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giovedì 29 aprile 2004

(Ultimo pezzo utile per mandarvi a vedere i Radio Department)

È una cosa che viene e che va, la curiosità per la musica. Puoi passare anni interi ad ascoltare gli stessi vecchi dischi, anni interi con le stesse tre cassette nel cruscotto che ormai non sanno più di niente. La radio ti manda dei bip e dei tunz incomprensibili, nulla che valga la pena, e tu resti sintonizzato su te stesso, autosufficiente, autarchico.
Poi un giorno, una radio nuova – o un disco nuovo – e ti ritrovi quindicenne. Di solito succede in primavera, anche se fuori è autunno o inverno. Non è come innamorarsi di una persona, è qualcosa di più frizzante e indefinito. È quel sentirsi di nuovo disponibile all’amore, pronto a guardare e a essere guardato.
A volte può essere meno brusco e più graduale: non ti addormenti quarantenne per svegliarti a 15 anni, ci sono fasi intermedie. All’inizio ti senti un po’ pedofilo, è dura ricominciare a muovere la testa insieme a qualcuno che potrebbe avere la metà degli anni che hai tu in quel momento. Nel giro di qualche settimana ti lasci andare, ricrescono i capelli, ti si sgonfia la pancia, in realtà non succede nulla di tutto ciò, ma è come se. Come imparare la lingua locale: scopri la differenza tra tunz e bip, e un bel giorno ti ritrovi a pensare in termini di tunz e bip, e non ci fai nemmeno più caso. Ora sai una lingua in più. Non solo: sai anche che ovunque è pieno di lingue diverse, e impararle dipende solo dalla tua curiosità.

Ho parlato di musica, ma in fondo non vale per qualsiasi altra cosa? Libri, politica, arte, scienza, persone? Ma restiamo sulla musica.

Le persone curiose sono spesso le più insoddisfatte. Le persone curiose sono le più interessanti. Quale sia la causa e l’effetto, non l’ho ancora capito. Di curiosità, in giro, ce n’è un gran bisogno, ed è un bisogno che troppo il mercato non soddisfa.
Se vi è venuta un po’ di curiosità per i Radio Department – il gruppo svedese che ha fatto perdere la testa a molti blog – veniteli a vedere sabato sera al Covo. Mescolati nel pubblico (o al banco del bar) troverete gli organizzatori del concerto, quindicenni in vestiti da trentenni. Quanti anni abbiano davvero, decidetelo voi.
Li troverete che ballano, cantano, muovono la testa, senza riuscire a scacciare il famoso retropensiero: perché faccio tutto questo? Organizzo concerti perché sto diventando adulto (prima ci andavo soltanto) o li organizzo perché non riesco a smettere di essere curioso?

Organizzare concerti, come scrivere sui blog, è un’attività moralmente discutibile. Tempo che si potrebbe impiegare meglio in… cosa? Ti fai forte dicendo che un bel giorno potrebbe diventare un mestiere, e sarebbe un modo come un altro per diventare grande in extremis, ma quel giorno non arriva mai. Il tempo passa, e resti il ragazzino che si appassiona a un disco strano, o che scrive racconti per la gloria. Moralmente molto discutibile.

Se sei fortunato, hai qualcuno che ogni tanto ti batte sulla spalla: guarda che non è tutto tempo perso. Hai scritto tante cose, e alcune erano buone; hai parlato di tanti dischi, e alcuni erano belli. Sei stato curioso per tutto questo tempo, e la curiosità è un bene prezioso per tutti. Non sempre la società se ne accorge – tanto peggio per la società.
E i Professionisti del Capriccio?

Sarà perché sono un disfattista, uno sfascista, un facile profeta di sventura ecc.: così, certe sere in cui l’equazione affitto\stipendio=x mi schianta, mi ritrovo davanti a uno scatolone elettronico a guardare metalmeccanici democraticamente pestati dalle forze dell’ordine, e tutto quello che riesco a pensare di vagamente intelligente (sottolineo vagamente) è: ma che fine hanno fatto i Professionisti del Capriccio?

Per chi non se li ricorda (non è grave), i professionisti del capriccio erano dei tizi incredibilmente antipatici, giovinastri dell’età adatta per le selezioni al grande fratello (25-50), vagamente trendi, con un retrogusto tarro, che passavano il tempo a fare “i massaggiatori di fianchi sinuosi”, e altre scemenze oziose che non ricordo, in uno spot preserale. Dopo qualche mese li ho persi di vista: e voi? Magari è perché guardo meno tv. Oppure hanno cambiato la fascia, riposizionato il target, boh. "Non m’intendo molto di queste cose", ogni tanto un blog cialtrone deve scriverla, questa frase.
Non ho neanche molta memoria. Cosa pubblicizzava?
Un’automobile prodotta, mi pare, dallo stesso gruppo che adesso si fa manganellare gli operai, ma il modello non l’ho presente. Quel che mi ricordo bene è che la prima volta che ho visto lo spot – tra un conflitto a fuoco in Iraq e un servizio sull’inflazione – la Cassandra isterica che senza dubbio è in me ha scosso la testa. “Non può funzionare”.

Quasi quasi ci scrivevo un pezzo, poi mi sono trattenuto, eccheppalle, sempre a far la morale su qualsiasi cosa. E poi non me ne intendo, e chi lo sa? E se invece fosse stata la campagna giusta al momento giusto? Magari è proprio nel momento in cui smetti di pensare alle vacanze estive, e ti accorgi che il portafoglio è pieno solo di scontrini del bancomat – che l’Italia si riempie, come per incanto, di Professionisti del capriccio, massaggiatori di fianchi sinuosi, ecc.. Gli scarsi miei rudimenti di economia suggeriscono che se sono più povero, qualcuno da qualche parte si deve ben essere arricchito. C’è qualcosa di sudamericano in tutto ciò: i ricchi che massaggiano fianchi sinuosi e i poveri che si consolano guardando i massaggiatori in tv. Tutto molto chiaro, salvo che io non mi consolavo affatto. Anzi, m’incazzavo vieppiù. La mia sudamericanizzazione lascia molto a desiderare.

Ma forse non solo la mia. L’altra sera guardavo la tv in una fascia diversa, in una casa diversa, e mi hanno fatto notare una pubblicità nuova. C’è una signorina elegante che guida una vettura discretamente lussuosa. Poi mi hanno fatto notare che era la stessa automobile lungamente attesa dai Professionisti del Capriccio. Così, dagli elementi in mio possesso sembra risultare che abbiano cambiato campagna, magari perché quella di prima non funzionava. La Cassandra che è in me strilla di soddisfazione – ma lasciatela perdere, quella. Segniamo il punto, però. Per dieci, cento, mille Professionisti del Capriccio che perdono tempo e soldi in status symbol farlocchi, c’è ancora una massa critica di consumatori che non ci casca. Sarà perché sono un noto disfattista, uno sfascista, un facile profeta di sventura, ma l’unica nota di speranza che ho trovato stasera è questa qui.

mercoledì 28 aprile 2004

(Karaoke esistenziale, ciac! 15)

Una regina come te… in questa casa!

Ma che succede,
ma siamo tutti pazzi?
Ma io adesso, sai che faccio – che ore sono, le undici?
Io fra… guarda,
fra cinque ore sono qua,
e c’è una casa con quattordici stanze,
te lo faccio vedere chi sono io
te lo faccio vedere chi sono io.

E che sono quei cenci che hai addosso,
ma che,
ma fammi capire,
ma se… ma io… ma come,
tu sei la, sei la mia…
e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso?
Ma io adesso esco, sai che cosa faccio? Ma io ti…
Ti porto una pelliccia...
di leone,
con l’innesto di una tigre,
te lo faccio vedere chi sono io.

Senti,
intanto però c’è un problema:
siccome devo uscire,
mi puoi dare mille lire per il tassì,
in modo che arrivo più in fretta
a risolvere questo problema volgare
che abbiamo?
– te lo faccio vedere chi sono io.
Lascia fare a me
lascia fare a me
lascia fare a me, perché…
ti devi fidare.

Ma che cosa ti avevo detto,
una casa?
ma io sai che cosa faccio?
Ma io ti compro un sottomarino, perché
se qui davanti a casa nostra
quelli c’hanno la barca e rompono le scatole,
io ti compro un sot-to-ma-ri-no,
così sai,
li fai ridere tutti, questi,
haicapito?

Intanto
facciamo una cosa,
io tra cinque ore sono qua.
Tu metti la pentola sul fuoco,
ci facciamo un bel piatto
di spaghetti al burro
(mentre
aspettiamo il trasloco),
poi ci ficchiamo a letto e…
te lo faccio vedere chi sono io,
ti sganghero!
Te lo faccio vedere chi sono io.

Te lo faccio vedere chi sono io,
sono un uomo asociale,
ma sono un uomo che ti… io non ti compro il sottomarino,
ti compro un traslatlantico
basta che tu non scappi,
stai attenta,
perché se scappi col transatlantico ti affogo nel…
nell’Oceano Pacifico.
Dai, dai, coricati,
dai, che ti sganghero.

Te lo faccio vedere chi sono io

Piero Ciampi, Te lo faccio vedere chi sono io, da Andare, Camminare, Lavorare e altri discorsi, 1975.

martedì 27 aprile 2004

Coi terroristi non si dovrebbe trattare, bla bla. In realtà coi terroristi si tratta sempre, magari di nascosto, magari prendendo tempo, magari giocando al ribasso. Vale la pena riflettere sul paradosso della dichiarazione di Rutelli (ma avrebbe potuto farla chiunque, anche di centrodestra):

Noi, contrari alla guerra, siamo totalmente contrari a qualunque trattativa con rapitori e terroristi. Il governo continui ad operare con serietà e discrezione per la liberazione degli ostaggi.

Insomma, "Noi" non trattiamo: continui a farlo il governo, possibilmente con serietà e discrezione: cioè senza dirci niente, senza turbare la nostra integrità di anime belle. E siamo tutti anime belle, qui in Italia, pacifisti o interventisti: tutti uomini d'un pezzo, tutti sicuri delle nostre scelte, e non ci muoviamo di un millimetro. Lo faccia il governo, con serietà e discrezione (ma bisognerebbe avere almeno un governo serio e discreto).

Quando si tratta coi terroristi (perché è di questo che stiamo parlando), non si sa mai se si ha a che fare con dei geni politici e strategici o degli imbecilli che sanno sì e no maneggiare le armi che hanno in mano. Qualche dubbio rimane persino sulle BR. Ma queste Brigate verdi? Vanno prese sul serio? Sì, anche un imbecille armato va preso sul serio. Ma ha senso chiedersi a cosa mirano con le loro richieste? Il loro messaggio è una mossa inedita e spiazzante. "Agli amici amanti della pace del popolo italiano e a tutti gli uomini liberi del mondo": ora, ci spiegano i terroristi, la responsabilità della vita dei tre ostaggi è nostra. "Ci rivolgiamo a voi per la seconda volta per farvi partecipi di una grande responsabilità nei confronti dei vostri concittadini".
E ancora: "E' oramai chiarissimo, senza ombra di dubbio, che chi vi sta guidando è un servo agli ordini del suo padrone, e non presta attenzione alcuna a voi".

E' un lampo di genio, questo comunicato: una martellata a colpo sicuro proprio nel punto più fragile dell'opinione pubblica italiana. Può essere l'illuminazione fortuita di un combattente parolaio affatto digiuno di politica italiana; o può essere una mossa calcolata con scrupolo. Forse non lo sapremo mai.
Sia come sia, con questo appello "agli amanti della Pace" le Brigate Verdi chiedono un pronunciamento dei pacifisti italiani in loro favore. Si rendono o no conto che con la loro mossa mettono in grave imbarazzo proprio i pacifisti italiani?
Per noi, la questione non ha più onorevoli vie di uscita: se manifestiamo, come abbiamo sempre fatto e come pensavamo di fare anche il Primo maggio, con la bandiera della pace, saremo accusati di intelligenza col nemico; se per cinque giorni ci asteniamo dal manifestare i nostri pensieri (che sono ben noti a tutti) saremo accusati di non aver fatto nulla per salvare tre italiani.

D'altro canto il "servo agli ordini del suo padrone", comunque vada, cadrà in piedi: se gli ostaggi torneranno, se ne arrogherà il merito nel pieno della campagna elettorale: se cadranno, avrà altri tre martiri "morti da italiani" su cui imbandire la bella tavolata patriottica.

