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giovedì 30 settembre 2004

Cosa resterà?
Ci sono stati periodi della storia dell'uomo, in cui i capolavori piombavano sulla testa del pubblico fatti e finiti: gli anni Ottanta non sono stati così. Tutto quello che si è salvato, si è salvato sulla distanza.

Prendi un caso ormai indiscutibile: gli Smiths. Negli '80 erano 'abbastanza' famosi. Nei '90, gradualmente, a furia di titoli di romanzi anglosassoni e sondaggi des Inrockuptibles, sono diventati classici. Esagero a dire che si tratta – per il 75% di una gloria retroattiva? E infatti solo oggi Morrissey riesce a fare qualcosa che da sei-sette anni non faceva più, cioè vendere un suo disco da solista.

(Siccome poi la generazione dei rivalutatori degli Smiths è ancora giovane, ha ancora a disposizione notevoli margini di rincoglionimento, il che significa che la fama degli Smiths potrebbe anche continuare a crescere, nei prossimi anni – del resto si comincia a parlare una reunion, e il tempismo mi pare perfetto. Dateci ancora quindici anni, e Morrissey & Marr andranno a cantare davanti al Colosseo, con tutti i romani che si abracciano e dicono: li aspettiamo dai tempi del liceo! Balle, naturalmente: al liceo si ascoltavano solo Vasco e i Duran, ma probabilmente è stato così anche con Simon & Garfunkel: un sacco di gente che all'epoca ascoltava Morandi e Celentano si è autoconvinta di avere sempre conosciuto i dolci cantautori californiani. La memoria tira scherzi pesissimi).

Inghiottiti dalle crepe

C'era un gruppo che nessuno si ricorda, non si chiamavano Simon & Simon (quello era un telefilm), bensì David & David. Scrissero una canzone struggente sul vuoto edonismo californiano, si chiamava Welcome to the Boomtown, il titolo di sicuro non vi dice niente. Ma forse il primo verso:

Miss Cristina drives a nine-four-four…

Quello fu il loro primo successo. Il loro secondo successo fu un titolo che mi ricordo solo nella traduzione italiana, dice, "Inghiottiti dalle crepe". Il testo parla di tre amici che sognano di diventare famosi in qualche modo, poi, per un motivo o per un altro, smettono di vedersi, spariscono nell'oblio, "inghiottiti dalle crepe". Questo, per inciso, è stato il destino dei David & David, di cui in seguito nessuno ha più sentito parlare, e oggi se mi tornano in mente rischio di confonderli con un telefilm. Inghiottiti dalle crepe. Eppure non mi dimenticherò mai di Miss Cristina e della sua Porsche 944.

Anche di Giuni Russo avrò sentito al massimo quattro canzoni, pure non la dimenticherò mai. Questa è una particolarità degli Ottanta: le meteore. Molti pezzi che sono sopravvissuti, sono legati ai nomi di simpatici sconosciuti. Piccolo gioco: Orchestra Manouvres in The Dark, Knack, Eighty Wonder, Industry, Dead Or Alive. Due, tre pezzi, più spesso uno solo. Eppure sulla distanza sono sopravvissuti. Gli anni '80 hanno dato una possibilità a un sacco di gente.
Questo meteorismo, al tempo, ci sembrava un sintomo di futilità. Oggi è una delle cose che rivaluterei. Sì, perché dopo sono arrivati i '90, gli anni in cui qualsiasi personaggio che imbrocca una canzone, per cinque-dieci anni non te lo levi più di torno.

Ma pensa solo. Pensa se tutti i divetti di oggi fossero rimasti inghiottiti da una crepa dopo il loro album di esordio. Pensa Britney Spears che dopo Hit me baby one more time cade in disgrazia e si mette a fare la parrucchiera: non sarebbe stato fantastico, cinque anni dopo, mettere su in radio Hit me baby one more time? E invece no, una ragazzina che azzecca un singolo, negli anni 90, deve come minimo diventare un simbolo generazionale, un idolo, un marchio di fabbrica, una bomba sexy, una multinazionale.

È vero che anche gli '80 hanno avuto le loro leggende: la differenza sta nel sottobosco. Il sottobosco '80 era pieno di meravigliosi debuttanti, pronti al loro quarto d'ora di popolarità e a essere inghiottiti da una crepa: al confronto, il sottobosco '90 è terra bruciata. O diventi famoso e ci appioppi almeno quattro dischi, o non diventi proprio nessuno.

Non so, metti uno come Biagio Antonacci. Quanti CD ha fatto, quanti ancora ne farà?
[continua]

martedì 28 settembre 2004

Stile balneare

Quest'estate voglio andare al mare / per le vacanze
è una frase molto banale, che descrive un desiderio altrettanto banale. Tanta banalità può essere fortemente sospetta, ma anche no. Dipenderà da come intendiamo gli anni Ottanta: età dell'oro o del fango, da un punto di vista infantile o senile. Da quello infantile, non c'è dubbio che quell'estate volessimo andare al mare per le vacanze (e "sopra i ponti delle autostrade c'è qualcuno fermo che ci saluta").

Da un punto di vista senile, non dimentichiamoci che il 1982 era un anno già saturo di messaggi. Canzoni sulla spiaggia se ne cantavano da trent'anni (con alcuni capolavori inarrivabili: sei diventata nera come il carbon, sapore di sale sapore di te, un bacio a labbra salate, un fuoco quattro risate a far l’amore giù al faro). Giuni Russo si trova sul palcoscenico in un momento in cui già sembra impossibile aggiungere qualcosa di nuovo. Si aggiunga che la Storia era finita più o meno in quegli anni: negli arsenali c'era già abbastanza potenziale da spazzare l'intero genere umano in mezz'ora (appena di 3 miliardi e mezzo di persone). La contestazione, gli anni di piombo, l'eroina. Ma quest'estate voglio andare al mare, per le vacanze.

(Gli anni Ottanta come una vacanza, un piccolo break della Storia, tra un massacro e l'altro).

