You asked for the bike,
now cycle!
Se ho ben capito, le critiche che mi rivolge il Griso nel suo Post lungo e pedalare sono le seguenti:
1) Parlo di “fermare i finanziatori sauditi” [del Terrorismo], ma sono europeo, e l’Unione Europea è sempre stata tenera con Hamas.
2) Dici che i governi occidentali sono complici dei terroristi? Fuori le prove.
3) Avendo un’auto, tu consumi petrolio e quindi finanzi il terrorismo. D’ora in poi, bicicletta.
4) Ti sei montato la testa, posti su gnu a ripetizione e poi insceni accuse di censura a indymedia.
Bene così?
Griso tecnicamente non è un Neocone, ma a volte indulge.
Ora, il limite dei Neoconi, il motivo per cui alla lunga stancano, è la supponenza. Sei un pacifista, ergo, sei un pavido imbecille. Che ci siano imbecilli tra i pacifisti è statisticamente sicuro. Ma si può anche essere contrari a una guerra per motivi fondati. Si possono avere dubbi sulla strategia a lungo medio termine di Bush (ammesso che ne abbia una); si può obiettare sulla formulazione tutta ideologica di “guerra al terrorismo”. Eccetera.
Invece, ci si vuole far passare per una folla di figli dei fiori (o figli di papà) con scarse nozioni di geopolitica. Sfigato pacifista, ma lo sai che la UE non condannava Hamas? E quello che ha detto il Mufti l’altro ieri? E che in Francia non possono tradurre un libro contro l’Islam perché i fanatici li minacciano? E poi, vai in giro in macchina? Dov’è la coerenza?
1) Per quel che vale il mio parere, Hamas è un’organizzazione che finanzia il terrorismo e sono lieto che la UE se ne sia accorta. Le cose, però, sono un po’ più complesse. Per finanziare i suicidi non basta raccogliere molto denaro: occorre che la vita umana nei territori occupati valga molto poco. Di questo si sono preoccupati, per quarant’anni, gli occupanti israeliani e i loro alleati. Di questo si sta tuttora preoccupando Sharon, quando cerca di far passare per concessioni territoriali l’abbandono di qualche insediamento illegale in data da definirsi. Sharon è il legale rappresentante di Israele? Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente? Benissimo, allora la responsabilità va divisa tra tutti i maggiorenni israeliani. Ora mi si chiede di commuovermi per un bambino israeliano morto in un attentato piuttosto che per un bambino palestinese colpito da una fucilata. Perché?
Temo che la risposta sia: perché uno è occidentale e l’altro no.
Ci sarebbe poi sulla carta un’altra democrazia in Medio Oriente: l’Autorità Palestinese. Ma è curioso che, con tutto il balletto di Primi Ministri di questi mesi, nessuno abbia mai sussurrato la magica parola “elezioni”. Perché non lasciare decidere il popolo palestinese? Probabilmente perché vincerebbe Hamas. Tanto che americani e israeliani preferiscono tenere su Arafat: corrotto e inaffidabile, ma dopo di lui c’è il diluvio del fanatismo religioso. La classe laica e moderata, che avrebbe dovuto ereditare la Palestina, sta scomparendo.
Questo, perché? Perché tutti gli arabi sono destinati a diventare fanatici col tempo, come il vino va in aceto? O forse perché è oggettivamente difficile continuare a essere classe media e moderata nei campi profughi dopo quarant’anni di occupazione militare?
Tutto questo dovrebbe insegnarci qualcosa. Che il fanatismo ha bisogno di una coltura per prosperare: i soldi non bastano (comunque è un bene fermare i finanziatori). E che le masse popolari arabe, se colpite, tendono a reagire sotto le bandiere del fondamentalismo islamico. Questo andrebbe anche spiegato a chi sogna un dialogo con l’“Islam moderato”: si dà Islam moderato dove c’è una classe media (in Iraq un po’ ce n’era). Se bombardi, mini, invadi, requisisci, mandi a casa l’esercito… la classe media scompare e la parola passa alle piazze e agli Imam.
Tutto questo lo sapevamo anche prima dell’invasione: quindi, tutto sommato, ne sapevamo più di chi stava in cabina di regia. Come si giustifica una sciocchezza come lo sbando dell’esercito iracheno? Migliaia di effettivi, ancora armati, in giro per il Paese senza più consegne. Con chi ce la dobbiamo prendere se l’Iraq si trasforma in campo di addestramento per insorti, terroristi e semplici briganti? Con Bin Laden e Saddam Hussein o con noi stessi? Non siamo, con la nostra disastrosa gestione del dopoguerra, complici di Al Qaeda e del terrorismo? E lo siamo in buona o cattiva fede? Ha importanza?
E con questo credo di eszsere arrivato al punto (2): occorrono prove della complicità coi terroristi? Niente di più facile. La guerra al terrorismo dura da due anni: secondo voi la stiamo vincendo?
No, la stiamo perdendo. Oggi siamo molto meno sicuri che il 12 settembre 2001. Al punto che viene un sospetto: qui si vuole davvero sconfiggere il terrorismo o si vuole semplicemente gestire il terrore? Si alza un muro qua, si restringono le libertà personali là, si vendono un sacco di bandiere, si manda un po’ di forza lavoro eccedente a crepare in un Paese esotico… il Terrore, visto dalla classe dirigente, non dev’essere poi così male.
Se mi chiedete prove tangibili, “picci”, come dice il Griso, non ce li ho. Sono solo un povero blog di provincia. George W. Bush invece è il Presidente degli USA e dovrebbe essere il primo interessato a esibire le prove della sua innocenza. Perché non lo fa? Perché l’Amministrazione non collabora con la commissione d’inchiesta? Perché non chiarisce alcune circostanze quantomeno curiose?
E nei giorni immediatamente successivi - si è saputo dopo due anni (NYT del 4 settembre 2003) - la Casa Bianca (rivelazione di Richard Clarke, che guidava il team dell'Amministrazione per far fronte all'emergenza) autorizzò l'evacuazione segreta dagli Stati Uniti di circa 140 «influenti» sauditi, tra cui molti membri della famiglia bin Laden. Tutti gli aerei erano bloccati a terra, in quei giorni [dopo l’11 settembre] , l'America era ferma, paralizzata, angosciata, in difesa, ma alcuni aerei si alzarono, con il permesso del presidente, per portare via un gruppo di persone che, come minimo, dovevano essere incluse tra i sospetti, e quindi interrogate.
Vorremmo solo sapere il perché. Vorremmo sapere anche perché dopo tanti attentati a Istanbul nessuno chiede di bombardare gli Emirati Arabi Uniti. Ohibò, e adesso che c’entrano gli Emirati Arabi Uniti? Ma dico, basta leggere i giornali. Azad Ekinci e Feridun Ugurlu venivano da là. Magari erano solo andati a spassarsela prima del botto. Ma è singolare che tutte le piste partano dagli Sceicchi, mentre noi continuiamo a stare a più di mille chilometri, in Iraq “per sconfiggere il terrorismo”. Non sorprende che poi nascano dietrologie (The Istanbul bombings also serve to uphold the shaky legitimacy of Prime Minister Tony Blair in the face of mounting political opposition to Britain's' participation in the US led war). Naturalmente, se Bush e Blair avessero dimostrato di non raccontare mai bugie all’opinione pubblica, sarebbe molto più difficile dubitare di loro.
Il resto lunedì.
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venerdì 28 novembre 2003
giovedì 27 novembre 2003
L’indignazione
a me non piace tanto.
Poi, naturalmente, certe volte mi indigno anch’io. Non dovrei? Che altro posso fare? Però io la considero una debolezza, mentre vedo che molti ne fanno un punto di forza.
Ha a che vedere col concetto di dignità: per molti è la cosa più importante di tutte: per me, scusate, ma la dignità è quel che ti resta quando ti hanno portato via tutto (quando finalmente puoi dire: “…ma non mi hanno tolto la mia dignità”). Stesso discorso per l’Onore: quando senti parlarne è perché è finita la trippa.
Poi è una questione di carattere. Esistono persone che risolvono i problemi così: si cacciano due urla, si esce sbattendo la porta, fine. Di solito si tratta di persone alte di statura e di pressione. Non dico che non mi piacerebbe essere così, ma sono diverso. Suggerimenti? Un corso di autostima? Enlarge my penis? Grazie, ormai mi piaccio così.
Quel che mi manca del resto non sono i centimetri, quanto piuttosto la famosa porta da sbattere. Per me l’indignazione è una stanza cieca: una volta che hai scelto di entrare, resti lì, e il Problema pure. Puoi sfuriare finché vuoi, il Problema rimane, e dopo un po’ comincia a guardarti sornione. Non esiste soluzione all’indignazione, a parte indignarsi un po’ di più, indignarsi un po’ di più, indignarsi un po’ di più… e poi? E poi basta. Dopo un po’ ci si calma, ci si asciuga la fronte, e si esce senza dare nell’occhio dalla stessa porta dalla quale si era entrati.
Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna si indegna s’impegna
poi getta la spugna con gran dignità...
In quella stanza siamo entrati in tanti due anni fa: e magari il fatto di essere in tanti ci ha dato coraggio. Bene: però la stanza è cieca: a parte tenerci compagnia e raccontarci barzellette, non c’è un granché da fare.
Questa è l’Opposizione. Perché, una volta non era così? Pensate agli anni Ottanta: non eravamo indignati nello stesso, identico modo?
Ecco: un’altra cosa che non mi piace dell’Indignazione è che crea una specie di Età dell’Oro, e io alle età dell’oro non ci credo, non ci voglio credere. C’è censura alla Rai? Non mi pare una gran novità. La Rai non è mai stata, mai, un monumento alla pluralità dell’informazione. Non c’è stata un Età dell’Oro della Rai. Ci sono stati momenti sì e momenti no: Bernabei probabilmente era un bacchettone, ma aveva un alto senso del servizio pubblico. E anche la lottizzazione di fine anni Ottanta, tutto sommato non era così male: su un canale Blob, sull’altro Sandra Milo; le differenze erano evidenti e potevi scegliere (invece oggi è tutto un insieme di Blob e Sandra Milo, mescolati: e per quel poco che si riesce a distinguerli, sono ancora lo stesso Blob e la stessa Sandra Milo, ma con vent’anni in più).
Allo stesso modo, ci sono stati momenti in cui i Guzzanti non avrebbero potuto apparire in tv, momenti in cui potevano stare solo in tarda serata, e momenti in cui potevano occupare la prima serata e picchiar duro: di solito col centrosinistra al governo. Questo non è qualunquismo, se mai è il contrario: questa è la Storia, senza età dell’oro.
Ho detto che mi piace? No. Ho detto che bisogna rassegnarsi? Nemmeno. Ho solo detto che non mi va di indignarmi per questo. Anche perché quel poco di indignazione che mi resta dopo le bombe a grappolo e gli scafisti non vorrei doverla consumare per il palinsesto televisivo. Che è importante, sì, ma non è la cosa più importante del mondo.
Quel che vorrei recuperare, è un approccio positivo ai problemi. Dove per positivo non si intende soltanto lo stato d’animo della faccina sorridente, ma anche “realistico, pragmatico”. Bene, abbiamo fatto la nostra sfuriata? Ci sentiamo meglio? Ora, visto che il Problema è sempre qui, cosa facciamo? Abbiamo una servizio pubblico tv che fa (male) la concorrenza alla tv commerciale; che si auto-penalizza perché la concorrenza è proprietà del presidente del Consiglio; abbiamo un Governo che, come tanti altri, soffoca gli spazi del dissenso: cosa facciamo? Indignarsi non basta, e non serve nemmeno.
Per la verità, qualcosa abbiamo fatto. Un esempio piccolo: parecchi hanno guardato Raiot sul satellite e su Internet. Una bella crepa nella civiltà dell’Auditel, che continua a parlare di “milioni di telespettatori”, quando ormai molta gente la sera guarda altre cose: dvd, satellite, internet… e c’è anche chi la sera esce. Se cominciassimo a pensare, tutti assieme, che la Rai (e Mediaset) non sono così importanti? Che non c'è nessuna cultura nazionalpopolare da monitorare ossessivamente per restare al passo coi tempi? Che i reality show non sono tutti pietre miliari nella storia della nazione? Che un programma di satira non è la rivoluzione? (Fermo restando il diritto per ognuno di guardarsi un reality show o un programma di satira). Certo, significherebbe rinunciare all’idea di Berlusconi tiranno mediatico. Però prima o poi dovremo rinunciarci comunque, perché il vecchio è cotto ormai.
“Tutto molto giusto, ma sono i satirici stessi, sono Luttazzi e la Guzzanti a ergersi a paladini dell’Indignazione”.
È vero, ma è anche inevitabile.
Per loro, a un certo punto, non è più in gioco la dignità, ma la sopravvivenza. È il meccanismo perverso della querela. A proposito: qualcuno ha capito su quali basi la Mediaset ha querelato la Rai? Poco importa. Nel momento in cui uno staff di avvocati ti querela per diversi miliardi, la reazione del tuo avvocato (o del tuo staff di avvocati) è d’intimarti il silenzio sull’argomento in questione. In seguito magari l’accusa cade: ma intanto tu sei stato zitto per mesi.
Se invece l’accusa resta, si parla di miliardi: e intanto hai perso un lavoro (in tv) e la possibilità di promuovere il tuo show, il libro, il film. Hai bisogno di liquidi. Il minimo che puoi fare più battere la grancassa dell’Indignazione. Non puoi andare per il sottile. Non te lo puoi più permettere.
Allora mi piacerebbe che invece di continuare a parlare di Censura politica, governativa, istituzionale… cominciassimo a parlare della Querela. Che è la più potente censura oggi in Italia. Ed è tanto più pericolosa quanto non è più in mano a un potere politico, ma ai soldi. Perché alla fine non è la Rai a tenere a casa Luttazzi o la Guzzanti, ma proprio lui, il Capitale. Oggi facciamo ancora fatica a capirlo, visto che Rai e Capitale sono rappresentati dallo stesso simpatico personaggio (che per giunta è un tipo all’antica, vedi come ha licenziato in tronco Biagi e Santoro). Domani le cose saranno più chiare. Del resto, si tratta di una novità? In tv si può fare di tutto, anche in orario protetto: sesso, violenza, chiacchiere, tutto. Tranne parlar male delle marche, specie quelle grandi. Ci si dimentica spesso che il primo problema di Luttazzi non è Berlusconi, ma il gruppo Cremonini, che ha chiesto 60 milioni di Euro per via di una battuta sulla mucca pazza (Mediaset e Forza Italia appena 20).
Lui ha reagito da guitto, d’accordo. Ma è un guitto: degnissimo mestiere. Ma noi? Trovate che sia giusto non poter parlare male di qualcuno, solo perché questo qualcuno ha i mezzi per potersi difendere? In tal caso, chi difenderà noi? Dove comincia la nostra libertà e dove finisce quella delle imprese di farsi pubblicità? Non sarebbe ora di cominciare a parlarne? Con calma, senza indignarsi, senza diffamare nessuno.
Oppure ci si chiude tutti dentro un palazzetto, si sbatte la porta, e il problema è risolto.
... non si è visto nessuno che ponesse una semplice domanda: scusate, il problema è questa querela di Mediaset? Vogliamo parlarne davvero? Dov'è questa querela? Su cosa si basa? (e al tempo stesso, magari, convocasse in riunione anche la Guzzanti e il suo staff invitando a trovare insieme un modo sensato per andare in onda, o almeno per non dare scusa alcuna e tantomeno il minimo alibi al Cda). E infine, nessun commento possibile per le dichiarazioni di gioia di qualche illuminato ieri all'Auditorium: "Siamo di più che al Palavobis". Chi si accontenta gode.
a me non piace tanto.
Poi, naturalmente, certe volte mi indigno anch’io. Non dovrei? Che altro posso fare? Però io la considero una debolezza, mentre vedo che molti ne fanno un punto di forza.
Ha a che vedere col concetto di dignità: per molti è la cosa più importante di tutte: per me, scusate, ma la dignità è quel che ti resta quando ti hanno portato via tutto (quando finalmente puoi dire: “…ma non mi hanno tolto la mia dignità”). Stesso discorso per l’Onore: quando senti parlarne è perché è finita la trippa.
Poi è una questione di carattere. Esistono persone che risolvono i problemi così: si cacciano due urla, si esce sbattendo la porta, fine. Di solito si tratta di persone alte di statura e di pressione. Non dico che non mi piacerebbe essere così, ma sono diverso. Suggerimenti? Un corso di autostima? Enlarge my penis? Grazie, ormai mi piaccio così.
Quel che mi manca del resto non sono i centimetri, quanto piuttosto la famosa porta da sbattere. Per me l’indignazione è una stanza cieca: una volta che hai scelto di entrare, resti lì, e il Problema pure. Puoi sfuriare finché vuoi, il Problema rimane, e dopo un po’ comincia a guardarti sornione. Non esiste soluzione all’indignazione, a parte indignarsi un po’ di più, indignarsi un po’ di più, indignarsi un po’ di più… e poi? E poi basta. Dopo un po’ ci si calma, ci si asciuga la fronte, e si esce senza dare nell’occhio dalla stessa porta dalla quale si era entrati.
Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna si indegna s’impegna
poi getta la spugna con gran dignità...
In quella stanza siamo entrati in tanti due anni fa: e magari il fatto di essere in tanti ci ha dato coraggio. Bene: però la stanza è cieca: a parte tenerci compagnia e raccontarci barzellette, non c’è un granché da fare.
Questa è l’Opposizione. Perché, una volta non era così? Pensate agli anni Ottanta: non eravamo indignati nello stesso, identico modo?
Ecco: un’altra cosa che non mi piace dell’Indignazione è che crea una specie di Età dell’Oro, e io alle età dell’oro non ci credo, non ci voglio credere. C’è censura alla Rai? Non mi pare una gran novità. La Rai non è mai stata, mai, un monumento alla pluralità dell’informazione. Non c’è stata un Età dell’Oro della Rai. Ci sono stati momenti sì e momenti no: Bernabei probabilmente era un bacchettone, ma aveva un alto senso del servizio pubblico. E anche la lottizzazione di fine anni Ottanta, tutto sommato non era così male: su un canale Blob, sull’altro Sandra Milo; le differenze erano evidenti e potevi scegliere (invece oggi è tutto un insieme di Blob e Sandra Milo, mescolati: e per quel poco che si riesce a distinguerli, sono ancora lo stesso Blob e la stessa Sandra Milo, ma con vent’anni in più).
Allo stesso modo, ci sono stati momenti in cui i Guzzanti non avrebbero potuto apparire in tv, momenti in cui potevano stare solo in tarda serata, e momenti in cui potevano occupare la prima serata e picchiar duro: di solito col centrosinistra al governo. Questo non è qualunquismo, se mai è il contrario: questa è la Storia, senza età dell’oro.
Ho detto che mi piace? No. Ho detto che bisogna rassegnarsi? Nemmeno. Ho solo detto che non mi va di indignarmi per questo. Anche perché quel poco di indignazione che mi resta dopo le bombe a grappolo e gli scafisti non vorrei doverla consumare per il palinsesto televisivo. Che è importante, sì, ma non è la cosa più importante del mondo.
Quel che vorrei recuperare, è un approccio positivo ai problemi. Dove per positivo non si intende soltanto lo stato d’animo della faccina sorridente, ma anche “realistico, pragmatico”. Bene, abbiamo fatto la nostra sfuriata? Ci sentiamo meglio? Ora, visto che il Problema è sempre qui, cosa facciamo? Abbiamo una servizio pubblico tv che fa (male) la concorrenza alla tv commerciale; che si auto-penalizza perché la concorrenza è proprietà del presidente del Consiglio; abbiamo un Governo che, come tanti altri, soffoca gli spazi del dissenso: cosa facciamo? Indignarsi non basta, e non serve nemmeno.
Per la verità, qualcosa abbiamo fatto. Un esempio piccolo: parecchi hanno guardato Raiot sul satellite e su Internet. Una bella crepa nella civiltà dell’Auditel, che continua a parlare di “milioni di telespettatori”, quando ormai molta gente la sera guarda altre cose: dvd, satellite, internet… e c’è anche chi la sera esce. Se cominciassimo a pensare, tutti assieme, che la Rai (e Mediaset) non sono così importanti? Che non c'è nessuna cultura nazionalpopolare da monitorare ossessivamente per restare al passo coi tempi? Che i reality show non sono tutti pietre miliari nella storia della nazione? Che un programma di satira non è la rivoluzione? (Fermo restando il diritto per ognuno di guardarsi un reality show o un programma di satira). Certo, significherebbe rinunciare all’idea di Berlusconi tiranno mediatico. Però prima o poi dovremo rinunciarci comunque, perché il vecchio è cotto ormai.
