Manifesto" del 18 marzo)
Il segreto di Pulcinella
Quando si vede un manganello, bisogna almeno assumersi la responsabilità di dire: questo è un manganello. La globalizzazione, le multinazionali, cose indifendibili, lo sappiamo. Comunque questo è un manganello. Girava nelle mail la settimana scorsa.
Anche la polizia, quando mena, è indifendibile, e io non starò qui a fare pasolinismi a braccio. Ma non trovo nulla di eroico nell'affrontare la polizia con "sassi e bastoni". Sarebbe ridicolo, se non fosse criminale. Perché poi alla fine le prendono sempre quelli più sprovveduti, quelli che credono di partecipare a una manifestazione non violenta (ma loro non l'avevano visto, il Pulcinella con manganello?)
Come sarebbe andata al Global Forum lo si sapeva già. Cosa fosse esattamente questo Global Forum, non è mai interessato a nessuno. Discutevano del divario tecnologico tra Nord e Sud del mondo: non mi sembra che si meritassero manganellate. Voler irrompere a un forum "con sassi e bastoni " che significato aveva, esattamente?
Qualsiasi vertice internazionale sta diventando il pretesto per queste battaglie campali, che ogni volta sono più violente. Il pretesto per la polizia di scatenare le sue energie peggiori. Così tra un po' in Italia non sarà più possibile fare una manifestazione pacifica. In fondo, non è improbabile che tra tre mesi il ministro degli interni sia un uomo di AN, o magari un leghista (lo abbiamo già avuto). Forse è proprio quello che ci stiamo aspettando? O ci stiamo aspettando che ci scappi un morto, un martire della globalizzazione?
Per quanto possa interessare, io dico la mia: il movimento anti-globalizzazione italiano è vittima, ancor prima che delle cariche della polizia, delle frange estreme che si comportano da agenti provocatori, facendo il possibile affinché una manifestazione degeneri puntualmente in rissa. Armarsi con patetici surrogati delle tute antisommossa dei 'nemici', vestirsi in bianco per dare maggior risalto televisivo al sangue, sono atteggiamenti che non hanno niente a che vedere con la protesta democratica. C'è una bella differenza tra un non violento e un kamikaze (questo è il segreto di Pulcinella).
martedì 20 marzo 2001
Noi non ci meritiamo
Goodbye Paris I'm leaving you nothing they say 'bout you was true
And it drives me crazy
Tre anni fa (Il 20 marzo del 1998) mi sono laureato.
È da tanto tempo che non torno all'università. Non abbiamo niente da dirci. In fondo, non ci siamo mai piaciuti. È stata una delusione a prima vista.
La stanchezza pendolare. Le dormite alle lezioni. Le dormite nelle sale studio. Bologna è un comodo divano dove puoi sonnecchiare in mille posizioni.
Tutta la boheme che ci è toccata è stata il bar degli studenti, dove si ciccava per terra. Ah, ho anche occupato una volta. Sono finito in una commissione anarchica, con una fazione socialdemocratica (che poi era Glauco, ciao Glauco).
Ma poi il riflusso è stato inarrestabile. Ogni volta che passi in Piazza Verdi, tum-tum-tum, diventavo un po' più di destra. In un afoso pomeriggio il prof. Traina, seccato dal tum-tum-tum che saliva nella mansarda di latino, tagliò corto e m'inflisse un ventisette. Tornai sei mesi dopo, ma era afoso uguale. Incrociai le dita, mi buttai sulle georgiche, ma proprio in quel momento attaccò il tum, tum, tum. Avrei detonato una mina sul selciato.
A furia di trenta contumaci i docenti mi impartirono la lezione più importante: lo studente migliore è lo studente non frequentante, che si fa i cazzi suoi e si presenta solo per verbalizzare.
Ma il dialogo fruttificante, il confronto, verticale e orizzontale, gli oziosi pomeriggi a dibattere di filosofia e letteratura a un tavolino, dico, li ha mai visti qualcuno? Mi vergogno anche soltanto al pensiero di aver mai immaginato qualcosa del genere.
Con la tesi, poi, ognuno si chiude definitivamente nel suo guscio monomaniaco. Metti il naso fuori solo per andare a trovare il professore, ma di solito quello notte non hai dormito, perciò sei carne morta che cammina, le ragazze ti guardano male e non si sbottonano con te. Stiamo tutti scrivendo una monografia irripetibile. Senz'altro degna di pubblicazione, anche se si sa come vanno le cose, è tutto uno schifo, tutta una mafia, naturalmente.
Poi la lunga sequela di colloqui e di concorsi. Immagino che vinca chi riesce a conservare uno straccio di motivazione. Io comunque ho perso. Tra l'altro, non sono diventato un esperto di letteratura italiana. Ho quasi smesso di leggere. Messo alle corde, tiro fuori sempre e solo Leopardi e Manzoni, perché per me alla fine la partita s'è chiusa al liceo. Devo aver sbagliato qualcosa di grosso. Forse dovevo andare a letto più presto. O più tardi. Crederci un po' di più. O non crederci affatto. Far la corte ai professori. O lasciarli proprio perdere. Sono rimasto fregato nel mezzo. Tanto peggio. Tanto non mi meriti, università. E io non merito te.
Goodbye Paris I'm leaving you nothing they say 'bout you was true
And it drives me crazy
Tre anni fa (Il 20 marzo del 1998) mi sono laureato.
È da tanto tempo che non torno all'università. Non abbiamo niente da dirci. In fondo, non ci siamo mai piaciuti. È stata una delusione a prima vista.
La stanchezza pendolare. Le dormite alle lezioni. Le dormite nelle sale studio. Bologna è un comodo divano dove puoi sonnecchiare in mille posizioni.
Tutta la boheme che ci è toccata è stata il bar degli studenti, dove si ciccava per terra. Ah, ho anche occupato una volta. Sono finito in una commissione anarchica, con una fazione socialdemocratica (che poi era Glauco, ciao Glauco).
Ma poi il riflusso è stato inarrestabile. Ogni volta che passi in Piazza Verdi, tum-tum-tum, diventavo un po' più di destra. In un afoso pomeriggio il prof. Traina, seccato dal tum-tum-tum che saliva nella mansarda di latino, tagliò corto e m'inflisse un ventisette. Tornai sei mesi dopo, ma era afoso uguale. Incrociai le dita, mi buttai sulle georgiche, ma proprio in quel momento attaccò il tum, tum, tum. Avrei detonato una mina sul selciato.
A furia di trenta contumaci i docenti mi impartirono la lezione più importante: lo studente migliore è lo studente non frequentante, che si fa i cazzi suoi e si presenta solo per verbalizzare.
Ma il dialogo fruttificante, il confronto, verticale e orizzontale, gli oziosi pomeriggi a dibattere di filosofia e letteratura a un tavolino, dico, li ha mai visti qualcuno? Mi vergogno anche soltanto al pensiero di aver mai immaginato qualcosa del genere.
Con la tesi, poi, ognuno si chiude definitivamente nel suo guscio monomaniaco. Metti il naso fuori solo per andare a trovare il professore, ma di solito quello notte non hai dormito, perciò sei carne morta che cammina, le ragazze ti guardano male e non si sbottonano con te. Stiamo tutti scrivendo una monografia irripetibile. Senz'altro degna di pubblicazione, anche se si sa come vanno le cose, è tutto uno schifo, tutta una mafia, naturalmente.
Poi la lunga sequela di colloqui e di concorsi. Immagino che vinca chi riesce a conservare uno straccio di motivazione. Io comunque ho perso. Tra l'altro, non sono diventato un esperto di letteratura italiana. Ho quasi smesso di leggere. Messo alle corde, tiro fuori sempre e solo Leopardi e Manzoni, perché per me alla fine la partita s'è chiusa al liceo. Devo aver sbagliato qualcosa di grosso. Forse dovevo andare a letto più presto. O più tardi. Crederci un po' di più. O non crederci affatto. Far la corte ai professori. O lasciarli proprio perdere. Sono rimasto fregato nel mezzo. Tanto peggio. Tanto non mi meriti, università. E io non merito te.
lunedì 19 marzo 2001
Il calembour della settimana
È sempre il Manifesto che ci regala il calembour più esilarante della settimana scorsa:
[Martedì 14 marzo: Crisi politica in Giappone:]
Vedi la balena gialla e poi Mori
Per apprezzare al meglio la finesse del gioco di parole bisogna sapere che:
1. Mori è il premier liberaldemocratico (e forse dimissionario) del Giappone.
2. I partiti liberaldemocratici sono universalmente conosciuti come "balene".
3. I giapponesi sono famosi per essere "gialli".
4. C'è un minaccioso proverbio che recita "Vedi Napoli e poi muori"
Il gioco di parole è estremamente divertente anche per quella sua coloratura romanesca, che piace sempre a tutti.