La frase è un esempio di grado zero dell'ironia: c'è solo se vuoi trovarcela. Ma se non vuoi, se non t'interessa, se non sei abbastanza colto o raffinato o smaliziato per capirla, essa semplicemente non c'è, e la canzone resta ugualmente godibile. Il genio del Battiato tra '79 e '83 è tutto qui: si potevano fare canzoni sciocche che sembrassero incredibilmente smaliziate, ma che vendessero come canzoncine sciocche, semplicemente montando rammenti da altre canzoni, altri successi per l'estate. Quando neanche il montaggio funziona, si può essere semplicemente sé stessi, o una versione un po' più banale di sé stessi. Giuni, che ti va di fare quest'estate? Mah, quest'estate voglio andare al mare.

Il successo di Battiato / Russo è del 1982: un anno in cui tutti gli italiani hanno avuto almeno un'occasione per riflettere sull'aspetto terribilmente banale che può assumere la felicità. (Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!) L'anno dopo Umberto Eco pubblica su "Alfabeta" le Postille a "Il nome della Rosa", in cui definisce pulitamente la sua idea di postmoderno. Innanzitutto "il post-moderno non è una categoria circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale […] un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno". Ogni volta che la coda della storia si fa troppo pesante ("Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta"), e la tentazione di tagliarla di netto (il moderno, l'avanguardia) si rivela fallimentare, ecco che "la risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente".

Nella pratica, Eco pensa di riutilizzare Liala

Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "come direbbe Liala, ti amo disperatamente". A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un'epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d'amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore.

Implicita, nell'esempio di Eco, una meditazione su cultura e… come chiamarlo, "amore"? Mah, chiamiamolo "bisogno". Mentre la cultura si avvita su sé stessa e genera gusti sempre più complessi (ma è un progresso verso il silenzio, perché ogni scrittore, da Liala in poi, non aggiunge parole, ma le toglie all'innamorato 'moderno' che non può dirle perché sono già state scritte da qualche parte), i nostri bisogni rimangono tutto sommato gli stessi: amarsi, parlare d'amore. Negli '80 la "donna molto colta" (e il suo uomo) non possono più ripetere le frasi di Liala, eppure hanno gli stessi bisogni dei lettori di Liala di 30-40 anni prima. Il post-moderno ovvia a questa divaricazione tra gusto (sempre più sofisticato) e bisogno (più o meno sempre lo stesso, e banale). Dando per scontato qualcosa di fondamentale: che dei nostri bisogni, anche in assenza di un'educazione cattolica, noi ci vergogniamo. Non fosse altro che per la loro banalità. Ci vergogniamo, sì, ma in qualche modo dobbiamo venire a patti con loro. Anche a costo di saccheggiare Liala.
Allo stesso modo, quell'estate, quaranta milioni d'italiani avrebbero avuto voglia di andare al mare, "come direbbe Giuni Russo". Desiderio banale, ma l'importante è che si possa ancora comunicare. La canzone, quella popolare, serve a questo. Battiato lo aveva capito. (In seguito se l'è dimenticato, poi gli è tornato in mente, poi se lo è dimenticato di nuovo, ecc., un po' come tutti).

Il fatto è che il miracolo di "Quest'estate al mare" non era così semplice da replicare. Dall'intro fino al libitum finale, tutta la canzone strizza l'occhio all'ascoltatore: io sono più intelligente di così, con la voce che ho potrei cantare meglio (ma "per regalo voglio un harmonizer con quel trucco che ti sdoppia la voce"). Un tocco di erotismo ambiguo, quel che basta ad ammiccare senza sparire dalla fascia protetta ("per le strade mercenarie del sesso, che procurano fantastiche illusioni…"). Persino un bambino (io) di fronte alla glossolalia esibita degli "ombrelloni oni oni" non può non cedere al sospetto che ci sia qualcosa sotto: qualcosa, ovvio, di più intelligente di così. Anche se tutto sommato non c'era bisogno davvero di produrre qualcosa di intelligente: l'allusione, l'ammiccamento, sono più che sufficienti. L'astuzia dello stile balneare: facciamo i bambini per dimostrare che non siamo più bambini. Oppure: facciamo i piccolo-borghesi per dimostrare che, etc.. Vincente, anche e soprattutto da un punto di vista commerciale: perché queste canzoni mettono d'accordo adulti e bambini, borghesi e snob. Ognuno ha la sua interpretazione, anzi, ancora meglio: ognuno può slittare da un'interpretazione a un'altra, senza che nessuno se ne accorga. Quand'è che abbiamo smesso di cantare "Cuccuruccuccù" perché era un ritornello scemo e ci siamo messi a cantare "Cuccuruccuccù" perché era una canzone malinconica e struggente? In ogni caso, un bambino che canta "Cuccuruccuccù" sembra già più intelligente; un adulto che canta "Cuccuruccuccù" sembra altrettanto scanzonato e intelligente, senza fare niente di particolarmente impegnativo che non sia cantare "Cuccuruccuccù".

Il metodo vantava, ovviamente, ripetuti tentativi di imitazione. "Un'estate al mare" è la matrigna di una serie di canzoni che hanno illuminato le estati '80: ironiche e stupide a scelta. L'estate sta finendo, Maracaibo, mare forza nove, etc.. Queste canzoni tuttora continuano a far ballare i trentenni sulle spiagge: sulla distanza sono sopravvissute al revival delle sigle dei cartoni giapponesi: segno che anche la nostalgia col tempo si fa un po' più sofisticata?
Il ritornello più esemplare mi sembra "Cocco bello / cocco fresco / non è che mi diverta", di Orietta Berti (ma c'è ancora lo zampino di Battiato, sotto pseudonimo). Anche in questo caso, sono possibili infinite letture: non che io mi diverta a cantare queste scemenze; e invece sì, mi diverto un mondo a stare in spiaggia e ascoltare i venditori di cocco in lontananza; oppure, mi diverto un sacco (a cantare e a prendere il sole) ma non ho il coraggio di ammetterlo, etc.. Piccoli pudori dei primi anni '80. Si praticava il banalotto (che non era ancora trash), ma si confessava (o si affettava) un certo imbarazzo. Non si grufolava ancora nel truogolo: quello è venuto dopo.