La coincidenza dell'ultimatum col Primo maggio suggerisce un'altra ipotesi. Può darsi che i terroristi stiano goffamente tentando di attribuirsi il merito di aver riempito le piazze italiane durante la festa del lavoro. I terroristi mandano un comunicato, cinque giorni dopo Al Arabiya mostra le piazze piene di italiani (con qualche bandiera arcobaleno), e le "Brigate Verdi" salvano la faccia davanti a migliaia (milioni?) di telespettatori arabi. Un trabocchetto mediatico goffo ma efficace, nel quale sarebbe anche difficile non cadere. Infatti, ammesso che nessuno di noi voglia "trattare coi terroristi": che si fa? Si vietano i cortei e i concerti del Primo Maggio? Si lasciano a casa le bandiere arcobaleno? Ma bisogna lasciarle a casa proprio tutte... (fermate Caravita!)

Un'ultima considerazione. Cedere ai ricatti, di solito, significa concedere qualcosa di scomodo. Ma questi terroristi ci chiedono di fare qualcosa che abbiamo già fatto, che avremmo fatto senza il loro invito, che continueremo a fare anche quando il sequestro si concluderà, in un modo o nell'altro. Ci chiedono di fare qualcosa che facciamo volentieri, che reputiamo giusto fare. E' come se ci chiedessero di mangiare e bere: dobbiamo digiunare per mostrare che non trattiamo con loro? Onestamente, dobbiamo farlo? io non lo so.

Quello che so è che di altri tre martiri, di altri tre eroi, io non sento la minima esigenza. Né di un'anima bella. Quando ai tempi del sequestro Moro i terroristi fecero le prime richieste, si scoprì improvvisamente che il parlamento era pieno d'uomini tutti d'un pezzo, vere statue, immobili sulla linea della fermezza. E poi c'era un signore molto meno fermo, niente affatto statuario, il Presidente Leone, che da subito avvertì che aveva la penna pronta per firmare qualsiasi cosa il parlamento gli chiedesse di firmare. Oggi io vorrei rispondere allo stesso modo: la bandiera è qui pronta, come la penna di Leone: ditemi cosa devo fare.

Tanto si sa che la colpa sarà nostra, e l'eventuale merito di qualcun altro: ma questo conta fino a un certo punto. Tre vite credo valgano di più.

domenica 25 aprile 2004

Cantico del 25 aprile

Questa è la terza puntata. Le altre due: 1, 2. Vale la pena di ribadire che ogni riferimento a persone, cose, ecc., è puramente casuale. (E no, ne ho combinate tante, ma non ho mai sporcato i compiti di sugo).

I 25 aprili futuri

Passerà il tempo che deve passare, cambieremo lavoro e famiglia, governo e alleanze, cambieremo perfino idea, ogni tanto; ma io non sono mai stato un ottimista, sai, mi riterrò soddisfatto se il futuro mi consente di venirti ancora a trovare da qui a dieci anni, e a litigare, perché no, sarebbe già un discreto risultato.
“Passavo di qui, mi son detto: magari è in casa”.
“Hai fatto bene. Sali”.
Una fitta sparatoria eccheggia dal salotto. “Piero, saluta lo zio Davide. Piero!”.
Piero è distratto, comprensibilmente: sta attaccando da solo un commando di terroristi palestinesi. A Natale suo padre gli ha portato la Playstation V. “Ciao, zio”.
“Vieni di là, ti faccio un caffè”.
“Grazie”.

In cucina una pila di fogli protocollo a quadretti, sfregiati ovunque di rosso. Verifiche di matematica.
“Vedo che siamo in fase correzione intensiva”.
“Oddio, che vergogna, sono così indietro…”
“Anche a me piaceva correggerli in cucina. Poi li restituivo con le macchie di sugo. Ero veramente un gran cazzone”.
“Non ti manca un po’ la scuola?”
Alzo le spalle. “Era troppo alto il rischio di diventare un tuo collega”.
“Stronzo. Ma il nuovo lavoro come va?”
“Non mi lamento”.
“Il 25 lavori? O vai da qualche parte?”
“Il 25? Sai che non ho preso impegni? Penso che starò a letto fino a mezzogiorno”.
“Senti… vorrei chiederti una cosa. Un favore grosso”.
“Grosso quanto?”.
“Mi… mi hanno invitato in montagna per il ponte”.
“Ottimo. Un po’ d’aria buona farà bene anche a Piero”.
“Ecco, in realtà non… Piero non è stato invitato”.
“Ah”.
“Cioè, magari… però io ho pensato che… insomma, era meglio non portarlo”.
“Ho capito”.
Il caffè gorgoglia, si mescola al gemito dei terroristi che sale dal salotto. Piero è passato all’arma bianca.
“Ma è una cosa importante, sai, lui… è un tipo serio”.
“Ti ho detto che ho capito”.
“Di lasciarlo a suo padre non mi sento... anche i genitori..."
“Non ti devi vergognare”.
“E poi andate d’accordo, voi due”.
“Ci lasci il frigo pieno?”
“Però non farlo giocare con quella cosa tutto il giorno. A volte mi spaventa”.
“Se il tempo è bello potremmo andare al corteo”.
“Ecco, bell’idea. Quanto zucchero?”
“Niente zucchero, grazie”.
“Aspetta un momento. Di che corteo stai parlando?”
“Il corteo dell’Anpi, hai presente? Danno anche lo gnocco fritto. Magari lui non c’è mai stato”.
“Stai scherzando, spero”.
“No, perché?”
“Non posso credere che facciano ancora il corteo, sono dei matti”.
“È pur sempre il venticinque aprile, sai”.
“Il venticinque aprile! E ti sembra una cosa da ricordare con un corteo? L’anniversario della sconfitta?”
“Non è proprio una sconfitta. Si chiama liberazione”.
“Ma lo sai meglio di me che è col 25 aprile che è cominciato tutto! Lo strapotere americano in Europa! La spartizione di Yalta! Quei porci ci hanno succhiato il sangue per sessant’anni!”
“Dai, Costanza…”
“Ci hanno sfilato il Medio Oriente da sotto il naso! Ti sembra giusto pagare il petrolio al prezzo che ci fanno loro? Il petrolio che abbiamo scoperto noi europei?"
“Costanza…”
“E adesso hanno cominciato a rincarare anche i cereali! E l’acqua. Ormai controllano anche l’acqua. Hai visto quello che è successo al Kashmir, no? E lo Zimbabwe?”
“Cosa vuoi mai, c’era una dittatura…”
“Li hanno bombardati al tappeto per due settimane! Migliaia di morti! E tu festeggi con loro?”
“Io ho sempre festeggiato, Costanza”.
“Sei un incoerente. Te l’ho sempre detto. Se ti vedesse tuo zio”.
“Cosa c’entra mio zio, adesso”.
“Tuo zio era uno dei pochi che aveva capito tutto. Voleva un’Europa continentale libera, orgogliosa, gelosa delle sue risorse. Ed è morto per questa idea”
“Mio zio è morto perché si filava tua nonna”.
“Ma è possibile che a quarant’anni tu non riesca a capire…”
“Costanza…"
“Sei ancora il solito patetico pacifista col mito dei partigiani che…”
“Stavo scherzando. Non lo fanno più il corteo”.
“Non lo fanno più?”
“No, l’Anpi ormai non c’è più”.
“Perché mi hai detto che volevi portarlo al corteo?”
“Per farti arrabbiare. Mi piace farti arrabbiare”.
“Sei uno stronzo, sai”.
“Sei carina quando ti arrabbi”.
“Ma vaffanculo”.

Il 25 aprile 2013 io e Piero lo passiamo così:
ci svegliamo a mezzogiorno, facciamo colazione e massacriamo un centinaio di hezbollah per ora di pranzo. Pranziamo verso le tre, poi, siccome è una bella giornata, ci vien voglia di tirar fuori le biciclette e salire sull’argine.
“Facciamo una gara?”
“Ma tu hai la bici nuova, non vale”.
“Tu e i tuoi amici venivate qui da ragazzi?”
“Qualche volta venivamo a farci le canne a pescare. Non ho mai preso niente”.
“E mia mamma veniva?”
“No, non era il tipo”.
“Mamma dice che da ragazzo tu le andavi dietro”.
“Non devi credere a tutto quello che ti dice tua madre”.
“Dice che sei uno stupido, perché per tanti anni le sei andato dietro e non gliel’hai mai detto”.
“Anche se gliel’avessi detto non sarebbe cambiato niente”.
“Dice che da ragazzo, se m’innamoro di una ragazza, non devo essere stupido come te, devo dirglielo subito”.
“Seh… parla l’esperta, parla”.
“Ma perché non glielo hai detto?”
“Sai che fai un sacco di domande?”
“Scusa”.



“Non potevo mica dirglielo in mezzo a tutta la gente, mi vergognavo”.
“Perché non hai telefonato?”
“Non si dicono queste cose per telefono”.
“Perché?”
“Volevo portarla in un posto tranquillo, dove non ci fosse nessuno, e dirglielo”.
“Aaaaaaah!”
“Levati quel sorrisino dalla faccia, cosa credi? Io ero un ragazzo serio”.
“Perché non l’hai invitata in montagna?”
“Tante volte l’ho invitata in montagna, ma lei non è mai voluta venire”.
“Perché?”
“Non so, ogni volta ci mettevamo a parlare di politica e litigavamo. Poi lei si è messa con tuo padre”.
“Tu e papà eravate amici?”
“Non ci conoscevamo tanto bene”.
“Mamma dice che tu non lo potevi sopportare”.
“E vabbè, che dovevo fare? Mica potevo ammazzarlo”.
Che cos’ho detto?
“Che cos’hai detto?”
“Niente”.

L’argine attraversa il paese e lo abbandona in un minuto. Si snoda in una campagna piatta, dove nessuno ha ancora trovato conveniente edificare. Scarta a destra, poi a sinistra, aggirando una vecchia corte, un agriturismo.
Quello era il podere della mia famiglia. E mio zio è sepolto lì, da qualche parte. Non può essere altrove. Non si può fare molta più strada, a piedi, tallonato da una carabina, magari con una vanga in mano.
È molto difficile riuscire a immaginare i pensieri di un uomo che sta scavando la propria fossa. È chiaro che fino all’ultimo deve aver sperato di salvarsi. Forse ha pensato a uno scherzo. Erano due ragazzi, dopotutto. Ma è vero che avevano alle spalle anni di orrori.
Avrà supplicato. O era troppo fiero per farlo? O sapeva che era inutile?
Insomma, non lo so. Ho provato tante volte a pensarci. Ma devo arrendermi: tra me e mio zio e il suo assassino c’è troppa distanza. Io non posso immaginare quel che hanno provato. Erano diversi da me. Erano un’altra razza. Erano in guerra. Io non so cos’è la guerra.
Ma dovrei vergognarmene? E' questo il punto. Alla fine credo di no, credo che non devo vergognarmene. Qualcuno ha lottato perché io potessi crescere così, timido, impacciato, incapace di offendere. Qualcuno vedeva in me un modello per il futuro, un tipo di uomo che poteva funzionare. Ora, a vedermi allo specchio, non si direbbe, ma io ero un'utopia, una volta. E mi devo vergognare? No, forse dovrei fare più sport, respirare aria pura, portarmi in giro con orgoglio.

“A cosa pensi?”
“Alla guerra”.
“Allo Zimbabwe?”
“No, alla guerra che c’è stata qui”.
“C’è stata una guerra?”
“Sessant’anni fa. A scuola non vi hanno detto niente?”
“Non mi ricordo”.
“Sai che festa è oggi?”
“Certo che lo so. San Marco Evangelista”.
“Che cosa?”
“È il patrono di Venezia. Sai che la sua tomba ce l’avevano i turchi e non la volevano dare ai veneziani, allora i veneziani lo hanno rubato e lo hanno nascosto in mezzo a della carne di maiale”.
“E te le raccontano a scuola queste puttanate cose?”.
“Sai che i musulmani non sopportano la carne di maiale, così al confine non hanno fatto l’ispezione, e sono riusciti a portare il corpo a Venezia. Per questo lui è un simbolo dell’orgoglio europeo, e…”
“Aeeetchm!”
“Hai il raffreddore?”
“No, sono i fiori”.
La primavera è precoce, quest’anno. “Piero, hai presente quella canzone… l’avrai sentita senz’altro… quella che fa
E questo è il fiore / del partigiano / O bella ciao, etc.”
“Beh?”
“Sai chi erano i partigiani?”
“Erano dei soldati”.
“Ma non erano soldati regolari. Sai, l’Italia era stata invasa dai tedeschi, e…”
“Ma i tedeschi non sono nostri amici?”
“Erano nostri amici, ma poi…”
“Che confusione”.
“Hai ragione. Ma una volta se ti va ti racconto la storia. Sai che tuo bisnonno era un partigiano?”
“Ha ucciso molti nemici?”
“Sì… no… non so. Torniamo a casa?”
“Facciamo a chi arriva prima”.
“Ma tu hai la bici nuova, non vale”.