Invece, a proposito di Napoli: venerdì il Manifesto diceva che il netstrike contro il Global Forum è funzionato, ma secondo la Repubblica non è vero, i server della Fineco hanno retto.
A chi credere?
(Ma tutto sommato, che un netstrike funzioni o no, gliene è mai fregato qualcosa a qualcuno?)
È sempre il Manifesto che ci regala il calembour più esilarante della settimana scorsa:
[Martedì 14 marzo: Crisi politica in Giappone:]
Vedi la balena gialla e poi Mori
Per apprezzare al meglio la finesse del gioco di parole bisogna sapere che:
1. Mori è il premier liberaldemocratico (e forse dimissionario) del Giappone.
2. I partiti liberaldemocratici sono universalmente conosciuti come "balene".
3. I giapponesi sono famosi per essere "gialli".
4. C'è un minaccioso proverbio che recita "Vedi Napoli e poi muori"
Il gioco di parole è estremamente divertente anche per quella sua coloratura romanesca, che piace sempre a tutti.
Invece, a proposito di Napoli: venerdì il Manifesto diceva che il netstrike contro il Global Forum è funzionato, ma secondo la Repubblica non è vero, i server della Fineco hanno retto.
A chi credere?
(Ma tutto sommato, che un netstrike funzioni o no, gliene è mai fregato qualcosa a qualcuno?)
venerdì 16 marzo 2001
Pseudo-cripto-ebrei
Chi cerca un'identità guarda spesso al passato. Tutti noi, anche se poveri, ci crediamo almeno gli eredi di una tradizione, di una cultura. Se ci fosse richiesto di definirla ci troveremmo in difficoltà. Se ci fosse chiesto un documento scritto, citeremmo poderosi volumi che probabilmente non abbiamo mai letto. È possibile che i talebani, "studenti di teologia", non abbiano mai letto il Corano (del resto un lettore della Bibbia può mettere in difficoltà un sacerdote in pochi secondi).
Tutto questo nostro passato, ricco di cultura e tradizioni, forse è solo frutto della nostra immaginazione.
Questa è la strana storia dei finti cripto-ebrei del Nuovo Messico.
I cripto-ebrei sarebbero gli ebrei spagnoli che avevano conservato clandestinamente le tradizioni e la religione originaria anche dopo le conversioni forzate al cristianesimo, volute dalla corona di Spagna. Nessuno dubita che cripto-ebrei ce ne siano stati veramente, anche a prescindere dalle paranoiche 'cacce all'ebreo' scatenate dall'Inquisizione spagnola in tutti i territori del re cattolicissimo.
Tra questi territori c'era anche il Nuovo Messico, oggi uno dei 50 Stati Uniti d'America. È lì che all'inizio degli anni Ottanta lo storico Stanley Hordes, intrigato dalla presenza della stella di David su alcune lapidi, scopre le tracce di un'antica comunità cripto-ebraica, e individua addirittura gli eredi viventi dei cripto-ebrei. Come scrive Marco D'Eramo
Man mano che le sue ricerche si venivano a sapere, spontaneamente gli si presentavano persone che testimoniavano: "Quel tale è ebreo perché..." o altre che ricostruivano alcuni lati oscuri della propria infanzia e nell'ebraismo nascosto dei propri genitori scoprivano la ragione per cui da piccoli non erano stati mai a messa o non avevano mai mangiato maiale.
La cosa attira naturalmente l'attenzione della comunità ebraica statunitense (stavo per dire "della potente lobby ebraica statunitense", ma diavolo, sempre con questi luoghi comuni e anche un po' antisemiti…). Vengono raccolte testimonianze, girati documentari… nel frattempo gli eredi dei criptoebrei, riscoperta la loro cultura, iniziano a convertirsi, a circoncidersi, a compiere viaggi in Israele. In breve innalzano anche una sinagoga.
Nel frattempo la storia del cripto-ebraismo si sgonfia. Un'altra ricercatrice, Judith Neulander, esamina tutte le ingegnose prove escogitate da Hordes e le confuta, una ad una. La presunta antica comunità cripto-ebraica si rivela essere una non meno curiosa comunità protestante, di origine avventista, arrivata nel New Mexico dal Midwest. La stella di David e i nomi ebraici erano parte integrante del folklore di questa setta che si riteneva una delle tribù perse d'Israele.
La domanda che sorge spontanea è: cosa faranno quei poveri cripto-ebrei che nella scoperta del loro cripto-ebraismo avevano magari trovato un senso alla loro esistenza? Si convertiranno daccapo alla Chiesa del Settimo Giorno? Se, come pare, qualcuno ha già trovato la ragazza in Israele, è un po' troppo tardi per riconoscere che le proprie radici sono frutto di un malinteso.
La storia degli pseudo-cripto-ebrei c'insegna qualcosa? A non prendere troppo sul serio le identità culturali? A non sentirsi sulle spalle secoli di Storia? Invece di rimproverarci le frustrazioni di un'educazione cattolica bimillenaria, potremmo accorgerci che il nostro presunto retaggio culturale non va più indietro del Concilio Vaticano II, e che tutto quello che c'è stato prima ci è altrettanto estraneo dei misteriosi cripto-ebrei – ma forse dovremmo concludere che ne sappiamo veramente poco, sulla Storia e su di noi… l'articolo di marco D'Eramo sul caso dei cripto-ebrei è comparso mercoledì sul Manifesto. Una ricostruzione appassionante (ma in inglese), è sul numero del Dicembre 2000 di Atlantic on Line.
Chi cerca un'identità guarda spesso al passato. Tutti noi, anche se poveri, ci crediamo almeno gli eredi di una tradizione, di una cultura. Se ci fosse richiesto di definirla ci troveremmo in difficoltà. Se ci fosse chiesto un documento scritto, citeremmo poderosi volumi che probabilmente non abbiamo mai letto. È possibile che i talebani, "studenti di teologia", non abbiano mai letto il Corano (del resto un lettore della Bibbia può mettere in difficoltà un sacerdote in pochi secondi).
Tutto questo nostro passato, ricco di cultura e tradizioni, forse è solo frutto della nostra immaginazione.
Questa è la strana storia dei finti cripto-ebrei del Nuovo Messico.
I cripto-ebrei sarebbero gli ebrei spagnoli che avevano conservato clandestinamente le tradizioni e la religione originaria anche dopo le conversioni forzate al cristianesimo, volute dalla corona di Spagna. Nessuno dubita che cripto-ebrei ce ne siano stati veramente, anche a prescindere dalle paranoiche 'cacce all'ebreo' scatenate dall'Inquisizione spagnola in tutti i territori del re cattolicissimo.
Tra questi territori c'era anche il Nuovo Messico, oggi uno dei 50 Stati Uniti d'America. È lì che all'inizio degli anni Ottanta lo storico Stanley Hordes, intrigato dalla presenza della stella di David su alcune lapidi, scopre le tracce di un'antica comunità cripto-ebraica, e individua addirittura gli eredi viventi dei cripto-ebrei. Come scrive Marco D'Eramo
Man mano che le sue ricerche si venivano a sapere, spontaneamente gli si presentavano persone che testimoniavano: "Quel tale è ebreo perché..." o altre che ricostruivano alcuni lati oscuri della propria infanzia e nell'ebraismo nascosto dei propri genitori scoprivano la ragione per cui da piccoli non erano stati mai a messa o non avevano mai mangiato maiale.
La cosa attira naturalmente l'attenzione della comunità ebraica statunitense (stavo per dire "della potente lobby ebraica statunitense", ma diavolo, sempre con questi luoghi comuni e anche un po' antisemiti…). Vengono raccolte testimonianze, girati documentari… nel frattempo gli eredi dei criptoebrei, riscoperta la loro cultura, iniziano a convertirsi, a circoncidersi, a compiere viaggi in Israele. In breve innalzano anche una sinagoga.
Nel frattempo la storia del cripto-ebraismo si sgonfia. Un'altra ricercatrice, Judith Neulander, esamina tutte le ingegnose prove escogitate da Hordes e le confuta, una ad una. La presunta antica comunità cripto-ebraica si rivela essere una non meno curiosa comunità protestante, di origine avventista, arrivata nel New Mexico dal Midwest. La stella di David e i nomi ebraici erano parte integrante del folklore di questa setta che si riteneva una delle tribù perse d'Israele.
La domanda che sorge spontanea è: cosa faranno quei poveri cripto-ebrei che nella scoperta del loro cripto-ebraismo avevano magari trovato un senso alla loro esistenza? Si convertiranno daccapo alla Chiesa del Settimo Giorno? Se, come pare, qualcuno ha già trovato la ragazza in Israele, è un po' troppo tardi per riconoscere che le proprie radici sono frutto di un malinteso.