“Tutto molto giusto, ma sono i satirici stessi, sono Luttazzi e la Guzzanti a ergersi a paladini dell’Indignazione”.
È vero, ma è anche inevitabile.
Per loro, a un certo punto, non è più in gioco la dignità, ma la sopravvivenza. È il meccanismo perverso della querela. A proposito: qualcuno ha capito su quali basi la Mediaset ha querelato la Rai? Poco importa. Nel momento in cui uno staff di avvocati ti querela per diversi miliardi, la reazione del tuo avvocato (o del tuo staff di avvocati) è d’intimarti il silenzio sull’argomento in questione. In seguito magari l’accusa cade: ma intanto tu sei stato zitto per mesi.
Se invece l’accusa resta, si parla di miliardi: e intanto hai perso un lavoro (in tv) e la possibilità di promuovere il tuo show, il libro, il film. Hai bisogno di liquidi. Il minimo che puoi fare più battere la grancassa dell’Indignazione. Non puoi andare per il sottile. Non te lo puoi più permettere.
Allora mi piacerebbe che invece di continuare a parlare di Censura politica, governativa, istituzionale… cominciassimo a parlare della Querela. Che è la più potente censura oggi in Italia. Ed è tanto più pericolosa quanto non è più in mano a un potere politico, ma ai soldi. Perché alla fine non è la Rai a tenere a casa Luttazzi o la Guzzanti, ma proprio lui, il Capitale. Oggi facciamo ancora fatica a capirlo, visto che Rai e Capitale sono rappresentati dallo stesso simpatico personaggio (che per giunta è un tipo all’antica, vedi come ha licenziato in tronco Biagi e Santoro). Domani le cose saranno più chiare. Del resto, si tratta di una novità? In tv si può fare di tutto, anche in orario protetto: sesso, violenza, chiacchiere, tutto. Tranne parlar male delle marche, specie quelle grandi. Ci si dimentica spesso che il primo problema di Luttazzi non è Berlusconi, ma il gruppo Cremonini, che ha chiesto 60 milioni di Euro per via di una battuta sulla mucca pazza (Mediaset e Forza Italia appena 20).
Lui ha reagito da guitto, d’accordo. Ma è un guitto: degnissimo mestiere. Ma noi? Trovate che sia giusto non poter parlare male di qualcuno, solo perché questo qualcuno ha i mezzi per potersi difendere? In tal caso, chi difenderà noi? Dove comincia la nostra libertà e dove finisce quella delle imprese di farsi pubblicità? Non sarebbe ora di cominciare a parlarne? Con calma, senza indignarsi, senza diffamare nessuno.
Oppure ci si chiude tutti dentro un palazzetto, si sbatte la porta, e il problema è risolto.
... non si è visto nessuno che ponesse una semplice domanda: scusate, il problema è questa querela di Mediaset? Vogliamo parlarne davvero? Dov'è questa querela? Su cosa si basa? (e al tempo stesso, magari, convocasse in riunione anche la Guzzanti e il suo staff invitando a trovare insieme un modo sensato per andare in onda, o almeno per non dare scusa alcuna e tantomeno il minimo alibi al Cda). E infine, nessun commento possibile per le dichiarazioni di gioia di qualche illuminato ieri all'Auditorium: "Siamo di più che al Palavobis". Chi si accontenta gode.
mercoledì 26 novembre 2003
Non è mai abbastanza tardi
La redazione di Leonardo, per dirla tutta, è un po’ stanca dell’attualità.
Allora abbiamo preso la macchina del tempo e siamo andati a leggere lo storico discorso che il segretario del Partito Moderato Europeo, Gianfranca Mussolini, leggerà durante la sua prima visita a New Yerusalem, nel 2068. (Mussolini, sì, proprio come la famosa nonna).
Signori e signore della Convenzione:
È per me un grande onore essere accolto qui, in mezzo a voi, per porgere, a nome mio e di tutto il mio partito, delle scuse.
(Rumori in sala)
So che vi è tra voi chi queste scuse non ha intenzione di accettarle: chi le considera tardive, e non commisurate alla colpa. E non ha torto. Le scuse postume non rimediano agli errori, non riportano in vita chi è caduto. Per essere franco, signori della Convenzione, le scuse che vi porto non servono a voi. Servono invece a me, e agli uomini e alle donne del mio partito. È scritto in un libro, che voi e io ben conosciamo – un libro che è stata fonte di dolore, ma anche di speranza – che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. E questo è giusto: eppure vi sono pene tanto gravi che la loro ombra oscura la coscienza di intere generazioni. Quell’ombra – l’ombra del dolore causato dalle scelte sventate dei nostri padri – è ancora nel mio cuore, e nel cuore di tanti europei. E se le mie scuse, tardive ma sincere, possono in qualche modo contribuire a far svanire quest’ombra, io sono qui a porvele. È tempo di denunciare le pagine di vergogna che ci sono nella storia del nostro passato.
Il signori della Convenzione non ignorano che il Partito da me rappresentato è nato dalle costole di un movimento politico tristemente famoso: Alleanza Nazionale. E le responsabilità di Alleanza Nazionale nell’ascesa del primo leader cesarista europeo sono state ormai appurate da numerosi storici.
Quando nel 1994 Silvio Berlusconi scese in campo in Italia, agli esponenti di Alleanza Nazionale non parve vero di trovare improvvisamente un potente alleato, dotato di un monopolio mediatico senza paragoni in Europa. Per più di vent’anni AN fu l’alleata più fedele dei cesaristi di Berlusconi. AN fu accanto a Berlusconi, mentre questi ridisegnava l’assetto statale, emanando leggi su misura per sé, e fortificando il suo impero economico e mediatico. Un modello che dall’Italia sarebbe stato importato con successo negli altri Paesi d’Europa e nel mondo. Forse vi sono stati, in altri Paesi, regimi Cesaristi ben più temibili del nostro: ciò non toglie che il moderno Cesarismo lo abbiamo per primi inventato noi.
AN fu al fianco di Berlusconi nella repressione del dissenso – anzi, si distinse per zelo nel reprimere i dimostranti e nell’emanare leggi liberticide. Fu soprattutto, quel che è peggio, complice della creazione di una nuova ideologia identitaria, ben rappresentati dalla triade che cominciò a comparire sui muri del mio Paese verso il 2005: Patria, Famiglia e Crocefisso. Si precisavano così i contorni di un conflitto già in atto che – cominciato l’11 settembre del 2001 come “guerra al terrorismo”, si sarebbe ben presto rivelata per quella che era: una guerra di civiltà, una guerra di ideologia, una guerra di religione.
Gianfranco Fini, mio predecessore e mio prozio, era una personalità complessa e combattuta: riconoscerlo non equivale a perdonarlo. Proprio mentre si adoperava, in Italia, riassorbire i lavoratori di origine straniera che vivevano senza cittadinanza ai margini della legalità, varava leggi proibizionistiche contro le droghe leggere; proprio mentre si recava in questa stessa terra, e riconosceva le responsabilità del Fascismo nella Shoah, tuonava contro quella da lui definita “la malapianta dell’antisemitismo”: fingendo di non vedere, dietro quella “malapianta”, l’espressione del dissenso e perfino della disperazione dei cittadini europei per la crisi del Medio Oriente.
Ma non c’era più spazio, in Europa e in Medio Oriente, per il dissenso: non c’era più spazio per la disperazione. Dopo la seconda guerra del Golfo, in Italia, come negli Usa, non ci fu più spazio che per le fanfare della nuova guerra di civiltà. Incuranti di fermare un terrorismo che doveva e poteva essere stroncato sul nascere, con operazioni mirate contro i finanziatori sauditi, i governanti dell’Alleanza lasciarono campo libero ai terroristi in tutti i Paesi del Mediterraneo, sfruttando il contraccolpo emotivo di ogni attentato per militarizzare sempre più la cittadinanza. In Italia il primo e più sintomatico esempio fu l’ondata di nazionalismo scatenata dall’eccidio di Nassiriyah: ondata scatenata e cavalcata anche da Alleanza Nazionale.
Era solo l’inizio di quella catastrofe che ha segnato il ventunesimo secolo. Catastrofe immane, senza vincitori e vinti, dalla quale soltanto oggi usciamo. E se ne oggi finalmente usciamo, signori della Convenzione, lo dobbiamo a –
Il discorso si interrompe qui perché in quel momento la Terra viene vaporizzata da un astroscavatore di Betelgeuse che stava costruendo una pista da corsa intorno al sistema solare.
In seguito, il capocantiere si è scusato.
La redazione di Leonardo, per dirla tutta, è un po’ stanca dell’attualità.
Allora abbiamo preso la macchina del tempo e siamo andati a leggere lo storico discorso che il segretario del Partito Moderato Europeo, Gianfranca Mussolini, leggerà durante la sua prima visita a New Yerusalem, nel 2068. (Mussolini, sì, proprio come la famosa nonna).
Signori e signore della Convenzione:
È per me un grande onore essere accolto qui, in mezzo a voi, per porgere, a nome mio e di tutto il mio partito, delle scuse.
(Rumori in sala)
So che vi è tra voi chi queste scuse non ha intenzione di accettarle: chi le considera tardive, e non commisurate alla colpa. E non ha torto. Le scuse postume non rimediano agli errori, non riportano in vita chi è caduto. Per essere franco, signori della Convenzione, le scuse che vi porto non servono a voi. Servono invece a me, e agli uomini e alle donne del mio partito. È scritto in un libro, che voi e io ben conosciamo – un libro che è stata fonte di dolore, ma anche di speranza – che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. E questo è giusto: eppure vi sono pene tanto gravi che la loro ombra oscura la coscienza di intere generazioni. Quell’ombra – l’ombra del dolore causato dalle scelte sventate dei nostri padri – è ancora nel mio cuore, e nel cuore di tanti europei. E se le mie scuse, tardive ma sincere, possono in qualche modo contribuire a far svanire quest’ombra, io sono qui a porvele. È tempo di denunciare le pagine di vergogna che ci sono nella storia del nostro passato.
Il signori della Convenzione non ignorano che il Partito da me rappresentato è nato dalle costole di un movimento politico tristemente famoso: Alleanza Nazionale. E le responsabilità di Alleanza Nazionale nell’ascesa del primo leader cesarista europeo sono state ormai appurate da numerosi storici.
Quando nel 1994 Silvio Berlusconi scese in campo in Italia, agli esponenti di Alleanza Nazionale non parve vero di trovare improvvisamente un potente alleato, dotato di un monopolio mediatico senza paragoni in Europa. Per più di vent’anni AN fu l’alleata più fedele dei cesaristi di Berlusconi. AN fu accanto a Berlusconi, mentre questi ridisegnava l’assetto statale, emanando leggi su misura per sé, e fortificando il suo impero economico e mediatico. Un modello che dall’Italia sarebbe stato importato con successo negli altri Paesi d’Europa e nel mondo. Forse vi sono stati, in altri Paesi, regimi Cesaristi ben più temibili del nostro: ciò non toglie che il moderno Cesarismo lo abbiamo per primi inventato noi.
AN fu al fianco di Berlusconi nella repressione del dissenso – anzi, si distinse per zelo nel reprimere i dimostranti e nell’emanare leggi liberticide. Fu soprattutto, quel che è peggio, complice della creazione di una nuova ideologia identitaria, ben rappresentati dalla triade che cominciò a comparire sui muri del mio Paese verso il 2005: Patria, Famiglia e Crocefisso. Si precisavano così i contorni di un conflitto già in atto che – cominciato l’11 settembre del 2001 come “guerra al terrorismo”, si sarebbe ben presto rivelata per quella che era: una guerra di civiltà, una guerra di ideologia, una guerra di religione.
Gianfranco Fini, mio predecessore e mio prozio, era una personalità complessa e combattuta: riconoscerlo non equivale a perdonarlo. Proprio mentre si adoperava, in Italia, riassorbire i lavoratori di origine straniera che vivevano senza cittadinanza ai margini della legalità, varava leggi proibizionistiche contro le droghe leggere; proprio mentre si recava in questa stessa terra, e riconosceva le responsabilità del Fascismo nella Shoah, tuonava contro quella da lui definita “la malapianta dell’antisemitismo”: fingendo di non vedere, dietro quella “malapianta”, l’espressione del dissenso e perfino della disperazione dei cittadini europei per la crisi del Medio Oriente.
Ma non c’era più spazio, in Europa e in Medio Oriente, per il dissenso: non c’era più spazio per la disperazione. Dopo la seconda guerra del Golfo, in Italia, come negli Usa, non ci fu più spazio che per le fanfare della nuova guerra di civiltà. Incuranti di fermare un terrorismo che doveva e poteva essere stroncato sul nascere, con operazioni mirate contro i finanziatori sauditi, i governanti dell’Alleanza lasciarono campo libero ai terroristi in tutti i Paesi del Mediterraneo, sfruttando il contraccolpo emotivo di ogni attentato per militarizzare sempre più la cittadinanza. In Italia il primo e più sintomatico esempio fu l’ondata di nazionalismo scatenata dall’eccidio di Nassiriyah: ondata scatenata e cavalcata anche da Alleanza Nazionale.
Era solo l’inizio di quella catastrofe che ha segnato il ventunesimo secolo. Catastrofe immane, senza vincitori e vinti, dalla quale soltanto oggi usciamo. E se ne oggi finalmente usciamo, signori della Convenzione, lo dobbiamo a –
Il discorso si interrompe qui perché in quel momento la Terra viene vaporizzata da un astroscavatore di Betelgeuse che stava costruendo una pista da corsa intorno al sistema solare.
In seguito, il capocantiere si è scusato.
martedì 25 novembre 2003
Il paese dei Balog
Allegoria – ogni riferimento a persona o cosa è puramente.
Non è che mi lamento, no: anche la paglia e il fieno hanno il loro sapore, col tempo ci si abitua e non si mangerebbe altro. E in fondo, l’importante è sentirsi stimato, amato, anche un po’ invidiato, perché no? E vedervi ogni sera, in tanti, tutt’intorno, che dite: “Bravo Leonardo!”, e “Facci l’elzeviro!”, “Facci l’invettiva!”, “Facci l’approfondimento!”, “Facci Facci!”, “Indignati!”, “Al trotto!”, “Al galoppo!”, “Salta nel cerchio”, … sono cose che fanno piacere, veramente. Anche se, resti fra noi, alla fine della fiera resto solo un povero somaro.
Eppure c’è stato un periodo in cui ero diverso, e in un certo senso migliore: non proprio un bravo bambino in carne e ossa, ma quasi. Studiavo sodo e prendevo ottimi voti, lavoravo anche, accudivo gli infermi, ero un modello per la società. Finché un giorno, tac! di colpo in bianco, somaro di successo. Come andò? Beh, fu un po’ colpa del mio amico, www.lcgnl.blogspot.com. E un po’ dell’uomo di burro, anche. Anzi, diciamolo: fu tutta colpa della diabolica perfidia dell’uomo di burro. Ma andiamo con ordine.
***
Io avevo appena scoperto di aver vinto quel posto in facoltà – ero un ragazzo arrivato, ormai – ed ero uscito per invitare lcgnl ai festeggiamenti, ma in casa non c’era. Mandato e-mail, messaggiato: niente. Finché, quando ormai avevo rinunciato e stavo andando a casa a preparare le tartine, non me lo trovo che sembrava volersi nascondere sotto il portico di una casa di contadini.
“Beh? Cosa fai costì?”
“Sto aspettando che venga sera per partire”.
“E dove vai?”
“Eh, eh, sapessi… Mi hanno invitato a una Festa, lontano lontano lontano”.
“Ah sì? E come si chiama?”
“Si chiama la Festa dei Balog. Perché non vieni anche tu?”
“Io? No davvero!”
“Guarda che se non vieni, poi te ne penti… drinkard omaggio, magliette e award per tutti, e le più belle supertope della blogosfera, tutto in un contesto raffinato ed esclusivo! Chi non viene, è solo un povero troll”.
“Ma io non sono pratico di coteste cose”.
“Lascia perdere. Se vieni sei dei nostri, sennò non sei nessuno. Tu chi sei?”
“Ecco, appunto. Volevo dirti che da domani divento un ragazzo perbene, con una borsa di studio come tutti”.
“Cazzate”.
“Come sarebbe a dire cazzate?”
“Tu puoi essere di più di questo. Tu puoi essere Leonardo”.
“Ma io in effetti sono L…”
“Per ora, come Leonardo non sei nessuno, ma se vieni con noi, se entri nel giro dei siti importanti, potrai diventare Leonardo, la blogstar! Primo su tutti i motori di ricerca! Le lettrici ai tuoi piedi, a supplicarti per un link, a fare di tutto per un flame!”
“Uhm! In effetti è una vita che farei volentieri. Ma quanto si paga?”
“È tutto gratis, come la drinkard”.
“Ah, sì? Beh, peccato. Ho appena promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, perciò… peccato”.
“Beh, sì, capisco. Vai, su, si è fatto tardi”.
“Stai partendo?”
“Aspetto l’Omino di Burro che arriva a mezzanotte. Ma tu vai, su”.
“Ma davvero si beve gratis?”
“Pare proprio di sì”.
“Che bella Festa sarà, eh?”
“Eh sì. Ma adesso vai, che poi la fatina ti s’incazza”.
“Ma davvero ci sono le supertope?”
“Che, mi hai preso per fesso? Supertope garantite”.
“Che bella festa… che bella festa…”
“Dunque, vuoi venire sì o no?”
“È inutile che tu mi tenti! Ormai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola”.
“Meglio così. Ah, ecco qui il carro. Bene, grazie per la compagnia”.
“Ma davvero ti danno la maglietta?”
“Senti, adesso hai rotto veramente i coglioni. Monta sul carretto e zitto”.
Ora vi descrivo il conducente del carretto:
Figuratevi un omino tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati, e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella blogosfera col seducente nome di Festa dei Balog.
Siccome il carretto era pieno imballato, mi accomodò in groppa di uno dei ciuchini. Bella bestia un po’ riottosa, dapprincipio non voleva saperne: gli staccammo un paio di orecchie a morsi e cominciò a ragionare. Poi però, mentre procedevamo nell’oscurità, e tutto il mondo intorno a noi russava, lo sentivo ragliare piano. E a un certo punto sentii pure una voce sommessa e appena intelligibile, che diceva:
“Povero gonzo! Sei salito sul carretto, peggio per te”.
“Eh? Come?”
“È bastato così poco… due link, una minuscola celebrità… e sei caduto come un pesciolino nella rete del pescatore verde”.
“Ah, il pescatore verde, sì, lo conosco… ma qualcuno sta parlando di me, per caso?”
“Lo vedi? Non sei neanche più in grado di capire quando qualcuno vuole comunicare con te! Hai chiuso i commenti, hai occultato il forum, sei in pieno delirio di onnipotenza!”
“Ma che, scherziamo?”
“E usi il plurale! Come se fossi il tribuno di chissachì”.
“Ma che chissachì e chissacosa, se almeno mi spieghi con chi sto parlando, io posso…”
“Lo vedi? Non hai più rispetto nemmeno per i congiuntivi. Sei pronto per il teatro Parioli, lo sai?”
“Ma vaffanc…”
“E sei diventato anche volgare, sì, l’avevo notato”.
Guardai di qua e di là, per conoscere di qual parte venissero queste parole, ma non c’era nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi a quell’ora ronfavano della grossa, compreso lcgn. Solo l’omino, seduto nella sua postazione, canterellava tra i denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai…
La Festa, un successone: un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano;altri, vestiti da pagliacci, bevevano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo. Io e lcgnl, appena entrati, ci ficcammo subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventammo gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di noi?
“Bella vita, eh? E tu che non ci volevi venire…”
“Hai notato che si grattano la testa?”
“Eh?”
“Mentre parlano: si grattano tutti le tempie, qui e qui. Hai notato?”
“Sarà un riflesso condizionato… l’imbarazzo, sai… ma anche tu”.
“Cosa?”
“Ti sei appena grattato la testa”.
“Io? Ti sbagli”.
“Ti ho visto adesso, ti sei grattato dietro l’orecchio, qui”.
“Adesso sei tu che ti stai grattando”.
“Ma no, ti sto solo mostrando”.
“Però intanto ti gratti”.
“Ma a furia di parlarne mi è venuto prurito”.
“Toh, anche a me”.
Alle prime ore del mattino ci stendemmo esausti su un pavimento. Io feci sogni strani, ma d'altronde me l’aveva ben detto la mamma che non si mescola la franziskaner col mojito. Mi svegliai di soprassalto, intorno a me un gran concerto per oboe e tromboni. In questi casi sembra sempre che qualcuno abbia alzato il volume dentro la tua testa. Beh, stavolta era più vero del solito. Qualcuno aveva veramente alzato il volume.