Sessantotto anni prima, a quell’ora, la gente scendeva in piazza a festeggiare. Chi aveva ucciso festeggiava di non dover più uccidere; chi si era nascosto festeggiava di non doversi più nascondere. E poi, certo, c’era chi anche quel giorno covava i suoi rancori, e approfittava della confusione: e non dobbiamo scordarcene. Ma era una bella giornata, e la guerra era finita: e se abbiamo 364 giorni all’anno per litigare su tutto, pure la gioia di quel giorno dovremmo essere capaci di festeggiarla. Per chi ha combattuto, per chi è morto, per chi ha sofferto, per chi era stanco di sparare in montagna, e aveva voglia di portarsi su la morosa. O dobbiamo litigarci anche questa gioia? Che senso ha?
Chiedete a chi ha combattuto: loro sanno quant’è bella la pace, il primo giorno. Con un po’ di fantasia dovremmo essere capaci di capirlo anche noi. Buona Liberazione.

sabato 24 aprile 2004

Cantico del 25 aprile (continua da ieri)

(Fiaba emiliana del XXI sec. Ogni riferimento a persona o cosa continua a essere puramente casuale. Per esempio, il 25/4/94 io sono stato a casa)
.

“Ho preso anch’io tant’acqua, se ti può consolare. Pensa che noi eravamo su in collina e…”
“Aspetta un attimo. Come sarebbe a dire che eri in collina?”
“Sopra Vignola, sai, volevamo vedere la fioritura”.
“L’unico anno che non t’invito fuori tu ci vai?”
“Magari quest’anno se tu mi avessi invitata…”
“E con chi sei andata?”
“Oh, Giorgio, sai, il…”
“Giorgio il figlio del magliaro? (Eeeeetchm) Quel berlusconiano di merda?”
Azzurro, non si dice berlusconiano. Si dice azzurro. Comunque è piovuto tutto il tempo, e siamo rimasti in casa”.
“In casa di chi?”
“In casa di Giorgio, sai che i suoi ne hanno una da quelle parti”.
“Ma eravate da soli?”
“Ma sai che fai un sacco di domande?”

Faccio un sacco di domande, e siccome sono quelle sbagliate, ci metto parecchio prima di trovare le risposte. Negli anni successivi mi sono spesso chiesto una cosa sciocca, e cioè: se io avessi saltato il corteo e ti avessi invitato fuori prima di Giorgio, forse non ti saresti messa con lui proprio nella piovosa giornata del 25 aprile 1994. È un’idiozia, me ne rendo conto, ma non mi sono mai perdonato di aver perso quel pomeriggio a urlare Berlusconi ladro, come se già non si sapesse, come se questo impedisse a stronzi come Giorgio e come te di votarlo, in piena coscienza, prima di mettervi in macchina e andare a prendere il fresco a Vignola.

“No, ma guarda, ti compatisco, un pomeriggio intero chiusa in casa con quel berlusconiano, dev’esser stato un bel divertimento”.
“Si dice azzurro”.
“Ma fammi il pia- Eeetch!”
“Salute”.
“Grazie”.


…I 25 aprili presenti…

Per un po’ ci siamo persi di vista, è vero: a parte le rispettive feste di laurea, i matrimoni degli amici, eccetera. Nel 2002, per esempio: si sposava Pedro e tu hai voluto venire al mio tavolo. Ho fatto il possibile per non parlare di politica, ma tu…
“Ho sentito che insegni, adesso”.
“Supplente”.
“Sai che sto pensando di fare delle supplenze anch’io?”
“Saresti un’ottima prof di matematica”.
“Naaah. Avrei dovuto fare commercio estero”.
“Per carità”.
“Certo che i prof come te, al giorno d’oggi rischiano”.
“Cosa intendi?”
“Massì, hanno anche attivato un numero verde a Bologna, per segnalare i professori che fanno propaganda politica”.
“Io non faccio propaganda politica”.
“Dai, Davide”.
“Ti giuro. Ho un paio di ragazzi, in classe… dei balilla, veramente. Però sanno la sintassi. Per me la sintassi è molto importante”.
“Quelli come te deformano sempre un po’ la realtà… poi con i libri di Storia che vi trovate…”
“I libri di Storia che ci troviamo non hanno impedito alla gente come voi di crescere come siete cresciuti e di votare quello che avete votato”.
“Ti ho colto sul vivo, eh?”
“Ma figurati”.
“Per esempio: tra tre giorni è il 25 aprile. Scommetto che dopodomani tu entrerai in classe e detterai una lettera…”
“…di un condannato a morte della Resistenza. E allora? Questa tu la chiami propaganda?”
“Ma scusa, non lo vedi? È passato mezzo secolo e ancora state a menarvela con questa Resistenza”.
“Faccio finta di non aver sentito”.
“Secondo me dovremmo abolirlo, il 25 aprile. È una festa che divide più di unire”
“Mica dobbiamo essere uniti per forza”.
“Lo vedi? Siete ancora convinti di essere la maggioranza e di avere sempre ragione, e invece non è così”.
“Mi stai dando del voi. Detesto quando mi date del voi”.
“E tutti quelli che scelsero di stare dall’altra parte? Loro non esistono? Non meritano di essere ricordati?”
“Meritano di essere ricordati come quelli che hanno scelto la parte sbagliata”.
“E tuo zio?”
“Cosa c’entra mio zio”.
“Non merita di essere ricordato anche lui?”
“Ricordato per cosa? Era un fascista, punto. Stava dalla parte sbagliata, punto”.
“E quindi è giusto dimenticarsene. Tanto più che non l’hanno mai trovato, no?”
“In guerra succedono tante porcherie”.
“Ragion di più per non esaltare i ragazzini con la Resistenza. E poi gli fai leggere il Partigiano Johnny, scommetto”.
“Troppo lungo. Guardiamo il film”.
“Lo vedi come sei?”
“Dai, Costanza…”
“Guarda che io lo dico per il tuo bene, prima o poi ti denunciano”.
“Carino da parte tua”.
“E poi cosa fai il 25? Stai a casa e correggi la sintassi dei temi?”
“No, con Vitto e Toni pensavo di farmi un giro sull’Appennino”.
“Dai, davvero?”
“Una cosa non molto impegnativa, anzi, se tu e Giorgio siete liberi…”
“Giorgio lavora”.
“Beh, puoi venire da sola, mica ti mangiamo”.
“No, meglio di no. Devo stare riguardata”.
“Perché? Mi sembri in splendida forma”.
“Davvero? Devo dirti una cosa…”

(Oddio – penso – adesso mi annuncia il matrimonio. Sono così stanco dei matrimoni).
“… ma tu non devi dirla a nessuno, per ora”.
“E cioè?”.
“Aspetto un bambino”.

Pierino è nato sotto Natale, ha i tuoi occhi e il tuo naso, ma i capelli è ancora troppo presto per dire. Ogni tanto passo a controllare, ma il 25 aprile (2003) non pensavo di trovarli in casa. E invece:
“Toh, ma chi c’è lì? C’è lo zio Davide! Saluta lo zio Davide!”
“Ciao Pierino, ciao Costanza”.
“Fagli un sorriso!”
Uaaaaaaah!
“Mi sa che è un po’ presto per i sorrisi”.
“Quand’è di buon umore li fa. E tu come mai da queste parti? Ti pensavo a qualche corteo”.
“Sono andato stamattina a quello dell’Anpi”.
“Quello dell’Anpi? Ci andavo quand’ero piccola”.
“Lo so”.
“Danno ancora gnocco fritto?”
“Come no”.
“Certo che siete dei begli incoerenti, voialtri”.
“Eh?”
“È da sei mesi che andate in giro a fare cortei per la pace, e adesso festeggiate il 25 aprile come se niente fosse”.
“Perché non dovremmo…”
“Dei begli ipocriti. Però gli sciiti e i curdi in Iraq non avevano il diritto di festeggiare, secondo voi”.
“Non ho detto questo”.
“È quello che pensi. Dove credi che saremmo, oggi, senza una guerra? Senza gli americani? Avete una faccia tosta incredibile”.
“Ci vuole della faccia tosta anche a paragonare Bush a Roosvelt. Questa guerra l'hanno fatta per il petrolio, dai”.
“Per il petrolio, sentilo! Mi sei rimasto al petrolio!"
"Il petrolio, sissignore".
"Non capisci che gli anglo-americani hanno liberato un Paese, esattamente come hanno fatto sessant'anni fa con l'Italia? Il 25 aprile è la festa dei difensori della democrazia e della libertà…”.
“Ma se l’anno scorso volevi abolirla...”
“La nostra festa, non la festa dei pacifisti come te. È la festa dei combattenti. Come mio nonno”.
“Perfetto, adesso tuo nonno è diventato un simbolo della libertà. Siamo a posto”.
“Era una guerra. In guerra succedono tante porcherie”.
“Ragione in più per…”
Uaaaaaaah!

“E se parlassimo d’altro?”
“Comunque potevi venire stamattina, mica dobbiamo esserci per forza soltanto noi”.
“E il pupo dove lo sistemo?”
“A proposito, io sono passato, ma credevo di non trovarvi. Pensavo che col ponte sareste andati a Vignola”.
“Niente ponte. Giorgio lavora”.
“Come sta?”
“Sta bene, sta bene”.
“Senti, perché non usciamo un po’ fuori? È una bella giornata”.
“E il pupo?”
“Lo portiamo in carrozzina. Adesso c’è quella ciclabile che arriva fino all’argine”.
“No, è meglio di no”.
“Dai, si prende un po’ d’aria”.
“Il cielo si sta coprendo, non mi piace”.
“Ma tu stai bene?”
“Eh?”
“Va tutto bene con Giorgio?”
“Lo sai che fai troppe domande?”
“Se ogni tanto qualcuno mi rispondesse”.
“Allora, se lo vuoi sapere, la risposta è no. Non va bene. Non può sempre andare bene".
"..."
"Contento?”
“No”.
Ghe!
“Guarda! Sta sorridendo. Ciao, Pierino! Sei contento, Pierino?”
Ghe!

(Continua).

venerdì 23 aprile 2004

Quest'anno festeggerò la Festa della Liberazione traslocando (è una liberazione?), non starò molto connesso e ho pensato una cosa:
Come i palinsesti televisivi, che a Natale sono meravigliosamente prevedibili, e ti ripropongono sempre la solita melassa, la fabbrica del cioccolato o una versione del Cantico di Natale, io potrei fare la stessa cosa col 25 Aprile: metter su le repliche dell'anno scorso...

Cantico del 25 aprile

(Fiaba emiliana del XXI sec. Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale, a parte l'allergia al polline).

Io ho sempre sognato di portarti in montagna il 25 aprile, Costanza: e ogni volta tu mi racconti una storia diversa. Se almeno mi dicessi: “non vengo perché non mi piaci”, ecco, capirei. Ma no, sembra sempre colpa mia.

I 25 aprili passati...

Già quand’ero bambino, tu andavi al corteo dell’Anpi con tuo nonno e io non potevo venire. Perché? Nessuno mi spiegava il perché. Tu ti facevi mezz’ora di corteo, poi ti davano la Fanta e lo gnocco fritto. E a me toccava un’altra Messa infrasettimanale. Perché?
“Ma mamma, cosa c’entra la Messa col 25 aprile?”
“Che domande. È l’Ascensione”.
“Ma mamma, l’Ascensione è stata la domenica scorsa”.
“Allora sarà la Pentecoste”.
“Ma no, la Pentecoste è domenica prossima”.
“Guarda sul calendario, ci sarà bene una qualche festa”.
“San Marco Evangelista”.
“Vedi? Ha scritto il Vangelo, è uno importante”.
“Ma scusa, Luca e Matteo e Giovanni mica ce l’hanno una festa, perché?”
“Perché, perché, perché… Quante domande, che fai, eh?”

Siccome facevo le domande sbagliate, ci misero anni a dirmi le risposte giuste. Che insomma, il 25 aprile di molti anni prima mio zio era scomparso, e nessuno sapeva nulla, tranne forse tuo nonno.
Fatto sta che il 25 aprile a te toccava la fanta, a me la festa di San Marco Evangelista; e poi il giorno dopo a scuola mi sfottevi.
“Maestra, quand’è che cantiamo Bella Ciao?”
“Quando finiamo il cartellone la cantiamo. Le sapete, le parole?”
“C’è Davide che non le sa”.
Questo era molto sleale da parte tua.