La storia degli pseudo-cripto-ebrei c'insegna qualcosa? A non prendere troppo sul serio le identità culturali? A non sentirsi sulle spalle secoli di Storia? Invece di rimproverarci le frustrazioni di un'educazione cattolica bimillenaria, potremmo accorgerci che il nostro presunto retaggio culturale non va più indietro del Concilio Vaticano II, e che tutto quello che c'è stato prima ci è altrettanto estraneo dei misteriosi cripto-ebrei – ma forse dovremmo concludere che ne sappiamo veramente poco, sulla Storia e su di noi… l'articolo di marco D'Eramo sul caso dei cripto-ebrei è comparso mercoledì sul Manifesto. Una ricostruzione appassionante (ma in inglese), è sul numero del Dicembre 2000 di Atlantic on Line.
giovedì 15 marzo 2001
Annuncio
L'associazione Going to Europe di Modena ricerca no.1 "operatori europei", per impiego apparentemente part-time di tutor di volontari europei e progettista di progetti di volontariato europeo, a partire dal settembre 2001.
Requisiti richiesti:
– Buona conoscenza del programma SVE (Servizio Volontario Europeo).
– Spiccata predisposizione ai rapporti impersonali.
– Conoscenza di alcune Lingue europee (Inglese almeno scritto)
– Essere automuniti è praticamente necessario. Essere internetmuniti è fortemente consigliato.
– Esperienze in realtà di volontariato.
Going to Europe è l'associazione dei ex volontari europei di Modena. Dall'anno scorso cura i progetti SVE in città, sia per quanto riguarda l'invio (giovani modenesi che soggiornano 6-12 mesi in uno dei Paesi dell'Unione) che nel settore accoglienza (giovani provenienti da Paesi dell'Unione che soggiornano 6 mesi nella nostra ridente città).
L'operatore richiesto dovrebbe lavorare nel settore accoglienza. Le sue due principali aree d'intervento sono:
1. Creazione di progetti di accoglienza a Modena. (Prendere dunque contatti con associazioni o enti locali interessati al programma SVE, e assolvere per loro a tutti gli aspetti burocratici e organizzativi, compreso il 'reclutamento' del volontario.
2. Tutoraggio dei volontari europei accolti a Modena.
Lavoro, come si vede, ce n'è, forse anche da tempo pieno. Ma il compenso è piuttosto da part-time. Gli interessati mi contattino pure – l'indirizzo è sempre qui di fianco.
L'associazione Going to Europe di Modena ricerca no.1 "operatori europei", per impiego apparentemente part-time di tutor di volontari europei e progettista di progetti di volontariato europeo, a partire dal settembre 2001.
Requisiti richiesti:
– Buona conoscenza del programma SVE (Servizio Volontario Europeo).
– Spiccata predisposizione ai rapporti impersonali.
– Conoscenza di alcune Lingue europee (Inglese almeno scritto)
– Essere automuniti è praticamente necessario. Essere internetmuniti è fortemente consigliato.
– Esperienze in realtà di volontariato.
Going to Europe è l'associazione dei ex volontari europei di Modena. Dall'anno scorso cura i progetti SVE in città, sia per quanto riguarda l'invio (giovani modenesi che soggiornano 6-12 mesi in uno dei Paesi dell'Unione) che nel settore accoglienza (giovani provenienti da Paesi dell'Unione che soggiornano 6 mesi nella nostra ridente città).
L'operatore richiesto dovrebbe lavorare nel settore accoglienza. Le sue due principali aree d'intervento sono:
1. Creazione di progetti di accoglienza a Modena. (Prendere dunque contatti con associazioni o enti locali interessati al programma SVE, e assolvere per loro a tutti gli aspetti burocratici e organizzativi, compreso il 'reclutamento' del volontario.
2. Tutoraggio dei volontari europei accolti a Modena.
Lavoro, come si vede, ce n'è, forse anche da tempo pieno. Ma il compenso è piuttosto da part-time. Gli interessati mi contattino pure – l'indirizzo è sempre qui di fianco.
mercoledì 14 marzo 2001
Faccia da moderato
Sarà per come mi vesto, o magari proprio per la faccia che porto, fatto sta che passo per moderato, e alla mia età non è un bel vivere.
Certe sere che la stanchezza, l'alcool forse, allentano i freni alla dialettica, sento che mi si rinfacciano cose tremende. Qualche settimana fa sono stato accusato di avere ripetutamente bombardato Belgrado. I proiettili all'uranio, li ho sparati tutti io. Ho anche venduto la scuola ai privati. Cioè ai cattolici. Cioè a me stesso, perché è questo che sono alla fine: un cattolico, e pure moderato.
Io non posso obiettare granché. Una volta tra moderati ci si difendeva dicendo: abbiamo eseguito gli ordini, ma io non ho ricevuto nessun ordine. Forse avrei dovuto ribellarmi contro questo intollerabile regime moderato, come hanno fatto in molti, e come immagino che molti vorranno fare il 13 maggio.
E invece no. Sangue moderato, voterò Rutelli e spero pure che vinca, e se perderà soffrirò molto.
Secondo me l'espressione 'centrosinistra' è un po' fuorviante. Non ci sono mai stati i numeri per un governo di centrosinistra in Italia. Dipendesse da me, certamente vorrei un governo di centrosinistra, ma che dico, di sinistra avanzata. Vorrei anche un mondo più giusto, più libero, più pulito. Sì. Comunque non ci sono mai stati i numeri per un governo di centrosinistra in Italia. Questa è la mia moderata opinione.
Quando nel '95-'96 nacque l'Ulivo, fu chiaro sin da subito che non si trattava del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, bensì di un raggruppamento civile di partiti e gruppi, con storie e punti di vista anche molto diversi, scesi a patti contro i nemici comuni: il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi. Non è mai stato il centrosinistra contro il centrodestra, ma piuttosto la società civile contro la società non civile, e la civiltà ha vinto. Di misura, d'accordo. Però ha vinto.
In quella società civile c'era l'antico PDS, i Verdi e (in una posizione defilata, "mi si nota di più se non vengo"), Rifondazione Comunista. Ma c'era anche il partito di Lamberto Dini, ex ministro del tesoro di Berlusconi, contro la cui riforma pensionistica la sinistra aveva scatenato la più memorabile manifestazione degli anni '90. C'era il Partito Popolare che era in perfetta continuità storica con la corrente della sinistra DC. A un certo punto c'è stato anche Antonio Di Pietro. Infine, il candidato dell'Ulivo era Romano Prodi, un ex boiardo di Stato, che non aveva mai tirato nessuna molotov, neanche nella beata giovinezza. Tutti noi sapevamo questo. E tuttavia abbiamo votato per l'Ulivo. Per mandare a casa il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi.
Poi – finché è durata – è stata una gradita sorpresa. Fino all'autunno del '98 abbiamo avuto un governo più "di sinistra" di quanto avremmo potuto ragionevolmente aspettarci. La famosa scuola pubblica non è stata svenduta in quegli anni, per intenderci. Ma poi Rifondazione ha chiesto la crisi. E nessuno ha ancora capito il perché. Forse pensava che con D'Alema avrebbe avuto un interlocutore "di sinistra". È stato un tragico errore.
Da lì in poi, se vogliamo rinfrescarci la memoria, i governi si sono tenuti in piedi con personaggi come Cossiga e Mastella. Rifondazione si è spaccata. I popolari si sono spaccati. I ministri riformisti di Prodi sono stati allontanati. E c'è stato anche il caso del Kossovo, in cui l'Italia, in quanto membro della NATO, si è ritrovata invischiata in un'operazione militare assai discutibile. D'altro canto l'unica formazione politica che metteva in discussione l'alleanza con la Nato, Rifondazione, aveva già scelto da tempo la propria emarginazione politica.
Le cose sono andate così, e forse alla fine Rutelli non è il candidato più simpatico del mondo. Ma nel 2001 rischiano di andare al potere: il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi (e il mafioso Formigoni), per cui a me la scelta sembra scontata.
Qualcuno la penserà diversamente. Penserà che nel '96 avevamo votato un governo "di sinistra", che però ha tradito "la sinistra" perché non ha fatto cose abbastanza di "sinistra", perciò Rifondazione, che è la vera "sinistra", giustamente si è dissociata, e quel che conta, ora, è iniziare una vera discussione "a sinistra", perché in lontano futuro possa esserci in Italia una "sinistra" degna di questo nome.
Io, sarà per la faccia da moderato che mi trovo, ma non credo sia necessario sacrificare la società civile e consegnare l'Italia a Berlusconi per trovare significato alla parola "sinistra". Ci stiamo per giocare qualcosa di più di una parola, di una cultura, di un'identità. E poi forse la parole, le culture, le identità… non sono così importanti.
Sarà per come mi vesto, o magari proprio per la faccia che porto, fatto sta che passo per moderato, e alla mia età non è un bel vivere.