La stessa Giuni Russo si sentiva probabilmente prigioniera del genere: due anni dopo tentò di imporre un 45 giri con una bella canzone d'atmosfera, poetica, Mediterranea: ma i dj delle radio le preferirono il lato B, Limonata Cha Cha Cha ("Cha Cha Cha / della limonata / Cha Cha Cha / seduti in riva al mar"). Ancora due anni, e poi la resa: nel 1986 Giuni dichiarava di voler fuggire ad Alghero in compagnia dello straniero. Più che giusto che la genitrice non sapesse come si buttava via il talento della figlia.
[continua]

venerdì 24 settembre 2004

L'estate sta finendo, anzi è finita, quasi senza scrivere un pezzo sui tormentoni estivi. Sono fiero di queste piccole cose.

Oggi, infine, è autunno. Parliamo di tormentoni estivi. Essi sono stupidi, ma costruire teorie su di loro ci fa sentire intelligenti con poco sforzo.

Quindi, adesso faccio un gioco. Condensare un periodo storico nel distico di un tormentone. Pronti, via. Gli anni Ottanta, facile:

Quest'estate voglio andare al mare per le / vacanze (Giuni Russo)

E gli anni 2000-2004:

È un po' colpa mia, è un po' colpa tua, tocchiamoci
Nel nostro letto preso e montato / di sabato.

(Biagio Antonacci)

Seguirebbe il post di 50.000 caratteri dove spiego il senso dell'operazione, ma a–hung preferisco creare un'attesa nei lettori, lasciarli con degli interrogativi su cui possono costruire delle teorie, tenerli insomma sulle spine.
Zzz.

mercoledì 22 settembre 2004

In Emilia Romagna vivono gli italiani più ricchi, dice. E uno si chiede, sì, ma dove? In città, in montagna, al mare, a Forlimpopoli, a Tolè?
Io me lo sono chiesto spesso, ho fatto quel che si dice delle ricerche.

La città dalle finestre che brontolano

Purtroppo sono una persona un po' più stupida di quel che sembra, e posso metterci a volte decine d'anni a vedere una cosa che magari voi trovate evidente.
Per esempio: ci ho messo una decina d'anni per accorgermi che le finestre del Centro Storico di Modena erano tutte chiuse, anzi sbarrate, con gli scuri. Da mane a sera, d'estate come d'inverno. E siccome sono curioso, ma stupido, per un'altra decina d'anni mi sono chiesto: perché?

Naturalmente sono partito dalle ipotesi più astratte. Per esempio: non ci abita nessuno. Stanno tutti a Montale Rangone, e piuttosto di affittare ai nigeriani tengono tutto chiuso, così i prezzi lievitano (a quel tempo non sapevo che un nigeriano, in termini d'affitto, vale più di un autoctono. Stupido).
Oppure sono anziani, neanche cattivi, solo un po' timidi, come in certi paesini della bassa dove suoni il campanello e non viene ad aprirti nessuno, poi dopo un po' si affaccia il vicino, ti dice che la signora è all'ospedale da tanto tempo, e il marito è morto, e i figli non vengono mai… una città fantasma, pensate, al centro di una provincia industriale.
Oppure (visto che dalle grate di certi scuri cominciavano a sentirsi suoni misteriosi e squillanti), perché no, i cinesi. Come in certi casolari della bassa, sigillati, pieni di piccoli cucitori abusivi che non escono mai, l'unico segno di vita è la parabola sul tetto…

La spiegazione, naturalmente, era molto più banale. Anzitutto, quelle che io credevo abitazioni, otto casi su dieci erano uffici. Perché venivo dal paesello e mi mancava tutto un mondo di avvocati e notai e assicuratori e bancari e commercialisti, che alle cinque o alle sei staccano, più o meno quando mettevo fuori il naso io.
E poi non avevo mai riflettuto alla forma di quelle case, che non erano parallelepipedi col tetto triangolare, come ero convinto che fossero tutte le case del mondo perché da bambino col lego io le facevo così, ma avevano tutte il loro bel cortile interno, verso il quale naturalmente preferivano aprire le finestre. Tuttora continuo a dimenticarmelo, e se per caso un portone schiuso mi sbatte in faccia la realtà, ci resto di sasso: metà del centro storico è chiusa al pubblico!

In quei cortili (che io immagino sempre verdissimi, con una statua di Prassitele e i nanetti), vivono, secondo me, gli italiani più ricchi. Non escono molto, tanto dove vuoi andare la sera a Modena. Si svegliano alle due del pomeriggio, si sistemano nel triclinio, divorano piatti di tortelloni all'aceto balsamico (riserva speciale), vomitano nell'apposito vomitarium, e attaccano la salama da sugo. Il pranzo termina verso le 18, in tempo per l'aperitivo.
Le ragazze più ricche d'Italia invece non mangiano mai, sono magre e stronzissime, fanno sesso estremo, e quando si stancano ci scrivono un libro e giustamente ce lo vendono. Questa è la mia idea dei ricchi. Potete considerarla insulsa, la fantasia di un cretino, e indubbiamente lo è. Ma altrimenti, cosa dovrei credere? Che i ricchi vadano in giro per le stesse strade che giro io, con la stessa faccia grigia che porto io, che facciano la gara con me ai semafori al lunedì mattina? No, lasciatemi alle mie fantasie da basso impero.

Domenica, per la prima volta in vent'anni, ho saltato il turno a stappar bottiglie alla Festa del Lambrusco di Sorbara e ho fatto un salto al Festival di Filosofia. E mi sono, ebbene sì, divertito.
C'era Fabio De Luigi, un ragazzone simpatico che tutto il mondo conosce perché faceva il comico con la Gialappa, che leggeva le Cosmicomiche di Calvino nella piazzetta della Pomposa.
Ora, De Luigi è molto simpatico, e gli basta arricciare il naso per far ridere la gente, ma se c'è qualcosa di cerebrale e difficile da recitare, quelle sono le Cosmicomiche di Italo Calvino. Lo stesso De Luigi sembrava essersi scelto le Cosmicomiche più cerebrali e impervie del mazzo. Ci voleva del coraggio, dico io.
Eppure, incredibile, stava funzionando. La piazzetta era piena, ma che dico, piazzetta. Diciamocelo, che la Pomposa è una piazza quando vuole, e che Modena ha delle belle piazze se si impegna, piene di gente che si appassionano alle Cosmicomiche di Italo Calvino. E quando ne terminava una, la gente gliene chiedeva un'altra, e ridevano, e applaudivano, e restavano zitti e seguivano…

Finché da una finestra di fronte, non si è sentita forte e chiara una voce, vox clamans in piazzetta:
"O, è ancora lunga? No, perché domani noialtri avremmo da lavorare".