“Non è vero che non so le parole!”
“Non le sai! Non le sai! Ieri non sei neanche venuto a vedere i partigiani. Sei andato a Messa! Sei andato a Messa!”
“Però le so, le parole”.
Le avevo studiate. Tuttavia il contesto mi sfuggiva. Dunque, c’è uno che si sveglia la mattina (o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao) e incontra l’Invasor. Fin qui tutto bene. Questo Invasor però doveva già essere conciato male, poiché nella seconda strofa prendeva la parola e chiedeva al Partigiano:
“O partigiano, portami via (o bella ciao, etc.)
O partigiano, portami via
Che mi sento di morir”

Si era in guerra, evidentemente, e in guerra anche i nemici hanno il dovere di curare i feriti. Ma c’era di più, perché l’Invasore esprimeva un singolare desiderio:
“E se io muoio da partigiano (o bella ciao, etc.)
Tu mi devi seppellir”.

Com’era possibile che l’Invasor volesse morire da Partigiano? Trattavasi di tradimento? Ma che senso aveva tradire i suoi da moribondo? No, si trattava di un pentimento in punto di morte. Ce l’aveva ben spiegato don Marzio a dottrina, che in punto di morte ci si può pentire di tutti i peccati, ci si può perfino battezzare se uno non ci ha pensato prima, e si va in paradiso tranquilli.
(“E allora perché a noi ci hanno battezzati subito, che ci tocca andare a Messa e confessarci sempre?”
“Voi siete i bambini più vicini a Gesù, e lui da voi pretende qualcosina di più”).

Dunque l’Invasor in punto di morte si era pentito, aveva chiesto di farsi battezzare partigiano, ed era trasvolato nel paradiso dei Partigiani, un Paradiso in bianco e nero lassù in montagna, dove tutti si mettevano la brillantina sui capelli, mangiavano gnocco e bevevano fanta le feste comandate. Forse anche mio zio aveva avuto il tempo di convertirsi e trasferirsi lì: forse tra un po’ si sarebbe incontrato con tuo nonno e si sarebbero scambiati pacche sulle spalle.

“…E le genti che passeranno / mi diranno:”Che bel fior”. Vedi che la so?”
“Non la sai! Manca il fiore del partigiano”.
“Eh?”
E questo è il fiore del partigiano (o bella ciao, etc.)
E questo è il fiore del partigiano morto per la libertà.

“Non la sai! Non la sai! Perché i fiori ti fanno starnutire!”
“È perché sono allergico. Non è giusto che mi prendi in giro perché sono allergico”.
“Davide è allergico! Davide è allergico!”
“Maestra!”

Sono allergico ai pollini delle graminacee: per me il 25 aprile è una benedizione. Prima che il polline dilaghi in valpadana, invisibile, nel profumato mese di maggio, c’è il tempo di farsi la prima scampagnata dell’anno. Poi sarà tempo di tossire e starnutire. Poi sarà troppo caldo. Poi verrà la pioggia e il freddo, e ancora un altro anno passerà, e un’altra volta ti inviterò fuori, invano.
La butti sul politico, e sembra sempre che sia colpa mia.

In quarta superiore, per esempio, ricordo che litigavamo tutto il tempo. Tuo padre, segretario di sezione del PSI, ti aveva promesso l’iscrizione alla Bocconi, ma voleva vedere risultati. E invece per tutto gennaio non si era nemmeno riusciti a fare lezione. Colpa dell’occupazione.
“Hai sentito che quella stronza della prof di matematica vuole abbassare le medie?”
“Dai, vuol solo farci paura”.
“Tutta colpa di questi cazzo d’Iraq, che manco so dove sta sulla carta. Ma si può essere così deficienti? Io non so”.
“Era per il petrolio…”
“Certo che era per il petrolio. E allora? Vi siete fatti i vostri 15 giorni di vacanza? Avete fatto le vostre marce? Avete sventolato le vostre bandierine? Bravi. Avete fermato la guerra?”
“Vabbè, abbiamo discusso, abbiamo fatto qualcosa insieme, abbiamo reso una test…”
”Avete concluso qualcosa? L’unica cosa che avete concluso è che in matematica avrò sei e alla Bocconi col cazzo che ci vado. Siete contenti?”
“Senti, Costanza… io con quegli altri pensavamo di andare su in montagna per il ponte”.
“Tu e chi?”
“Mah, io, Vitto, Toni, Pedro…”
“Bravo, bella gente, complimenti”.
“Non è che ti andrebbe…”
“…di venire su coi tuoi amici che a parte farsi le canne e le seghe mentali sulla rivoluzione non sanno mettere insieme un discorso decente? Quei comunisti del cazzo?”
“Ma non dire così, dai… se tuo nonno ti sentisse”.
“Lo sai cosa sei, Davide?”
“No, non lo so. Dimmelo”.
“Un deficiente sei. Proprio tu, mi tiri fuori la storia di mio nonno”.
“Tuo nonno era un partigiano, tu dovresti essere fiera di lui”.
“Mio nonno ha ucciso tuo zio, lo sai?”

“Eh?”
“L’ha portato dietro l’argine e gli ha fatto scavare la fossa. Lo sanno tutti in paese. E tu no”.
“Sapevo che c’entrava per qualcosa, ma… in fin dei conti…”
“In fin dei conti cosa?”
“Mio zio era nella milizia!”
Ricordo che hai scosso la testa, delusa, come migliaia di altre volte. A 17 anni eri più alta di me, più sveglia di me, ci tenevi ai vestiti e ai voti in matematica. Non ci saresti venuta con me in montagna, neanche morta.
“Tuo zio e mio nonno si filavano la stessa ragazza. Uno ha ucciso l’altro. È andata così”.
“Sì, però..."
"Però cosa?"
"Mio zio era un fascista!”
“E per questo andava ucciso? Il giorno dopo che se ne sono andati i tedeschi? Ma la conosci la Storia?”

Questo era molto sleale da parte tua. Io avevo otto in Storia, in Italiano e in Filosofia, e anche se in quarta superiore arrancavamo con la Riforma Protestante, non vedevo l’ora di crescere e studiare l’antifascismo e la lotta partigiana.
“Comunque grazie dell’invito, ma devo studiare. Matematica”.
“Se ci ripensi…”
“Non ci ripenso. Cerca di non farti troppe canne”.
“Cercherò”.
Mai fumata una canna. Sarò allergico anche a quelle.

Alla fine probabilmente hai fatto bene a non andarci, alla Bocconi. A quei tempi sembrava chissà cosa. Poi ci fu qualche scossone, Milano non andava più tanto di moda, anche tuo padre per un po’ non si è più candidato. Finché non saltò fuori un partito tutto nuovo.
Era già il 1994, io facevo Lettere, e il 25 aprile ricordo che presi tanta pioggia a un corteo.
“Vi ho visto in tv! Che sfigati”.
“Eh, certo, si capisce”.
“Ancora dietro al 25 aprile… vi resta solo quello, ormai”.
“Eeeeetchm!”
“Allergia?”
“No, è proprio raffreddore”.
(continua domani)

giovedì 22 aprile 2004

Lungo Post Degenerato
Non ho mai rivolto a Dio altro che una preghiera, molto breve: "Dio, rendi ridicoli i miei nemici". E Dio l'ha esaudita.

Voltaire, Lettera a Domilaville (ok, in realtà l'ho preso da Wu ming)


Herr Griso,
mi trovi un po’ scocciato.
Non so te, ma io ho dei lettori, che passano quasi tutti i giorni e pretendono, e si meritano, di trovare dei post interessanti. O divertenti. O al limite non banali. Ma oggi si troveranno davanti l’ennesimo capitolo di una polemica neocona, una cosa che non fa più audience dai tempi del caso Steiner. Bei tempi, quelli, vero?
D’altro canto, posso fare finta di niente? Tu hai molto faticato, si capisce, per mettere insieme il tuo durissimo dossier nei miei confronti. Si intuisce il lavoro paziente, dell’archivista che ogni giorno mette da parte un post, un link, una mail, un “piccio”, un’imprecisione… in attesa del grande giorno. Il grande giorno era ieri! E a questo punto, posso ignorarti? Far finta di niente, metter su una canzone? Discutere di accenti e di maiuscole? (Non ci crederai, ma quest’anno perfino l’ortografia tira più dei neoconi). No, devo risponderti. È mio dovere, come direbbe tua zia Oriana. Tu sostieni di essere stato mandato a fare in culo dopo Natale. È un accusa grave, anche se Pasqua è passata da un po’.

Su una cosa hai ragione: il mio giudizio su di te è cambiato, col tempo. Secondo te è doppiezza. E se invece fossi cambiato tu? E se fossi tu a esserti trasformato, negli ultimi mesi, da blog super partes in perfetto neocone, tutto pappappero e battutine e suppostine?
O forse, chissà, sei sempre stato così e non me n’ero accorto. Forse non ti ho mai letto con l’attenzione che pretendevi, Griso. Forse è quello che più di ogni cosa t’indispone. Che io non mi sia reso conto che tu usavi l’espressione “arte degenerata” sin dal luglio 2003… Griso, potrebbe davvero essermi sfuggito. O potrei persino essermi dimenticato. Siccome non impiego il mio tempo a stilare dossier sui blog che mi stanno antipatici. Ogni tanto c’è qualcosa che attira la mia attenzione, tutto qui. Dei lapsus, magari.

Devi sapere che io sono un appassionato di lapsus – anche perché ne faccio parecchi, l’avrai notato. Ora, una cosa che col tempo mi ha incuriosito è la frequenza con cui ti escono dalla tastiera delle espressioni nazistoidi. Il caso dell’”arte degenerata” è illuminante. Ti sei trovato davanti a espressioni ‘artistiche’ che ti scandalizzavano: potevi esprimerti in infiniti modi. (“Questa non è arte, è merda, ecc.”) Ma perché sei andato in cerca proprio dell’espressione con cui i nazisti bollavano l’avanguardia? “Arte degenerata”. Proprio come il Dottor Stranamore, a cui ogni tanto partiva il braccio in un accenno di Sieg Heil. Perché ti è uscita dalla tastiera un’espressione del genere (fuori contesto, tutto sommato)? Perché te ne escono così tante? Solo nel tuo ultimo pezzo hai tirato fuori: “Judenrein”, “Soluzione Finale”, “obbedienza cieca, pronta e assoluta”… Perché tanta insistenza?
Io credo che il tuo sia un caso di Memoria di ferro, come ho cercato di spiegare una volta (magari non ci sono riuscito tanto bene). Quel passato, che evochi in continuazione, in un qualche modo si è impossessato di te. Chi non ha memoria non ha futuro, giusto: ma chi ha una memoria ossessiva, come la tua, è condannato a rivivere sempre lo stesso passato.

Che brutta ironia, eh, Griso? Credersi vittima e ritrovarsi in bocca le parole dei carnefici?
Ma se ci pensi, il nazismo nasce proprio così: dal vittimismo. La sensazione di accerchiamento, di essere il popolo eletto o la Civiltà Superiore a cui tutti vogliono farla pagare. L’individuazione di un nemico comodo: questi stranieri rozzi dalla religione barbara che vengono ad approfittarsi della nostra momentanea debolezza. Bisogna reagire! C’è una guerra, non ve ne siete accorti? Insomma, Griso, tu vivi nel 1933 (insieme con tua zia Oriana). Ma non preoccuparti, il 1933 è attualissimo.

Nazismo a parte, bisogna parlare anche della tua disonestà intellettuale. Il caso delle armi chimiche è ancora stupefacente. Dico, con quale faccia puoi venirmi a dire

Guarda, io alla questione non mi sarei neppure interessato, non fosse stato per la tua arroganza e maleducazione;

Anche tu, sai, certe volte ricordi male. Io, sulla “questione”, non ho mai scritto un post. Chi ha iniziato a parlarne? Tu, sul forum. Perché? Per provocare, come spesso facevi, affibbiandomi le parole di altri, pretendendo che io fossi di volta in volta Casarini, Arafat, Sabina Guzzanti. Ecco, la Guzzanti aveva parlato di armi chimiche.
E io ti chiesi: è più grave un’attrice che monta un caso, o gli israeliani che avvelenano davvero i palestinesi con intrugli tossici, ignorati dalla comunità internazionale? E ti ho linkato un po’ di cose sugli episodi di intossicazione, in particolare Khan Yunis. Ora si scopre che uno di quei link “parla di 'malvagi complotti sionisti'”. Griso, io l’ho riletto, i “malvagi complotti sionisti” non li ho proprio trovati. (Si parla invece di “allarmante incremento del cancro, specie tra le donne ed i bambini”, nella striscia di Gaza). Ma chissà, forse ho sonno io, è così tardi. Se qualcun altro è in ascolto, mi aiuti: ci sono “malvagi complotti sionisti” in questa pagina? (Forse è in altre pagine? Ma è un forum, libero al pubblico, aperto anche agli imbecilli). In compenso a un certo punto si dice:

C'e' una quantita' incredibile di convenzioni che Israele viola
costantemente, a cominciare dal Protocollo di Ginevra del 1925 sui gas
velenosi alla Convenzione sulla Proibizione dello sviluppo, produzione ed
uso di armi chimiche del 1993.