Di fianco a me, lcgnl assecondava il concerto col suo sax baritono. Mi voltai per cercare di scuoterlo. Ma immaginatevi la mia sorpresa quando vidi la sua immagine abbellita di un bel paio di orecchi asinini!
“Ehi, pss, lcgnl!”
“Z… che c’è?”
“C’è che ti sono spuntate due orecchie d’asino, stanotte”.
“Mmm”.
“No, ma sul serio”.
Aprì gli occhi, portò le mani alla testa. “Ah sì?”
“Lo vedi da te”.
“Beh, è inutile che fai quell’aria compassionevole, sai? Non sei certo messo meglio di me”.
“Cosa intendi, scusa?”
“Con la differenza che a te donano. Ti fanno più alto”.
“Ma di che stai parlando, scusa”.
“Delle tue orecchie da somaro, sto parlando”.
“Sì, ma tu scherzi, io invece sono serio”.
“Anch’io sono serio. Ouch”.
“Che c’è?”
“Sto cercando di reggermi sulle gambe e non ci riesco”.
“Eh, in effetti non ci riesco neanch’i-ho”.
“Come hai detto, scusa?”
“Iiiii-hoooo”
“Non è molto cool da parte tua, sai?”
“Iiiii-hoooo”
“Del resto temo che …sento che anch’i-ho… Iiiii-hoooo”.
“Iiiii-hoooo”
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
“Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui, con la striglia e le cavezze”.
E quando a furia di strigliarci ci ebbe fatti lustri come due specchi, allora ci mise la cavezza e ci condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderci e di beccarci un lauto guadagno. E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
***
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino?
Io comunque non mi lamento, poteva andarmi peggio. Guardate lcgnl, per esempio: adesso fa le televendite su canale padania. Quanto a me, il famoso Ciuchino Leonardo non ha certo bisogno di presentazioni. Sono la gioia dei grandi e dei piccini.
Ora, se mi scusate, devo fare quel famoso salto nel cerchio. A dire il vero non so perché il direttore insista tanto. A volte temo che voglia farmi del male apposta. Il mondo dello spettacolo è così: un giorno tutti ti amano, il giorno dopo la tua pelle non vale venti soldi.
Del resto, se le cose si mettono male, so di chi è la colpa. Diabolico Omino! Chi l’avrebbe mai detto!
Allegoria – ogni riferimento a persona o cosa è puramente.
Non è che mi lamento, no: anche la paglia e il fieno hanno il loro sapore, col tempo ci si abitua e non si mangerebbe altro. E in fondo, l’importante è sentirsi stimato, amato, anche un po’ invidiato, perché no? E vedervi ogni sera, in tanti, tutt’intorno, che dite: “Bravo Leonardo!”, e “Facci l’elzeviro!”, “Facci l’invettiva!”, “Facci l’approfondimento!”, “Facci Facci!”, “Indignati!”, “Al trotto!”, “Al galoppo!”, “Salta nel cerchio”, … sono cose che fanno piacere, veramente. Anche se, resti fra noi, alla fine della fiera resto solo un povero somaro.
Eppure c’è stato un periodo in cui ero diverso, e in un certo senso migliore: non proprio un bravo bambino in carne e ossa, ma quasi. Studiavo sodo e prendevo ottimi voti, lavoravo anche, accudivo gli infermi, ero un modello per la società. Finché un giorno, tac! di colpo in bianco, somaro di successo. Come andò? Beh, fu un po’ colpa del mio amico, www.lcgnl.blogspot.com. E un po’ dell’uomo di burro, anche. Anzi, diciamolo: fu tutta colpa della diabolica perfidia dell’uomo di burro. Ma andiamo con ordine.
***
Io avevo appena scoperto di aver vinto quel posto in facoltà – ero un ragazzo arrivato, ormai – ed ero uscito per invitare lcgnl ai festeggiamenti, ma in casa non c’era. Mandato e-mail, messaggiato: niente. Finché, quando ormai avevo rinunciato e stavo andando a casa a preparare le tartine, non me lo trovo che sembrava volersi nascondere sotto il portico di una casa di contadini.
“Beh? Cosa fai costì?”
“Sto aspettando che venga sera per partire”.
“E dove vai?”
“Eh, eh, sapessi… Mi hanno invitato a una Festa, lontano lontano lontano”.
“Ah sì? E come si chiama?”
“Si chiama la Festa dei Balog. Perché non vieni anche tu?”
“Io? No davvero!”
“Guarda che se non vieni, poi te ne penti… drinkard omaggio, magliette e award per tutti, e le più belle supertope della blogosfera, tutto in un contesto raffinato ed esclusivo! Chi non viene, è solo un povero troll”.
“Ma io non sono pratico di coteste cose”.
“Lascia perdere. Se vieni sei dei nostri, sennò non sei nessuno. Tu chi sei?”
“Ecco, appunto. Volevo dirti che da domani divento un ragazzo perbene, con una borsa di studio come tutti”.
“Cazzate”.
“Come sarebbe a dire cazzate?”
“Tu puoi essere di più di questo. Tu puoi essere Leonardo”.
“Ma io in effetti sono L…”
“Per ora, come Leonardo non sei nessuno, ma se vieni con noi, se entri nel giro dei siti importanti, potrai diventare Leonardo, la blogstar! Primo su tutti i motori di ricerca! Le lettrici ai tuoi piedi, a supplicarti per un link, a fare di tutto per un flame!”
“Uhm! In effetti è una vita che farei volentieri. Ma quanto si paga?”
“È tutto gratis, come la drinkard”.
“Ah, sì? Beh, peccato. Ho appena promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, perciò… peccato”.
“Beh, sì, capisco. Vai, su, si è fatto tardi”.
“Stai partendo?”
“Aspetto l’Omino di Burro che arriva a mezzanotte. Ma tu vai, su”.
“Ma davvero si beve gratis?”
“Pare proprio di sì”.
“Che bella Festa sarà, eh?”
“Eh sì. Ma adesso vai, che poi la fatina ti s’incazza”.
“Ma davvero ci sono le supertope?”
“Che, mi hai preso per fesso? Supertope garantite”.
“Che bella festa… che bella festa…”
“Dunque, vuoi venire sì o no?”
“È inutile che tu mi tenti! Ormai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola”.
“Meglio così. Ah, ecco qui il carro. Bene, grazie per la compagnia”.
“Ma davvero ti danno la maglietta?”
“Senti, adesso hai rotto veramente i coglioni. Monta sul carretto e zitto”.
Ora vi descrivo il conducente del carretto:
Figuratevi un omino tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati, e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella blogosfera col seducente nome di Festa dei Balog.
Siccome il carretto era pieno imballato, mi accomodò in groppa di uno dei ciuchini. Bella bestia un po’ riottosa, dapprincipio non voleva saperne: gli staccammo un paio di orecchie a morsi e cominciò a ragionare. Poi però, mentre procedevamo nell’oscurità, e tutto il mondo intorno a noi russava, lo sentivo ragliare piano. E a un certo punto sentii pure una voce sommessa e appena intelligibile, che diceva:
“Povero gonzo! Sei salito sul carretto, peggio per te”.
“Eh? Come?”
“È bastato così poco… due link, una minuscola celebrità… e sei caduto come un pesciolino nella rete del pescatore verde”.
“Ah, il pescatore verde, sì, lo conosco… ma qualcuno sta parlando di me, per caso?”
“Lo vedi? Non sei neanche più in grado di capire quando qualcuno vuole comunicare con te! Hai chiuso i commenti, hai occultato il forum, sei in pieno delirio di onnipotenza!”
“Ma che, scherziamo?”
“E usi il plurale! Come se fossi il tribuno di chissachì”.
“Ma che chissachì e chissacosa, se almeno mi spieghi con chi sto parlando, io posso…”
“Lo vedi? Non hai più rispetto nemmeno per i congiuntivi. Sei pronto per il teatro Parioli, lo sai?”
“Ma vaffanc…”
“E sei diventato anche volgare, sì, l’avevo notato”.
Guardai di qua e di là, per conoscere di qual parte venissero queste parole, ma non c’era nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi a quell’ora ronfavano della grossa, compreso lcgn. Solo l’omino, seduto nella sua postazione, canterellava tra i denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai…
La Festa, un successone: un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano;altri, vestiti da pagliacci, bevevano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo. Io e lcgnl, appena entrati, ci ficcammo subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventammo gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di noi?
“Bella vita, eh? E tu che non ci volevi venire…”
“Hai notato che si grattano la testa?”
“Eh?”
“Mentre parlano: si grattano tutti le tempie, qui e qui. Hai notato?”
“Sarà un riflesso condizionato… l’imbarazzo, sai… ma anche tu”.
“Cosa?”
“Ti sei appena grattato la testa”.
“Io? Ti sbagli”.
“Ti ho visto adesso, ti sei grattato dietro l’orecchio, qui”.
“Adesso sei tu che ti stai grattando”.
“Ma no, ti sto solo mostrando”.
“Però intanto ti gratti”.
“Ma a furia di parlarne mi è venuto prurito”.
“Toh, anche a me”.
Alle prime ore del mattino ci stendemmo esausti su un pavimento. Io feci sogni strani, ma d'altronde me l’aveva ben detto la mamma che non si mescola la franziskaner col mojito. Mi svegliai di soprassalto, intorno a me un gran concerto per oboe e tromboni. In questi casi sembra sempre che qualcuno abbia alzato il volume dentro la tua testa. Beh, stavolta era più vero del solito. Qualcuno aveva veramente alzato il volume.
Di fianco a me, lcgnl assecondava il concerto col suo sax baritono. Mi voltai per cercare di scuoterlo. Ma immaginatevi la mia sorpresa quando vidi la sua immagine abbellita di un bel paio di orecchi asinini!
“Ehi, pss, lcgnl!”
“Z… che c’è?”
“C’è che ti sono spuntate due orecchie d’asino, stanotte”.
“Mmm”.
“No, ma sul serio”.
Aprì gli occhi, portò le mani alla testa. “Ah sì?”
“Lo vedi da te”.
“Beh, è inutile che fai quell’aria compassionevole, sai? Non sei certo messo meglio di me”.
“Cosa intendi, scusa?”
“Con la differenza che a te donano. Ti fanno più alto”.
“Ma di che stai parlando, scusa”.
“Delle tue orecchie da somaro, sto parlando”.
“Sì, ma tu scherzi, io invece sono serio”.
“Anch’io sono serio. Ouch”.
“Che c’è?”
“Sto cercando di reggermi sulle gambe e non ci riesco”.
“Eh, in effetti non ci riesco neanch’i-ho”.
“Come hai detto, scusa?”
“Iiiii-hoooo”
“Non è molto cool da parte tua, sai?”
“Iiiii-hoooo”
“Del resto temo che …sento che anch’i-ho… Iiiii-hoooo”.
“Iiiii-hoooo”
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
“Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui, con la striglia e le cavezze”.
E quando a furia di strigliarci ci ebbe fatti lustri come due specchi, allora ci mise la cavezza e ci condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderci e di beccarci un lauto guadagno. E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
***
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino?
Io comunque non mi lamento, poteva andarmi peggio. Guardate lcgnl, per esempio: adesso fa le televendite su canale padania. Quanto a me, il famoso Ciuchino Leonardo non ha certo bisogno di presentazioni. Sono la gioia dei grandi e dei piccini.
Ora, se mi scusate, devo fare quel famoso salto nel cerchio. A dire il vero non so perché il direttore insista tanto. A volte temo che voglia farmi del male apposta. Il mondo dello spettacolo è così: un giorno tutti ti amano, il giorno dopo la tua pelle non vale venti soldi.
Del resto, se le cose si mettono male, so di chi è la colpa. Diabolico Omino! Chi l’avrebbe mai detto!
domenica 23 novembre 2003
("Ma tu sei Leonardo?"
"Sì").
Frammenti di Karaoke esistenziale, ciak! 6
Io credo a una maledizione:
mutarmi in un tuo nemico.
Sei un grande predatore dentro la mia testa,
che uccide solo per gioco.
Ma in questo sei mia complice:
la tua magia che muore,
la mia magia che muore.
In questo siamo complici,
ora che stringi solo un uomo immaginario:
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario.
Io credo sia superstizione,
ma il tuo destino mi usa
e rende ciò che amo, quando lo raggiungo,
come qualsiasi altra cosa.
Ma adesso siamo complici:
la mia magia che muore,
la tua magia che muore.
In questo siamo complici,
ora che stringi solo un uomo immaginario...
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario.
(La canzone si intitola, in effetti, Non sono immaginario, Afterhours, 2002)
"Sì").
Frammenti di Karaoke esistenziale, ciak! 6
Io credo a una maledizione:
mutarmi in un tuo nemico.
Sei un grande predatore dentro la mia testa,
che uccide solo per gioco.
Ma in questo sei mia complice:
la tua magia che muore,
la mia magia che muore.
In questo siamo complici,
ora che stringi solo un uomo immaginario:
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario.
Io credo sia superstizione,
ma il tuo destino mi usa
e rende ciò che amo, quando lo raggiungo,
come qualsiasi altra cosa.
Ma adesso siamo complici:
la mia magia che muore,
la tua magia che muore.
In questo siamo complici,
ora che stringi solo un uomo immaginario...
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
Non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario
non sono immaginario.
(La canzone si intitola, in effetti, Non sono immaginario, Afterhours, 2002)
venerdì 21 novembre 2003
Altre scuse non richieste
Chiedo scusa se invece di un pistolotto sul terrorismo, la guerra, la pace, ecc., utilizzo questo spazio per invitarvi ancora una volta a Modena domani (sabato 22 novembre), al circolo Arci Ohm, ore 20.30 (qui le indicazioni in versione stampabile). Presenteremo due libri che ci è capitato di leggere – ma soprattutto scrivere – quest’anno: Mondo Blog, di Eloisa Di Rocco (La Pizia), e Blogout, a cura di Alessandro Marzi e Fabrizio Biccio Ulisse.
Libri a parte, è una scusa per vedersi ogni tanto. E non c’è proprio niente di strano se persone che si leggono ogni giorno sentono ogni tanto il bisogno d’incontrarsi. Sabato ci saranno sicuramente la Pizia, Aterra, i Polaroidanti, Rillo, Frederic, e tanti altri baldi giovani blog che su Blogout non c’erano, ma non avrebbero certo sfigurato: Franco, Pietro, e... figurati se non mi dimentico qualcuno.
Chiedo scusa se in questi giorni gravi, coi tricolori ai balconi e il silenzio al telegiornale, non mi viene in mente nulla di meglio che invitarvi in una disco prima dell’orario di apertura. D’altronde la vita va avanti, come si dice in questi casi: guai ad accusare il colpo, guai a mostrare paura. Vestiamoci a festa, piuttosto, e balliamo. O non è quello che chiese G. W. Bush 12 settembre, nel suo storico discorso ai consumatori americani?
Chiedo scusa se non ho avuto parole di cordoglio, parole di condanna, parole di speranza, parole, parole. E soprattutto: chiedo scusa se ho giudicato male il mondo senza proporre un’alternativa. Questa alternativa, effettivamente, non ce l’ho. Non ho alternative ai kamikaze, non ho alternative alle cluster bombs, non ho alternative alla guerriglia endemica, al muro in Cisgiordania, all’uranio impoverito, a ogni altro tipo di calamità che oggi si spaccia per necessaria. Sono un povero stupido, si sa, e non ho alternative per la guerra al terrorismo in cui sono stato trascinato. Non ho ideologie da difendere coi denti e i trafiletti dei giornali. Ho solo paura: non dovrei? Ho paura della ragazzina che viene a scuola al mio paese con il velo: ma come fai a chiederle di toglierlo, dopo tutto il baccano che abbiamo fatto sul crocefisso? Ho paura quando vedo un’intera nazione accorgersi di essere in guerra, e accettarlo come un fatto naturale. Ho paura quando vedo un lutto nazionale tanto elaborato: tutto questo stringersi ai morti come a dire: ne vogliamo ancora. E ho paura che ne avremo
E alla fine chiedo scusa se proprio in questi giorni di terrorismo, o puro e semplice terrore, mi sono spesso scoperto felice. È un bel periodo per me. I miei tengono duro, una ragazza mi vuole bene, lavoro ce n’è, pure la ruota s’è rimessa a girare. E anche se dormo poco è perché ho molto da vivere. È un mese così assurdo, novembre, per la felicità. Quest’anno, poi, che vergogna. Ma cosa posso farci? Al massimo posso chiedere scusa.
.
Chiedo scusa se invece di un pistolotto sul terrorismo, la guerra, la pace, ecc., utilizzo questo spazio per invitarvi ancora una volta a Modena domani (sabato 22 novembre), al circolo Arci Ohm, ore 20.30 (qui le indicazioni in versione stampabile). Presenteremo due libri che ci è capitato di leggere – ma soprattutto scrivere – quest’anno: Mondo Blog, di Eloisa Di Rocco (La Pizia), e Blogout, a cura di Alessandro Marzi e Fabrizio Biccio Ulisse.
Libri a parte, è una scusa per vedersi ogni tanto. E non c’è proprio niente di strano se persone che si leggono ogni giorno sentono ogni tanto il bisogno d’incontrarsi. Sabato ci saranno sicuramente la Pizia, Aterra, i Polaroidanti, Rillo, Frederic, e tanti altri baldi giovani blog che su Blogout non c’erano, ma non avrebbero certo sfigurato: Franco, Pietro, e... figurati se non mi dimentico qualcuno.
Chiedo scusa se in questi giorni gravi, coi tricolori ai balconi e il silenzio al telegiornale, non mi viene in mente nulla di meglio che invitarvi in una disco prima dell’orario di apertura. D’altronde la vita va avanti, come si dice in questi casi: guai ad accusare il colpo, guai a mostrare paura. Vestiamoci a festa, piuttosto, e balliamo. O non è quello che chiese G. W. Bush 12 settembre, nel suo storico discorso ai consumatori americani?
Chiedo scusa se non ho avuto parole di cordoglio, parole di condanna, parole di speranza, parole, parole. E soprattutto: chiedo scusa se ho giudicato male il mondo senza proporre un’alternativa. Questa alternativa, effettivamente, non ce l’ho. Non ho alternative ai kamikaze, non ho alternative alle cluster bombs, non ho alternative alla guerriglia endemica, al muro in Cisgiordania, all’uranio impoverito, a ogni altro tipo di calamità che oggi si spaccia per necessaria. Sono un povero stupido, si sa, e non ho alternative per la guerra al terrorismo in cui sono stato trascinato. Non ho ideologie da difendere coi denti e i trafiletti dei giornali. Ho solo paura: non dovrei? Ho paura della ragazzina che viene a scuola al mio paese con il velo: ma come fai a chiederle di toglierlo, dopo tutto il baccano che abbiamo fatto sul crocefisso? Ho paura quando vedo un’intera nazione accorgersi di essere in guerra, e accettarlo come un fatto naturale. Ho paura quando vedo un lutto nazionale tanto elaborato: tutto questo stringersi ai morti come a dire: ne vogliamo ancora. E ho paura che ne avremo
E alla fine chiedo scusa se proprio in questi giorni di terrorismo, o puro e semplice terrore, mi sono spesso scoperto felice. È un bel periodo per me. I miei tengono duro, una ragazza mi vuole bene, lavoro ce n’è, pure la ruota s’è rimessa a girare. E anche se dormo poco è perché ho molto da vivere. È un mese così assurdo, novembre, per la felicità. Quest’anno, poi, che vergogna. Ma cosa posso farci? Al massimo posso chiedere scusa.
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giovedì 20 novembre 2003
Trova l’errore
In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?
(Clicca qui per ingrandire).
È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.
Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?
No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?
E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.
Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.
E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.
Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.
O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.
In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?
(Clicca qui per ingrandire).
È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.
Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?
No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?
E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.
Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.
E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.
Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.
O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.
mercoledì 19 novembre 2003
Quella che segue è una prolissa guida per recarsi al circolo Arci Ohm sabato 22 novembre, alle 20.30, e apprezzare la presentazione di Blogout.
Una guida molto più breve e stampabile la trovate cliccando qui.
Se vi perdete (in macchina o a piedi), non chiedete al passante dov’è via del Lancillotto: nessuno lo sa. Cercate di raggiungere la stazione, e poi seguite le relative istruzioni.
Potete venire a Modena in treno o in autostrada: se venite in autostrada cliccate qui.
Se invece venite in treno, non vedrete più il romantico paesaggio che accoglieva il pendolare fino a qualche anno fa: ruderi industriali conquistati dai rampicanti, rottami della vecchia fonderia, rovi, gramigna. Un bel modo di presentarsi al viaggiatore: ma la città era fatta così, metteva fuori subito tutte le spine. Montezemolo (che, inspiegabile, a volte viaggia in treno) all’inizio restò sconcertato. Poi fece costruire un grattacielo mignon, con in cima il tridente Maserati: ma un ironico architetto sembra essersi ispirato al vecchio acquedotto della fonderia, che resta ancora su. Il resto è tutto spianato.