Detto con un orgoglio, avete presente, come se l'indomani a lavorare ci dovesse andare lui, solo lui: e tutti gli altri, buoni da niente, seh, filosofi, t'la dàg mè, la filosofia.
E non aveva nemmeno aperto lo scuro: la luce filtrava dalle fessure. Neanche la curiosità di vedere chi era quel pazzo che leggeva le Cosmicomiche. No. Ciavèdi, toti ciavèdi. Domani è lunedì, altroché. Silenzio. E poi risa, e applausi, ma era Modena che si rideva dietro dopo l'ennesimo sfondone. Il bello è che magari quel signore lì doveva alzarsi davvero presto, alle sei o alle cinque, chissà.
E che magari rimpiangeva anche lui il tempo in cui non volava una mosca, in piazzetta, ché gli spaccini controllavano il territorio che era un piacere. Mentre ora, tutte 'ste iniziative, e gli artigiani, e i bambini, e i concerti, e che due maroni, eh?

Non erano neanche le undici di sera, Fabio De Luigi ha promesso al vuoto che avrebbe finito in fretta, e intanto io cominciavo a rivedere le mie teorie sul centro storico. Che non sia davvero una città fantasma, piena di gente non cattiva, forse un po' timida, ma anche un po' troppo stronza? Che non c'è nessuna povertà, nessun mestiere difficile, nessuna sveglia puntata che ti permettano di disturbare una festa di centinaia di persone tranquille, alle undici di sera. Roba che bisognerebbe denunciare te, proprio te, per schiamazzi notturni, per disturbo della pubblica gioia.
Un ricco vero, questo, non lo farebbe mai. E neanche un povero vero, credo. Il problema con noi emiliani, forse, è che siamo rimasti incastrati in mezzo. E non ci schiodiamo. Sigilliamo le fessure e resistiamo.

(ricordo alle lettrici che alla Pomposa c'è il negozio di borse e indumenti fatti/e a mano più esclusivo dell'Emilia Romagna, e quindi dell'Italia, e dell'Universo tutto).

martedì 21 settembre 2004


Contrordine, signori: pare che Le chiavi di casa sia un bel film, con una bella colonna sonora.

Perlomeno, me l'ha scritto Jonathan (che su polaroid latita da tempi immemori):

Caro Sito Leonardo,

ti scrivo due righe dopo aver letto il tuo pezzo sul trailer delle Chiavi di casa, il film di Gianni Amelio su cui un po' tutti hanno detto la loro. Secondo me una volta che hai tempo oppure se ti rimane il sito vuoto per due o tre giorni faresti bene a tornare sull'argomento e a vedere la cosa da un punto di vista diverso. Io penso che dovresti prendertela con il trailer, con le recensioni e con il tono da millantato credito e da "patria offesa" usato dai Tg e dai vari servizi sul Festival di Venezia. Il vero aspetto provinciale della vicenda è non avere quasi nessuno capace di parlare decentemente di un film fatto davvero con sottigliezza e con grande cultura cinematografica e umana. O se ne parla come di un capolavoro assoluto e incompreso o come di una palla neorealista. Secondo me questo è male.

Mercoledì, uscendo dal cinema con la mia morosa mi dicevo "ma tu pensa se per colpa di una serie di giudizi troppo positivi, troppo entusiasti e troppo retorici dati dalle peggiori teste d'uovo d'italia, da Marzullo a Mentana a dio sa chi altro, io devo rischiare di giocarmi la serata a metà prezzo andando a vedere Spiderman 2 invece di questo film qui, che è davvero molto bello". (Spiderman ci vado la settimana prossima...).

Poi stamattina leggo il tuo sito, il pezzo su Vasco ecc. Il pezzo è [...] letteralmente assurdo, quando si riferisce al film. Al momento (un momento che dura da mesi) non ho le forze per scrivere una vera "recensione" però vorrei dirti schematicamente il di quest'assurdità e perché il film ha qualcosa di interessante.

La colonna sonora è una delle cose più straordinarie di tutto il film. E' una presenza che c'è e non c'è. Si sente molto di rado e a un volume bassissimo, come se fosse suonata in un'altra stanza, anzi direi che addirittura la tecnica di registrazione riproduce l'effetto di un filtro. In più è tutta musica originale (non ricordo il compositore) scritta apposta per le scene ed eseguita da un ensemble ridottissimo di musicisti. Ci sono delle percussioni, dei pezzetti di piano solo e soprattutto lunghissimi minuti senza musica. Roba così, nella provincia italiana, si produce poco spesso. L'unica canzone della colonna sonora è un pezzo in portoghese, di grande impatto devo dire, sui titoli di coda. E Vasco? C'è anche Vasco ma, ironia del trailer, non fa parte della colonna sonora. La canzone è un pezzo di film anzi è forse uno dei pochi momenti di "realismo" di tutto il racconto. Paolo, il bimbo disabile protagonista, la ascolta a tutto volume (il volume alto è una sia fissazione) dall'autoradio del padre mentre sono in giro da soli per i deserti della Norvegia. La ascolta e ci canta sopra, un po' come se fosse la sua canzone preferita (ma cosa dovremmo dire di quello che ascoltano i protagonisti dei film coreani, cinesi giapponesi ecc.?). E in fondo un tredicenne romano avrà nello zaino anche la cassetta di Vasco. Il tutto a dieci minuti dalla fine, e dopo la colonna sonora che ti ho malamente descritto ti assicuro che non disturba (anche grazie ad altri legami fra il testo del pezzo e il film che ora non sto a dire).