Certe sere che la stanchezza, l'alcool forse, allentano i freni alla dialettica, sento che mi si rinfacciano cose tremende. Qualche settimana fa sono stato accusato di avere ripetutamente bombardato Belgrado. I proiettili all'uranio, li ho sparati tutti io. Ho anche venduto la scuola ai privati. Cioè ai cattolici. Cioè a me stesso, perché è questo che sono alla fine: un cattolico, e pure moderato.
Io non posso obiettare granché. Una volta tra moderati ci si difendeva dicendo: abbiamo eseguito gli ordini, ma io non ho ricevuto nessun ordine. Forse avrei dovuto ribellarmi contro questo intollerabile regime moderato, come hanno fatto in molti, e come immagino che molti vorranno fare il 13 maggio.
E invece no. Sangue moderato, voterò Rutelli e spero pure che vinca, e se perderà soffrirò molto.
Secondo me l'espressione 'centrosinistra' è un po' fuorviante. Non ci sono mai stati i numeri per un governo di centrosinistra in Italia. Dipendesse da me, certamente vorrei un governo di centrosinistra, ma che dico, di sinistra avanzata. Vorrei anche un mondo più giusto, più libero, più pulito. Sì. Comunque non ci sono mai stati i numeri per un governo di centrosinistra in Italia. Questa è la mia moderata opinione.
Quando nel '95-'96 nacque l'Ulivo, fu chiaro sin da subito che non si trattava del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, bensì di un raggruppamento civile di partiti e gruppi, con storie e punti di vista anche molto diversi, scesi a patti contro i nemici comuni: il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi. Non è mai stato il centrosinistra contro il centrodestra, ma piuttosto la società civile contro la società non civile, e la civiltà ha vinto. Di misura, d'accordo. Però ha vinto.
In quella società civile c'era l'antico PDS, i Verdi e (in una posizione defilata, "mi si nota di più se non vengo"), Rifondazione Comunista. Ma c'era anche il partito di Lamberto Dini, ex ministro del tesoro di Berlusconi, contro la cui riforma pensionistica la sinistra aveva scatenato la più memorabile manifestazione degli anni '90. C'era il Partito Popolare che era in perfetta continuità storica con la corrente della sinistra DC. A un certo punto c'è stato anche Antonio Di Pietro. Infine, il candidato dell'Ulivo era Romano Prodi, un ex boiardo di Stato, che non aveva mai tirato nessuna molotov, neanche nella beata giovinezza. Tutti noi sapevamo questo. E tuttavia abbiamo votato per l'Ulivo. Per mandare a casa il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi.
Poi – finché è durata – è stata una gradita sorpresa. Fino all'autunno del '98 abbiamo avuto un governo più "di sinistra" di quanto avremmo potuto ragionevolmente aspettarci. La famosa scuola pubblica non è stata svenduta in quegli anni, per intenderci. Ma poi Rifondazione ha chiesto la crisi. E nessuno ha ancora capito il perché. Forse pensava che con D'Alema avrebbe avuto un interlocutore "di sinistra". È stato un tragico errore.
Da lì in poi, se vogliamo rinfrescarci la memoria, i governi si sono tenuti in piedi con personaggi come Cossiga e Mastella. Rifondazione si è spaccata. I popolari si sono spaccati. I ministri riformisti di Prodi sono stati allontanati. E c'è stato anche il caso del Kossovo, in cui l'Italia, in quanto membro della NATO, si è ritrovata invischiata in un'operazione militare assai discutibile. D'altro canto l'unica formazione politica che metteva in discussione l'alleanza con la Nato, Rifondazione, aveva già scelto da tempo la propria emarginazione politica.
Le cose sono andate così, e forse alla fine Rutelli non è il candidato più simpatico del mondo. Ma nel 2001 rischiano di andare al potere: il separatista e xenofobo Bossi, il postfascista Fini, il ladro Berlusconi (e il mafioso Formigoni), per cui a me la scelta sembra scontata.
Qualcuno la penserà diversamente. Penserà che nel '96 avevamo votato un governo "di sinistra", che però ha tradito "la sinistra" perché non ha fatto cose abbastanza di "sinistra", perciò Rifondazione, che è la vera "sinistra", giustamente si è dissociata, e quel che conta, ora, è iniziare una vera discussione "a sinistra", perché in lontano futuro possa esserci in Italia una "sinistra" degna di questo nome.
Io, sarà per la faccia da moderato che mi trovo, ma non credo sia necessario sacrificare la società civile e consegnare l'Italia a Berlusconi per trovare significato alla parola "sinistra". Ci stiamo per giocare qualcosa di più di una parola, di una cultura, di un'identità. E poi forse la parole, le culture, le identità… non sono così importanti.
martedì 13 marzo 2001
Because the night belongs to us
C'è vita oltre Ghezzi?
[continua da ieri]
"Ma no, dai, sul serio, da quanto tempo è lì?"
Nessuno di noi ha memoria di un'era televisiva priva di Ghezzi. Io, che nel gruppo sono il più vecchio, rammento vagamente di un periodo in cui Ghezzi c'era già, ma sembrava una cosa originale… forse era arrivato da poco… o forse ero giovane io, e ogni colore aveva uno smalto più vivido… ma tipo 15 anni fa.
Nel frattempo è caduto il muro di Berlino, non esiste più l'Unione Sovietica, gli USA hanno avuto altri due presidenti, gli italiani hanno combattuto in Iraq, in Somalia, in Kossovo, e forse mi sto scordando qualcosa. Il PCI non esiste più, e al tempo era l'azionista di riferimento di Rai 3, che era chiamata TeleKabul, e nel frattempo anche a Kabul si sono susseguiti tre o quattro regimi diversi. Tutto scorre. Ma Enrico Ghezzi?
Forse è sempre stato lì – una specie di monolito nero. È lì dal principio dei tempi, ma l'uomo lo scopre soltanto quando inizia a esplorare la luna (noi scopriamo Ghezzi soltanto quando iniziamo a esplorare la tv notturna). Nessuno sa cosa voglia veramente dire, ma ha un certo fascino, causato forse dall'immobilità.
Un'altra teoria interessante è che Ghezzi viva in una dimensione temporale differente dalla nostra (più lenta). Per noi sono passati quindici anni, ma per lui molti meno, magari una mezza giornata. Questo spiegherebbe il problema del fuori sincrono: in realtà quelle che ascoltiamo sono le sue registrazioni accelerate, quindici minuti di Ghezzi corrispondendo a intere stagioni di noi mortali. Spiegherebbe anche perché Ghezzi, che a memoria d'uomo ha sempre avuto pochi capelli, quei pochi che ha non li ha mai persi...
Lo stesso si potrebbe ipotizzare per Marzullo (che capelli ne ha tanti, ma sempre gli stessi...)
C'è vita oltre Ghezzi?
[continua da ieri]
"Ma no, dai, sul serio, da quanto tempo è lì?"
Nessuno di noi ha memoria di un'era televisiva priva di Ghezzi. Io, che nel gruppo sono il più vecchio, rammento vagamente di un periodo in cui Ghezzi c'era già, ma sembrava una cosa originale… forse era arrivato da poco… o forse ero giovane io, e ogni colore aveva uno smalto più vivido… ma tipo 15 anni fa.
Nel frattempo è caduto il muro di Berlino, non esiste più l'Unione Sovietica, gli USA hanno avuto altri due presidenti, gli italiani hanno combattuto in Iraq, in Somalia, in Kossovo, e forse mi sto scordando qualcosa. Il PCI non esiste più, e al tempo era l'azionista di riferimento di Rai 3, che era chiamata TeleKabul, e nel frattempo anche a Kabul si sono susseguiti tre o quattro regimi diversi. Tutto scorre. Ma Enrico Ghezzi?
Forse è sempre stato lì – una specie di monolito nero. È lì dal principio dei tempi, ma l'uomo lo scopre soltanto quando inizia a esplorare la luna (noi scopriamo Ghezzi soltanto quando iniziamo a esplorare la tv notturna). Nessuno sa cosa voglia veramente dire, ma ha un certo fascino, causato forse dall'immobilità.
Un'altra teoria interessante è che Ghezzi viva in una dimensione temporale differente dalla nostra (più lenta). Per noi sono passati quindici anni, ma per lui molti meno, magari una mezza giornata. Questo spiegherebbe il problema del fuori sincrono: in realtà quelle che ascoltiamo sono le sue registrazioni accelerate, quindici minuti di Ghezzi corrispondendo a intere stagioni di noi mortali. Spiegherebbe anche perché Ghezzi, che a memoria d'uomo ha sempre avuto pochi capelli, quei pochi che ha non li ha mai persi...