La stazione è stata rimessa a nuovo da poco, ma è più facile fare il lifting a due sportelli, un bar e un binario, che a tante brutte facce. Uscendo nel piazzale, non fate caso ai lancinanti versi di volatili tropicali: è un disco che serve a scacciare i piccioni, mentre gli inquilini umani, a quanto pare, sopravvivono. Mi chiedo come.
Snobbate il lungo viale che dà sulla cupola del Tempio ai Caduti: prendete il vicolo che si apre sulla sinistra, tra la vetrina di un sexy shop e il parcheggio dove gli sfattoni vanno a rifornirsi di biciclette. Ora siete in via Niccolò dell’Abate: proseguendo incontrerete (sulla sinistra) un ufficio postale e poi un cinema, ex dopolavoro ferroviario, dove si proiettano film importanti, di solito con fischi di treni in sottofondo.
Questo vicolo sta cambiando a vista d’occhio. Hanno tagliato due file d’alberi, intonacato i muri, tracciato strisce pedonali. Sembra che la città non abbia più spine da mostrare.
In capo a due minuti il vicolo va a sbattere contro un cavalcavia. Dovrei dirvi di voltare a sinistra: passerete un’officina, un kebab e un’insegna di arredamento che in realtà è un internet point, e poi troverete una scaletta da salire. Ma ho paura che quella scaletta sia ancora transennata per i lavori in corso. Allora potete provare a passare sotto il cavalcavia, e girare subito a destra: dovreste trovare un’altra scaletta. Insomma, in un modo o nell’altro dovete riuscire a salire sopra il cavalcavia, che in realtà cavalca la ferrovia Milano–Bologna. Quando sarete lì, oltrepassate la ferrovia e guardate in basso, sul lato verso Bologna, forse nel punto esatto in cui un giorno vidi una signora scavalcare con una gamba il parapetto, e poi improvvisamente ripensarci. Chissà dov’è adesso.
State guardando sotto? (Continua qui)
Una guida molto più breve e stampabile la trovate cliccando qui.
Se vi perdete (in macchina o a piedi), non chiedete al passante dov’è via del Lancillotto: nessuno lo sa. Cercate di raggiungere la stazione, e poi seguite le relative istruzioni.
Potete venire a Modena in treno o in autostrada: se venite in autostrada cliccate qui.
Se invece venite in treno, non vedrete più il romantico paesaggio che accoglieva il pendolare fino a qualche anno fa: ruderi industriali conquistati dai rampicanti, rottami della vecchia fonderia, rovi, gramigna. Un bel modo di presentarsi al viaggiatore: ma la città era fatta così, metteva fuori subito tutte le spine. Montezemolo (che, inspiegabile, a volte viaggia in treno) all’inizio restò sconcertato. Poi fece costruire un grattacielo mignon, con in cima il tridente Maserati: ma un ironico architetto sembra essersi ispirato al vecchio acquedotto della fonderia, che resta ancora su. Il resto è tutto spianato.
La stazione è stata rimessa a nuovo da poco, ma è più facile fare il lifting a due sportelli, un bar e un binario, che a tante brutte facce. Uscendo nel piazzale, non fate caso ai lancinanti versi di volatili tropicali: è un disco che serve a scacciare i piccioni, mentre gli inquilini umani, a quanto pare, sopravvivono. Mi chiedo come.
Snobbate il lungo viale che dà sulla cupola del Tempio ai Caduti: prendete il vicolo che si apre sulla sinistra, tra la vetrina di un sexy shop e il parcheggio dove gli sfattoni vanno a rifornirsi di biciclette. Ora siete in via Niccolò dell’Abate: proseguendo incontrerete (sulla sinistra) un ufficio postale e poi un cinema, ex dopolavoro ferroviario, dove si proiettano film importanti, di solito con fischi di treni in sottofondo.
Questo vicolo sta cambiando a vista d’occhio. Hanno tagliato due file d’alberi, intonacato i muri, tracciato strisce pedonali. Sembra che la città non abbia più spine da mostrare.
In capo a due minuti il vicolo va a sbattere contro un cavalcavia. Dovrei dirvi di voltare a sinistra: passerete un’officina, un kebab e un’insegna di arredamento che in realtà è un internet point, e poi troverete una scaletta da salire. Ma ho paura che quella scaletta sia ancora transennata per i lavori in corso. Allora potete provare a passare sotto il cavalcavia, e girare subito a destra: dovreste trovare un’altra scaletta. Insomma, in un modo o nell’altro dovete riuscire a salire sopra il cavalcavia, che in realtà cavalca la ferrovia Milano–Bologna. Quando sarete lì, oltrepassate la ferrovia e guardate in basso, sul lato verso Bologna, forse nel punto esatto in cui un giorno vidi una signora scavalcare con una gamba il parapetto, e poi improvvisamente ripensarci. Chissà dov’è adesso.
State guardando sotto? (Continua qui)
Lì c’è uno spiazzo di terra battuta, che è terra di nessuno: non parcheggio, non parco, non pascolo. (Un giorno, mentre ero a Bologna a dare un esame, uno zingaro qui mi entrò in macchina e mi rubò la mia prima chitarra).
In fondo a quello spiazzo c’è un’antichissima insegna, che recita: “Nuova Donatella”: scendete le scale e andate laggiù.
Vi ritroverete senza accorgervene in Via del Lancillotto. Su un lato della “Nuova Donatella” c’è un murales sudamericaneggiante: di fronte c’è un’altra vecchia insegna in neon, che dice: “Polisportiva Villa D’Oro”. È lì che dovete entrare: il cancello è aperto. Il circolo Ohm è quel magazzeno adorno di graffiti. Aprite la porta: se un buttafuori vi chiede una tessera, voi fate una smorfia e chiedete di Leonardo.
(“Leonardo chi?”, risponderà).
In fondo a quello spiazzo c’è un’antichissima insegna, che recita: “Nuova Donatella”: scendete le scale e andate laggiù.
Vi ritroverete senza accorgervene in Via del Lancillotto. Su un lato della “Nuova Donatella” c’è un murales sudamericaneggiante: di fronte c’è un’altra vecchia insegna in neon, che dice: “Polisportiva Villa D’Oro”. È lì che dovete entrare: il cancello è aperto. Il circolo Ohm è quel magazzeno adorno di graffiti. Aprite la porta: se un buttafuori vi chiede una tessera, voi fate una smorfia e chiedete di Leonardo.
(“Leonardo chi?”, risponderà).
Se l’Italia autostradale è un crocefisso, con le braccia alte e inchiodate a Udine e Torino, i fianchi che cascano sulle direttrici dell’Autosole e dell’Adriatica, e le gambe che si accavallano sulla Salerno Reggio Calabria: se è un crocefisso col cuore sul Grande Raccordo Anulare, e le pudende a Napoli: qual è il quarto braccio della croce, il più corto, quello che guarda verso l’alto? È l’A22, l’Autostrada del Brennero, che scende da Innsbruck e arriva sulla A1, a pochi chilometri da Modena Nord.
Così, quando arrivate a Modena Nord, e non vi sembra proprio nulla di speciale, consolatevi pensando che siete al centro della croce autostradale italiana: qui arrivano i camion dalla Germania, qui salgono dalla Calabria. È un luogo di traffici, e non tutti puliti. Uscendo vedrete per pochi istanti un grande piazzale sterrato dove si accampano i camionisti, e penserete che è l’ultimo posto al mondo dove comincereste una storia d’amore (avete torto).
Alla rotonda, girate a destra, verso “tutte le direzioni”, e poi seguite il cartello che vi indica il Centro. Salirete su un ponte e vi immetterete sulla nostra tangenziale, il nostro piccolo raccordo anulare, che sta diventando grande, ormai, e ora ha messo anche le uscite numerate. Voi dovete uscire tra qualche chilometro, all’Uscita 12 (Madonnina – S. Cataldo). In settembre trovereste i parcheggi della Festa dell’Unità. Ma è novembre, mese di nebbia e di morti, e infatti uscendo vi troverete in piena necropoli: due cimiteri monumentali, l’uno addosso all’altro. Il cubo rosso punteggiato dai lumi delle candele è il Cimitero di Aldo Rossi: il progetto era un capolavoro, ma è stato realizzato solo a metà (tipico). Davanti al cimitero, svoltate a sinistra e percorrete una lunga strada che sembra portarvi contro la facciata della chiesa di San Cataldo: invece, all’ultimo momento, scarta a sinistra. Se siete sfortunati dovrete aspettare a lungo davanti a un passaggio a livello sbarrato. Altrimenti, subito dopo la ferrovia, ubbidite al cartello che vi chiede di svoltare a destra. Ora si tratta di costeggiare la ferrovia (sulla vostra destra) per alcuni chilometri.
Questa, una volta, era zona di nigeriane. Ora si sono sistemate altrove: ma ancora certe notti qualche cartello in lontananza sembra ancheggiare ammiccante sotto i lampioni. Passerete sotto un cavalcavia e proseguirete; costeggerete (sulla vostra sinistra) la Molinari Torrefazioni, che al mattino spande odore di caffè ferroso ai pendolari che aspettano il treno in stazione. Poi, sempre sulla vostra sinistra, vedrete il palazzo a forma di vela che il Carlino ha deciso di battezzare “Hotel Eroina”. A un certo punto i proprietari decisero di affittare solo a extracomunitari, non si sa quanto al metro quadro. Non si sa nulla, in effetti, perché sembra che i bianchi non possano entrare.
Voi tirate dritti, ma mettete la freccia a sinistra: di lì a poco passerete sotto un secondo cavalcavia. Ora dovete svoltare a sinistra e parcheggiare lì. (Continua qui).
Così, quando arrivate a Modena Nord, e non vi sembra proprio nulla di speciale, consolatevi pensando che siete al centro della croce autostradale italiana: qui arrivano i camion dalla Germania, qui salgono dalla Calabria. È un luogo di traffici, e non tutti puliti. Uscendo vedrete per pochi istanti un grande piazzale sterrato dove si accampano i camionisti, e penserete che è l’ultimo posto al mondo dove comincereste una storia d’amore (avete torto).
Alla rotonda, girate a destra, verso “tutte le direzioni”, e poi seguite il cartello che vi indica il Centro. Salirete su un ponte e vi immetterete sulla nostra tangenziale, il nostro piccolo raccordo anulare, che sta diventando grande, ormai, e ora ha messo anche le uscite numerate. Voi dovete uscire tra qualche chilometro, all’Uscita 12 (Madonnina – S. Cataldo). In settembre trovereste i parcheggi della Festa dell’Unità. Ma è novembre, mese di nebbia e di morti, e infatti uscendo vi troverete in piena necropoli: due cimiteri monumentali, l’uno addosso all’altro. Il cubo rosso punteggiato dai lumi delle candele è il Cimitero di Aldo Rossi: il progetto era un capolavoro, ma è stato realizzato solo a metà (tipico). Davanti al cimitero, svoltate a sinistra e percorrete una lunga strada che sembra portarvi contro la facciata della chiesa di San Cataldo: invece, all’ultimo momento, scarta a sinistra. Se siete sfortunati dovrete aspettare a lungo davanti a un passaggio a livello sbarrato. Altrimenti, subito dopo la ferrovia, ubbidite al cartello che vi chiede di svoltare a destra. Ora si tratta di costeggiare la ferrovia (sulla vostra destra) per alcuni chilometri.
Questa, una volta, era zona di nigeriane. Ora si sono sistemate altrove: ma ancora certe notti qualche cartello in lontananza sembra ancheggiare ammiccante sotto i lampioni. Passerete sotto un cavalcavia e proseguirete; costeggerete (sulla vostra sinistra) la Molinari Torrefazioni, che al mattino spande odore di caffè ferroso ai pendolari che aspettano il treno in stazione. Poi, sempre sulla vostra sinistra, vedrete il palazzo a forma di vela che il Carlino ha deciso di battezzare “Hotel Eroina”. A un certo punto i proprietari decisero di affittare solo a extracomunitari, non si sa quanto al metro quadro. Non si sa nulla, in effetti, perché sembra che i bianchi non possano entrare.
Voi tirate dritti, ma mettete la freccia a sinistra: di lì a poco passerete sotto un secondo cavalcavia. Ora dovete svoltare a sinistra e parcheggiare lì. (Continua qui).
martedì 18 novembre 2003
D’Annunzio vs Wu Ming
“Io esco. Rispettatemi i morti nel frattempo” (Roberto Grassilli)
Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità (e guardate che le pubblicità sono soldi, e parecchi), andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?
Banalmente, sarebbe finita qui. I morti rimangono morti, i vivi rimangono vivi, i militari italiani rimangono in Iraq. Abbiamo scoperto che siamo in guerra, abbiamo deciso di restarci. Ora potremmo anche tornare alle rispettive occupazioni (in attesa del prossimo allarme). Invece abbiamo altre 24 ore di lutto nazionale. Che si fa?
Ci studiamo le biografie dei caduti? Già fatto. Intervistiamo i parenti, i commilitoni? Fatto, fatto. Li spremiamo un po’ a vedere se finalmente piangono? Ma non è più tempo di lacrime, l’ha detto anche Berlusconi: l’Italia non è più il Paese delle mamme. E allora che si fa?
Nel 1887 il Regno d’Italia era in guerra e non lo sapeva.
L’avventura coloniale era cominciata due anni prima, piuttosto in sordina: un battaglione di bersaglieri era salpato da Napoli alla volta di Assab, un porto nel Mar Rosso acquistato da un armatore privato. L’obiettivo era, secondo alcuni, civilizzare gli indigeni che avevano barbaramente assassinato un esploratore italiano, Bianchi; secondo altri, “cercare le chiavi del Mediterraneo nel Mar Rosso” (il fatto è che la Francia ci aveva appena soffiato la Tunisia sotto il naso). Qualcuno sperava forse di poter collaborare con gli Inglesi alla “pacificazione” e alla relativa spartizione del Sudan: speranza subito frustrata. I Bersaglieri si limitarono a occupare il territorio di Massaua (Eritrea) e a cercare di accreditarsi come mediatori tra i due capi indigeni in lotta fra loro: il Negus d’Etiopia e il suo futuro successore, Menelik. (La mediazione è una vera vocazione delle nostre forze armate).
Non che di questo, tutto sommato, fregasse un granché a qualcuno. Erano anni difficili, in Italia: i movimenti anarchici, il primo socialista in Parlamento, il trasformismo, la pressione fiscale sui ceti meno abbienti, il gioco delle alleanze europee… perfino i nazionalisti, più che all’Africa, guardavano alle più vicine Trento e Trieste.
Quand’ecco che giunge la notizia che una colonna di cinquecento italiani è stata sterminata da un capotribù, tale ras Alula. Cosa avranno pensato, gli italiani, di un eccidio così improvviso e immotivato? Avranno esposto la bandiera, si saranno uniti al cordoglio, avranno pregato per i caduti. E poi? Poi si saranno chiesti, semplicemente, che ci facevano cinquecento italiani in mezzo all’Abissinia. Cosa stavano pacificando? E il Governo? Il Primo Ministro de Robilant, una settimana prima che la notizia giungesse in Italia, aveva risposto in Parlamento che non valeva la pena di preoccuparsi per “quei quattro predoni” che ostacolavano l’operato degli italiani. Alla notizia della strage si dimise. (Ripeto: si dimise).
Rimaneva, in quell’ancora timido embrione di opinione pubblica, un senso di insofferenza per una strage smisurata (paragonabile a quella delle guerre d’indipendenza) in un territorio praticamente sconosciuto, in una guerra che nessuno aveva veramente scelto di combattere. È a questo punto che interviene lo Scrittore. Un individuo che capta una sensibilità diffusa, che riesce a dar corpo a un disagio che nessuno era riuscito fino a quel momento a concretizzare.
Gabriele D’Annunzio pubblica Il Piacere nell’89. È la storia di un raffinato aristocratico, Andrea Sperelli, un artista che promette bene ma che si rovina a causa di due donne. Benché l’autore avverta subito che intende descrivere “tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane”, il fascino del suo personaggio gli prende la mano. Più procede nella depravazione, più Sperelli risulta irresistibile ai lettori e alle lettrici.
Finché non succede qualcosa. Una sera Sperelli va a un concerto, al Palazzo dei Sabini: incontra le due protagoniste femminili e flirta con entrambe; durante un quartetto di Bach si mette a ragionare, freddamente, su come “l’una avventura avrebbe aiutato l’altra”. Uscendo, si imbatte con la carrozza in una manifestazione per l’eccidio di Dogali ed esclama:
“Per cinquecento morti, morti brutalmente!”
La donna che è con lui rimane di sasso. Di sasso rimane anche il lettore. Finora Sperelli non si è mai interessato di politica. E da qui in poi cesserà di interessarsene. Perché parlare di Dogali? E in modo così oltraggioso, poi? Cosa è successo?
Non è successo niente di strano: è D’Annunzio che cerca lo scandalo, e lo trova. Il romanzo viene accolto da mille polemiche. Come osa questo scrittore parlar male degli eroici caduti di Dogali? E D’Annunzio, sornione, che in una lettere all’editore dichiara:
Quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele d’Annunzio, e sta in bocca di quella specie di mostro. […] Perché i critici dovrebbero insanire? Io, Gabriele d’Annunzio, per i morti di Dogali ho scritto una ode molto commossa, pubblicata a suo tempo.
Salvo che dell’”Ode molto commossa” nessuno si ricordava già più: mentre i “cinquecento bruti” se li ricorda abbastanza bene chiunque abbia letto il Piacere. Ma perché allora D’Annunzio si comporta così?
È che ha capito qualcosa d’importante. Forse lo ha capito leggendo, nell’Educazione sentimentale di Flaubert, di come il protagonista, al colmo dell’abiezione (ha portato una prostituta nella camera che aveva arredato per il suo primo amore), senta eccheggiare le prime fucilate di una rivoluzione ed esclami: “Toh, accoppano qualche borghese” (On casse quelque bourgeois). “Ci sono situazioni”, aggiunge subito Flaubert, “in cui un uomo, anche il meno crudele, è così distaccato dagli altri che vedrebbe perire il genere umano senza un palpito di compassione”. Quell’uomo, non crudele, ma spaventosamente distaccato, è lo scrittore, è l’artista. È Flaubert: forse è anche D’Annunzio. Che finora si è divertito a descrivere il suo modello di viveur: a prestargli i suoi modi e i suoi gusti: ma si è fatto tardi, il romanzo sta finendo, il peccatore deve essere punito, i lettori devono tornare riappacificati alla loro triste realtà. Sperelli deve diventare un mostro: tanto vale tirare in ballo la più grave tragedia nazionale, per mostrarne finalmente l’aspetto cinico, brutale, la “corruzione”, la “depravazione”, le “falsità sottili e vane”.
E in più, una volta liberatosi del mostro Sperelli, D’Annunzio è libero. Non è più lo scrittore di torbidi romanzi sull’aristocrazia romana, no: è il poeta civile che scrive “odi molto commosse”. E il suo lettore? Forse anche lui, a suo tempo, aveva osservato un piccolo lutto per i morti di Dogali: e poi era tornato agli affari suoi, e ai suoi svaghi, compresi i romanzi torbidi. Ma ecco che è chiamato a giudicare “il mostro” Sperelli: miracolo! Ora, finalmente, può indignarsi, elevarsi sulla “depravazione” e le “falsità vane” degli aristocratici che non amano la Patria. E Dogali ha acquistato un senso anche per lui. Ora sì che cinquecento morti non sono morti invano. Ora sì che l’opinione pubblica è pronta per l’avventura coloniale: e ci saranno altre spedizioni, altre stragi, altre “odi molto commosse”.
***
Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità, andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?
Ma certo, è così semplice… possiamo indignarci.
Contro chi? Contro chi manda i carabinieri in un luogo che non possono difendere, in una missione per la quale non sono addestrati, in una “pace” che pace proprio non è, contro i Ministri che in Parlamento per tanti mesi hanno minimizzato, minimizzato? Macché.
Ci indigniamo contro il primo pirla che troviamo nell'open publishing di Indymedia: è così facile, è a portata di mano... ci indigniamo contro una piccola casa editrice che fomenterebbe il terrorismo: Luttwak ci mostra come si fa.
Ci indigniamo contro gli scrittori. Contro Wu Ming 1 (Roberto Bui), che ha avuto, per i diciannove di Nassiriya, parole molto ciniche dal primo giorno. E un po’ d’italiani che fino a quel momento non sapevano nemmeno d’essere in guerra e contro chi, hanno finalmente trovato qualcosa per cui combattere: l’indignazione per quello che scrive Wu Ming.