Un critico che io e te leggevamo quando avevamo vent'anni, a volte con passione a volte con snobismo, Frederic Jameson [
chi? Ah, sì, Jameson...], ha scritto uno dei suoi saggi migliori proprio sul genere narrativo del trailer e del commento giornalistico a un film. Dopo averlo analizzato conclude che un trailer deve essere considerato un'altro prodotto rispetto al film che dovrebbe riassumere per due motivi molto semplici: 1) il regista e il montatore del trailer non è mai (eccetto Kubrick) lo stesso regista del film: di solito è un pubblicitario della produzione; 2) perché la strategia più cara ai curatori di trailer è quella di creare immagini e sequenze che nel film non ci sono; l'esempio che tutti conoscono sono le battute fulminanti nei provini di certi film comici, che poi al cinema non ritrovi perché in realtà erano fatte mescolando due scene diverse. Il trailer di Amelio insomma, ci paral del pubblico a cui si rivolge, non del film.

Sulle Chiavi di casa avrei ancora mille cose da dire ma mi fa ridere dilungarmi ancora. Te ne dico un po' schemaicamente perché così magari vai a vederlo e lo consigli anche ai tuoi lettori.

Anzitutto fare un film da un libro di Giuseppe Pontiggia deve essere una bella sfida. Pontiggia è uno dei pchi narratori che riescono a rendere calda e spietata l'ironia e la raffinetazza. Infatti Amelio, come è noto, ha scritto un'altra storia, cercando di riprendere il tono dolce e sincero del romanzo Nati due volte, che racconta di un padre (Pontiggia stesso) e della sua convivenza trentennale con un figlio handicappato. C'è il libro nel film? C'è, nel senso che si vede, lo legge la Rampling e ne parla con il glaciale e impalato Rossi Stuart. Ma la storia è di Amelio, ed è una strana storia d'amore. Per certi versi il film mescola due generi, il road movie e la love story, solo che invece dell'avventura e del sesso c'è uno strano erotismo familiare, frutto di un'altrettanto strano colpo di fulmine, fra un padere e un figlio che non si conoscevano. Fra Berlino e una Norvegia vista con un occhio alla Antonioni si svolge una vicenda senza capo ne coda, che non ha né un inizio né una fine.

I pezzi migliori sono in ospedale. C'è una sequenza di fisioterapia che sembra girata da Kiarostami, con tre schermi che si sovrappongono, teste tagliate e tutto, con grande naturalezza. Il virtuosismo tecnico è la telecamera a spalla per quasi tutto il film. Sembra una steadycam ma è una telecamera a spalla usata con straordinaria leggerezza (è come un cantante che ha una bella voce senza microfono e senza ricerbero...). Qualcosa di simile lo aveva fatto Nanni Moretti nel primo episodio di Caro diario, nelle scene in vespa. Non è una steadycam!

La parte più buffa di tutti i commenti che ho sentito, per finire, è la scelta "neorealista" del bimbo handicappato davvero anziché di un attore. A parte il fatto che ciò dimostra l'opinione che il commentatore medio ha del cinema neorealista (domanda: Anna Magnani e Aldo Fabrizi erano attori oppure una vera sfollata e un prete?). A parte questo quando prendi un non attore straordinario come il ragazzo che interpreta Paolo e che fa letteralmente sparire Kim Rossi Stuart (Amleio ha l'estro masochista del pessimo attore maschile tipo Enrico Lo Verso) devi centuplicare il lavoro di finzione e di costruzione registica per traportare il tutto su uno schermo. Un film è l'esatto contrario di un filmino familiare, perchéun film non ha famiglia è sempre la storia di un estraneo.

avrà senso che ti abbia scritto questa mail? non lo so.


Altroché.
(grazie)

venerdì 17 settembre 2004

Remote control

Drin, drin

Dio delle telefonate inopportune, fa almeno che stavolta non sia Gaetano con le sue considerazioni universali, né Palmira con le sue pare premestruali, ma soprattutto, fa che non sia Arcibaldo, il Pitagora della Bassa, proprio lui, Arci, con le sue idee così geniali…