Lo stesso si potrebbe ipotizzare per Marzullo (che capelli ne ha tanti, ma sempre gli stessi...)
lunedì 12 marzo 2001
Fuori i corto, il giorno dopo
(appunti in dissolvenza incrociata)
Stamattina sotto la doccia ho avuto l'illuminazione: il corto brevissimo, tutto traffico accelerato ambientato in Veneto (si capiva che era il Veneto dalle targhe Treviso) e una voce incazzata fuori campo, e la carrellata finale in un supermarket, forse parlava di Unabomber.
Di colpo mi è quasi piaciuto, anche se...
...per decreto, il bianco e nero è stato dichiarato più poetico dei colori, e ora non c'è niente che possiamo fare per evitare certe inquadrature poetiche da telecamera a circuito chiuso (almeno in tre corti su dieci). Dev'essere anche una forma di pudore nei confronti della realtà – e magari con certe handycam i colori vengono tanto male che…
...poi c'è il corto tutto sparatorie, inseguimenti e ostaggi ambientato a Pontassieve , che a un certo punto degrada in un lentissimo primo piano al rapinatore, che visibilmente non sa più che fare, ma non si capisce se non sappia cosa fare in quanto rapinatore intrappolato in una sala congressi o in quanto regista e interprete principale intrappolato in un cortometraggio involuto. Si sfila la pistola, s'infila la pistola, guarda la ragazza, che guaio, diomio in che guaio mi sono cacciato...
(A me sta bene mettere la telecamera in mano a un minorato: perché però inquadrarlo con un'altra telecamera?)
...ma è consolante pensare che se si ha davvero una storia da raccontare, anche i filmini delle vacanze, girati e montati alla benemeglio, possono diventare stupendi...
...A un certo punto c'è un tale che parla dei cazzisuoi fuori sincrono. "Questa è vecchia", pensiamo, "va' là, buffone…"; poi tornando a casa c'imbattiamo in un messaggio alla nazione di Ghezzi e ci chiediamo, forse per la prima volta nella vita:
C'è vita oltre Ghezzi?
[continua]
(appunti in dissolvenza incrociata)
Stamattina sotto la doccia ho avuto l'illuminazione: il corto brevissimo, tutto traffico accelerato ambientato in Veneto (si capiva che era il Veneto dalle targhe Treviso) e una voce incazzata fuori campo, e la carrellata finale in un supermarket, forse parlava di Unabomber.
Di colpo mi è quasi piaciuto, anche se...
...per decreto, il bianco e nero è stato dichiarato più poetico dei colori, e ora non c'è niente che possiamo fare per evitare certe inquadrature poetiche da telecamera a circuito chiuso (almeno in tre corti su dieci). Dev'essere anche una forma di pudore nei confronti della realtà – e magari con certe handycam i colori vengono tanto male che…
...poi c'è il corto tutto sparatorie, inseguimenti e ostaggi ambientato a Pontassieve , che a un certo punto degrada in un lentissimo primo piano al rapinatore, che visibilmente non sa più che fare, ma non si capisce se non sappia cosa fare in quanto rapinatore intrappolato in una sala congressi o in quanto regista e interprete principale intrappolato in un cortometraggio involuto. Si sfila la pistola, s'infila la pistola, guarda la ragazza, che guaio, diomio in che guaio mi sono cacciato...
(A me sta bene mettere la telecamera in mano a un minorato: perché però inquadrarlo con un'altra telecamera?)
...ma è consolante pensare che se si ha davvero una storia da raccontare, anche i filmini delle vacanze, girati e montati alla benemeglio, possono diventare stupendi...
...A un certo punto c'è un tale che parla dei cazzisuoi fuori sincrono. "Questa è vecchia", pensiamo, "va' là, buffone…"; poi tornando a casa c'imbattiamo in un messaggio alla nazione di Ghezzi e ci chiediamo, forse per la prima volta nella vita:
C'è vita oltre Ghezzi?
[continua]
venerdì 9 marzo 2001
Quando è ormai il fine settimana, e non vale la pena di iniziare qualche cosa, ma d'altronde senza cliccare il cliccatore si annoia, che si fa?
Si va nel sito del Manifesto. Li si trova sempre qualcosa di edificante.
Ieri per esempio ho trovato una recensione di certo Roberto Silvestri su La stanza del figlio di Nanni Moretti, di cui riporto un memorabile stralcio:
Più che la stanza, l'astanza, l'avrebbe chiamata Cesare Brandi, il contrario della realtà nella sua flagranza, preconscio e subconscio compresi. Niente naturalismo né realismo né surrealismo, né iper-realismo. E' mistero morettiano. E poi è il nono film e mezzo di Moretti (c'è un bacio vero, e un inizio di nudo di Laura Morante), il regista bradipo del cinema mondiale... Ma. Se a 15 anni avessi chiesto ai miei: "posso fare il sub?" mi avrebbero mandato a quel paese. Per chi abita nelle città di mare, le prospettive, però, son diverse […]
Certo, stralciare in questo modo non rende onore a una recensione che si prolunga per quasi 8000 caratteri, una monografia quasi (un'arecensione, direbbe Vittorio Panzana). Anche la chiusa, per esempio, è memorabile:
Andrea morendo indica una strada più misteriosa e sottomarina. E mette in guardia da una vita-fotocopia del contratto di Ancellotti: no alla vita agganciata alla produttività.
Ancellotti è il famoso allenatore della Juventus, ma forse il lettore medio ignora i termini del suo celebre contratto. Tanto peggio per lui, che pensa di poter arrivare alla pagina del cinema saltando le fondamentali rubriche sportive. La morale è: ci sono cose peggiori della morte, tipo i contratti a rendimento. Voi del resto ve li immaginate, i critici cinematografici del Manifesto con contratti a rendimento? Un tanto a battuta? Tantovale morire, in effetti.
Credo comunque che volesse dire che il film gli era piaciuto, che secondo lui valeva la pena di andarlo a vedere. Però… non so… ormai la trama me l'ha raccontata… mah.
Gli esilaranti calembour del Manifesto
Ma quel che mi rende ogni volta pieno di ammirazione è la capacità dei redattori del prestigioso quotidiano di saper riassumere tutti i fatti, i drammi e le tragedie del giorno, in sapienti giochi di parole, che strappano il sorriso del lettore nel mentre che lo educano a una visione più disincantata della realtà. Vediamo il titolone di oggi (venerdì). Salto Nel Voto. Mah. Non male, ma hanno fatto di meglio.
È difficile capire il perché, ma mi sembra di notare che l'estro dei redattori dia il meglio di sé in occasione di eventi luttuosi o catastrofici. Questa settimana abbiamo due o tre perle da mostrare:
Muore la scrittrice Luce d'Eramo: Una vita piena di Luce. (Un classico, ma funziona sempre).
Si diffonde il virus dell'afta epizotica, terribile per gli animali e i loro allevatori: Afta Siempre.
E (come in un crescendo wagneriano), così viene commentata la peggiore tragedia della settimana, il rogo di 41 bambini cinesi in una scuola (lavoravano alla preparazione di fuochi artificiali): Cina, pirotecnici compiti in classe.
Haaa haaa haaaa. Certo, detti a voce o anche riportati qui, estrapolati dal contesto, questi sapienti calembour perdono un po' del loro smalto, e diciamolo, non fanno così tanto ridere. Fanno però senz'altro meditare con maggiore lucidità sugli orrori del nostro quotidiano. Le smorfie che ci strappano sono l'espressione della nostra intelligenza critica. Afta siempre allevatori. Oggi è mancata la Luce. La classe… operaia va in paradiso. Heee heee heeee.
Si va nel sito del Manifesto. Li si trova sempre qualcosa di edificante.
Ieri per esempio ho trovato una recensione di certo Roberto Silvestri su La stanza del figlio di Nanni Moretti, di cui riporto un memorabile stralcio:
Più che la stanza, l'astanza, l'avrebbe chiamata Cesare Brandi, il contrario della realtà nella sua flagranza, preconscio e subconscio compresi. Niente naturalismo né realismo né surrealismo, né iper-realismo. E' mistero morettiano. E poi è il nono film e mezzo di Moretti (c'è un bacio vero, e un inizio di nudo di Laura Morante), il regista bradipo del cinema mondiale... Ma. Se a 15 anni avessi chiesto ai miei: "posso fare il sub?" mi avrebbero mandato a quel paese. Per chi abita nelle città di mare, le prospettive, però, son diverse […]
Certo, stralciare in questo modo non rende onore a una recensione che si prolunga per quasi 8000 caratteri, una monografia quasi (un'arecensione, direbbe Vittorio Panzana). Anche la chiusa, per esempio, è memorabile:
Andrea morendo indica una strada più misteriosa e sottomarina. E mette in guardia da una vita-fotocopia del contratto di Ancellotti: no alla vita agganciata alla produttività.