Poco dopo tu, con la faccia più tosta, dici che “le convenzioni internazionali … non mi risulta proibiscano i lacrimogeni”. Si vede che non sei venuto, non dico a Khan Yunis, ma a Genova: avresti respirato lacrimogeni, pensa un po’, proibiti. Ci fu un’interrogazione parlamentare. Terza volta che te lo dico, mi pare. Ma mi ascolti?

E poi, il tuo capolavoro di bispensiero: vai sul sito del Ministero della Salute dell’ANP e scopri che i gas usati a Khan Yunis "danneggiano gli occhi, l'apparato respiratorio e il sistema nervoso centrale, successivamente e a mano a mano che aumentano le dosi e la concentrazione"... e concludi, trionfante: non sono letali, perché variano col dosaggio! Herr Doktor, guarda, non c’è sostanza al mondo, arsenico, thé alla menta, pomodoro, eroina… che non vari i suoi effetti sull’organismo a seconda del dosaggio e della concentrazione. Io non sono un chimico, ma fidati. Anche tu vari a seconda del dosaggio: a dosi omeopatiche saresti anche simpatico. Ma quando ti concentri a lungo su un argomento… Hai informazioni sul dosaggio o sulla concentrazione a Khan Yunis o in altri casi? No, quelle informazioni ce le hanno gli israeliani e se le tengono strette, tanto chi li contraddice è antisemita. Sappiamo soltanto che i manifestanti palestinesi sono rimasti intossicati, e il bestiame intorno e morto. Questo, beninteso, non è il genocidio di cui parlava la Guzzanti. Ma per me è più grave il silenzio dei media israeliani che la Guzzanti che straparla. Per te no. Tutto qui. Credo che sia sufficiente dare un giudizio su di te. Poi, giudicare le persone è sempre spiacevole. A volte ci si accontenta di mandarle a… ma per ora resta qui, ho altre cose da dirti.

Altre tue accuse, Griso, sono sciocchezzuole tali… ma proprio tu, tu che avresti potuto accusarmi di cose così terribili che sarebbe meglio se non fossi mai nato… non sei riuscito a trovare niente di meglio? Ma vattene in convento, va. Ebbene sì, una volta ho scritto “tedesco” invece che “olandese”. “Intelligenza” invece che “talento”. Imperdonabile. Sul blog? No, sul forum. Mi pare che non abbiate ancora capito la differenza. Il blog è una cosa seria. Il forum è un ambiente di svacco, si scrive in fretta e non si rilegge. Io non ho il tempo per renderlo un posto migliore, e poi credo che fraintendereste comunque.
Ma il massimo, pensate, è che “storpio la parola Shoah in 'Scioà', e me ne vanto pure”. Griso, non sapevo di mancare rispetto a nessuno scrivendo Scioà. Credevo, e credo, che fosse una grafia consentita. Non me la sono inventata, ho iniziato a usarla perché l’avevo trovata da qualche parte: ahimè, non ricordo dove, sono il solito sciattone. Ma sai che ho due grossi dizionari a casa e nessuno dei due dà la voce “Shoah”, né “Scioà”? Dovrebbero farci un capitolo sul prossimo dossier sull’antisemitismo. Però, scusa, con chi sto parlando? Con uno che ricalca semplicemente le parole dall'inglese o con un esperto di traslitterazione ebraico-italiano? In questo secondo caso dimmi la regola, sul serio, m’interessa. Per ora l’unico argomento a favore di Shoah è google. Che non è la Bibbia.

Riguardo alla Shoah, è vero che tu te ne interessi tantissimo. Ma troppe volte lo hai fatto in modo strumentale: hai parlato di antisemitismo per fare un po’ di anti-islamismo. Hai parlato delle disgrazie degli ebrei per giustificare l’occupazione israeliana. E detto questo, avrei detto tutto. Posso aggiungere, ancora una volta, Vaffanculo, ma non credo che sia più grave di quello che ho detto prima: tu strumentalizzi la Shoah, Herr Griso. Ti servi di sei milioni di morti per giustificare la repressione dei profughi palestinesi assediati da due generazioni, affamati e perseguitati dagli israeliani. Così, Griso, Vaffanculo. Da parte dei profughi e sì, anche da parte dei sei milioni. Con tutta la sfrontatezza e la maleducazione che la situazione consente, se non richiede. E salutaci la zia.

martedì 20 aprile 2004

Contro la lingua italiana, 5

(Le puntate precedenti:1, 2, 3, 4)

I fatti.
C’è un giornalista che parla la tua lingua: l’italiano. E c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza: internet può aiutarci a imparare come si scrive correttamente.
È Claudio Sabelli Fioretti, che da ere immemori usa il suo blog come forum dei lettori. Pubblica un piccolo vademecum di regole ortodattilorafiche e grammaticali: cose banalissime, ma che a scuola nessuno ci ha insegnato.

Il vademecum è chiaro, pratico e prezioso. Viene subito riproposto da Macchianera e Quattro e un Quarto. Tutto bene. Ma no, c’è sempre qualche lettore col naso più lungo degli altri che protesta. A un certo punto, per esempio, CSF sostiene che

I sostantivi di popolo vogliono la maiuscola; gli aggettivi di popolo, invece, vogliono la minuscola (es.: “gli Italiani”, “gli uomini italiani”).

Alcuni fanno notare che nessuno, ormai, scrive “Italiani”. Io, nel mio piccolo, se trovo qualche maiuscola così, la correggo. In generale il maiuscolo in questi casi viene percepito come errore. Ma è errore davvero, o no? (E perché nessuno sembra mai saperti rispondere con certezza?)

Andiamo a vedere i grammatici. Stavolta ho preso Marcello Sensini, La Grammatica della Lingua Italiana, Mondadori, Milano 1988. Pag. 34:

un romano o un Romano?[Si scrivono con la maiuscola:]
— i nomi che indicano gli abitanti di uno stato, di una città o di una regione: gli Italiani, i Francesi, gli Svizzeri (gli aggettivi corrispondenti si scrivono invece con l’iniziale maiuscola: i cittadini italiani, i libri francesi). Ormai, per, in conseguenza dell’uso imposto dai giornali, questi nomi si scrivono con l’iniziale minuscola (“I milanesi si lamentano del traffico”) e l’iniziale maiuscola rimane solo ai nomi dei popoli primitivi (i Galli, gli Unni); in questo caso, tra l’altro, l’iniziale maiuscola distingue i popoli antichi da quelli moderni che portano lo stesso nome: ad esempio, i Romani di un tempo dai romani di oggi.

Chiaro, no?
No, mica tanto.
Si scrive Italiani o italiani?
È un’inezia, d’accordo, ma possibile che non riusciamo a metterci d’accordo nemmeno sulle inezie?

Una regola ci sarebbe, e guarda caso è proprio quella che nessuno ormai adopera e che va contro il ‘senso comune’: si scrive sempre Italiani. Quando è un nome! Quando è un aggettivo no. E qui già il cervello deve faticare a ricordarsi, ogni volta, quando una parola digitata ha una funzione aggettivale o sostantiva.
Inoltre il grammatico, indulgente, ammette che la regola è stata sorpassata dai giornali, e che oggi non si applica più. Ironia della sorte: l’ultimo che ancora ci tiene è proprio un giornalista.

I suoi colleghi invece hanno rinunciato a scrivere Italiani, non per scarso amor di Patria, ma per risparmiare l’energia mentale occorrente a distinguere, ogni volta, tra “Italiani” sostantivo e “italiani” aggettivo. Dov’è che la maiuscola resiste ancora? Nel campo della Storia, dove i professori hanno ancora tempo ed energie mentali da sprecare. Per cui si scrive Franchi ma francesi; tedeschi ma Goti; antichi Romani ma romani de Roma. nerone è Romano, Petrolini è romano. Vien da chiedersi, oziosamente: dopo quanti secoli scatta la maiuscola? Gli italiani del ‘300 sono sempre italiani o non, piuttosto, Italiani? Dopo settecento anni di anzianità se lo meriterebbero, cosa dite?

Ora, rendetevi conto. Mettiamo che io voglia scrivere un post con questa frase: “parla la tua lingua: l’italiano”. Mettiamo che voglia scriverlo correttamente. Devo scegliere se mettere la maiuscola a “italiano”. Per scegliere, il mio cervello deve fare le seguenti operazioni:

1. Riconoscere se si tratta di un “italiano” in funzione sostantiva o aggettivante (in questo caso, sostantiva);
2. Riconoscere se è un nome di “popolo” o di “lingua” (in questo caso, di lingua);
3. Stimare se l’“età” di questo popolo (o lingua) meriti una maiuscola (in questo caso credo di no, ma chissà).

Il tutto per scegliere una maiuscola!

Il mio cervello, in effetti, queste e altre sciocche operazioni le compie svariate volte, durante la redazione di un post: c’è da meravigliarsi se poi si vendica commettendo i più cretini errori di battitura? Ben mi sta. Ben ci sta. Così impariamo a usare l’italiano. (O Italiano?) Una lingua in cui qualsiasi regola un po’ chiara dopo un po’ riesce a complicarsi da sola. Non si potrebbe scegliere una volta per tutte di abolire la maiuscola da tutti i nomi di popolo? Oppure imporla a tutti i nomi e tutti gli aggettivi? Persino una soluzione così sarebbe preferibile al caos.

(Questo post è stato scritto in tutta fretta per partecipare al blogrodeo. Se ho fatto un errore, fatemi a pezzi).
a proposito di Orgoglio:
Domenica era il giorno dell’Orgoglio Diessino (e voi magari ve lo siete perso).

Almeno, così era scritto su un trafiletto a pag. 19, sempre dalla Repubblica di domenica:

ROMA – è il giorno dell’orgoglio diessino, con tutto lo stato maggiore del partito e i segretari di sezione riuniti a Roma. Alla base Fassino dice: “Siamo il traino della coalizione e della lista unitaria”. E per sottolineare l’energia ritrovata sceglie due esempi dove candidati della Margherita hanno ricevuto un aiuto decisivo dai voti Ds.

Notate: da quando hanno ritrovato l’energia, un sacco di candidati della Margherita vincono le elezioni. Ma andiamo avanti.

“Alle ultime amministrative Gasbarra è diventato presidente della Provincia di Roma perché i Ds sono saliti al 25% […]”

Questo è l’Orgoglio Ds: poter dire siamo saliti al 25%. Non come nei tempi bui, quando si diceva siamo scesi al 25%. I tempi pre–D’Alema… a proposito, secondo voi poteva mancare D’Alema, nel giorno dell’Orgoglio Diesse? E poteva esimersi dal dire qualcosa di simpatico e intelligente?

D’Alema ridà fiato all’appartenenza partitica: “I movimenti non sono la freschezza. La grande mobilitazione popolare degli ultimi anni non sarebbe stata possibile senza di voi, che prenotavate i pullman e vi davate da fare”.

Ecco, in una sola frase, tutto il rinnovato Orgoglio Diesse. Il Movimento? Roba vecchia. Il futuro siamo noi, noi Prenotatori di Pullman. Senza di noi, il Movimento non sarebbe neanche arrivato al grande raccordo anulare. Sì.
(Poi, una volta prenotati i pullman, bisognava che qualcuno li pagasse, e secondo me molto spesso non sono stati i Diesse. Visto che, come ammette subito dopo il tesoriere Ugo Sposetti “Eravamo sull’orlo del tracollo finanziario”. Adesso pare che vada meglio (a riprova che non si sono svenati per il Movimento. Ma bisogna rimboccarsi le maniche: “Ogni voto vale un euro e venti”).

Dettagli economici a parte, c’è qualcosa che stringe il cuore in questa adunata di uomini di apparato, che a furia di lezioni di pragmatismo e buonsenso si sono convinti che l’attivismo politico consista nel “darsi da fare” a prenotare i pullman. Da partito di massa a servizio autocorriere. Poi succede che molta gente salga sulle corriere prenotate dai Diesse, scenda all’Eur, prenda la metro, e vada a ficcarsi in uno spezzone del corteo dove si fischia Fassino e si spernacchia D’Alema. E fidatevi, sono tanti.