"Pronto "
"O Davide, come va?"
"O Arci, bene, e tu?"
"T'ho chiamato perché m'è venuta un'idea che la metà basta. Stavo qui sul divano…"
"Non hai paura di restare senza?"
"Eh?"
"Non hai paura di restare senza idee, un giorno?"
"No, perché? Stavo qui, sul divano, coi titoli del dvd che giravano all'infinito".
"Perché giravano all'infinito?"
"Perché non riuscivo a spegnerli".
"Perché non riuscivi a spegnerli?"
"Non trovavo il telecomando".
"Hai provato sotto il cuscino?"
"C'era il telecomando dell'aria condizionata".
"Sotto il divano?"
"Quello dello stereo".
"Sopra il televisore?"
"Quello del televisore, no?"
"Ah già. E dietro il televisore?"
"Il cellulare".
"Allora prova in tasca".
"In tasca?"
"Magari te lo sei messo in tasca pensando che fosse il cellulare, a me succede… prova…"
"Bella intuizione, ma in tasca ho il cordless. E insomma, a questo punto mi è venuta un'idea. Ho pensato: la vita moderna è logorante".
"Ci hai pensato dal divano?"
"Sì. E lo sai perché è logorante? Per via di tutti questi telecomandi che ti complicano la vita, non sai mai dove appoggiarli, perdi intere mezz'ore a cercarli. Allora ho pensato allo spago".
"Lo spago?"
"Sì, pensavo di legare con lo spago ogni telecomando al relativo elettrodomestico. Rozzo, ma efficace. Poi ho pensato: e se invece dello spago usassi un conduttore di elettroni?"
"Un filo elettrico, intendi".
"Bravo! Così risolvo anche il problema dell'alimentazione! Invece di cambiare le pile a cinquantasei telecomandi, li faccio alimentare dai rispettivi elettrodomestici, e secondo me ci risparmio pure. Che ne dici?"
"Cioè, la tua idea sarebbe attaccare i telecomandi agli elettrodomestici con…"
"Con dei cavi elettrici. Dico, non è geniale? Talmente banale che non ci ha mai pensato nessuno! Poi arrivo io, la brevetto, e…"
"Arci, posso dirti una cosa sui cavi elettrici?"
"Li trovi antipatici?"
"Presi uno per uno, no. Ma appena ne metti due vicini, lo sai cosa succede?"
"Cosa succede?"
"Si attorcigliano. Non fanno che attorcigliarsi l'uno con l'altro. Io non so come facciano. Probabilmente aspettano la notte. Appena uno spegne la luce, cominciano a imbrigliarsi tra loro come serpentelli infoiati. Hai mai dato un occhio al retro del tuo Pc?"
"È sempre un gran casino".
"Perché? Hai mai spostato un cavo, tu?"
"No, non mi sembra".
"Lo vedi! Sono loro, sono i cavi che si attorcigliano la notte! E tu vuoi mettere un filo per ogni telecomando?"
"Cavolo, Davide, hai ragione".
"Certo che ho ragione ".
"E se attaccassimo direttamente il telecomando all'elettrodomestico? Niente più cavi né pile".
"E come fai a cambiare canale dal divano?"
"Vorrà dire che mi alzerò dal divano, tanto mi devo alzare lo stesso a cercare il telecomando da qualche parte… anzi, probabilmente faccio prima".
"Cioè, in pratica metteresti i tasti dei canali direttamente sul televisore".
"Geniale, non trovi?"
"Insomma…"
"Il televisore coi tasti dei programmi incorporati! Questa non è venuta ancora in mente a nessuno. Stessa cosa anche per lo Stereo, il Dvd, il Vhs… tutti i tasti incorporati. Niente file, niente batterie, niente aggeggini di plastica che si infilano sotto il cuscino. Davide, obiettivamente, io sono un genio".
"Ma…"
"Sì, sì, anche tu mi hai aiutato. Anzi, sai cosa ti dico? Questa la brevettiamo insieme. Certo, dobbiamo studiarla più in dettaglio. Che ne dici di passare da me domani sera?"
"Mi dispiace, non… non mi parte più la macchina".
"Perché non ci attacchi un bue?"
"Eh?"
"No, niente, è un'altra idea che mi è venuta quest'estate, sai, coi rincari del petrolio. Ho pensato: e se attaccassimo dei buoi ai cofani delle macchine? Niente più code ai distributori, niente inquinamento, ma soprattutto: niente colpi di sonno! Loro mica vanno contro un platano, se ti addormenti!".
"Arci…"
"Questa riesco a venderla alla Fiat, che han bisogno idee nuove … poi magari la cosa prende e smettono di montare il motore a scoppio di serie, fanno un modello apposta per i buoi…"
"Una carrozza".
"Sì, stavo appunto cercando un nome accattivante per il brevetto, car-rozza, perfetto. Davide, io sono un genio, ma anche te non scherzi".
"Arci, tu sei troppo in anticipo sui tempi".
"È quel che penso anch'io, ma cosa vuoi… senti, adesso devo riattaccare, sto finendo il credito. Ti richiamo appena posso… sai, sto anche studiando un sistema più conveniente per comunicare a distanza, una cosa semplicissima, una serie di squillini che…"
"Il codice Morse".
"Un che?"
"No, niente, riflettevo tra me e me. Buonanotte".
"Buonanotte".
Click.

mercoledì 15 settembre 2004

Se il narcisismo è la pretesa che il proprio autoritratto in quanto tale risulti di grande interesse per chiunque, l’autoreferenzialità estende il quadro all’album di famiglia e alla cerchia delle frequentazioni. Il riferimento funziona come referenza, cioè come riga di curriculum, quando evoca un padre nobile in qualità di garante delle ambizioni artistiche”

Enrico Terrone, Architettura di un luogo comune
(in realtà l'ho trovato su Dillinger).

Vasco – Resto del Mondo

Magari è un bellissimo film, Le chiavi di casa, io non lo so. Non l'ho visto.
Mettiamo che non abbia nemmeno letto niente: ho solo visto il trailer. Be', per capire che non può farcela a Venezia, con una giuria internazionale, basta il trailer. Basta Vasco Rossi, insomma.

Magari è pure una bella canzone, non lo so, ho sentito dieci secondi – che è quello che basta, a un italiano della mia età, a capire che si tratta di una canzone di Vasco (magari bella). E ad appuntarla nella mia memoria, giusto nel cassetto che contiene tutti i ricordi associati a lui. Con Vasco, da vent'anni, non è più questione di odio o amore, è questione di rumore di fondo, di paesaggio urbano. Riconosci la sua voce come riconosceresti un cartello stradale, o un'insegna di un tabaccaio, o la facciata del Duomo di Milano. La forza della voce di Vasco: qualcosa di identificabile immediatamente.

Questo cassetto, piuttosto fondo e disordinato, ce l'hanno tutti gli italiani della mia e di altre età. Anche quelli che Vasco non l'hanno mai particolarmente amato od odiato, come me, appunto.
Il mio cassetto poi non è che contenga un granché, alla fine. Partendo dall'infanzia: lo stereotipo del vitellone scoppiato di provincia, il fratello maggiore cattivo che vivaddio non ho avuto (quello che ti frega le merendine e ti finisce il vinavil a sniffate); Colpa d'Alfredo sul pulmino delle medie; il giro di chitarra di Colpa d'Alfredo (uguale a Siamo solo noi, a Brava, a Baba O'Riley, tutte canzoni di presa sicura intorno a un fuoco); lunghe serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro, da una pizzeria a una birreria, con l'autoradio che mi pettina con qualche versione live (il tutto prima che sopraggiungesse Ligabue a cantarci delle sue eroiche serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro da una pizzeria a una birreria); poi, un ricordo abbacinante: un valico alpino in Valtellina, il profilo terribile del Monte Disgrazia, e da dietro il monte una voce, anzi un coro, un coro di angeli che intona un'arcana melodia a tratti percepibile, che alla fine si rivela