Ancellotti è il famoso allenatore della Juventus, ma forse il lettore medio ignora i termini del suo celebre contratto. Tanto peggio per lui, che pensa di poter arrivare alla pagina del cinema saltando le fondamentali rubriche sportive. La morale è: ci sono cose peggiori della morte, tipo i contratti a rendimento. Voi del resto ve li immaginate, i critici cinematografici del Manifesto con contratti a rendimento? Un tanto a battuta? Tantovale morire, in effetti.
Credo comunque che volesse dire che il film gli era piaciuto, che secondo lui valeva la pena di andarlo a vedere. Però… non so… ormai la trama me l'ha raccontata… mah.
Gli esilaranti calembour del Manifesto
Ma quel che mi rende ogni volta pieno di ammirazione è la capacità dei redattori del prestigioso quotidiano di saper riassumere tutti i fatti, i drammi e le tragedie del giorno, in sapienti giochi di parole, che strappano il sorriso del lettore nel mentre che lo educano a una visione più disincantata della realtà. Vediamo il titolone di oggi (venerdì). Salto Nel Voto. Mah. Non male, ma hanno fatto di meglio.
È difficile capire il perché, ma mi sembra di notare che l'estro dei redattori dia il meglio di sé in occasione di eventi luttuosi o catastrofici. Questa settimana abbiamo due o tre perle da mostrare:
Muore la scrittrice Luce d'Eramo: Una vita piena di Luce. (Un classico, ma funziona sempre).
Si diffonde il virus dell'afta epizotica, terribile per gli animali e i loro allevatori: Afta Siempre.
E (come in un crescendo wagneriano), così viene commentata la peggiore tragedia della settimana, il rogo di 41 bambini cinesi in una scuola (lavoravano alla preparazione di fuochi artificiali): Cina, pirotecnici compiti in classe.
Haaa haaa haaaa. Certo, detti a voce o anche riportati qui, estrapolati dal contesto, questi sapienti calembour perdono un po' del loro smalto, e diciamolo, non fanno così tanto ridere. Fanno però senz'altro meditare con maggiore lucidità sugli orrori del nostro quotidiano. Le smorfie che ci strappano sono l'espressione della nostra intelligenza critica. Afta siempre allevatori. Oggi è mancata la Luce. La classe… operaia va in paradiso. Heee heee heeee.
Si parlava di valori (appunti)
– Ieri si parlava di "valori", si notava come la parola si sia imposta soltanto verso la fine degli anni Ottanta (subentrando a "ideali") e si proponeva questa definizione: i valori sono ciò che abbiamo la paura di avere già perso. (Nelle vicinanze di valori però si trovano spesso verbi col prefisso ri-: "riappropiarsi", "riscoprire"…). Gli "ideali", invece, si "tradivano", si "rinnegavano".
– Si parla di valori sempre al plurale: li si proclama per enumerazione, con coordinazioni copulative: mai avversative o disgiuntive. Non si sceglie un valore piuttosto di un altro. Non esistono valori contrapposti (a differenza degli ideali). I valori sono tanti (il plurale è fondamentale) e vanno presi tutti in blocco.
– Il primo è quasi sempre la famiglia. A volte non si sa andare avanti.
– La radice economica della parola è fuori discussione: talmente evidente da passare inosservata. Anni fa Rai Uno fece un programma sull'argomento (Frajese conduttore) e lo intitolò: "Borsa Valori": voleva essere un simpatico gioco di parole, era un lapsus colossale. Tipico esempio di una parola che torna su sé stessa e non si riconosce. Crediamo di parlare di famiglia, fraternità, amore... in realtà parliamo di soldi. Oppure: vorremmo parlare di famiglia, maternità, e amore... ma le uniche parole che ci sono rimaste sono le parole dei soldi.
– Per acquisire i suoi ideali, l'idealista (che non era una persona qualunque) doveva apprenderli da qualche parte: da un buon/cattivo maestro, a scuola, in chiesa, in strada, in guerra, in fabbrica, leggendo libri. Non esiste invece una vera e propria letteratura sui valori. Un po' come un certo concetto di cultura, di cui parlavamo qualche settimana fa, i valori sono probabilmente acquisiti alla nascita: infatti, a differenza degli ideali, tutti avevamo in partenza i nostri bravi valori - o se non noi, i nostri genitori e nonni. E qui casca l'asino: se nasco italiano, avrò determinati valori; se invece nasco in Birmania… ecc.. Ma siccome io i miei valori li sto perdendo (per definizione), sto anche perdendo la mia identità, la mia cultura. (Ma per fortuna posso riscoprirla, riappropriarmene).
– Ieri si parlava di "valori", si notava come la parola si sia imposta soltanto verso la fine degli anni Ottanta (subentrando a "ideali") e si proponeva questa definizione: i valori sono ciò che abbiamo la paura di avere già perso. (Nelle vicinanze di valori però si trovano spesso verbi col prefisso ri-: "riappropiarsi", "riscoprire"…). Gli "ideali", invece, si "tradivano", si "rinnegavano".
– Si parla di valori sempre al plurale: li si proclama per enumerazione, con coordinazioni copulative: mai avversative o disgiuntive. Non si sceglie un valore piuttosto di un altro. Non esistono valori contrapposti (a differenza degli ideali). I valori sono tanti (il plurale è fondamentale) e vanno presi tutti in blocco.
– Il primo è quasi sempre la famiglia. A volte non si sa andare avanti.
– La radice economica della parola è fuori discussione: talmente evidente da passare inosservata. Anni fa Rai Uno fece un programma sull'argomento (Frajese conduttore) e lo intitolò: "Borsa Valori": voleva essere un simpatico gioco di parole, era un lapsus colossale. Tipico esempio di una parola che torna su sé stessa e non si riconosce. Crediamo di parlare di famiglia, fraternità, amore... in realtà parliamo di soldi. Oppure: vorremmo parlare di famiglia, maternità, e amore... ma le uniche parole che ci sono rimaste sono le parole dei soldi.
– Per acquisire i suoi ideali, l'idealista (che non era una persona qualunque) doveva apprenderli da qualche parte: da un buon/cattivo maestro, a scuola, in chiesa, in strada, in guerra, in fabbrica, leggendo libri. Non esiste invece una vera e propria letteratura sui valori. Un po' come un certo concetto di cultura, di cui parlavamo qualche settimana fa, i valori sono probabilmente acquisiti alla nascita: infatti, a differenza degli ideali, tutti avevamo in partenza i nostri bravi valori - o se non noi, i nostri genitori e nonni. E qui casca l'asino: se nasco italiano, avrò determinati valori; se invece nasco in Birmania… ecc.. Ma siccome io i miei valori li sto perdendo (per definizione), sto anche perdendo la mia identità, la mia cultura. (Ma per fortuna posso riscoprirla, riappropriarmene).
giovedì 8 marzo 2001
Traffico di senso: la parola Valori
Il problema è che i giovani non hanno più valori. Abbiamo tutti perduto i nostri valori. L'espressione è talmente vulgata che sembra provenirci dalla notte dei tempi.
In realtà se ci mettessimo a studiare seriamente la ricorrenza della parola "valori", sospetto che rimarremmo sorpresi. Scopriremmo che fino a quindici-vent'anni fa, la parola non veniva adoperata in questo senso. Quello dei "valori" è un concetto recentissimo.
Questo non vuol dire che vent'anni fa non ci si lamentasse perché ai giovani mancava qualcosa. Si usavano però parole diverse. All'inizio degli anni Ottanta si sarebbe detto, per esempio:
Oggi i giovani son tutti uguali
Perché mancano gli ideali
(Edoardo Bennato, Tutti insieme lo denunciam)
Ecco uno spunto interessante: i valori sono subentrati agli ideali. Questo ci dà anche una possibile spiegazione, e uno spartiacque cronologico: alla fine del 1989 cade il muro di Berlino e cominciamo a sentirci dire che le ideologie sono tramontate. Evidentemente anche la parola ideali ha patito il colpo.
Non è stata una grandissima perdita. La parola conservava un dolciastro retrogusto romantico (per gli Ideali si fanno sempre le barricate), e una latente etimologia platonica (il mondo delle idee), che fa sì che il detentore di ideali debba sempre scontrarsi con la dura realtà.
La parola valori sembra meno sospetta. Ha un'aria pragmatica, concreta. La sua origine è tanto evidente, che nessuno ha mai pensato di rifletterci sopra. È un termine del lessico economico. Più chiaro di così…
I valori sono le cose che valgono. Più uno ha valori, più uno vale. Attenzione, però: i valori si possono anche perdere, ed è esattamente quello che stiamo facendo, sin dal momento in cui abbiamo iniziato a parlarne seriamente (1990): in pratica i valori sono "quello che rischiamo di perdere, o abbiamo già perso".
Insomma, ogni volta che parliamo di valori commettiamo un lapsus. Crediamo di parlare dell'amicizia, dell'amore , della solidarietà, di Dio, della Patria, della Famiglia… in realtà stiamo parlando di noi, della nostra ossessione di valere di più o di meno rispetto a ieri, rispetto a domani (rispetto ai giovani e rispetto agli anziani).