Chi è Wu Ming? Discorso lungo. Diciamo almeno che non è D’Annunzio. Si tratta di un collettivo di scrittori che negli ultimi anni ha prodotto alcuni romanzi notevoli, ma soprattutto un’idea di letteratura ‘impegnata’ che negli anni Novanta si era del tutto persa per strada. Nei mesi che precedettero Genova, i Wu Ming si ritrovarono nel ruolo di agit prop telematici del Movimento: fu un bel momento, credo, per il Movimento e per Wu Ming. Poi ci fu Indymedia, la forumizzazione di Indymedia, la ghettizzazione dei Disobbedienti, e il rumore di fondo coprì un po’ tutto. I Wu Ming continuano ad avere molte cose da dire, ma, diversamente da due anni fa, per lo più si tratta di prediche ai convertiti. E non è colpa loro: è venuto a mancare un terreno di scambio tra ambienti e linguaggi diversi, che avrebbe potuto essere, e non è stato, Indymedia.
E i blog? Anche i blog avrebbero potuto diventare quel terreno di scambio. Che effetto avrebbe fatto una “predica” di Wu Ming su un blog generalista? Ora lo sappiamo, da quando Giuseppe Genna ha postato il pezzo di Wu Ming1 sui morti di Nassiriya su GNU. E gli utenti, illustri e no, si sono uniti in un coro di vibrante protesta. Alla fine, più di Nassiriya, si è parlato di quanto sono stronzi i Wu Ming. (Sorte analoga -- anche un po' peggiore -- è capitata a un pezzo di Gianluca Neri su Clarence). Senza discussioni sul merito, naturalmente. Bui, per esempio, ricordava i fatti di Genova (che rendono ancora difficile a molti italiani, oggi, parlare dei “nostri carabinieri”); ricordava i militari italiani caduti per l’uranio impoverito. Ma, più dei fatti, contava il tono: era un breve pezzo scritto per la mailing-list di Wu Ming: lapidario, cinico, diciamo pure stronzetto. Il massimo per chi vuole avere un “mostro” contro cui indignarsi.
E allora coraggio, indigniamoci. Tiriamo pure fuori Pasolini, che amava i poliziotti proletari: che belli i proletari che vanno a morire per noi in Iraq. Ed ecco: per altre 24 ore abbiamo risolto il problema di cosa dire, di cosa fare. Poi, se dio vuole, torneremo al nostro tran tran. In attesa del prossimo allarme. Perché siamo in guerra, ricordiamo.
“Io esco. Rispettatemi i morti nel frattempo” (Roberto Grassilli)
Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità (e guardate che le pubblicità sono soldi, e parecchi), andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?
Banalmente, sarebbe finita qui. I morti rimangono morti, i vivi rimangono vivi, i militari italiani rimangono in Iraq. Abbiamo scoperto che siamo in guerra, abbiamo deciso di restarci. Ora potremmo anche tornare alle rispettive occupazioni (in attesa del prossimo allarme). Invece abbiamo altre 24 ore di lutto nazionale. Che si fa?
Ci studiamo le biografie dei caduti? Già fatto. Intervistiamo i parenti, i commilitoni? Fatto, fatto. Li spremiamo un po’ a vedere se finalmente piangono? Ma non è più tempo di lacrime, l’ha detto anche Berlusconi: l’Italia non è più il Paese delle mamme. E allora che si fa?
Nel 1887 il Regno d’Italia era in guerra e non lo sapeva.
L’avventura coloniale era cominciata due anni prima, piuttosto in sordina: un battaglione di bersaglieri era salpato da Napoli alla volta di Assab, un porto nel Mar Rosso acquistato da un armatore privato. L’obiettivo era, secondo alcuni, civilizzare gli indigeni che avevano barbaramente assassinato un esploratore italiano, Bianchi; secondo altri, “cercare le chiavi del Mediterraneo nel Mar Rosso” (il fatto è che la Francia ci aveva appena soffiato la Tunisia sotto il naso). Qualcuno sperava forse di poter collaborare con gli Inglesi alla “pacificazione” e alla relativa spartizione del Sudan: speranza subito frustrata. I Bersaglieri si limitarono a occupare il territorio di Massaua (Eritrea) e a cercare di accreditarsi come mediatori tra i due capi indigeni in lotta fra loro: il Negus d’Etiopia e il suo futuro successore, Menelik. (La mediazione è una vera vocazione delle nostre forze armate).
Non che di questo, tutto sommato, fregasse un granché a qualcuno. Erano anni difficili, in Italia: i movimenti anarchici, il primo socialista in Parlamento, il trasformismo, la pressione fiscale sui ceti meno abbienti, il gioco delle alleanze europee… perfino i nazionalisti, più che all’Africa, guardavano alle più vicine Trento e Trieste.
Quand’ecco che giunge la notizia che una colonna di cinquecento italiani è stata sterminata da un capotribù, tale ras Alula. Cosa avranno pensato, gli italiani, di un eccidio così improvviso e immotivato? Avranno esposto la bandiera, si saranno uniti al cordoglio, avranno pregato per i caduti. E poi? Poi si saranno chiesti, semplicemente, che ci facevano cinquecento italiani in mezzo all’Abissinia. Cosa stavano pacificando? E il Governo? Il Primo Ministro de Robilant, una settimana prima che la notizia giungesse in Italia, aveva risposto in Parlamento che non valeva la pena di preoccuparsi per “quei quattro predoni” che ostacolavano l’operato degli italiani. Alla notizia della strage si dimise. (Ripeto: si dimise).
Rimaneva, in quell’ancora timido embrione di opinione pubblica, un senso di insofferenza per una strage smisurata (paragonabile a quella delle guerre d’indipendenza) in un territorio praticamente sconosciuto, in una guerra che nessuno aveva veramente scelto di combattere. È a questo punto che interviene lo Scrittore. Un individuo che capta una sensibilità diffusa, che riesce a dar corpo a un disagio che nessuno era riuscito fino a quel momento a concretizzare.
Gabriele D’Annunzio pubblica Il Piacere nell’89. È la storia di un raffinato aristocratico, Andrea Sperelli, un artista che promette bene ma che si rovina a causa di due donne. Benché l’autore avverta subito che intende descrivere “tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane”, il fascino del suo personaggio gli prende la mano. Più procede nella depravazione, più Sperelli risulta irresistibile ai lettori e alle lettrici.
Finché non succede qualcosa. Una sera Sperelli va a un concerto, al Palazzo dei Sabini: incontra le due protagoniste femminili e flirta con entrambe; durante un quartetto di Bach si mette a ragionare, freddamente, su come “l’una avventura avrebbe aiutato l’altra”. Uscendo, si imbatte con la carrozza in una manifestazione per l’eccidio di Dogali ed esclama:
“Per cinquecento morti, morti brutalmente!”
La donna che è con lui rimane di sasso. Di sasso rimane anche il lettore. Finora Sperelli non si è mai interessato di politica. E da qui in poi cesserà di interessarsene. Perché parlare di Dogali? E in modo così oltraggioso, poi? Cosa è successo?
Non è successo niente di strano: è D’Annunzio che cerca lo scandalo, e lo trova. Il romanzo viene accolto da mille polemiche. Come osa questo scrittore parlar male degli eroici caduti di Dogali? E D’Annunzio, sornione, che in una lettere all’editore dichiara:
Quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele d’Annunzio, e sta in bocca di quella specie di mostro. […] Perché i critici dovrebbero insanire? Io, Gabriele d’Annunzio, per i morti di Dogali ho scritto una ode molto commossa, pubblicata a suo tempo.
Salvo che dell’”Ode molto commossa” nessuno si ricordava già più: mentre i “cinquecento bruti” se li ricorda abbastanza bene chiunque abbia letto il Piacere. Ma perché allora D’Annunzio si comporta così?
È che ha capito qualcosa d’importante. Forse lo ha capito leggendo, nell’Educazione sentimentale di Flaubert, di come il protagonista, al colmo dell’abiezione (ha portato una prostituta nella camera che aveva arredato per il suo primo amore), senta eccheggiare le prime fucilate di una rivoluzione ed esclami: “Toh, accoppano qualche borghese” (On casse quelque bourgeois). “Ci sono situazioni”, aggiunge subito Flaubert, “in cui un uomo, anche il meno crudele, è così distaccato dagli altri che vedrebbe perire il genere umano senza un palpito di compassione”. Quell’uomo, non crudele, ma spaventosamente distaccato, è lo scrittore, è l’artista. È Flaubert: forse è anche D’Annunzio. Che finora si è divertito a descrivere il suo modello di viveur: a prestargli i suoi modi e i suoi gusti: ma si è fatto tardi, il romanzo sta finendo, il peccatore deve essere punito, i lettori devono tornare riappacificati alla loro triste realtà. Sperelli deve diventare un mostro: tanto vale tirare in ballo la più grave tragedia nazionale, per mostrarne finalmente l’aspetto cinico, brutale, la “corruzione”, la “depravazione”, le “falsità sottili e vane”.
E in più, una volta liberatosi del mostro Sperelli, D’Annunzio è libero. Non è più lo scrittore di torbidi romanzi sull’aristocrazia romana, no: è il poeta civile che scrive “odi molto commosse”. E il suo lettore? Forse anche lui, a suo tempo, aveva osservato un piccolo lutto per i morti di Dogali: e poi era tornato agli affari suoi, e ai suoi svaghi, compresi i romanzi torbidi. Ma ecco che è chiamato a giudicare “il mostro” Sperelli: miracolo! Ora, finalmente, può indignarsi, elevarsi sulla “depravazione” e le “falsità vane” degli aristocratici che non amano la Patria. E Dogali ha acquistato un senso anche per lui. Ora sì che cinquecento morti non sono morti invano. Ora sì che l’opinione pubblica è pronta per l’avventura coloniale: e ci saranno altre spedizioni, altre stragi, altre “odi molto commosse”.
***
Siamo senza parole, ci uniamo al cordoglio, ricordiamo le vittime, facciamo il minuto di silenzio, togliamo la pubblicità, andiamo a salutare le salme, esponiamo la bandiera, preghiamo per i caduti, partecipiamo al dolore, e poi?
Ma certo, è così semplice… possiamo indignarci.
Contro chi? Contro chi manda i carabinieri in un luogo che non possono difendere, in una missione per la quale non sono addestrati, in una “pace” che pace proprio non è, contro i Ministri che in Parlamento per tanti mesi hanno minimizzato, minimizzato? Macché.
Ci indigniamo contro il primo pirla che troviamo nell'open publishing di Indymedia: è così facile, è a portata di mano... ci indigniamo contro una piccola casa editrice che fomenterebbe il terrorismo: Luttwak ci mostra come si fa.
Ci indigniamo contro gli scrittori. Contro Wu Ming 1 (Roberto Bui), che ha avuto, per i diciannove di Nassiriya, parole molto ciniche dal primo giorno. E un po’ d’italiani che fino a quel momento non sapevano nemmeno d’essere in guerra e contro chi, hanno finalmente trovato qualcosa per cui combattere: l’indignazione per quello che scrive Wu Ming.
Chi è Wu Ming? Discorso lungo. Diciamo almeno che non è D’Annunzio. Si tratta di un collettivo di scrittori che negli ultimi anni ha prodotto alcuni romanzi notevoli, ma soprattutto un’idea di letteratura ‘impegnata’ che negli anni Novanta si era del tutto persa per strada. Nei mesi che precedettero Genova, i Wu Ming si ritrovarono nel ruolo di agit prop telematici del Movimento: fu un bel momento, credo, per il Movimento e per Wu Ming. Poi ci fu Indymedia, la forumizzazione di Indymedia, la ghettizzazione dei Disobbedienti, e il rumore di fondo coprì un po’ tutto. I Wu Ming continuano ad avere molte cose da dire, ma, diversamente da due anni fa, per lo più si tratta di prediche ai convertiti. E non è colpa loro: è venuto a mancare un terreno di scambio tra ambienti e linguaggi diversi, che avrebbe potuto essere, e non è stato, Indymedia.
E i blog? Anche i blog avrebbero potuto diventare quel terreno di scambio. Che effetto avrebbe fatto una “predica” di Wu Ming su un blog generalista? Ora lo sappiamo, da quando Giuseppe Genna ha postato il pezzo di Wu Ming1 sui morti di Nassiriya su GNU. E gli utenti, illustri e no, si sono uniti in un coro di vibrante protesta. Alla fine, più di Nassiriya, si è parlato di quanto sono stronzi i Wu Ming. (Sorte analoga -- anche un po' peggiore -- è capitata a un pezzo di Gianluca Neri su Clarence). Senza discussioni sul merito, naturalmente. Bui, per esempio, ricordava i fatti di Genova (che rendono ancora difficile a molti italiani, oggi, parlare dei “nostri carabinieri”); ricordava i militari italiani caduti per l’uranio impoverito. Ma, più dei fatti, contava il tono: era un breve pezzo scritto per la mailing-list di Wu Ming: lapidario, cinico, diciamo pure stronzetto. Il massimo per chi vuole avere un “mostro” contro cui indignarsi.
E allora coraggio, indigniamoci. Tiriamo pure fuori Pasolini, che amava i poliziotti proletari: che belli i proletari che vanno a morire per noi in Iraq. Ed ecco: per altre 24 ore abbiamo risolto il problema di cosa dire, di cosa fare. Poi, se dio vuole, torneremo al nostro tran tran. In attesa del prossimo allarme. Perché siamo in guerra, ricordiamo.
domenica 16 novembre 2003
Sabato 22 novembre avete un impegno
Non ditelo mai a mia mamma, ma io ho scritto un libro, cioè non l'ho fatto tutto da solo (non ne sarei mai stato capace), e adesso sto alla Feltrinelli nella sezione erotica.
Ma no, no, niente colpi di spazzola: è Blogout, 13 diari dalla rete. Di cosa si tratti lo trovate spiegato qui.
Cosa faremo invece sabato prossimo (22 novembre) al circolo Ohm (ex More) di Modena alle 20.30, dipenderà molto da quanti saremo e chi saremo.
Si potrebbe fare una serie di brindisi-awards ("al blog più frizzante", "al blog più alcolico"... e giù). Si potrebbe cercare di farvi entrare tutti senza tessera. Si potrebbe fare un reading, si potrebbe fare il dibattito, ci si potrebbe firmare autografi a vicenda come a Padova (era divertente). Qualsiasi cosa faremo sarà certo un po' ridicola, ma il punto è proprio questo. I blog, una volta, non erano una cosa così seria.
(O forse siamo noi, che dopo Genova, l'11 settembre, due guerre, il terrorismo, siamo diventati più seri, e i nostri blog ci hanno seguito a ruota? O sono stati i nostri blog a tirarci per le giacchette tutte le mattine, e costringerci ad avere parole serie per Genova, per l'11 settembre, per le guerre, per il terrorismo?
Non lo so. So soltanto che quando avevo aperto un blog avevo in mente tutt'un altro Leonardo: più intelligente, forse, o più buffo, non mi ricordo. Ma col tempo internet ti trasforma. Ora certe volte mi sembra di dover essere il Presidente Ciampi di me stesso. Non è piacevole).
Ecco, vedete, ci sarebbe già quanto basta per un dibattito. Ma se non vi va, balliamo. La pista c'è. I dischi magari li mettono loro.
(Nei prossimi giorni spiegherò come si arriva al Circolo Ohm. Non è difficile da capire. E' difficile da spiegare).
Non ditelo mai a mia mamma, ma io ho scritto un libro, cioè non l'ho fatto tutto da solo (non ne sarei mai stato capace), e adesso sto alla Feltrinelli nella sezione erotica.
Ma no, no, niente colpi di spazzola: è Blogout, 13 diari dalla rete. Di cosa si tratti lo trovate spiegato qui.
Cosa faremo invece sabato prossimo (22 novembre) al circolo Ohm (ex More) di Modena alle 20.30, dipenderà molto da quanti saremo e chi saremo.
Si potrebbe fare una serie di brindisi-awards ("al blog più frizzante", "al blog più alcolico"... e giù). Si potrebbe cercare di farvi entrare tutti senza tessera. Si potrebbe fare un reading, si potrebbe fare il dibattito, ci si potrebbe firmare autografi a vicenda come a Padova (era divertente). Qualsiasi cosa faremo sarà certo un po' ridicola, ma il punto è proprio questo. I blog, una volta, non erano una cosa così seria.
(O forse siamo noi, che dopo Genova, l'11 settembre, due guerre, il terrorismo, siamo diventati più seri, e i nostri blog ci hanno seguito a ruota? O sono stati i nostri blog a tirarci per le giacchette tutte le mattine, e costringerci ad avere parole serie per Genova, per l'11 settembre, per le guerre, per il terrorismo?
Non lo so. So soltanto che quando avevo aperto un blog avevo in mente tutt'un altro Leonardo: più intelligente, forse, o più buffo, non mi ricordo. Ma col tempo internet ti trasforma. Ora certe volte mi sembra di dover essere il Presidente Ciampi di me stesso. Non è piacevole).
Ecco, vedete, ci sarebbe già quanto basta per un dibattito. Ma se non vi va, balliamo. La pista c'è. I dischi magari li mettono loro.
(Nei prossimi giorni spiegherò come si arriva al Circolo Ohm. Non è difficile da capire. E' difficile da spiegare).
venerdì 14 novembre 2003
Quando ho capito che i Gnuawards andavano in vacca, ho deciso di fare un sondaggio, e da questo sondaggio risulta che tutte le ragazze preferiscono il blog di Leonardo, tranne la ragazza preferita di Leonardo, che ne preferisce un altro.
È stato un duro colpo.
Ma di che blog si tratta? Provate a indovinare:
(è facile)
– Ha un bel layout, anche se, come tutti i layout, era più bello il precedente;
– E' un blog musicale, ma si beve anche molto
– Però, come dire, i blog musicali di solito se la tirano un po’ (e anche i blog alcolici), lui no. Per esempio: non stronca mai. Voi riuscireste a gestire un blog musicale senza stroncare la carriera di un paio di musicisti alla settimana? Quello è un blog che, quando un disco non gli piace, chiede scusa e stronca sé stesso.
– Adesso che ci penso, forse è stato il primo blog musicale italiano, ma non lo ha detto a nessuno, anzi probabilmente non se n’è accorto. Come non si è accorto di avere insegnato qualcosa un po’ a tutti, mentre è convinto di avere ancora molto da imparare da tutti quelli che arrivano.
– Forse è per questi motivi che col tempo questo blog si è fatto una comunità, neanche tanto ristretta, di gente che si scambia commenti, link, si incontra ai concerti e – caso eccezionale nella blogosfera, ma nessuno ci ha fatto caso – non litiga mai. Guardate che non è da tutti leggere in calce a un post “22 commenti” e sapere che tutti quei 22 avevano davvero qualcosa da dire, senza polemiche e senza troll. Quindi, insomma, certe volte internet funziona.
– È il blog con cui io e la mia ragazza preferita passiamo le vacanze, per cui ogni volta che ci vado è come prendermi una piccola vacanza: chiudo gli occhi e sento odore di capperi, merda di mulo, il ronzare delle mosche, il fondo fradicio di una tenda bagnata, gli aerei che decollano sulla piscina del campeggio, e mi vengono le lacrime dalla nostalgia.
– È un blog bisex, finalmente, per cui c’è sempre qualche cosa di interessante per tutti: la ricetta dell’assenzio (mettete a macerare per un minimo di 12 ore, in 95 litri di alcol (85 per cento di gradazione), le seguenti piante essiccate: 2,5 kg di artemisia absinthium (assenzio maggiore o romano), 5 kg di anice e 5 kg di finocchio...), le ragazze con anelle giganti alle orecchie maglioni a collo alto blu elettrici e fronti sotto frange con la lacca che buca l’ozono a bordo di nuove y10 ..., le cantautrici sconosciute, che si somigliano tutte (anche di aspetto), per una certa naturale ruvida rusticità anche se del tutto urbanizzate... E, ah, sì, qualche disco ogni tanto.
– È un blog che, sì, va bene l’understatement, però se si mette in testa qualcosa non molla: tempo fa decise che gli Strokes erano il gruppo del futuro finché anche il NME non si convinse: ora ci sta riprovando con le Black Candy from Sassuolo.
– È un blog che trasmette giovedì alla radio, e a volte invita tutti e dice: portate un disco e una bottiglia.
– È un blog che ha scritto su riviste ambiziose, ma i tempi passano, le riviste ambiziose chiudono, il blog resta.
– Sì, perché è un blog giovane, che piace a voi giovani, ma se dai un’occhiata all’archivio ti accorgi che ieri ha compiuto due anni (auguri). E che due anni fa stava già pensando di chiudere. E scommetto che ogni tanto ci pensa ancora. Cento di questi anni.
È stato un duro colpo.