L’Orgoglio Diesse ha i suoi profeti. Uno dei più ascoltati è Giampaolo Pansa. Famoso il suo pezzo sull’Espresso scritto a botta calda dopo il Corteo di Roma, “Di questi qui non ne posso più

Parlo soltanto per me, come semplice elettore dell'Ulivo, anzi del Triciclo. In quanto tale, dichiaro che non ne posso più di certi personaggi, davanti ai quali dovrei inchinarmi ogni mattina. Perché, così mi si ripete, sarebbero indispensabili alla vittoria contro l'odiatissimo Silvio Berlusconi.
Non ne posso più di Gino Strada che, da eroe umanitario, s'è tramutato in un iroso capo fazione, capace di dare del "delinquente politico" a chi non la vede come lui sulla guerra in Iraq. Non ne posso più di Armando Cossutta e delle sue ipocrisie.
E giù nomi di tanti altri “paracadutati corazzati” “eletti in collegi blindatissimi dai voti di quel centro-sinistra che sbeffeggiano ogni giorno.

Sembrava di sentire Fassino, dopo essersi preso un po’ di ortaggi e aste di bandiera. Eh no, scusa: mi hai contestato? E mo’ ti lascio a piedi. Non per niente sono quello che prenota i pullman…

Insieme a te non ci sto più / guardo le nuvole lassùùù

Con i pronostici bisogna andarci piano, perché si sbagliano, ma stavolta voglio giocare un po’ d’azzardo. Le politiche ci sono tra due anni: scommettiamo che, malgrado tutto il ritrovato Orgoglio Diesse, i “paracaduti corazzati” resteranno per la maggior parte nei loro collegi?
E più a breve termine: Gino Strada ha fatto molto arrabbiare Fassino e Pansa. Scommettiamo che quest’estate, ai grandi festival dell’Unità nazionali e regionali, troveremo i soliti banchetti di Emergency, le solite serate programmate da Emergency, le solite mostre e bancarelle di Emergency? Potrei anche sbagliarmi, eh? ma credo di no.

E sapete perché?
Perché gli orgogliosi diessini possono prenotare tutti i pullman che vogliono, con air conditioning, tv e ogni comfort: ma se alla manifestazione non c’è un Gino Strada o qualche altro paracadutista celebre, il pullman fa un giro a vuoto. E a rimetterci di più, alla fine, sono proprio loro, gli Orgogliosi Diessini. Basta guardare i Festival, che sono macchine organizzative ben oliate e spietate: se Emergency è presente, è perché funziona bene da richiamo. Fassino può brontolare finché vuole: il pullman parte. S’attacchi.

I Diesse e il Movimento. Sembrano due cose separabili. Non è così. I Diesse hanno bisogno del Movimento, (più di quanto il Movimento abbia bisogno dei Diesse). Il Movimento è il sale del consenso: senza un po’ di sale, un pizzico di Gino Strada, di don Vitaliano, di Casarini e quant’altri, gli Orgogliosi Diesse non saprebbero di niente. Almeno possono polemizzare con Gino Strada – addirittura minacciare di toglierlo dal cartellone. Cosa sarebbero questi sciapi riformisti se non avessero qualche ragazzaccio con cui polemizzare? Cosa direbbero? Cosa riformerebbero? Niente. Senza quel minimo gioco di sponda che gli consente il Movimento, i Diesse non avrebbero argomenti. (Dovremmo marciare per la risoluzione Nato? O per un nuovo pacchetto Treu?) E questo lo si vede a ogni grande manifestazione di primavera, a ogni patetico tentativo di andare a rimorchio prima del sindacato e poi del pacifismo, a chiamarsi fuori, a infilarsi dentro, col rischio di capitare nello spezzone sbagliato e prendersi mazzate. Episodio triste quanto si vuole. Ma significativo.

In Spagna c’è un socialista, Zapatero, che infischiandosene dei sondaggi ha vinto le elezioni. La maggioranza degli elettori gli chiedeva il ritiro delle truppe: e lui le ha ritirate. Un gesto piuttosto brusco, nei termini dell’etichetta diplomatica. Ma un leader democratico ha delle consegne da rispettare. All’annuncio del ritiro delle truppe, molti spagnoli sono scesi in piazza a festeggiare. Non c’è stato bisogno di pullman. È bastato seguire il popolo, per una volta. Senza minacciare, senza blandire, senza giocare di sponda, senza Se, senza Ma, in una parola: senza Orgoglio. (Orgoglio di che?)

lunedì 19 aprile 2004

Ma non c’è dubbio che Quattrocchi sia morto da italiano.
Anch’io – tre giorni che ci penso – anch’io, cosa farò in quel momento? Guarderò in faccia qualcuno o mi rincantuccerò in posizione fetale? Penserò a cosa lascio o a cosa vado incontro? Non lo so. Ma se c’è una videocamera nei dintorni, probabilmente farò la stessa cosa: sprecherò gli ultimi istanti della mia vita a cercare una frase a effetto. Perché sono italiano, e anche Quattrocchi lo era. Ma cosa sono gli italiani? Questo è il problema.

Storia di (un’idea di) italiano

Gli italiani non esistono in natura. Fanno parte – insieme alla plastica, la bomba atomica, Internet e tante altre cose – delle grandi invenzioni del XX secolo. Ma il problema era sentito già dal secolo precedente: fatta l’Italia, occorreva fare, appunto, gli italiani. Le differenze culturali, economiche, linguistiche, etniche, rendevano l’impresa disperata.
Un primo prototipo di “italiano” di massa fu realizzato in circostanze eccezionali: il più grande massacro dell’umanità, la Prima Guerra Mondiale. Milioni di siciliani, napoletani, lombardi, ecc., furono catapultati in Friuli per combattere una guerra di civiltà, fortemente voluta da un drappello di politici e intellettuali spregiudicati. Nelle trincee dovettero per forza imparare una lingua comune. Così nacque un italiano popolare: l’italiano di trincea e di caserma, ahinoi.
Finita la mattanza di civiltà, si provò anche a usare questi italiani di caserma come un soggetto politico, soprattutto quando c’erano da bastonare altri soggetti politici che occupavano le fabbriche e volevano dividere le terre. Sulle prime fu un successo, ma dopo un ventennio fu a tutti chiaro che quel tipo d’italiano non poteva funzionare. Per parlare, parlava, sì, fin troppo. Ma nato com’era in una trincea, tendeva a ficcarsi in tutte quelle che trovava, inventandosi nemici e umiliandoli con tracotanza: plutocrati! Bolscevichi! Giudei! Abissini! A tanta violenza verbale non corrispondeva, purtroppo, la necessaria forza muscolare, e questo fu il motivo per cui l’Italiano 1.0, l’Italiano in camicia nera, fu appeso a un lampione e presto dimenticato.

L’Italiano 2.0 nacque su nuove basi. Per prima cosa, fu redatto un documento di portata rivoluzionaria che affermava che l’Italia era fondata sul Lavoro. Non sulla ricerca della felicità. Non sulla Libertà, l’Eguaglianza, la Fraternità. Tutte belle parole. Ma di parole, per l'appunto, eravamo sazi: a lavorare!
In cambio del Lavoro, l’Italiano aveva diritto ad alcune cose – magari non molte, ma concrete. Non un Impero, non un posto al sole, non l’Uguaglianza, non la Felicità. L’Italiano aveva diritto a un’utilitaria, un mutuo sulla casa e due settimane di ferie in agosto. Ma soprattutto, l’Italiano aveva diritto alla TV. E fu il diritto/dovere alla TV – minimo comun denominatore d’italianità – a dar forma effettiva all’Italiano 2.0. A insegnare una lingua comune, molto meglio di quanto avesse fatto la Grande Guerra (e con meno vittime). Ma non solo una lingua: un immaginario collettivo. Sogni. Sorrisi. Canzoni. Fiction. Chi nei mesi scorsi avesse usato un treno italiano avrà familiarizzato col seguente cartellone pubblicitario:

Orgoglio

La fiction che appassionerà gli italiani
.

Non “milioni” di italiani: “gli italiani”. Ecco la risposta all’eterno quesito: chi sono gli italiani? Dicesi “italiano” il popolo che ha la caratteristica di appassionarsi a una fiction. Col corollario inquietante: se non ti appassioni a una fiction (ma anche a un reality) non sei un italiano… (un italiano vero).
D’accordo, è solo pubblicità. Ma vi immaginate lo stesso cartello in Francia? “La série qui va passionner les Français”? Suona falso, vero? “The serial that will arouse the English people”… nessun inglese autentico pronuncerebbe una frase così. “Die Deutschen bewegen sich”… per carità. Tutti questi popoli hanno avuto la tv. Ma nessun inglese, francese, o tedesco, ha mai usato la tv per definire la sua identità nazionale. Oggi in quei Paesi la tv può essere uno strumento del potere. Ma soltanto in Italia la Tv è al potere. Questa è la nostra lieve anomalia.

Questo è anche il motivo per cui un italiano – e solo un italiano – può diventare un eroe per il semplice motivo di aver detto una frase nella prossimità di una videocamera. “Vi faccio vedere come muore un italiano”. Qualcuno dei suoi carnefici conosceva l’italiano, aveva una minima idea di quello che il prigioniero stava dicendo? Difficile. Quattrocchi non parlava a loro, ma ai telespettatori da casa. Come giustamente fa notare Francesco Avvoltoio, pardon, Merlo, dalla prima di Repubblica di ieri:

Ma abbiamo diritto a vedere come muore un italiano, abbiamo il dovere di guardare quel che Quattrocchi, ben cosciente di essere ripreso da una telecamera, voleva che guardassero tutti, e non solo gli occidentali, non solo gli italiani, i suoi amici, la sua famiglia e la dolce Alice. Dobbiamo onorare l’ultima emozione profonda che Quattrocchi ha dovuto e saputo provare, quella di essere visto, occhi negli occhi, da milioni di occhi. È quello che spaventa Al Jazeera…

Vedere ed essere visto da milioni di occhi. Per Merlo non c’è italianità più grande. Reggere nell’ora estrema lo sguardo della videocamera. Offrirsi al voyeurismo nazionale. Abbiamo il diritto di vedere. Abbiamo il dovere di guardare. E insomma, ce lo fate vedere o no? (Merlo insiste sul concetto per sei colonne) I corsivisti hanno fame!

Quattrocchi era un uomo – ed è come uomo che la sua morte mi offende – ed era anche: un siciliano, un genovese, un ex buttafuori, un operatore di security, un fidanzato che aveva bisogno di soldi, un trentenne che forse avrebbe dovuto aspettare maggiori garanzie prima di recarsi in un teatro di guerra in cerca di guadagni. E tante altre cose che non so, e che non sono affari miei. Ma di fronte a una videocamera, Quattrocchi era soprattutto un italiano, ed è agli italiani che ha voluto parlare. Eroico, hanno detto. A me sembra molto teatrale, ma “teatrale” non rende l’idea. Questo tipo di teatralità è tutta televisiva. L’idea, cara ai Reality Show, di mostrare un sé stesso che cerca di essere “sé stesso” in una situazione difficile – nella più difficile delle situazioni. L’italiano non esiste in natura: deve continuamente inventarsi, davanti alle telecamere: mostrare come ride, come piange, come si arrabbia, come si eccita, e adesso anche come muore. Per Merlo è stata una grande vittoria mediatica, una mossa “spiazzante e finale”: io ho i miei dubbi che i brutali assassini di Quattrocchi siano stati in qualche modo spiazzati dalle sue parole incomprensibili.
Così come dubito che possano interpretare le lacrime dei parenti degli ostaggi come un segno di umanità. Probabilmente per loro le lacrime sul video sono un segno di paura, debolezza, sconfitta. È troppo italiana questa coazione a lacrimare davanti alle telecamere (per cui la madre che non lacrima copiosa sulla salma del figliolo diventa subito la prima indiziata dai telecronisti della sera) perché non dico un sunnita, ma anche solo un tedesco o un inglese possa veramente capirla.

Bene: ammesso e concesso che noi italiani siamo così, che viviamo e moriamo e piangiamo così: c’è un motivo, uno solo, per cui dovremmo esserne fieri?

Adesso dunque, per non tradire Quattrocchi, il nostro governo deve chiedere che con il corpo ci venga consegnato quel video dove c’è tutto l’onore dell’Italia e che vale, ontologicamente parlando, più del lancio della stampella di Enrico Toti, più del tiremm innanz di Amatore Sciesa. Il governo infine imponga alla Rai, fosse pure Porta a Porta di mandare in onda […] l’assassinio di Fabrizio Quattrocchi.