Il problema è che i giovani non hanno più valori. Abbiamo tutti perduto i nostri valori. L'espressione è talmente vulgata che sembra provenirci dalla notte dei tempi.
In realtà se ci mettessimo a studiare seriamente la ricorrenza della parola "valori", sospetto che rimarremmo sorpresi. Scopriremmo che fino a quindici-vent'anni fa, la parola non veniva adoperata in questo senso. Quello dei "valori" è un concetto recentissimo.
Questo non vuol dire che vent'anni fa non ci si lamentasse perché ai giovani mancava qualcosa. Si usavano però parole diverse. All'inizio degli anni Ottanta si sarebbe detto, per esempio:
Oggi i giovani son tutti uguali
Perché mancano gli ideali
(Edoardo Bennato, Tutti insieme lo denunciam)
Ecco uno spunto interessante: i valori sono subentrati agli ideali. Questo ci dà anche una possibile spiegazione, e uno spartiacque cronologico: alla fine del 1989 cade il muro di Berlino e cominciamo a sentirci dire che le ideologie sono tramontate. Evidentemente anche la parola ideali ha patito il colpo.
Non è stata una grandissima perdita. La parola conservava un dolciastro retrogusto romantico (per gli Ideali si fanno sempre le barricate), e una latente etimologia platonica (il mondo delle idee), che fa sì che il detentore di ideali debba sempre scontrarsi con la dura realtà.
La parola valori sembra meno sospetta. Ha un'aria pragmatica, concreta. La sua origine è tanto evidente, che nessuno ha mai pensato di rifletterci sopra. È un termine del lessico economico. Più chiaro di così…
I valori sono le cose che valgono. Più uno ha valori, più uno vale. Attenzione, però: i valori si possono anche perdere, ed è esattamente quello che stiamo facendo, sin dal momento in cui abbiamo iniziato a parlarne seriamente (1990): in pratica i valori sono "quello che rischiamo di perdere, o abbiamo già perso".
Insomma, ogni volta che parliamo di valori commettiamo un lapsus. Crediamo di parlare dell'amicizia, dell'amore , della solidarietà, di Dio, della Patria, della Famiglia… in realtà stiamo parlando di noi, della nostra ossessione di valere di più o di meno rispetto a ieri, rispetto a domani (rispetto ai giovani e rispetto agli anziani).
martedì 6 marzo 2001
Sangue in famiglia
Ora come avvoltoi giornalisti e altri esperti in sociologia spicciola accorrono sui luoghi dei delitti efferati, dando la colpa un po' a tutto e a tutti… ma è il caso di biasimarli?
Come i poveri preti, che anche nelle situazioni più disperate sono forzati a trovare parole di speranza, così il dovere d'ufficio impone agli editorialisti di trovare subito i colpevoli. Piuttosto che fra gli indiziati, sotto tutela degli avvocati, meglio cercare colpevole e movente fra "i mali della nostra società", sempre più disumana, priva di valori, ecc..
Ma non hanno tutti i torti. Quello che è successo a Novi Ligure sembra non essere un caso isolato. A parte i casi di emulazione degli ultimi giorni (un tempo c'erano epidemie di suicidi, oggi la rabbia è più estroversa), i delitti in famiglia sembrano essere aumentati del 100% negli ultimi anni. Una guerra tra generazioni.
Questo è interessante. I giovani assassini negli USA fanno stragi in classe, in Italia preferiscono la famiglia. È un'altra prova di quanto sia centrale la cellula famigliare nella nostra società. Che è una società dei consumi. Ma sempre più orientata al consumo giovanile. Quello dei ragazzini è il target più sotto tiro, nonostante i ragazzini siano sempre meno (questa è una cosa che non riesco a capire. Se davvero siamo il Paese più vecchio del mondo, dovremmo avere la tv piena di pubblicità di mutandoni di lana, e Nilla Pizzi trionfatrice a Sanremo, ma non è così. Perché?).
Forse in Italia soffriamo di una lieve schizofrenia. Diamo per scontato che il giovane debba vivere coi suoi per venti, trent'anni – finché non mette su famiglia a sua volta. Tuttavia è altrettanto scontato che sin da 14, 15 anni, lo stesso giovane debba consumare quanto e più di un adulto. Lasciamo per un attimo perdere la componente affettiva e chiediamoci: dove li trova i soldi? E se i genitori non ne guadagnano abbastanza?
Ora, se due coniugi vengono ai ferri corti possono divorziare. Ma un ragazzino che ritenga i suoi genitori inadatti al proprio stile di vita ha davanti a sé ancora cinque, dieci anni di convivenza.
Il professore di Padova ucciso dal proprio figlio per un voto falsificato avrebbe comprato l'auto al figlio soltanto dopo la laurea. Diciamo a 24, 25 anni. Questo non faceva di lui un padre-padrone, e tutto sommato i soldi erano suoi. Ma anch'io, la prima volta che ho saputo la notizia, ho pensato: che padre degenere. Negare al figlio il sacrosanto diritto all'automobile. Sul serio, per un attimo ho pensato a questo.
(D'altro canto è vero che costringere un figlio a prendere una laurea "per non deluderlo" può equivalere a tenerlo sequestrato in casa per cinque anni, con un doppio ricatto affettivo ed economico, e nessun genitore verrà mai accusato di plagio in questi casi).
Con questo, non voglio assolutamente giustificare gli assassinii in famiglia. Non voglio neanche dare la colpa alla società dei consumi. In effetti, cosa sto facendo? Forse anch'io, da sociologo spicciolo, in piena emulazione giornalistica, accorro sul luogo del delitto e reclamo la mia piccola stilla di sangue. Un avvoltoio no. Diciamo una fastidiosa zanzara.
Segnalo un articolo di Tahar Ben Jalloun – già collaboratore della prestigiosa rivista Energie Nuove – sulla demolizione dei Buddha afgani.
Ora come avvoltoi giornalisti e altri esperti in sociologia spicciola accorrono sui luoghi dei delitti efferati, dando la colpa un po' a tutto e a tutti… ma è il caso di biasimarli?
Come i poveri preti, che anche nelle situazioni più disperate sono forzati a trovare parole di speranza, così il dovere d'ufficio impone agli editorialisti di trovare subito i colpevoli. Piuttosto che fra gli indiziati, sotto tutela degli avvocati, meglio cercare colpevole e movente fra "i mali della nostra società", sempre più disumana, priva di valori, ecc..
Ma non hanno tutti i torti. Quello che è successo a Novi Ligure sembra non essere un caso isolato. A parte i casi di emulazione degli ultimi giorni (un tempo c'erano epidemie di suicidi, oggi la rabbia è più estroversa), i delitti in famiglia sembrano essere aumentati del 100% negli ultimi anni. Una guerra tra generazioni.
Questo è interessante. I giovani assassini negli USA fanno stragi in classe, in Italia preferiscono la famiglia. È un'altra prova di quanto sia centrale la cellula famigliare nella nostra società. Che è una società dei consumi. Ma sempre più orientata al consumo giovanile. Quello dei ragazzini è il target più sotto tiro, nonostante i ragazzini siano sempre meno (questa è una cosa che non riesco a capire. Se davvero siamo il Paese più vecchio del mondo, dovremmo avere la tv piena di pubblicità di mutandoni di lana, e Nilla Pizzi trionfatrice a Sanremo, ma non è così. Perché?).
Forse in Italia soffriamo di una lieve schizofrenia. Diamo per scontato che il giovane debba vivere coi suoi per venti, trent'anni – finché non mette su famiglia a sua volta. Tuttavia è altrettanto scontato che sin da 14, 15 anni, lo stesso giovane debba consumare quanto e più di un adulto. Lasciamo per un attimo perdere la componente affettiva e chiediamoci: dove li trova i soldi? E se i genitori non ne guadagnano abbastanza?
Ora, se due coniugi vengono ai ferri corti possono divorziare. Ma un ragazzino che ritenga i suoi genitori inadatti al proprio stile di vita ha davanti a sé ancora cinque, dieci anni di convivenza.
Il professore di Padova ucciso dal proprio figlio per un voto falsificato avrebbe comprato l'auto al figlio soltanto dopo la laurea. Diciamo a 24, 25 anni. Questo non faceva di lui un padre-padrone, e tutto sommato i soldi erano suoi. Ma anch'io, la prima volta che ho saputo la notizia, ho pensato: che padre degenere. Negare al figlio il sacrosanto diritto all'automobile. Sul serio, per un attimo ho pensato a questo.
(D'altro canto è vero che costringere un figlio a prendere una laurea "per non deluderlo" può equivalere a tenerlo sequestrato in casa per cinque anni, con un doppio ricatto affettivo ed economico, e nessun genitore verrà mai accusato di plagio in questi casi).