Ma di che blog si tratta? Provate a indovinare:
(è facile)
– Ha un bel layout, anche se, come tutti i layout, era più bello il precedente;
– E' un blog musicale, ma si beve anche molto
– Però, come dire, i blog musicali di solito se la tirano un po’ (e anche i blog alcolici), lui no. Per esempio: non stronca mai. Voi riuscireste a gestire un blog musicale senza stroncare la carriera di un paio di musicisti alla settimana? Quello è un blog che, quando un disco non gli piace, chiede scusa e stronca sé stesso.
– Adesso che ci penso, forse è stato il primo blog musicale italiano, ma non lo ha detto a nessuno, anzi probabilmente non se n’è accorto. Come non si è accorto di avere insegnato qualcosa un po’ a tutti, mentre è convinto di avere ancora molto da imparare da tutti quelli che arrivano.
– Forse è per questi motivi che col tempo questo blog si è fatto una comunità, neanche tanto ristretta, di gente che si scambia commenti, link, si incontra ai concerti e – caso eccezionale nella blogosfera, ma nessuno ci ha fatto caso – non litiga mai. Guardate che non è da tutti leggere in calce a un post “22 commenti” e sapere che tutti quei 22 avevano davvero qualcosa da dire, senza polemiche e senza troll. Quindi, insomma, certe volte internet funziona.
– È il blog con cui io e la mia ragazza preferita passiamo le vacanze, per cui ogni volta che ci vado è come prendermi una piccola vacanza: chiudo gli occhi e sento odore di capperi, merda di mulo, il ronzare delle mosche, il fondo fradicio di una tenda bagnata, gli aerei che decollano sulla piscina del campeggio, e mi vengono le lacrime dalla nostalgia.
– È un blog bisex, finalmente, per cui c’è sempre qualche cosa di interessante per tutti: la ricetta dell’assenzio (mettete a macerare per un minimo di 12 ore, in 95 litri di alcol (85 per cento di gradazione), le seguenti piante essiccate: 2,5 kg di artemisia absinthium (assenzio maggiore o romano), 5 kg di anice e 5 kg di finocchio...), le ragazze con anelle giganti alle orecchie maglioni a collo alto blu elettrici e fronti sotto frange con la lacca che buca l’ozono a bordo di nuove y10 ..., le cantautrici sconosciute, che si somigliano tutte (anche di aspetto), per una certa naturale ruvida rusticità anche se del tutto urbanizzate... E, ah, sì, qualche disco ogni tanto.
– È un blog che, sì, va bene l’understatement, però se si mette in testa qualcosa non molla: tempo fa decise che gli Strokes erano il gruppo del futuro finché anche il NME non si convinse: ora ci sta riprovando con le Black Candy from Sassuolo.
– È un blog che trasmette giovedì alla radio, e a volte invita tutti e dice: portate un disco e una bottiglia.
– È un blog che ha scritto su riviste ambiziose, ma i tempi passano, le riviste ambiziose chiudono, il blog resta.
– Sì, perché è un blog giovane, che piace a voi giovani, ma se dai un’occhiata all’archivio ti accorgi che ieri ha compiuto due anni (auguri). E che due anni fa stava già pensando di chiudere. E scommetto che ogni tanto ci pensa ancora. Cento di questi anni.
giovedì 13 novembre 2003
Anche oggi è un giorno di lutto,
come ogni altro giorno
Una guerra non è un taxi, da cui si può scendere in qualsiasi momento per qualsiasi motivo.
C’è stato un momento in cui anche i cittadini italiani hanno potuto dire la loro, sui motivi di questa guerra, sull’opportunità di parteciparvi. E in molti, nelle piazze, sui balconi, su internet (per quel poco che conta internet) abbiamo detto: no. E per un attimo, se ricordate, abbiamo visto il governo tentennare, Berlusconi ondeggiare tra sostegno e non intervento, Marino rassicurare le mamme italiane. Poi quel momento è passato, la guerra è scoppiata e – siccome ha assunto quasi subito l’aspetto di una fanfara gloriosa – ogni tentennamento è stato superato. Le guerra è bella, anzi, non è nemmeno una guerra, è “pacificazione”, “lotta al terrorismo”: e il parlamento italiano si è precipitato a offrire il suo contributo.
Giusto? Sbagliato? Ne abbiamo discusso a suo tempo: adesso è troppo tardi.
Da quel momento – dall’inizio di questa guerra, che non è certo finita quando è piaciuto a Gorge W. Bush – ogni giorno è un giorno di lutto. Anche se abbiamo smesso presto di contare i morti, da una parte e dall’altra. Tutti questi morti ci danno ragione? Ci danno torto? È una ben misera ragione e un ben misero torto. Personalmente mi ostino a credere, ogni giorno, che un regime odioso come quello di Saddam Hussein si poteva rovesciare in un modo meno cruento, come sono stati rovesciati a loro tempo regimi odiosi in Cile, in Argentina e (perché no) in Europa dell’est. Ma non è andata così: oggi in Medio Oriente c’è un’altra guerra di cui non si vede la fine, un enorme campo di addestramento per i fanatici di tutto il mondo, e un morto in più o un morto in meno non è un argomento a mio favore o a mio sfavore: è, semplicemente, un morto in più.
Ieri, di morti in più, ce ne sono stati diciotto: è stata la giornata più dura.
È giusto piangerli, e non solo perché hanno volti e nomi che ci assomigliano. Cambierebbe qualcosa se al loro posto ci fossero stati soldati americani, o inglesi, o polacchi, o iracheni? Per me no, non cambia nulla. I morti non hanno più patria.
Questa è la guerra, e siccome volenti o nolenti ci siamo dentro, dovremmo forse imparare a sopportarla un po’ più virilmente, senza polemiche parlamentari a ogni piè sospinto; magari superando finalmente il fastidioso pietismo che ci costringe ad assistere in diretta televisiva allo strazio dei famigliari.
Nel frattempo, chi a questa guerra ha detto sì nel Governo e nel Parlamento, ha tutto il tempo per rivedere i suoi calcoli, per decidere fino a che punto conviene restare nella partita. Ma chi a questa decisione non ha preso parte, non ha nulla di cui vantarsi o rimproverarsi: si resta così, imbarazzati come a un funerale, comparse in una tragedia che è veramente troppo grande per noi.
Vorrei soltanto dire, senza litigare con nessuno, che tutto questo forse non è giusto. Che tutto questo, forse, si poteva evitare. Anche se è tardi, ora.
come ogni altro giorno
Una guerra non è un taxi, da cui si può scendere in qualsiasi momento per qualsiasi motivo.
C’è stato un momento in cui anche i cittadini italiani hanno potuto dire la loro, sui motivi di questa guerra, sull’opportunità di parteciparvi. E in molti, nelle piazze, sui balconi, su internet (per quel poco che conta internet) abbiamo detto: no. E per un attimo, se ricordate, abbiamo visto il governo tentennare, Berlusconi ondeggiare tra sostegno e non intervento, Marino rassicurare le mamme italiane. Poi quel momento è passato, la guerra è scoppiata e – siccome ha assunto quasi subito l’aspetto di una fanfara gloriosa – ogni tentennamento è stato superato. Le guerra è bella, anzi, non è nemmeno una guerra, è “pacificazione”, “lotta al terrorismo”: e il parlamento italiano si è precipitato a offrire il suo contributo.
Giusto? Sbagliato? Ne abbiamo discusso a suo tempo: adesso è troppo tardi.
Da quel momento – dall’inizio di questa guerra, che non è certo finita quando è piaciuto a Gorge W. Bush – ogni giorno è un giorno di lutto. Anche se abbiamo smesso presto di contare i morti, da una parte e dall’altra. Tutti questi morti ci danno ragione? Ci danno torto? È una ben misera ragione e un ben misero torto. Personalmente mi ostino a credere, ogni giorno, che un regime odioso come quello di Saddam Hussein si poteva rovesciare in un modo meno cruento, come sono stati rovesciati a loro tempo regimi odiosi in Cile, in Argentina e (perché no) in Europa dell’est. Ma non è andata così: oggi in Medio Oriente c’è un’altra guerra di cui non si vede la fine, un enorme campo di addestramento per i fanatici di tutto il mondo, e un morto in più o un morto in meno non è un argomento a mio favore o a mio sfavore: è, semplicemente, un morto in più.
Ieri, di morti in più, ce ne sono stati diciotto: è stata la giornata più dura.
È giusto piangerli, e non solo perché hanno volti e nomi che ci assomigliano. Cambierebbe qualcosa se al loro posto ci fossero stati soldati americani, o inglesi, o polacchi, o iracheni? Per me no, non cambia nulla. I morti non hanno più patria.
Questa è la guerra, e siccome volenti o nolenti ci siamo dentro, dovremmo forse imparare a sopportarla un po’ più virilmente, senza polemiche parlamentari a ogni piè sospinto; magari superando finalmente il fastidioso pietismo che ci costringe ad assistere in diretta televisiva allo strazio dei famigliari.
Nel frattempo, chi a questa guerra ha detto sì nel Governo e nel Parlamento, ha tutto il tempo per rivedere i suoi calcoli, per decidere fino a che punto conviene restare nella partita. Ma chi a questa decisione non ha preso parte, non ha nulla di cui vantarsi o rimproverarsi: si resta così, imbarazzati come a un funerale, comparse in una tragedia che è veramente troppo grande per noi.
Vorrei soltanto dire, senza litigare con nessuno, che tutto questo forse non è giusto. Che tutto questo, forse, si poteva evitare. Anche se è tardi, ora.
martedì 11 novembre 2003
Le anime brutte
E Berlusconi, che è da un po’ che non ne parliamo?
Va bene, parliamone, ma basta con questa cosa del Grande Gaffeur. Prendiamolo sul serio. Perché merita di essere sul serio. Secondo voi chi è la mente del Polo, il cervello strategico? Ferrara? Baget Bozzo? Fini? No. Berlusconi.
Ma come, non era l’imbecille? No, non lo è. Un clown sì, a volte per scelta, a volte suo malgrado, circondato com’è da cortigiani plaudenti. Del resto anche il Re Sole aveva tante manie ridicole: ma decideva lui.
Berlusconi – non lo scopriamo da ieri – è “grande amico” di Putin. Berlusconi (sensazionale scoperta di questi giorni) sostiene Putin nella guerra in Cecenia, mettendo in imbarazzo l’Unione Europea: è una gaffe? No. Magari lo fosse. È una scelta politica. Berlusconi ha scelto di sostenere Putin per motivi squisitamente politici, in perfetta coerenza con la sua visione della politica estera, che dà massima importanza ai temi commerciali (ricordate quando chiese agli ambasciatori di diventare agenti di commercio del made in Italy?). Il che non sarebbe neppure un male, perché il commercio estero è una cosa importante: i problemi sorgono semmai quando per compiacere un partner commerciale si rischia di passare sopra a un genocidio. Ma sono problemi di coscienza, non di Berlusconi. Bisogna essere anime belle per porseli, e Berlusconi non lo è. Berlusconi è il capo dell’esecutivo, Berlusconi è un uomo d’affari. Berlusconi sa che l’Italia ha bisogno del gasdotto del Caspio: tanto peggio per i ceceni che stanno tra i piedi.
E allora cosa c’è che non va?
C’è che di anime belle, in giro, ce ne sono tante. E non votano solo a sinistra, come credevo da bambino. C’è tutta una corrente di anime belle di destra che vorrebbe vedere in Berlusconi il cavaliere della libertà e della giustizia. Le stesse anime belle che accusano il Centrosinistra di aver “contribuito al genocidio in Kossovo” per via della tangente a Telekom Serbia. Cosa c’entra Telekom Serbia, adesso? Ma è lo stesso problema, non vedete: l’Italia ha bisogno di aprirsi mercati ad Est, ma ad Est non ci sono pacifiche democrazie: ci sono mafie, tiranni, popoli oppressi, genocidi in corso. E allora che si fa? Si lascia perdere (cioè si lascia il campo libero a tedeschi, americani, ecc.?) O, secondo l’antica consuetudine italiana, ci si sporca un po’ le mani?
Il ragionamento dei nostri geopolitici era, come spesso è accaduto nella nostra storia, cinico, realistico e stupido. Dicevano, soprattutto: se la Germania si è presa in un colpo solo tutta l’influenza sulla Croazia e sulla Slovenia, dobbiamo noi stare fermi?
Io, senza per altro avere prove, trovo plausibile che ci siano stati traffici di tangenti intorno a Telekom Serbia: pare sia la prassi in certi affari, e non solo nei Balcani. Chi ha deciso di sborsare ugualmente per ottenere quella società, ha “finanziato il genocidio kossovaro”? In un certo senso sì, se accettiamo l’idea che ogni esborso di denaro corrisponda a un’assunzione di responsabilità: più o meno nello stesso senso in cui se compro pasta Barilla finanzio la produzione di armi (e quindi anche eventuali guerre e genocidi). Se vogliamo essere anime belle, dobbiamo avere il coraggio di esserlo fino in fondo: protestare per le tangenti a Telekom Serbia e smettere di comprare pasta Barilla (e tanti altri prodotti di tante altre marche).
Il problema è che, si sa, ognuno è anima bella fino a un certo punto: più o meno fino a quando gli conviene. Salvo svegliarsi un giorno e scoprire che Berlusconi non è il grande esportatore della democrazia, ma un capo-popolo disposto a fare affari anche sulla pelle degli abitanti del Caucaso. Non ve ne eravate accorti? Pensavate che con Putin fosse solo una questione di canzoni napoletane e partite a golf ? Benvenuti nel mondo. Il vostro mondo, badate bene: quello del libero scambio e del libero mercato, in cui non si fanno guerre per i diritti civili, ma per le materie prime; in cui non si mandano gli alpini in Iraq per esportare la democrazia, ma per restare nelle grazie dell’alleato americano; in cui non si è amici di Putin (o di Milosevic) perché è un leader democratico, ma perché abbiamo bisogno (disperato bisogno) di fare affari con lui.
In questo mondo, Berlusconi c’è da sempre, malgrado tutte le chiacchiere sul comunismo, l’anticomunismo, le radici cristiane eccetera. Per questo il cervello del centrodestra è lui. Non l’anima bella Baget Bozzo e gli altri fanatici dell’identità; non l’anima bella Ferrara, col suo ego smisurato e la sua (un po' stanca) mitopoiesi del tradimento. Non Bossi, non Fini (perlomeno non ancora). Per quanto scafati, tutti questi personaggi mantengono barlumi di buona o cattiva fede. Solo Berlusconi ne è totalmente privo. Solo Berlusconi è veramente politico.
(Dopodiché, come politico, Berlusconi è spesso un disastro: gaffes a ripetizione, pessima scelta dei propri collaboratori, eccetera eccetera. Ma questo è già un altro problema).
E Berlusconi, che è da un po’ che non ne parliamo?
Va bene, parliamone, ma basta con questa cosa del Grande Gaffeur. Prendiamolo sul serio. Perché merita di essere sul serio. Secondo voi chi è la mente del Polo, il cervello strategico? Ferrara? Baget Bozzo? Fini? No. Berlusconi.
Ma come, non era l’imbecille? No, non lo è. Un clown sì, a volte per scelta, a volte suo malgrado, circondato com’è da cortigiani plaudenti. Del resto anche il Re Sole aveva tante manie ridicole: ma decideva lui.
Berlusconi – non lo scopriamo da ieri – è “grande amico” di Putin. Berlusconi (sensazionale scoperta di questi giorni) sostiene Putin nella guerra in Cecenia, mettendo in imbarazzo l’Unione Europea: è una gaffe? No. Magari lo fosse. È una scelta politica. Berlusconi ha scelto di sostenere Putin per motivi squisitamente politici, in perfetta coerenza con la sua visione della politica estera, che dà massima importanza ai temi commerciali (ricordate quando chiese agli ambasciatori di diventare agenti di commercio del made in Italy?). Il che non sarebbe neppure un male, perché il commercio estero è una cosa importante: i problemi sorgono semmai quando per compiacere un partner commerciale si rischia di passare sopra a un genocidio. Ma sono problemi di coscienza, non di Berlusconi. Bisogna essere anime belle per porseli, e Berlusconi non lo è. Berlusconi è il capo dell’esecutivo, Berlusconi è un uomo d’affari. Berlusconi sa che l’Italia ha bisogno del gasdotto del Caspio: tanto peggio per i ceceni che stanno tra i piedi.
E allora cosa c’è che non va?
C’è che di anime belle, in giro, ce ne sono tante. E non votano solo a sinistra, come credevo da bambino. C’è tutta una corrente di anime belle di destra che vorrebbe vedere in Berlusconi il cavaliere della libertà e della giustizia. Le stesse anime belle che accusano il Centrosinistra di aver “contribuito al genocidio in Kossovo” per via della tangente a Telekom Serbia. Cosa c’entra Telekom Serbia, adesso? Ma è lo stesso problema, non vedete: l’Italia ha bisogno di aprirsi mercati ad Est, ma ad Est non ci sono pacifiche democrazie: ci sono mafie, tiranni, popoli oppressi, genocidi in corso. E allora che si fa? Si lascia perdere (cioè si lascia il campo libero a tedeschi, americani, ecc.?) O, secondo l’antica consuetudine italiana, ci si sporca un po’ le mani?
Il ragionamento dei nostri geopolitici era, come spesso è accaduto nella nostra storia, cinico, realistico e stupido. Dicevano, soprattutto: se la Germania si è presa in un colpo solo tutta l’influenza sulla Croazia e sulla Slovenia, dobbiamo noi stare fermi?
Io, senza per altro avere prove, trovo plausibile che ci siano stati traffici di tangenti intorno a Telekom Serbia: pare sia la prassi in certi affari, e non solo nei Balcani. Chi ha deciso di sborsare ugualmente per ottenere quella società, ha “finanziato il genocidio kossovaro”? In un certo senso sì, se accettiamo l’idea che ogni esborso di denaro corrisponda a un’assunzione di responsabilità: più o meno nello stesso senso in cui se compro pasta Barilla finanzio la produzione di armi (e quindi anche eventuali guerre e genocidi). Se vogliamo essere anime belle, dobbiamo avere il coraggio di esserlo fino in fondo: protestare per le tangenti a Telekom Serbia e smettere di comprare pasta Barilla (e tanti altri prodotti di tante altre marche).
Il problema è che, si sa, ognuno è anima bella fino a un certo punto: più o meno fino a quando gli conviene. Salvo svegliarsi un giorno e scoprire che Berlusconi non è il grande esportatore della democrazia, ma un capo-popolo disposto a fare affari anche sulla pelle degli abitanti del Caucaso. Non ve ne eravate accorti? Pensavate che con Putin fosse solo una questione di canzoni napoletane e partite a golf ? Benvenuti nel mondo. Il vostro mondo, badate bene: quello del libero scambio e del libero mercato, in cui non si fanno guerre per i diritti civili, ma per le materie prime; in cui non si mandano gli alpini in Iraq per esportare la democrazia, ma per restare nelle grazie dell’alleato americano; in cui non si è amici di Putin (o di Milosevic) perché è un leader democratico, ma perché abbiamo bisogno (disperato bisogno) di fare affari con lui.
In questo mondo, Berlusconi c’è da sempre, malgrado tutte le chiacchiere sul comunismo, l’anticomunismo, le radici cristiane eccetera. Per questo il cervello del centrodestra è lui. Non l’anima bella Baget Bozzo e gli altri fanatici dell’identità; non l’anima bella Ferrara, col suo ego smisurato e la sua (un po' stanca) mitopoiesi del tradimento. Non Bossi, non Fini (perlomeno non ancora). Per quanto scafati, tutti questi personaggi mantengono barlumi di buona o cattiva fede. Solo Berlusconi ne è totalmente privo. Solo Berlusconi è veramente politico.
(Dopodiché, come politico, Berlusconi è spesso un disastro: gaffes a ripetizione, pessima scelta dei propri collaboratori, eccetera eccetera. Ma questo è già un altro problema).
Karaoke esistenziale, ciak! 5
La pecora di Panurge
Deve ancora metter le piume
La freccia che le trapasserà il fianco;
e nel suo cuore, nulla s’accende
quando lo cede ai suoi amanti.
Lei se ne ride, dei chiari di luna
dei fiori azzurri, del dolce languore
delle Veneri della vecchia scuola,
che facevano l’amore per amore;
delle Veneri della vecchia scuola,
che facevano l’amore per amore.
Ma non dovete credere allora
che abbia un qualche diavolo in corpo;
si ferma anzi al primo piano
il suo settimo cielo, ed è già tanto.
Non la troverai mai troppo languida
mentre passa il ponte dei sospiri,
e guarda come animali curiosi
quelle che fanno l’amore per il piacere.
E guarda come animali curiosi
quelle che fanno l’amore per il piacere
Non crediate poi che sia in vendita
perché qualcuno se la prende in spalla:
non per questo si è tenuti a farle
uno di quei regalini sontuosi…
Non è di quelle che, andando all’orgia
ti fanno subito il preventivo;
lei non ha nulla delle belle venali
che fanno l’amore per profitto.