Perdonate lo snobismo, la superiorità morale o antropologica che sia, se vi dico che quella trasmissione non la guarderei. Se vi dico che l’idea di condividere anche un solo aggettivo, “italiano”, con un corsivista affamato di immagini, parole e carne umana come Francesco Merlo, stasera mi deprime un po’.

venerdì 16 aprile 2004

Detto tra avvoltoi

"Mangia, su"
"Non ho fame".
"Eddai..."
"Ho detto no".
"Prova questo, è fresco".
"Mi fa senso"
"Questo è diverso, sta andando forte, è un italiano..."
"Hanno tutti lo stesso sapore".
"Scherzi? Dico, ma l'hai mai visto come muore un italiano?"
"Muoiono tutti allo stesso modo".
"Come puoi dire una cosa del genere".
"Crolla la pressione, il sangue non affluisce più al cervello, e si muore. Non l'avessi mai visto".
"Ma questo è morto a testa alta, è un eroe! Mangia, su!"
"Ho la nausea stasera".
"E' fame arretrata. Su, un bel boccone, poi un po' di lacrime, ti caghi un bel pezzo sulla guerra al terrore, e domani sei come nuovo".
"Sono stanco, vedo grigio, tutti questi morti non hanno senso".
"Sembra così all'inizio, ma poi..."
"Poi?"
"Poi cominci a farti il gusto, a capire le piccole differenze, ti concentri su quelli buoni e lasci perdere i cattivi".
"Sono così tanti. Solo a Falluja..."
"Lascia perdere Falluja, è contorno".
"600 morti, donne, bambini..."
"L'italiano è buono. E' un eroe. Un italiano così vale tutti gli iracheni che vuoi. Non lo vedi? Fanno tutti la fila intorno all'italiano, hai notato?"
"Mi fanno schifo".
"Eddai, si deve pur mangiare".
"E poi mi dispiace per lui".
"Certo che ti dispiace, dispiace a tutti, ci mancherebbe!"
"Ma non è mica colpa mia".
"Certo che non è colpa nostra! E' tutta colpa dei terroristi! Maledetti terroristi! Maledetti! Mangiamo, adesso?".
"No, non mi va proprio. Scusa".
Scusate.

giovedì 15 aprile 2004

The rise and fall of a blogroll
Nascita e caduta di una colonnina

È scomparsa la colonnina, non so se qualcuno ci abbia fatto caso.
La colonnina – che alcuni chiamano blogroll – è stata per molto tempo l’unico addobbo di questo sito. Quando è arrivata, nell'ottobre 2001, era una tozza colonna, tendente al dorico, che conteneva appena 13 link e chiedeva scusa a tutti gli altri (la trovate ancora qui). Per la redazione di Leonardo si trattava di una piccola rivoluzione copernicana: per la prima volta si ammetteva che potessero esistere altri blog, e che valesse la pena leggerli abitualmente. Peraltro, ne esistevano talmente pochi (di italiani), che non ci si poneva neanche il problema di selezionarli.

Col passare dei mesi la colonnina cominciò a slanciarsi (tanto spazio ce n’era), e ci si pose il problema di capire quali blog includere e quali no. Il criterio adottato fu: se tu mi linchi, anch’io ti linco. Nel pretendere che la prima mossa la facessero gli altri, la redazione di Leonardo ribadiva la sua antropologica superiorità sulle masse lincanti, dall’alto dei suoi 30 accessi giornalieri.

Passò più o meno un annetto, l’età ionica della colonnina, finché non accadde un evento eccezionale: qualcuno scrisse. Non mi ricordo assolutamente chi, ma scrisse. Non lo conoscevo, non lo conosco e non lo conoscerò mai, comunque scrisse che anche lui aveva un blog, e gli sarebbe piaciuto esser lincato. Benissimo, che problema c’è?

Nessun problema, finché è uno. Ma se poi diventano dieci, centomila, un miliardo? Noi siamo al principio di una curva: chi può dire cosa ci attende, se una parabola o un’iperbole? Bisogna stare molto attenti a non creare precedenti.
“Ti piacerebbe avere la mail invasa da blog che vogliono essere lincati?”
“No, preferisco essere quotidianamente informato sui più recenti ritrovati in materia di penis enlargement”.
Ecco, volevo ben dire.

Da quel momento il criterio fu modificato. Da “tu mi linchi io ti linco” si passò a un più sottile “se proprio insisti ti linco, se dopo qualche mese non te ne accorgi ti de-linco, e se mi linchi faccio finta di niente”. In base a queste premesse, l’età corinzia della colonnina si preannunciava un periodo di ipocrisie e cinismi, e così fu. Del resto, non c’è niente da fare: se ce l’hai lunga (la colonna), tutti credono che sei disponibile ad allungarla ancora di più (la colonna). Si sentono esclusi e non hanno tutti i torti. Nella fase finale la colonna corinzia contava un centinaio di blog, tra cui molti cadaveri, qualche sconosciuto, e parecchi che qualche volta mi capitava sbadatamente di cliccare. Mentre molti blog che frequentavo anche più spesso erano rimasti fuori. Magari mi avranno anche segretamente odiato, per questo. In realtà da un pezzo la colonnina era un rottame. Non la usavo più. E se non la usavo più io, a chi serviva?

Si aggiungano le spese di manutenzione. I blog nascono e muoiono continuamente, ma soprattutto cambiano indirizzo con una rapidità impressionante. In tre anni siamo rimasti giusto una manciata ad aver conservato la stessa URL (quasi tutti su blogspot). Io vivo e scrivo principalmente offline, e siccome non sono un bravo grafico preferisco concentrarmi sui contenuti. L’idea di metter mano al codice ogni volta che qualcuno cambia indirizzo mi dà l’orticaria. Ok, è un problema mio.

Qualcuno che sta scotendo la testa già da molti paragrafi a questo punto sbotterà: “Amico, ti stimo e ti leggo sempre ecc., ma in questo caso hai sbagliato sin dall’inizio. Non ti dovevi sentire costretto a includere o escludere nessuno. Dovevi semplicemente aggiungere i blog che ti piacevano, togliere quelli che non ti piacevano più, e rispondere alle mail con franchezza. Era così difficile?”
Sì.

Io ho sempre fatto caso a questa cosa. Sin dall’inizio ci sono stati blog che accanto ai post mettevano elenchi. Elenchi di dischi, di libri, di viaggi, di film. Tutto questo non era contenuto. Che cos’era? Una specie di riassunto della propria identità, strutturato secondo le domande più cruciali delle conversazioni serali: che tipo di musica ascolti? Che tipo di libri ti piacciono? Hai visto qualche bel film ultimamente? Dove sei stato in vacanza?

Tutto questo un po’ mi repelleva, non capivo il perché. Poi l’ho capito. Il fatto è che io non sono mai stato un drago, in quel tipo di conversazioni. Insomma, ce li ho anch’io i libri, i dischi, i film. Ma non sono un granché. Un po’ me ne vergogno. Intendiamoci: sono ottimi libri e ottimi dischi (infatti mi piacciono). Ma come dire, un po’ banali.

“Facciamo la prova: cos’hai sul piatto in questo momento?”
“Sul piatto, er… have you ever seen the rain”
“La sigletta dei bellissimi di retequattro?”
“Beh, se la metti su questo piano…”
“Ce l’hai messo di recente o è lì da trent’anni? No, non rispondere. Libri. Hai libri sulla scrivania?”
“Come no! Ehm…”
“Qualche americano? Spero non Fante, adesso l’ha scoperto Baricco, figurati”.
“…la Bibbia”.
“La Bibbia? Quella che Mel Gibson ci ha fatto un film? E riviste?”
“…il Venerdì”.
“E vuoi sapere se sei banale?”
“Sì”.
“Sei banale”.
“Grazie”.

Io, se dovessi riassumere su una colonnina i blog che frequento, produrrei la più banale e scontata delle colonnine. Ma che bisogno c’è? Tanto vale farsi una cartella sul browser. Invece da un po’ di tempo a questa parte sto cercando di provare qualche blog diverso. Così, per cambiare aria. Nel frattempo però ho deciso di proclamare una seconda rivoluzione copernicana: da "Linco questa gente perché sono miei amici" a "linco questi post perché li ho trovati veramente interessanti".
Perciò d’ora in poi non si segnalano più i blog, si segnalano i post. Tra l’altro sono quelli i link che spostano veramente il traffico. Le colonnine servono solo a delimitare il territorio, e credo che non ce ne sia bisogno.

Il che significa che continuerò a prendere in esame le mail di chi mi chiede un link. A un patto, però: che mi si proponga un post interessante, non un blog interessante. Nessun blog è interessante tutti i giorni (questo qui men che meno). Ben pochi blog riescono a essere interessanti una volta la settimana. Ma il problema è che tutti i blog, nel giro di un paio di mesi, scrivono qualcosa d’interessante. E ora che non ho più la colonnina, non ho neanche più scuse: devo cercarli e segnalarli. Naturalmente non ci riuscirò, ma è il principio che conta.
E alla lunga, un passettino oggi, un passettino domani… mi potrebbe anche capitare di trovarmi un giro meno banale del solito. Fermo restando tutto l’affetto per gli amici e i compagni, non sarebbe male.

mercoledì 14 aprile 2004

Lo sport preferito dall'uomo

Sei un tipo sportivo? Hai programmi per il prossimo week-end? Vuoi dare una mano all’industria italiana (sportiva)? Perché non vieni a Brescia, alla 23esima Esposizione italiana di armi? Sportive, naturalmente.
Hai famiglia? Hai figli? Ma porta anche loro, no? Si divertiranno un mondo. A Exa si può tirare con l’arco, tirare al piattello, provare un sacco di giocattoli all’ultimo grido. Sportivi. (Armi da tiro, difesa e segnalazione, repliche, munizioni, accessori e ricambi, arcieria, coltelleria, ottica, survival, apparecchiatura per il controllo balistico, macchine caricamento cartucce, macchine lancia piattelli, pelletteria, buffetteria, abbigliamento sportivo, turismo). Mi pare che Exa sia aperta anche ai minorenni (sportivi).

Sarà per questo che è tanto seguita, ogni anno. (Rispetto agli altri due eventi internazionali, lo Shot Show di Las Vegas e l'IWA di Norimberga, EXA si caratterizza per una presenza di pubblico quasi doppia). Più di trentamila presenze nel 2002. Decine di espositori, nazionali e internazionali.

Del resto i numeri parlano chiaro. (Dalla Relazione governativa del 2004 sul commercio di armi italiane si apprende che l'export di materiali ad uso militare cresce sensibilmente. Ammontano infatti a 1 miliardo e 282 milioni di euro le 609 autorizzazioni all'esportazione del 2003 con un incremento che sfiora il 40% (39,36%) rispetto ai circa 920 milioni di euro del 2002, quando già si era registrato un aumento del 6,6% rispetto al 2001 anno in cui le autorizzazioni erano di 862 milioni di euro).

Con tutta la crisi che c’è, fa piacere trovare in Italia almeno un settore in crescita, dinamico, in una parola, sportivo. E fa piacere che le armi (sportive) italiane incontrino il favore degli sportivi di tutto il mondo.

Naturalmente non è possibile escludere, in linea di principio, che alcune di queste armi sportive cadano nelle mani di persone, non diciamo malintenzionate, ma che proprio sportivissime non sono. Il che, sotto un certo aspetto, è persino giusto. Come diceva qualche anno fa un grande produttore locale (sportivo), Pietro Beretta: “Le nostre pistole, i nostri fucili servono a reprimere anche le manifestazioni di piazza, quando degenerano. Siamo felici di armare la polizia contro le sommosse". E infatti si videro pistole e fucili Beretta (comunque sportivi) nelle mani della polizia cilena che reprimeva le manifestazioni negli anni ’70. Le si videro in mano di tante altre polizie sudamericane. In Sudafrica. E in Libia. E in Algeria. In Marocco. In Egitto, Giordania, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait. Quante manifestazioni da reprimere. Quanta sportività.

Oggi, tra i maggiori importatori di armi (neanche per sogno mi scorderei di aggiungere: sportive), c’è la Malaysia, (con ordini per circa 166 milioni di Euro); la Cina (127 milioni); l'Arabia Saudita (109 milioni) il Pakistan (69 milioni e mezzo). Tutte nazioni che affrontano il problema della democrazia e della repressione molto sportivamente. In Malaysia vige la tortura, vi sono esecuzioni sommarie, gravi violazioni dei diritti umani e sparizioni, come ripetutamente denunciato da Amnesty International. Il caso della Cina, è poi uno di quelli che meglio ti fa capire come la sportività non abbia confini, e se ne infischi delle dogane e degli embarghi pretesi da ottusi funzionari.
Nel dicembre scorso, infatti, il Parlamento Europeo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione per mantenere l’embargo contro la Cina Popolare, poiché la situazione dei diritti umani nella Repubblica Popolare Cinese 'resta insoddisfacente, continuano le violazioni delle libertà fondamentali, così come continuano le torture, i maltrattamenti e le detenzioni arbitrarie'. Ora, non tiratemi fuori la legge 185, che tuttora prevede che l'Italia non esporti armi a paesi “nei cui confronti sia stato dichiarato l'embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell'Unione europea". È chiaro che quella legge vale solo per le armi, non per le armi sportive. Sono due cose diverse, no?