Ti vesti svogliatamente
Non metti mai niente
Che possa attirare
Attenzione


Finché a un certo punto l'immagine di Vasco si cristallizza definitivamente nella figura dell'anziano vitellone too old to rock'n'roll, to young to die. Che poi tra il rock and roll e la morte ce ne passa di spazio, fortunatamente, ma è quasi tutto occupato dal Rimpianto. Così, da Liberi liberi in poi, la canzone-tipo-di-Vasco è una lagna intorno al male di vivere, e di convivere coi propri errori, e domani è un altro giorno, però ieri ho fatto un sacco di cazzate, ma magari le rifarei, a qualcosa sarà pur servito, etc.. Molto più simpatico le rare volte che si riscuote e si rende conto che è un organismo ancora perfettamente funzionante, e magari si masturba reggendo il telecomando del vhs con la sinistra. Per finire con lo spot di un cellulare pieno di gente in barca che si distingue dall'uomo comune, cioè io, che stavo in casa a sudare perché avevo da finire un lavoro. Ecco, è tutto qui il mio dossier mentale su Vasco.
Mica male, però, per un cantante che non ho mai né amato né odiato. Gli bastano dieci secondi, lo spazio di un trailer, e mi apre un cassetto con vent'anni di ricordi. Per forza lo chiamano a fare le colonne sonore.
Quest'anno ha fatto una canzone anche per il film di Castellitto-Mazzantini. Quella canzone – posso dirlo perché l'ho ascoltata per intero – è orribile, ai limiti dell'autoparodia. Il testo è tutto così:

Voglio trovare un senso
A questa situazione
Anche se questa situazione
Un senso non ce l'haaaaaa

(eeeeeeeeeeh)


Tutto nel solito birignao da modenese sfattone, che già ci faceva ridere sul pulmino delle medie, figurati da laureati. Nel frattempo Castellitto correva per i corridoi di un ospedale per salvare il cranio della figlia, o l'utero dell'amante, non ricordo, comunque qualcosa di tristissimo e solenne. E dagli altoparlanti Vasco proseguiva

Voglio trovare un senso
A questa condizione
Anche se questa condizione
Un senso non ce l'ha

(eeeeeeeeeeh)


Davanti a noi una coppia di sessantenni, educata, ascoltava la performance del rocker di Zocca mentre seguiva i disperati sforzi di Castellitto per rianimare il rianimabile. In quel momento ho capito un paio di cose.
Prima cosa: Vasco era diventato nazionalpopolare. Incolore. Non più appassionante o detestabile, ma parte del rumore di fondo, come gli spot pubblicitari o i cartelloni stradali. Negli '80, un sessantenne al cinema in quelle condizioni sarebbe uscito sdegnato: ma i tempi cambiano. Il programma di liscio romagnolo su TeleEmilia ha cambiato palinsesto, tra Castellina Pasi e Casadei mette su Doors e Steppenwolf. E Vasco Rossi è diventato adatto a un film per la grande distribuzione nazionalpopolare. Lo metti su, e a più di metà del pubblico gli si scoperchia un cassetto nella testa. Non stanno neanche ad ascoltare le parole (che son ridicole): la voce basta. La voce degli anni Ottanta, eravamo tutti più giovani e felici. Ma anche la voce del Rimpianto, la voce dei Quarant'anni: voglio trovare un senso a tutte le stronzate che ho fatto, un mantra che ti penetra e ti consola.

Seconda cosa: Malgrado le previsioni del saggio, Castellitto non avrebbe avuto la nomination. Ma neanche di striscio. Come il Leone ad Amelio: come si fa? Vasco Rossi in colonna sonora può funzionare più o meno dalla Valtellina a Lampedusa: niente male per uno di Zocca, Mo, ma non un centimetro di più. Appena metti il naso fuori dai confini, la sua voce evocativa non ti evoca più niente. Resta solo un signore di mezza età che sembra faccia apposta a stonare, su basi rock che ormai han fatto il loro tempo anche in Polonia. Come i cartelli stradali, che da una nazione all'altra possono cambiare di forma e di significato; come la facciata del Duomo di Milano, che oltre confine resta confusa tra le facciate di cento altre cattedrali; come l'insegna di un tabaccaio, che a uno straniero non può dire proprio niente: così la voce di Vasco Rossi. Inesportabile, incomprensibile: e quindi imbarazzante, sgradevole. Tutta l'ironia con cui l'abbiamo sdoganata per vent'anni, tutta quell'ironia lì, alla frontiera non ce la fanno passare.

Poi, chissà, magari il film di Amelio è un capolavoro. Ma la voce di Vasco è una spia importante, segnale di un provincialismo definitivo, almeno in fase di postproduzione. Tra la voce di Vasco e il resto del Mondo passa una frontiera linguistica, culturale. Noi vorremmo esportare il nostro cinema, vorremmo avere capolavori da mostrare a una giuria di esperti mondiali, ma non ci rendiamo nemmeno conto di dove passano le frontiere che vorremmo oltrepassare. E poi ci ritroviamo tutti qua, a riaprire i vecchi cassetti, a lucidare i vecchi giocattoli, a raccontarci le solite storie che sappiamo solo noi, che interessano solo noi. Come in un bar, un dignitoso bar di provincia. In attesa del Tarantino che verrà a rivalutarci, tra vent'anni però (se nel frattempo non svalutano lui).

lunedì 13 settembre 2004

Io ho il vizio di cercare sempre di riassumere tutto in una parola, come se una parola potesse spiegare ogni cosa (e poi finisce che ne scrivo un migliaio, e nessuna giusta), e la parola che mi viene in mente troppo spesso in questi giorni è: isteria.

Zingarelli: Stato di eccitazione esagerata e incontrollata, spesso fanatica e collettiva. Ecco. Mi pare che siamo governati, informati, orientati da un branco di isterici. Non è tutta colpa loro: è certamente anche colpa nostra, che continuiamo a votarli e dargli retta. Anzi: io sono convinto che loro facciano il meglio di quanto possa umanamente fare un'orda di isterici.