Lei non ha nulla delle belle venali
che fanno l’amore per profitto.
Ma allora, perché si concede,
senza cuore, né piacere, né lucro?
Se l’amore non vale la candela,
perché lei se ne consuma?
Se qualcuno lo sa, senza indugi,
l’aiuti a levarsi il vestito…
È perché lei si tiene aggiornata,
perché va di moda, e lei è una snob.
È perché lei si tiene aggiornata,
perché va di moda, e lei è una snob.
Ma cambiando i costumi, e le donne,
chissà che un bel giorno al suo seno
non si vada a piantare, per caso,
una piccola freccia perduta:
e sarà il suo turno, allora
di andare a giocare, al chiaro di luna,
alla Venere vecchia scuola,
quella che faceva l’amore per amore
alla Venere vecchia scuola,
che faceva l’amore per amore.
Credevo che l'avesse scritta Brassens, invece è di Louis Aragon. Però.
La pecora di Panurge
Deve ancora metter le piume
La freccia che le trapasserà il fianco;
e nel suo cuore, nulla s’accende
quando lo cede ai suoi amanti.
Lei se ne ride, dei chiari di luna
dei fiori azzurri, del dolce languore
delle Veneri della vecchia scuola,
che facevano l’amore per amore;
delle Veneri della vecchia scuola,
che facevano l’amore per amore.
Ma non dovete credere allora
che abbia un qualche diavolo in corpo;
si ferma anzi al primo piano
il suo settimo cielo, ed è già tanto.
Non la troverai mai troppo languida
mentre passa il ponte dei sospiri,
e guarda come animali curiosi
quelle che fanno l’amore per il piacere.
E guarda come animali curiosi
quelle che fanno l’amore per il piacere
Non crediate poi che sia in vendita
perché qualcuno se la prende in spalla:
non per questo si è tenuti a farle
uno di quei regalini sontuosi…
Non è di quelle che, andando all’orgia
ti fanno subito il preventivo;
lei non ha nulla delle belle venali
che fanno l’amore per profitto.
Lei non ha nulla delle belle venali
che fanno l’amore per profitto.
Ma allora, perché si concede,
senza cuore, né piacere, né lucro?
Se l’amore non vale la candela,
perché lei se ne consuma?
Se qualcuno lo sa, senza indugi,
l’aiuti a levarsi il vestito…
È perché lei si tiene aggiornata,
perché va di moda, e lei è una snob.
È perché lei si tiene aggiornata,
perché va di moda, e lei è una snob.
Ma cambiando i costumi, e le donne,
chissà che un bel giorno al suo seno
non si vada a piantare, per caso,
una piccola freccia perduta:
e sarà il suo turno, allora
di andare a giocare, al chiaro di luna,
alla Venere vecchia scuola,
quella che faceva l’amore per amore
alla Venere vecchia scuola,
che faceva l’amore per amore.
Credevo che l'avesse scritta Brassens, invece è di Louis Aragon. Però.
domenica 9 novembre 2003
Maestri di vita (10): Paolo Conte
Così che, travolto dalla violenza di tali contrasti, scagliato ad ogni istante da una gelida spiritualità ad una sensualità divorante, finì coll’abbandonarsi a un ritmo di vita sfrenato, regolato, eccessivo, che lo spossava dilaniando la sua coscienza, e che lui, Tonio Kröger, in fondo esecrava.
Di Paolo Conte, geniale interprete di jazz demenziale, forse sottovalutato, certo sopravvalutato, se ne potrebbe parlare da qui fino alla fine della settimana, e magari un’altra volte ne parliamo davvero. Oggi volevo solo raccontare una storiella che per me è molto importante.
Una volta conoscevo un tipo, che adesso non so più nemmeno dove sia, ma in quel tempo studiava nella mia città, e come me aveva la mania del giornalismo. Collaborava con testate molto inverosimili (a volte se le inventava lui), ma d’altronde chi sono io per. E sognava. Sognava di fare i colpi, le interviste impossibili.
Un giorno andò a una conferenza, o a una presentazione, non so esattamente cosa, e c’era Paolo Conte: e quando la conferenza finì, rimasero lui e Paolo Conte.
Lui aveva una Panda e un registratore tascabile, Conte non aveva una macchina e anche il treno l’aveva perso. E fu così che il mio amico ebbe la sua intervista impossibile: guidando una Panda sotto la pioggia battente verso Asti (la pioggia battente forse la sto aggiungendo io, ma ammettete che non c’è altra possibilità quando si guida verso Asti con Paolo Conte a bordo).
Fu forse l’emozione, o l’imbarazzo, o che ne so, fatto sta che al mio amico sfuggì la domanda più scema in assoluto (e credo che ancora oggi prima di addormentarsi si morda le labbra al pensiero):
“Lei è musicista e anche avvocato”.
“Sì”.
“Le due cose come si conciliano?”
[Se ne pentì subito, perché immediatamente soggiunse:]
“…naturalmente gliel’avranno chiesto già in tanti”.
E di fronte a tanta dabbenaggine Paolo Conte ammise che sì, qualcuno gliel’aveva già chiesto, ma rispose: e tutto sommato è un bene che il mio amico gli facesse una domanda così prevedibile, perché quella risposta è stata molto importante per me.
“Non si conciliano”.
E continuò spiegando che, aveva difficoltà, che a volte trascurava il suo lavoro, ecc., come un qualsiasi mortale con un lavoro e un hobby che gli sta prendendo la mano. Tutto qui.
Io, senza la pretesa di essere un artista internazionale, e nemmeno nazionale (regionale, forse, e nel mio comune non temo rivali), mi sento di confermare. “Per alcuni uomini non esistono strade giuste”, scriveva Mann: precisamente. Nessuna strada, oppure tante: ma che siano scorrevoli, perché al mattino dobbiamo essere a scuola, al pomeriggio in ufficio, la sera in studio, e i semafori rossi sono un’ingiustizia, un complotto contro di noi (un complotto comunista?)
Tutte queste cose, come si conciliano? Non-si-conciliano. È molto semplice, anche se è molto complicato.
C’è gente che costruisce la sua vita come una sinfonia: un crescendo, un’apoteosi, magari un pianissimo finale. Tutto molto armonico, molto pulito, molto bello. Noi siamo diversi. Noi ci stravolgiamo la vita tutti i giorni. Noi ci contraddiciamo continuamente, sistematicamente, con coerenza.
Ora io lo so e (grazie a Paolo Conte), non me ne sento più in colpa. Per tutte le mie contraddizioni passate: vivevo in Parrocchia ma uscivo con le ragazze atee: come si conciliava tutto ciò? Facile: non si conciliava. Le identità sono ottime cose, l’importante è averne due o tre da indossare tutti i giorni. Il massimo è fare l’anarchico in parrocchia e il cattolico in sezione. E come si conciliava? Non si conciliava.
Non apprezzate? Pensate che l’identità sia fondamentale, una radice che vi tiene ancorati al suolo? Credete davvero che soffi tutto questo vento? Avete paura, a spogliarvi, di svanire? Anch’io sbiadisco parecchio, se passo un giorno intero senza niente da scrivere. Perciò vi posso capire.
Ma non vi sopporto. Come si concilia? Non si concilia.
Seguì la via che doveva seguire, con passo un po’ pigro e ineguale, fischiettando e guardando lontano innanzi a sé col capo reclinato da un lato; e se gli accadeva di sbagliar strada, ciò era perché per alcuni uomini non esiste una strada giusta. A chi gli chiedeva che cosa intendesse fare nel mondo, dava risposte contraddittorie, perché, come soleva dire (ed anche questo l’aveva già annotato), egli portava in sé possibilità per mille modi di esistenza, insieme alla segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di altrettante impossibilità...
(Thomas Mann, Tonio Kröger, III).
Così che, travolto dalla violenza di tali contrasti, scagliato ad ogni istante da una gelida spiritualità ad una sensualità divorante, finì coll’abbandonarsi a un ritmo di vita sfrenato, regolato, eccessivo, che lo spossava dilaniando la sua coscienza, e che lui, Tonio Kröger, in fondo esecrava.
Di Paolo Conte, geniale interprete di jazz demenziale, forse sottovalutato, certo sopravvalutato, se ne potrebbe parlare da qui fino alla fine della settimana, e magari un’altra volte ne parliamo davvero. Oggi volevo solo raccontare una storiella che per me è molto importante.
Una volta conoscevo un tipo, che adesso non so più nemmeno dove sia, ma in quel tempo studiava nella mia città, e come me aveva la mania del giornalismo. Collaborava con testate molto inverosimili (a volte se le inventava lui), ma d’altronde chi sono io per. E sognava. Sognava di fare i colpi, le interviste impossibili.
Un giorno andò a una conferenza, o a una presentazione, non so esattamente cosa, e c’era Paolo Conte: e quando la conferenza finì, rimasero lui e Paolo Conte.
Lui aveva una Panda e un registratore tascabile, Conte non aveva una macchina e anche il treno l’aveva perso. E fu così che il mio amico ebbe la sua intervista impossibile: guidando una Panda sotto la pioggia battente verso Asti (la pioggia battente forse la sto aggiungendo io, ma ammettete che non c’è altra possibilità quando si guida verso Asti con Paolo Conte a bordo).
Fu forse l’emozione, o l’imbarazzo, o che ne so, fatto sta che al mio amico sfuggì la domanda più scema in assoluto (e credo che ancora oggi prima di addormentarsi si morda le labbra al pensiero):
“Lei è musicista e anche avvocato”.
“Sì”.
“Le due cose come si conciliano?”
[Se ne pentì subito, perché immediatamente soggiunse:]
“…naturalmente gliel’avranno chiesto già in tanti”.
E di fronte a tanta dabbenaggine Paolo Conte ammise che sì, qualcuno gliel’aveva già chiesto, ma rispose: e tutto sommato è un bene che il mio amico gli facesse una domanda così prevedibile, perché quella risposta è stata molto importante per me.
“Non si conciliano”.
E continuò spiegando che, aveva difficoltà, che a volte trascurava il suo lavoro, ecc., come un qualsiasi mortale con un lavoro e un hobby che gli sta prendendo la mano. Tutto qui.
Io, senza la pretesa di essere un artista internazionale, e nemmeno nazionale (regionale, forse, e nel mio comune non temo rivali), mi sento di confermare. “Per alcuni uomini non esistono strade giuste”, scriveva Mann: precisamente. Nessuna strada, oppure tante: ma che siano scorrevoli, perché al mattino dobbiamo essere a scuola, al pomeriggio in ufficio, la sera in studio, e i semafori rossi sono un’ingiustizia, un complotto contro di noi (un complotto comunista?)
Tutte queste cose, come si conciliano? Non-si-conciliano. È molto semplice, anche se è molto complicato.
C’è gente che costruisce la sua vita come una sinfonia: un crescendo, un’apoteosi, magari un pianissimo finale. Tutto molto armonico, molto pulito, molto bello. Noi siamo diversi. Noi ci stravolgiamo la vita tutti i giorni. Noi ci contraddiciamo continuamente, sistematicamente, con coerenza.
Ora io lo so e (grazie a Paolo Conte), non me ne sento più in colpa. Per tutte le mie contraddizioni passate: vivevo in Parrocchia ma uscivo con le ragazze atee: come si conciliava tutto ciò? Facile: non si conciliava. Le identità sono ottime cose, l’importante è averne due o tre da indossare tutti i giorni. Il massimo è fare l’anarchico in parrocchia e il cattolico in sezione. E come si conciliava? Non si conciliava.
Non apprezzate? Pensate che l’identità sia fondamentale, una radice che vi tiene ancorati al suolo? Credete davvero che soffi tutto questo vento? Avete paura, a spogliarvi, di svanire? Anch’io sbiadisco parecchio, se passo un giorno intero senza niente da scrivere. Perciò vi posso capire.
Ma non vi sopporto. Come si concilia? Non si concilia.
Seguì la via che doveva seguire, con passo un po’ pigro e ineguale, fischiettando e guardando lontano innanzi a sé col capo reclinato da un lato; e se gli accadeva di sbagliar strada, ciò era perché per alcuni uomini non esiste una strada giusta. A chi gli chiedeva che cosa intendesse fare nel mondo, dava risposte contraddittorie, perché, come soleva dire (ed anche questo l’aveva già annotato), egli portava in sé possibilità per mille modi di esistenza, insieme alla segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di altrettante impossibilità...
(Thomas Mann, Tonio Kröger, III).
giovedì 6 novembre 2003
Aggiornamento: tutte le nominescion di cui parlavo in questo pezzo mi sono state brutalmente tolte stamattina. Così imparo.
Sparring partner
(ho guardato in fondo al gioco, tutto qui)
Pur ringraziando chi ha voluto votare per me (sono cose che fanno piacere, altroché), resta il fatto che non ho la minima speranza.
E la colpa non è di nessuna conventicola: è tutta mia.
Tanto tempo fa, nel cesso di una facoltà lontana lontana, qualcuno scrisse che La Cultura È Come La Marmellata: Meno Ne Hai Più La Spalmi. Io ne sono la prova vivente. La mia superficialità è vasta, vastissima, e mi rende forse un avversario temibile a Trivial Pursuit, ma non mi farà mai vincere un Weblog Awards. (Triste, no?)
Mi frega il generalismo, questa malattia italiana di voler mettere allo stesso focolare il cattedratico con l’autoriparatore. Ah, se fossi un blog a tema. Se mi fossi scelto un ambito specifico e riconoscibile, forse oggi sarei in lizza, che so, per il “miglior blog sui vini rossi frizzanti della valle del Secchia”. E non temerei confronti.
Invece mi trovo in lizza per “il blog dell’anno”, e chi m’invidia sappia che il mio ruolo è semplicemente farmi un giro in passerella e prendere orribili mazzate da Personalità confusa, Selvaggia, Proserpina, eccetera. Pietà.
O per “il post più bello dell’anno”… peccato che quel post lì sia dell’anno prima. Il che significa, a conti fatti, che quest’anno non ho scritto niente di meglio. Sono cose che buttano giù.
O per il “blog giornalistico”, a rischio di finire indagato per sofisticazione. Questo non è un blog giornalistico, io non faccio quel mestiere. Do pochissime notizie. Il solo fatto che io, dicendo più o meno quello che mi passa in testa tutti i giorni, possa essere sembrato "giornalistico" la dice lunga sulla percezione del giornalismo in italia. Non posso dirottare i miei voti su Pfaall?
Poi mi dico che forse, chissà, mobilitando gli amici… brigando con qualche IP dinamico… facendomi più pubblicità… forse riuscirei ancora a piazzarmi… ma tutta questa fatica per cosa?
Diciamo la verità: quello del simpatico perdente, del dilettante di lusso, non è solo un ruolo elegante. È anche il più comodo.
(Ps: ripensandoci, non avrei la minima possibilità di vincere anche coi rossi frizzanti della valle del Secchia).
Sparring partner
(ho guardato in fondo al gioco, tutto qui)
Pur ringraziando chi ha voluto votare per me (sono cose che fanno piacere, altroché), resta il fatto che non ho la minima speranza.
E la colpa non è di nessuna conventicola: è tutta mia.
Tanto tempo fa, nel cesso di una facoltà lontana lontana, qualcuno scrisse che La Cultura È Come La Marmellata: Meno Ne Hai Più La Spalmi. Io ne sono la prova vivente. La mia superficialità è vasta, vastissima, e mi rende forse un avversario temibile a Trivial Pursuit, ma non mi farà mai vincere un Weblog Awards. (Triste, no?)
Mi frega il generalismo, questa malattia italiana di voler mettere allo stesso focolare il cattedratico con l’autoriparatore. Ah, se fossi un blog a tema. Se mi fossi scelto un ambito specifico e riconoscibile, forse oggi sarei in lizza, che so, per il “miglior blog sui vini rossi frizzanti della valle del Secchia”. E non temerei confronti.
Invece mi trovo in lizza per “il blog dell’anno”, e chi m’invidia sappia che il mio ruolo è semplicemente farmi un giro in passerella e prendere orribili mazzate da Personalità confusa, Selvaggia, Proserpina, eccetera. Pietà.
O per “il post più bello dell’anno”… peccato che quel post lì sia dell’anno prima. Il che significa, a conti fatti, che quest’anno non ho scritto niente di meglio. Sono cose che buttano giù.
O per il “blog giornalistico”, a rischio di finire indagato per sofisticazione. Questo non è un blog giornalistico, io non faccio quel mestiere. Do pochissime notizie. Il solo fatto che io, dicendo più o meno quello che mi passa in testa tutti i giorni, possa essere sembrato "giornalistico" la dice lunga sulla percezione del giornalismo in italia. Non posso dirottare i miei voti su Pfaall?
Poi mi dico che forse, chissà, mobilitando gli amici… brigando con qualche IP dinamico… facendomi più pubblicità… forse riuscirei ancora a piazzarmi… ma tutta questa fatica per cosa?
Diciamo la verità: quello del simpatico perdente, del dilettante di lusso, non è solo un ruolo elegante. È anche il più comodo.
(Ps: ripensandoci, non avrei la minima possibilità di vincere anche coi rossi frizzanti della valle del Secchia).
Il bloggatore, partito per conquistare il mondo, dopo anni di fatiche si ritrova al massimo un salotto di venti, trenta persone: e pure quelli lo fanno dannare.
Per punirlo delle sue manie d’onnipotenza, l’Onnipotente vero gli ha mandato la più diabolica delle punizioni divine: il Troll.
Il Troll è l’antipatico personaggio che si annida nei forum, o nei commenti, senz’altro scopo che attirare l’attenzione su di sé mediante commenti velenosi, o fuori tema, o calunniosi, o quel che gli viene in mente di volta in volta.
Il Troll classico è uno sconosciuto, che un bel giorno arriva e decide che nel tuo blog c’è un sacco di spazio anche per lui. Ma si guarda bene dal fornire i suoi dati personali.
Questo, nella maggior parte dei casi.
Ma il mio – indovinate un po’ – è diverso.
Il Signore ha voluto darmi un troll che conosco benissimo, so dove abita, e a volte si esce perfino assieme. Addirittura mi telefona, s’informa su come sto:
Drin, drin
“Pronto, Cragno, cosa c’è?”
“Ciao, sono Cragno. Ti disturbo?”
“Insomma, sto mangiando”.
“Allora ti richiamo”
Dopo mangiato io andrò a letto a recuperare un’ora di sonno, e scommetto che lui lo sa: vuole turbarmi i sogni dopo avermi turbato la masticazione.
“No, no, dimmi adesso”.
“Volevo sapere se ti eri arrabbiato per quello che ho scritto nel forum”.
“Hai scritto qualcosa nel forum?”
“Sì, non hai letto?”
“Aspetta… quello in cui ti sei firmato Brigate Rosse Partito Comunista Combattente? Vuoi sapere se mi sono arrabbiato?”
“No, non quello”.
“Ah, dici quando hai postato un comunicato dei Bambini di Satana, gruppo s a t a n i s t a in passato al centro di un processo per p e d o f i l i a ? Vuoi sapere se mi sono arrabbiato?”
“Ma no, figurati”.
“Ah, forse intendi quella volta che hai scritto vari messaggi dicendo che ho il pisello piccolo firmandoti con nomi diversi, tra i quali quello della mia attuale ragazza, che è una persona molto riservata?”
“No, no, per quello ti ho già chiesto scusa, ricordi?”
“Allora forse è quella volta che per scrivere il Diario di Cuba hai scelto un nick molto simile al mio, così che molti hanno creduto che io mi dedicassi al turismo sessuale?”
“Ma non ti sarai mica arrabbiato per una sciocchezza simile!”
“Chi, io? Figurati. E allora per cosa?”
“Ho scritto un messaggio in cui contesto alcuni punti del tuo post”.
“E non ti sei firmato con il nome di un’organizzazione sovversiva o dedita a riti s a t a n i c i?”
“No”.
“E non hai fatto apprezzamenti sulle mie pratiche sessuali o sulle mie misure?”
“Nemmeno”.
“Allora non mi posso arrabbiare, scusa. Hai usato il forum correttamente, tutto qui”.
“Proprio non puoi?”
“Dai, non fare il muso. Non si può dare il meglio di sé tutti i giorni”.
“Già”.
“Riproverai domani, su”.
“Mmmm”.
“C’è altro? Posso digerire?”
“Va bene. Ci leggiamo”.
“Ci leggiamo”.
Click.
Per punirlo delle sue manie d’onnipotenza, l’Onnipotente vero gli ha mandato la più diabolica delle punizioni divine: il Troll.
Il Troll è l’antipatico personaggio che si annida nei forum, o nei commenti, senz’altro scopo che attirare l’attenzione su di sé mediante commenti velenosi, o fuori tema, o calunniosi, o quel che gli viene in mente di volta in volta.