E comunque all'ultimo Consiglio europeo sotto presidenza italiana è stato dato incarico all'Alto rappresentante per la politica estera e di difesa di riesaminare l'embargo delle armi alla Cina. Il Parlamento dell’Unione ha espresso un voto contrario (molto poco sportivi, questi). La Relazione del governo al Parlamento non ne parla.

Insomma, se sei un tipo sportivo, porta la tua famiglia sportiva a Exa 2004, al Centro Fiera di Brescia. Ma, mi raccomando, non passare per il centro di Brescia. Lì ce l’ExPa, che non c’entra niente con Exa: è tutto il contrario. È la fiera della Pace, figurati. I soliti no global missionari equo solidali comunisti verdi sinistra giovanile socialforum arci uisp cgil. Già l’anno scorso alcuni di loro fecero una richiesta che era il massimo dell’antisportività: l’EXA avrebbe dovuto esporre esclusivamente armi sportive e da caccia, escludendo tutte le altre. O bella! E come si fa a distinguere? Come fai a capire che una mitraglietta, poniamo, ti serve per abbattere un nemico o un piattello? Non c’è mica scritto sopra. Se si parte così, poi va a finire che un bel giorno qualcuno chiederà di smettere di produrre armi. Proprio l’unica cosa che gli italiani continuano a esportare tanto bene…

È quello che sostengono i sindacalisti Cisl e Fim di Brescia.
La riconversione del settore armiero tradizionale è «impossibile» e significa una sola cosa: la chiusura delle aziende. L'eliminazione del settore delle armi leggere (pistole, ecc.) in uso alle forze dell'ordine, causerebbe, solo alla Beretta, una perdita di 300 posti di lavoro sugli attuali mille addetti.

Ci mancherebbe solo questa. La Beretta è la più prestigiosa industria armiera bresciana. A Brescia si produce l’80% delle armi italiane, sportive.

La Cisl, in buona sostanza, respinge come strumentale l'impostazione di chi vuol marciare contro Exa e confonde i valori della pace con quelli della produzione di armi di difesa e sportive. In ogni caso, […] la Cisl ritiene possibile «una separazione in Exa tra le aree destinate alle armi sportive (da aprire al pubblico) e quelle destinate alle armi leggere (da riservare ai buyers)».

Una proposta ragionevole: da una parte i piattelli e le famiglie coi bambini; dall’altra il mercato serio. Il mercato delle armi leggere. Quelle che fanno venire all’EXA decine di espositori e 4000 buyers all’anno. A comprare e vendere armi.
Sportive.

venerdì 9 aprile 2004

Cristo nel Getsemani con gli Apostoli dormienti, particolare de Neanche un’ora sola con me

Alla fine nei Vangeli si trova sempre qualcosa di nuovo. Per esempio, il sonno degli apostoli.
Si sa che quella notte a Getsemani non ci fecero una bella figura. Gesù era nella sua ora più difficile, e quelli ronfavano. Non deve essere stato semplice, col senno del poi, ricordarsi delle parole del Maestro: “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” Così in Matteo (26,40). In Marco, (14,37-38) Gesù si rivolge al solo Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Tutto vano: gli apostoli hanno gli occhi “appesantiti dal sonno”: si addormenteranno di nuovo, per svegliarsi solo all’arrivo di Giuda con le guardie.

Luca – come in altre occasioni – è più delicato. Gli apostoli dormivano, sì, ma “per la tristezza” (22,45). Sembra l’unico passo in cui Luca usa questa parola, “tristezza”. Non sono teneri, questi futuri santi e pontefici, che si addormentano dalla malinconia? Ma sarà vero che di tristezza ci si possa addormentare? A voi è mai capitato?

Io ho dovuto pensarci un po’, ma in effetti sì, mi è capitato. Mi capita ancora. Luca è un grandissimo scrittore. Si capisce nei dettagli.

giovedì 8 aprile 2004

Lethal Weapon, 5

The Passion of the Christ è un film perverso.
Qui non è questione di sangue, chiodi, gatto a nove code. Di tutti i Gesù cinematografici, è indubbiamente il più splatter, perfettamente in linea con l’arte di Mel Gibson: quando per accomodare Gesù sulla croce i legionari gli tirano le braccia fino a incrinargli le costole, viene subito in mente Arma Letale. Ma in fondo, perché no? Se c'è piaciuto Jesus Christ Superstar possiamo anche provare Jesus, The Lethal Weapon. Purché sia chiaro che si tratta della libera interpretazione di un cineasta.

Invece questo è un film con delle pretese. Vorrebbe essere aderente al testo evangelico. Vorrebbe essere iper-realistico, raccontare la Passione “as it was”. Gibson non è il solito eretico alla Pasolini o alla Scorsese, no: lui si vende come il cineasta della Sacra Chiesa Cattolica Apostolica, con tanto di imprimatur. Vedi la storia per cui, quando il film è stato proiettato in Vaticano, il Papa avrebbe esclamato proprio “it is as it was”. Balla sapientemente propagata dall’ufficio stampa e più volte smentita. Tanto ormai l’effetto era ottenuto: mobilitare le comunità cattoliche ai botteghini.

Bene, è il caso di dirlo: le comunità cattoliche sono state truffate (come del resto le comunità protestanti e perfino quelle islamiche, che in Medio Oriente stanno apprezzando molto il film sul martirio del noto profeta palestinese). The Passion non è la Passione “as it was”. Non è nemmeno la Passione com’è raccontata sui Vangeli. Quello di Gibson è il Vangelo meno realistico e più apocrifo di tutti.

Cominciamo da una piccola cosa: la pronuncia. Si sa che gli attori hanno recitato in due lingue morte, l’aramaico e il latino. Il tutto per dare al film una maggiore “impressione di realtà”. È una sciocchezza, uno specchietto per le allodole, un trucco per mascherare la debolezza dei dialoghi. Se Gibson avesse avuto la metà degli scrupoli documentari che pretende di avere, si sarebbe almeno dato pena di far parlare i latini con la pronuncia del tempo, e non come dei poveri liceali italiani. Bastava un consulente serio – bastava un giro su Internet. Noi naturalmente non conosciamo la vera pronuncia dei Romani, ma abbiamo abbastanza elementi per sapere che non parlavano come gli attori di Passion. Pilato non poteva dire “Ecce homo”: al massimo “Ekke homo”. I legionari non potevano salutarlo al grido “Ave, Rex”: piuttosto “Aue, Rex”. “Flagellare” si pronunciava “Flaghellare"; “Stultitia” proprio com’è scritto, non “Stultizia”. E così via. Il latino degli attori di Passion è una lingua inventata, per niente realistica. Ma se non sei un addetto ai lavori, non puoi fare altro che cascarci. Passion è esattamente questo: un tranello teso a chi non maneggia bene la materia.

E i cattolici, la maneggiano bene? Sono in grado di capire quando Gibson è fedele ai Vangeli e quando ci aggiunge del suo? Ahimè, questo è il dito sulla piaga. Prendiamo un cattolico a caso, Monsignor Lorenzo Albacete. Via Simone ho trovato il testo di una sua intervista su “The Passion” (rilasciata a un intervistatore di conclamata antipatia, ma questo adesso non c’entra). A un certo punto Albacete fa questo appunto:

Nei Vangeli non ci sono grandi dettagli sul percorso che ha portato Gesù alla crocifissione, c'è scritto che è caduto tre volte, ma nel film cade otto o nove volte;

E uno si chiede: di quali Vangeli parla Monsignor Albacete? Perché in quelli che ho qui in casa non risulta. Le tre cadute sono un’aggiunta della tradizione, le Scritture non vi accennano (così come non dicono mai, per esempio, che i Re Magi siano tre). Insomma, alla fine Mel Gibson pare essersi studiato il Vangelo meglio di Monsignor Lorenzo Albacete, noto teologo. E il cattolico “medio”, che il Vangelo lo ascolta a spizzichi una volta alla settimana, quando va bene? Entra in sala ed è convinto di trovarsi davanti alla Passione “as it was”. E invece si trova più spesso davanti al mondo immaginario di Mel Gibson – un mondo non privo d’interesse, popolato di mostri antropomorfi e aguzzini sadici – ma che sta al Vangelo più o meno come Lethal Weapon sta a Serpico. Era molto più onesto Jesus Christ Superstar. Almeno lì sapevi di non poterti fidare degli sceneggiatori. Ma il “realismo” di Gibson è un’arma subdola. “Fidatevi”, sembra dire, “le cose sono andate così…” Uno si fida. Come fai a non fidarti? È talmente serio che ha i sottotitoli…

Che idea, per esempio, portare il diavolo nell’Orto degli Ulivi. In realtà Satana, in quanto personaggio, è quasi del tutto assente dai Vangeli. Solo una volta si racconta di un colloquio tra lui e Gesù, durante un digiuno di 40 giorni nel deserto. Il diavolo non è mai descritto fisicamente. Per Gibson è una donna calva, che si compiace ad abbellire la Passione con siparietti da film horror di serie B. Perché? Il Satana gibsoniano sembra raffigurare la disperazione, che tenta continuamente Gesù cercando di convincerlo a rinunciare al martirio. (Non a caso il regista racconta di avere avuto l’idea del film “mentre pensava al suicidio”). Nell’Orto degli Ulivi il diavolo solleva appena un po’ la gonna e fa uscire un serpente a sonagli: sembra suggerire a Gesù un modo spiccio per farla finita ed evitare la Croce. Gesù ci pensa un po’ su, poi schiaccia il serpente di tacco. Scena efficace: ma totalmente inventata. Tra noi si era sempre pensato che l’esitazione di Gesù di fronte al martirio fosse un tratto di umanità. No, per Gibson ogni tentennamento proviene dal demonio. (Lo stesso vale per il delirium tremens di Giuda: la sua disperazione non ha nulla di razionale, è un incubo popolato da mostri).

Altra macroscopica invenzione gibsoniana è l’incredibile resistenza di Lethal Jesus. “Vir robustissimus”, come dicono più volte i legionari. Ma anche una persona robusta, sotto tutte quelle legnate, non arriverebbe al secondo tempo. Perché tanto sadismo? Riguardo alle torture, i Vangeli sono estremamente spicci. Qui sembra che l’immaginazione di Gibson si faccia prendere un po’ la mano, come gli aguzzini romani che, una volta presa in mano la frusta, non riescono più a fermarsi. Tutto questo va sotto la voce di realismo. Ma lo è davvero? È realistico un Gesù che riceve più di sessanta frustate e poi si porta la croce fino al Golgota? È realistico un terremoto che squarcia il tempio in due (quando tutte le versioni ragionevoli del testo parlano solo di “velo del tempio” squarciato a metà?)

Più in generale: cosa c’è di “realistico” in Passion? È “realistica” la moviola stile Matrix nelle scene d’azione (che ha un po' rotto, tra parentesi)? È “realistica” la roboante colonna sonora, che ci tiene sulle spine casomai ci distraessimo con le luci di emergenza? È “realistica” una scena notturna con una Luna da centomila watt? (E si sentono già critici parlare di “luce caravaggesca”…) Passion in realtà non è più “realistico” di qualsiasi film in costume holliwoodiano con effetti digitali. La perversione sta nel volersi presentare come qualcosa di più: un’esperienza religiosa, da consumarsi nelle sale più vicine.

Prima o poi dovremo liberarci anche da questa idea. Che vedere il sangue sullo schermo basti a farci sentire partecipi di un dolore. Che una lacrima sul grande o piccolo schermo sia sufficiente a farci piangere. È una cosa che amiamo raccontarci: in realtà non piangiamo e non soffriamo, stiamo seduti in poltrona e ci saziamo d’immagini. Gli aguzzini di Gibson infieriscono sul corpo di Cristo nel tentativo di far passare un po’ di dolore dall’altra parte dello schermo. Hanno un bel da frustare e frustare, non funziona più. A chi in questi giorni volesse sentirsi un po’ in comunione con Gesù martire consiglio di riempire uno zaino (non eccessivamente) e farsi una salita di montagna. Dopo qualche chilometro avrà capito più cose della passione di Cristo che uno spettatore di Lethal Weapon 5. Spendendo anche meno.