Con questo, non voglio assolutamente giustificare gli assassinii in famiglia. Non voglio neanche dare la colpa alla società dei consumi. In effetti, cosa sto facendo? Forse anch'io, da sociologo spicciolo, in piena emulazione giornalistica, accorro sul luogo del delitto e reclamo la mia piccola stilla di sangue. Un avvoltoio no. Diciamo una fastidiosa zanzara.
Segnalo un articolo di Tahar Ben Jalloun – già collaboratore della prestigiosa rivista Energie Nuove – sulla demolizione dei Buddha afgani.
lunedì 5 marzo 2001
Tutti fuori
Cosa fate domenica prossima?
Domenica sera non sarà la solita, terribile, domenica sera, con l'acido nello stomaco, i goal in tv, e gli allenatori sul latte versato. Domenica prossima presso la Sala Truffault si festeggia l'imperdibile III edizione di Fuori i corto, rassegna di cortometetraggi video, organizzata dall'associazione Fuori Orario.
A dire il vero la manifestazione inizia sabato, con la proiezione dei cortometraggi di qualità, premiati a vari festival internazzzzz.... per esperienza, si tratta quasi sempre di vuote ciofeche prosopopaiche (e dando un'occhiata al programma t'accorgi che alcune sono pure riciclate dall'anno scorso). I cultori di questa manifestazione sanno che il vero divertimento sta nella videocassette amatoriali, talvolta ridicole, talvolta noise, talvolta sorprendenti.
Ma c'è un motivo in più per non prendere altri impegni domenica. Il coraggioso curatore dell'edizione di quest'anno, infatti, non è un qualunque ragazzo, bensì Ragazzi Fabrizio, il tizio formerly known as ragno.
Forza Ragazzi. Da parte tua ci aspettiamo qualcosa di degno. L'anno scorso agli spettatori fu inferto, tra l'altro, un corto libico in arabo con sottotitoli in israeliano (tema l'omosessualità). Sarai capace di tanto, e di peggio? Sei sotto i riflettori. Fatti valere.
Cosa fate domenica prossima?
Domenica sera non sarà la solita, terribile, domenica sera, con l'acido nello stomaco, i goal in tv, e gli allenatori sul latte versato. Domenica prossima presso la Sala Truffault si festeggia l'imperdibile III edizione di Fuori i corto, rassegna di cortometetraggi video, organizzata dall'associazione Fuori Orario.
A dire il vero la manifestazione inizia sabato, con la proiezione dei cortometraggi di qualità, premiati a vari festival internazzzzz.... per esperienza, si tratta quasi sempre di vuote ciofeche prosopopaiche (e dando un'occhiata al programma t'accorgi che alcune sono pure riciclate dall'anno scorso). I cultori di questa manifestazione sanno che il vero divertimento sta nella videocassette amatoriali, talvolta ridicole, talvolta noise, talvolta sorprendenti.
Ma c'è un motivo in più per non prendere altri impegni domenica. Il coraggioso curatore dell'edizione di quest'anno, infatti, non è un qualunque ragazzo, bensì Ragazzi Fabrizio, il tizio formerly known as ragno.
Forza Ragazzi. Da parte tua ci aspettiamo qualcosa di degno. L'anno scorso agli spettatori fu inferto, tra l'altro, un corto libico in arabo con sottotitoli in israeliano (tema l'omosessualità). Sarai capace di tanto, e di peggio? Sei sotto i riflettori. Fatti valere.
venerdì 2 marzo 2001
Professione cliccatore
Da un po' di tempo, quando qualcuno mi chiede "Che cosa fai" (per vivere, sottointeso), posso rispondere: "lavoro in un sito web", e per quindici secondi sono contento. Penso a quant'era complicato una volta dare una risposta.
("Ma tu adesso cosa fai?"
"Ma… mi occupo di progetti, diciamo".
"Progetti?"
"Sì, un progetto europeo".
"Ma in cosa consiste il tuo progetto?"
"Ecco… il mio progetto consiste nel formare un'associazione che organizzi altri progetti, sempre europei".
"Sembra tutto un po' vago".
"Mi rendo conto. Poi sbobino le conferenze. E ho corretto dei volantini naturalistici in primavera. Devo anche finire una guida turistica").
Tutto questo non vale il poter dire "lavoro in un sito web". Con questa semplice frase è possibile trasformarsi, almeno per quei quindici secondi, in una persona molto più interessante. Sono sulla cresta dell'onda, in piena new economy. Senz'altro sono un asso dei computer. E magari guadagno anche un fracco di soldi.
La verità è molto più squallida. Il mio mestiere è quello del cliccatore. L'operaio, il fattorino, il manovale del web. Con tutto il rispetto per queste professioni, dove almeno si esercita la massa muscolare. Tutto quello che il qui presente esercita, per nove-dieci ore al giorno, sono due dita della mano destra. Se lavorassi con un Macintosh, potrei anche venire in ditta con un dito solo.
Che dire? Non ho molta paura degli infortuni sul lavoro. In compenso tra dieci anni probabilmente i miei occhi saranno da buttare.
Non so programmare. Neanche una riga. Da bambino me la cavavo bene col basic del commodore, poi mi sono messo a suonare la chitarra e il Vic20 ha fatto le ragnatele. Che coglione. Adesso sono in balia dei programmatori. Ogni loro negligenza può significare diecimila cliccate in più per me, e i programmatori sanno essere molto negligenti.
In più, si vive col timore che venga il giorno in cui i computer saranno molto più intelligenti e compatibili fra loro, riducendo sensibilmente i diaframmi umani come me.
Non so se nel futuro quello dei cliccatori diventerà un vero e proprio ceto. Negli USA ci sono già degli studi al riguardo, non ricordo dove. In ogni caso si tratterà di un ceto posizionato molto in basso. Possiamo tranquillamente considerarli gli impiegati frustrati del futuro, quotidianamente alle prese con linguaggi che non conoscono, e che maneggiano alla benemeglio. Come i bambini che non sanno leggere, ma guardano le figure, e in un qualche modo se la cavano. Ogni giorno alle prese col dilemma: è troppo tardi per imparare a programmare o è troppo presto per fuggire in campagna?
Da un po' di tempo, quando qualcuno mi chiede "Che cosa fai" (per vivere, sottointeso), posso rispondere: "lavoro in un sito web", e per quindici secondi sono contento. Penso a quant'era complicato una volta dare una risposta.
("Ma tu adesso cosa fai?"
"Ma… mi occupo di progetti, diciamo".
"Progetti?"
"Sì, un progetto europeo".
"Ma in cosa consiste il tuo progetto?"
"Ecco… il mio progetto consiste nel formare un'associazione che organizzi altri progetti, sempre europei".
"Sembra tutto un po' vago".
"Mi rendo conto. Poi sbobino le conferenze. E ho corretto dei volantini naturalistici in primavera. Devo anche finire una guida turistica").
Tutto questo non vale il poter dire "lavoro in un sito web". Con questa semplice frase è possibile trasformarsi, almeno per quei quindici secondi, in una persona molto più interessante. Sono sulla cresta dell'onda, in piena new economy. Senz'altro sono un asso dei computer. E magari guadagno anche un fracco di soldi.
La verità è molto più squallida. Il mio mestiere è quello del cliccatore. L'operaio, il fattorino, il manovale del web. Con tutto il rispetto per queste professioni, dove almeno si esercita la massa muscolare. Tutto quello che il qui presente esercita, per nove-dieci ore al giorno, sono due dita della mano destra. Se lavorassi con un Macintosh, potrei anche venire in ditta con un dito solo.
Che dire? Non ho molta paura degli infortuni sul lavoro. In compenso tra dieci anni probabilmente i miei occhi saranno da buttare.
Non so programmare. Neanche una riga. Da bambino me la cavavo bene col basic del commodore, poi mi sono messo a suonare la chitarra e il Vic20 ha fatto le ragnatele. Che coglione. Adesso sono in balia dei programmatori. Ogni loro negligenza può significare diecimila cliccate in più per me, e i programmatori sanno essere molto negligenti.
In più, si vive col timore che venga il giorno in cui i computer saranno molto più intelligenti e compatibili fra loro, riducendo sensibilmente i diaframmi umani come me.
Non so se nel futuro quello dei cliccatori diventerà un vero e proprio ceto. Negli USA ci sono già degli studi al riguardo, non ricordo dove. In ogni caso si tratterà di un ceto posizionato molto in basso. Possiamo tranquillamente considerarli gli impiegati frustrati del futuro, quotidianamente alle prese con linguaggi che non conoscono, e che maneggiano alla benemeglio. Come i bambini che non sanno leggere, ma guardano le figure, e in un qualche modo se la cavano. Ogni giorno alle prese col dilemma: è troppo tardi per imparare a programmare o è troppo presto per fuggire in campagna?