Il Troll classico è uno sconosciuto, che un bel giorno arriva e decide che nel tuo blog c’è un sacco di spazio anche per lui. Ma si guarda bene dal fornire i suoi dati personali.
Questo, nella maggior parte dei casi.
Ma il mio – indovinate un po’ – è diverso.
Il Signore ha voluto darmi un troll che conosco benissimo, so dove abita, e a volte si esce perfino assieme. Addirittura mi telefona, s’informa su come sto:
Drin, drin
“Pronto, Cragno, cosa c’è?”
“Ciao, sono Cragno. Ti disturbo?”
“Insomma, sto mangiando”.
“Allora ti richiamo”
Dopo mangiato io andrò a letto a recuperare un’ora di sonno, e scommetto che lui lo sa: vuole turbarmi i sogni dopo avermi turbato la masticazione.
“No, no, dimmi adesso”.
“Volevo sapere se ti eri arrabbiato per quello che ho scritto nel forum”.
“Hai scritto qualcosa nel forum?”
“Sì, non hai letto?”
“Aspetta… quello in cui ti sei firmato Brigate Rosse Partito Comunista Combattente? Vuoi sapere se mi sono arrabbiato?”
“No, non quello”.
“Ah, dici quando hai postato un comunicato dei Bambini di Satana, gruppo s a t a n i s t a in passato al centro di un processo per p e d o f i l i a ? Vuoi sapere se mi sono arrabbiato?”
“Ma no, figurati”.
“Ah, forse intendi quella volta che hai scritto vari messaggi dicendo che ho il pisello piccolo firmandoti con nomi diversi, tra i quali quello della mia attuale ragazza, che è una persona molto riservata?”
“No, no, per quello ti ho già chiesto scusa, ricordi?”
“Allora forse è quella volta che per scrivere il Diario di Cuba hai scelto un nick molto simile al mio, così che molti hanno creduto che io mi dedicassi al turismo sessuale?”
“Ma non ti sarai mica arrabbiato per una sciocchezza simile!”
“Chi, io? Figurati. E allora per cosa?”
“Ho scritto un messaggio in cui contesto alcuni punti del tuo post”.
“E non ti sei firmato con il nome di un’organizzazione sovversiva o dedita a riti s a t a n i c i?”
“No”.
“E non hai fatto apprezzamenti sulle mie pratiche sessuali o sulle mie misure?”
“Nemmeno”.
“Allora non mi posso arrabbiare, scusa. Hai usato il forum correttamente, tutto qui”.
“Proprio non puoi?”
“Dai, non fare il muso. Non si può dare il meglio di sé tutti i giorni”.
“Già”.
“Riproverai domani, su”.
“Mmmm”.
“C’è altro? Posso digerire?”
“Va bene. Ci leggiamo”.
“Ci leggiamo”.
Click.
mercoledì 5 novembre 2003
“Che eterni ritorni, però!…”
Ricapitolando:
la settimana scorsa ero un senzadio, un empio, perché non mi scandalizzavo a causa della scomparsa dei crocefissi dalle scuole, e non prendevo le distanze dai fondamentalisti islamici.
Nel week end, siccome ho la tessera di un sindacato in tasca (e a volte vado a certe manifestazioni), sono diventato un fiancheggiatore delle Brigate Rosse, che non ha ancora preso abbastanza le distanze dalla lotta armata, dal comunismo, dai gulag, giù giù fino a Lenin (ma Robespierre?).
Il fine settimana vado a morosa.
Torno lunedì, e scopro (ma potevo immaginarmelo, no?) che sono pure un antisemita, in quanto cittadino europeo spaventato dall’atteggiamento dello Stato d’Israele nella crisi del Medio Oriente. E probabilmente non ho ancora preso le distanze dai lager, i pogrom, i ghetti, eccetera.
Beh, sentite una cosa:
non chiedo scusa a nessuno.
Non prendo le distanze da nessuno.
Per un semplice motivo: non ho fatto niente, né la settimana scorsa né in questa. Non ho fiancheggiato nessuno. Non devo fornire alibi o giustificazioni a chicchessia.
Voi, piuttosto, quand’è che vi date una calmata? Guardatevi, avete la faccia stravolta. Rilassatevi. La vincerete, la guerra in Iraq, non c’è dubbio. C’è ancora un po’ di confusione, ma vedrete che alla fine andrà tutto come previsto, e anche le perdite umane rientreranno nelle stime. E comunque voi non siete sul fronte: siete quaggiù, comodi, al sicuro. Non c’è nessun motivo per essere così nervosi. Per vedere nemici dappertutto.
Non ci sono nemici dappertutto, andiamo. Adel Smith è un buffone, e la maggior parte dei mussulmani d’Italia preferisce lasciare il crocefisso dov’è piuttosto che scatenare tutto questo vespaio. I brigatisti sono – da quindici anni a questa parte – un gruppuscolo di guerriglieri totalmente dissociati con la realtà. Certo, è sufficiente un gruppuscolo per uccidere una, due, tre volte: questo è purtroppo vero per ogni banda armata, politica o no. Contesti in cui la violenza tollerata diventa endemica esistono: sono gli stadi, e col Movimento c'entrano abbastanza poco. Ma l’idea che un comizio di Cofferati o un buffo proclama di Casarini possano convincere qualcuno a entrare nelle BR è demenziale. E, a differenza di tante altre idee demenziali, non è nemmeno suffragata dai fatti.
E l’antisemitismo? C’è antisemitismo in Italia? Ce n'è di sicuro. Ma – a parte l’idiota che continua a postare regolarmente i protocolli dei Savi di Sion su ogni sito aperto al pubblico – discorsi antisemiti a sinistra o nel Movimento non li ho sentiti mai.
Invece ho sentito giudizi molto critici sul Sionismo o sul governo Sharon. Si può essere d’accordo o dissentire. Ma non si può gridare all’antisemita all’antisemita. (A rischio di perdere ogni credibilità quando arriva l’antisemita vero).
Tutta questa paranoia, oltre a essere eccessiva, è anche molto noiosa. Se sei nel movimento, prima o poi finisci nella lotta armata (ma perché?). Se critichi Israele, è perché odi gli ebrei. Niente di nuovo sotto il sole. Anzi no: sotto il sole c’è molto di nuovo, ma il problema è che voi ve ne restate in casa con le imposte chiuse. Ma guardate che fuori fa ancora bello.
Ci è stato ripetuto fino alla noia che chi non ha memoria non ha futuro. Ma sarà vero? E chi ha solo memoria, ce l’ha, un futuro? Non è forse condannato a rivivere l’eterno passato che ha mandato a memoria? Voi vedete un’opinione pubblica europea che critica uno Stato filo-americano in Medio Oriente: una situazione assolutamente inedita. Ma per voi non esistono situazioni inedite: esistono solo le cose che conoscete già. E siccome avete studiato che negli anni Quaranta gli ebrei finirono nei forni, per voi poco ci manca: chi parla male degli ebrei li vuole di nuovo nei forni. Ma perché? Ma in che modo? Ma siete sicuri?
Allo stesso modo, siccome negli anni Settanta voi c’eravate (e ne parlate, oh, quanto ne parlate), siete convinti di avere imparato qualche lezione. Il che può benissimo darsi: ma siete sicuri che questa lezione sia utile anche a chi viene dopo di voi? Voi pensate che il Movimento porterà i giovani alla lotta armata. A guardarsi un po’ intorno si sarebbe portati a sostenere il contrario: il Movimento ha fornito a molti giovani una forma di antagonismo alternativo alla violenza. Tanto che il giorno in cui qualcuno di questa generazione comincerà a sparare – e può succedere benissimo, statisticamente – non sarà per il malefico influsso delle parole di Casarini, ma perché in Casarini non ci crede più.
Ma a voi tutto questo non interessa. Avete mai veramente studiato la storia dei centri sociali e dell’antagonismo negli anni Ottanta e Novanta? Ma quando mai. L’unica cosa che conoscete sono gli anni di piombo. E quindi per voi non c’è dubbio che tutto debba finire come negli anni di piombo. Avete buona memoria, voi. Ma non avete proprio nient’altro. Neanche un occhio aperto.
Di conseguenza, date un sacco di lezioni. Avete l’aria di sapere già tutto quello che succede, per il semplice motivo che è già successo a voi.
Siete cinici, disincantati.
Siete anche molto buffi.
Forse l’adagio marxiano della Storia che si ripete in farsa si può interpretare così: la Storia in sé non è ne seria ne farsesca; ma il voler sempre leggere l’attualità con le lenti della Storia, questo sì, porta a esiti farseschi. Lotta Continua, Potere Operaio, l'Autonomia, non erano farsa: e anche Casarini, tutto sommato non lo è. Finché, appunto, non si paragona l'uno alle altre. Allora sì che c'è da ridere. Dovremmo tagliarlo, questo ombelico, prima o poi: perché non farlo stamattina?
Non esistite soltanto voi: esistono anche gli altri. Indipendentemente da voi, dalle vostre idee, dalle vostre paranoie, dalla vostra piccola storia personale che non è la Storia Universale, o ne è una ben piccola parte.
La disobbedienza è un fenomeno che va studiato con lenti nuove. E lo stesso vale per l’anti-israelismo degli europei (e per l’anti-europeismo degli israeliani). Quanto alla memoria, forse in certi casi può aiutare. Ma bisogna anche ammettere che a volte è solo d’intralcio.
Ricapitolando:
la settimana scorsa ero un senzadio, un empio, perché non mi scandalizzavo a causa della scomparsa dei crocefissi dalle scuole, e non prendevo le distanze dai fondamentalisti islamici.
Nel week end, siccome ho la tessera di un sindacato in tasca (e a volte vado a certe manifestazioni), sono diventato un fiancheggiatore delle Brigate Rosse, che non ha ancora preso abbastanza le distanze dalla lotta armata, dal comunismo, dai gulag, giù giù fino a Lenin (ma Robespierre?).
Il fine settimana vado a morosa.
Torno lunedì, e scopro (ma potevo immaginarmelo, no?) che sono pure un antisemita, in quanto cittadino europeo spaventato dall’atteggiamento dello Stato d’Israele nella crisi del Medio Oriente. E probabilmente non ho ancora preso le distanze dai lager, i pogrom, i ghetti, eccetera.
Beh, sentite una cosa:
non chiedo scusa a nessuno.
Non prendo le distanze da nessuno.
Per un semplice motivo: non ho fatto niente, né la settimana scorsa né in questa. Non ho fiancheggiato nessuno. Non devo fornire alibi o giustificazioni a chicchessia.
Voi, piuttosto, quand’è che vi date una calmata? Guardatevi, avete la faccia stravolta. Rilassatevi. La vincerete, la guerra in Iraq, non c’è dubbio. C’è ancora un po’ di confusione, ma vedrete che alla fine andrà tutto come previsto, e anche le perdite umane rientreranno nelle stime. E comunque voi non siete sul fronte: siete quaggiù, comodi, al sicuro. Non c’è nessun motivo per essere così nervosi. Per vedere nemici dappertutto.
Non ci sono nemici dappertutto, andiamo. Adel Smith è un buffone, e la maggior parte dei mussulmani d’Italia preferisce lasciare il crocefisso dov’è piuttosto che scatenare tutto questo vespaio. I brigatisti sono – da quindici anni a questa parte – un gruppuscolo di guerriglieri totalmente dissociati con la realtà. Certo, è sufficiente un gruppuscolo per uccidere una, due, tre volte: questo è purtroppo vero per ogni banda armata, politica o no. Contesti in cui la violenza tollerata diventa endemica esistono: sono gli stadi, e col Movimento c'entrano abbastanza poco. Ma l’idea che un comizio di Cofferati o un buffo proclama di Casarini possano convincere qualcuno a entrare nelle BR è demenziale. E, a differenza di tante altre idee demenziali, non è nemmeno suffragata dai fatti.
E l’antisemitismo? C’è antisemitismo in Italia? Ce n'è di sicuro. Ma – a parte l’idiota che continua a postare regolarmente i protocolli dei Savi di Sion su ogni sito aperto al pubblico – discorsi antisemiti a sinistra o nel Movimento non li ho sentiti mai.
Invece ho sentito giudizi molto critici sul Sionismo o sul governo Sharon. Si può essere d’accordo o dissentire. Ma non si può gridare all’antisemita all’antisemita. (A rischio di perdere ogni credibilità quando arriva l’antisemita vero).
Tutta questa paranoia, oltre a essere eccessiva, è anche molto noiosa. Se sei nel movimento, prima o poi finisci nella lotta armata (ma perché?). Se critichi Israele, è perché odi gli ebrei. Niente di nuovo sotto il sole. Anzi no: sotto il sole c’è molto di nuovo, ma il problema è che voi ve ne restate in casa con le imposte chiuse. Ma guardate che fuori fa ancora bello.
Ci è stato ripetuto fino alla noia che chi non ha memoria non ha futuro. Ma sarà vero? E chi ha solo memoria, ce l’ha, un futuro? Non è forse condannato a rivivere l’eterno passato che ha mandato a memoria? Voi vedete un’opinione pubblica europea che critica uno Stato filo-americano in Medio Oriente: una situazione assolutamente inedita. Ma per voi non esistono situazioni inedite: esistono solo le cose che conoscete già. E siccome avete studiato che negli anni Quaranta gli ebrei finirono nei forni, per voi poco ci manca: chi parla male degli ebrei li vuole di nuovo nei forni. Ma perché? Ma in che modo? Ma siete sicuri?
Allo stesso modo, siccome negli anni Settanta voi c’eravate (e ne parlate, oh, quanto ne parlate), siete convinti di avere imparato qualche lezione. Il che può benissimo darsi: ma siete sicuri che questa lezione sia utile anche a chi viene dopo di voi? Voi pensate che il Movimento porterà i giovani alla lotta armata. A guardarsi un po’ intorno si sarebbe portati a sostenere il contrario: il Movimento ha fornito a molti giovani una forma di antagonismo alternativo alla violenza. Tanto che il giorno in cui qualcuno di questa generazione comincerà a sparare – e può succedere benissimo, statisticamente – non sarà per il malefico influsso delle parole di Casarini, ma perché in Casarini non ci crede più.
Ma a voi tutto questo non interessa. Avete mai veramente studiato la storia dei centri sociali e dell’antagonismo negli anni Ottanta e Novanta? Ma quando mai. L’unica cosa che conoscete sono gli anni di piombo. E quindi per voi non c’è dubbio che tutto debba finire come negli anni di piombo. Avete buona memoria, voi. Ma non avete proprio nient’altro. Neanche un occhio aperto.
Di conseguenza, date un sacco di lezioni. Avete l’aria di sapere già tutto quello che succede, per il semplice motivo che è già successo a voi.
Siete cinici, disincantati.
Siete anche molto buffi.
Forse l’adagio marxiano della Storia che si ripete in farsa si può interpretare così: la Storia in sé non è ne seria ne farsesca; ma il voler sempre leggere l’attualità con le lenti della Storia, questo sì, porta a esiti farseschi. Lotta Continua, Potere Operaio, l'Autonomia, non erano farsa: e anche Casarini, tutto sommato non lo è. Finché, appunto, non si paragona l'uno alle altre. Allora sì che c'è da ridere. Dovremmo tagliarlo, questo ombelico, prima o poi: perché non farlo stamattina?
Non esistite soltanto voi: esistono anche gli altri. Indipendentemente da voi, dalle vostre idee, dalle vostre paranoie, dalla vostra piccola storia personale che non è la Storia Universale, o ne è una ben piccola parte.
La disobbedienza è un fenomeno che va studiato con lenti nuove. E lo stesso vale per l’anti-israelismo degli europei (e per l’anti-europeismo degli israeliani). Quanto alla memoria, forse in certi casi può aiutare. Ma bisogna anche ammettere che a volte è solo d’intralcio.
martedì 4 novembre 2003
Buon quattro novembre a tutti.
Karaoke esistenziale, ciak! 4
La java des bombes atomiques, di Boris Vian.
(Ma qui purtroppo nella dimenticabile versione italiana di Eddie Fiap (mp3)):
Mio zio, esperto in bricolage,
faceva nel garage
la bomba nucleare;
di atomi, capiva un’acca:
era un autodidatta,
amava improvvisare.
Tutto il giorno in quei due scarsi
metri quadri, a farsi
i suoi esperimenti…
…ma la sera, assai contento,
s’invitava a cena
e ci dicea così:
“Per fabbricar la Bomba, gente,
non ci vuole niente,
non son mica un mago:
prendi del plutonio,
aggiungi un po’ d’uranio,
e fissi forte, con lo spago!
E il detonatore
è affar di un quarto d’ora,
ma una cosa mi tormenta:
quella di mia costruzione
ha un raggio d’azione
di un metro e novanta!
C’è qualcosa che non va…
tornerò subito là!”.
E giorno dopo giorno
si dava d’attorno
a migliorare il suo prototipo;
poi a cena, quatto quatto,
ci vuotava il piatto,
tetro, e assai laconico.
Era chiaro quanto amaro
fosse il suo sconforto,
ma nessun fiatò,
finché un giorno disse: Basta!”,
si picchiò la testa
e così continuò:
“Mio Dio, che deficiente,
insomma, ma è evidente,
è il mio cervello che è un catorcio!
Che dico, siam sinceri, quello
non è più un cervello,
è un cavolo marcio!
Mesi e mesi
inutilmente spesi
a preoccuparsi del raggio d’azione,
quando quel che solo importa
è chiudere la porta
in caso di esplosione!
Ecco quello che non va!
Torno immantinente là”.
Curioso del suo risultato
Il Capo di Stato
volle fargli visita:
tutto emozionato
mio zio si è scusato
che la stanza fosse piccola,
poi lo ha chiuso dentro a chiave,
ha detto: “Faccia il bravo!”
e si è spostato un po’…
… ci fu un gran boato,
e del Capo di Stato
non un atomo restò!
Venne incarcerato,
e tosto processato,
e in questo modo si difese:
“Distruggendo quell’orrore,
sul mio onore,
ho ben servito il mio Paese!
Quanto al Presidente
che malauguratamente
stava nella stanza…
è morto per la Patria,
e chi muor per la Patria
è vissuto anche abbastanza!”
Il popolo ci penso un po’,
e poi lo condannò,
e subito amnistiò,
ed ebbro di felicità
lo elesse Presidente
all’unanimità!
Karaoke esistenziale, ciak! 4
La java des bombes atomiques, di Boris Vian.
(Ma qui purtroppo nella dimenticabile versione italiana di Eddie Fiap (mp3)):
Mio zio, esperto in bricolage,
faceva nel garage
la bomba nucleare;
di atomi, capiva un’acca:
era un autodidatta,
amava improvvisare.
Tutto il giorno in quei due scarsi
metri quadri, a farsi
i suoi esperimenti…
…ma la sera, assai contento,
s’invitava a cena
e ci dicea così:
“Per fabbricar la Bomba, gente,
non ci vuole niente,
non son mica un mago:
prendi del plutonio,
aggiungi un po’ d’uranio,
e fissi forte, con lo spago!
E il detonatore
è affar di un quarto d’ora,
ma una cosa mi tormenta:
quella di mia costruzione
ha un raggio d’azione
di un metro e novanta!
C’è qualcosa che non va…
tornerò subito là!”.
E giorno dopo giorno
si dava d’attorno
a migliorare il suo prototipo;
poi a cena, quatto quatto,
ci vuotava il piatto,
tetro, e assai laconico.
Era chiaro quanto amaro
fosse il suo sconforto,
ma nessun fiatò,
finché un giorno disse: Basta!”,
si picchiò la testa
e così continuò:
“Mio Dio, che deficiente,
insomma, ma è evidente,
è il mio cervello che è un catorcio!
Che dico, siam sinceri, quello
non è più un cervello,
è un cavolo marcio!
Mesi e mesi
inutilmente spesi
a preoccuparsi del raggio d’azione,
quando quel che solo importa
è chiudere la porta
in caso di esplosione!
Ecco quello che non va!
Torno immantinente là”.
Curioso del suo risultato
Il Capo di Stato
volle fargli visita:
tutto emozionato
mio zio si è scusato
che la stanza fosse piccola,
poi lo ha chiuso dentro a chiave,
ha detto: “Faccia il bravo!”
e si è spostato un po’…
… ci fu un gran boato,
e del Capo di Stato
non un atomo restò!
Venne incarcerato,
e tosto processato,
e in questo modo si difese:
“Distruggendo quell’orrore,
sul mio onore,
ho ben servito il mio Paese!
Quanto al Presidente
che malauguratamente
stava nella stanza…
è morto per la Patria,
e chi muor per la Patria
è vissuto anche abbastanza!”
Il popolo ci penso un po’,
e poi lo condannò,
e subito amnistiò,
ed ebbro di felicità
lo elesse Presidente
all’unanimità!