La situazione, di per sé, non è affatto rosea: diventa però paradossale quando viene gestita da questa generale Isteria. C'è una guerra: due ragazze italiane sono state sequestrate nella prima linea che è Bagdad, sei giorni fa. Questo è tutto.
Ma siccome da cinque giorni non facciamo che consultare compulsivamente quotidiani, Tg, internet e televideo, in attesa di notizie che non ci sono, bisognerà pure sbattere in prima pagina qualcosa: e allora vai, prendi la prima rivendicazione farlocca che trovi su un sito di open publishing frequentato da parolai islamici, e metti un titolo cubitale. È troppo grossa? Bene: specifica subito nell'occhiello che ci sono "seri dubbi sull'attendibilità". Come se domani titolassero: "Carlo Azeglio Ciampi è un alieno" e nel sottotitolo: "Ma forse non è vero". Del resto il giornalismo è anche questo: riempire tutti i giorni le colonne con quello che interessa davvero la gente, anche quando non succede niente. Il problema è che oggi la moltiplicazione dei media rende tutto più esagitato, più ridondante, in una parola: più isterico. Naturalmente in questo modo non facciamo che incoraggiare i mitomani, che (sorpresa!) abbondano anche fra gli integralisti. Nei prossimi giorni, qualsiasi coglione con un account in una chatline si sentirà obbligato a dettare le sue condizioni al governo italiano. Questa è l'immediata conseguenza della nostra isteria.

(In fondo non facciamo altro che attaccarci ai media per sentire un filo di speranza, come i nostri bisnonni ascoltavano Radio Londra di nascosto sessant'anni fa. E sicuramente anche Radio Londra si arrangiava, quando le notizie non c'erano o non erano buone. Ma Radio Londra faceva un programma al giorno, da attendere e gustare in religioso silenzio: i nostri bisnonni, in controluce, ci appaiono persone serie e compassate. Noialtri, che tra un tg e l'altro consultiamo il televideo (e dovunque troviamo rimbalzare le stesse vacue stronzate), al confronto ci dimeniamo come scimmie isteriche).

All'isteria dei media (che non è tutta colpa dei giornalisti) fa da contrappunto l'isteria dell'Opposizione. Che senso ha aprire un dibattito all'interno dell'Opposizione? Un commando di iracheni travestiti da effettivi dell'esercito rapisce due cooperatrici che lavoravano a Bagdad: questo è tutto quello che sappiamo: in che modo un fatto del genere può cambiare la nostra posizione sulla guerra? Bertinotti 'apre' al governo: in che senso? "Al ritiro ci pensiamo dopo, adesso è tempo di liberare gli ostaggi": in che modo? Quando arriverà, se arriverà, il video con la rivendicazione autentica, con ogni probabilità porrà come condizioni il ritiro del contingente italiano (che altro dovrebbe chiedere un integralista serio?) E allora cosa farà il governo? Replicherà, ovviamente, che non può cedere al ricatto. Ci saranno ovviamente trattative sottobanco, si tirerà un po' sul prezzo, ma in tutto questo che importanza avrà la posizione di Bertinotti? C'è qualcosa di concreto che lui potrà davvero fare? No. Le parti sono assegnate già da un pezzo: dal ritiro spagnolo in poi, noi siamo il punto debole della coalizione, quello sottoposto alla massima pressione. Berlusconi ha probabilmente sbagliato a coinvolgerci in una situazione simile: ma ormai lo ha fatto, e non può tirarsi indietro. Bertinotti può mantenere la stessa posizione critica che il suo partito ha sempre manifestato nei confronti della guerra e dell'occupazione: oppure può dondolare istericamente, aprendo impossibili crediti che si chiuderanno immediatamente appena dalle vuote parole si arriverà ai fatti.
Ma siccome Bertinotti non è l'unico isterico dell'opposizione (ci mancherebbe altro), ecco che le sue parole d'occasione diventano oggetto di un dibbattito su due o tre quotidiani: qualche fronda interna o esterna lo accusa di brigare per un ministero: lui controreplica: ecc.. Una caciara priva di qualsiasi addentellato sulla realtà. Del resto si sa, è settembre e ci sono i festival e i workshop, microfoni puntati ovunque, e ogni ragazza sequestrata è un buon pretesto per operare un distinguo.

Infine, il governo. Che ha già mostrato, negli scorsi mesi, di saper gestire crisi del genere con un'imperizia e un'isteria esemplari, e non si smentisce. Prima cosa, far sapere "che si farà tutto il possibile" (cioè cosa?) Nel frattempo, non si annulla l'incontro col premier iracheno Al Yawar, esponendo così i due ostaggi a un rischio supplementare. In una situazione analoga, con una trattativa coi sequestratori in corso, Chirac aveva avuto il buon senso di procrastinare la visita di Al Yawar, senza creare nessuna crisi diplomatica. Ma il Governo italiano è troppo intento a dialogare coi mitomani e ad assicurare che "farà tutto il possibile" per fare anche un minimo gesto di buon seso.

Già, il dialogo coi mitomani. Vale la pena di ricopiare l'incipit della "nota" con cui Palazzo Chigi ha risposto agli eventuali sequestratori:

"Il governo italiano, attesa la richiesta finalizzata ad ottenere il rilascio entro 24 ore di tutte le donne musulmane detenute nelle carceri irachene, in cambio di modeste informazioni riguardanti Simona Torretta e Simona Pari, considera che essa sembra non valutare né il progressivo ripristino in corso della piena autonomia decisionale del sistema giudiziario iracheno, né che da lungo tempo gli italiani, sia in veste istituzionale che attraverso le organizzazioni di volontariato, sono impegnati nel perseguire, nella prospettiva del pieno rispetto della dignità umana e della più rigorosa difesa dei diritti fondamentali della persona, la revisione e l'approfondimento delle posizioni giudiziarie di quanti sono stati privati della libertà personale in un contesto di guerra".

Cosa c'è di strano in questa frase? Che è una frase. Nel senso che si tratta di un solo periodo sintattico, composto da 113 parole, che come tale batte il record di sintassi stabilito da Galimberti due anni fa. Pare che l'abbia scritto Gianni Letta, evidentemente ancora alle prese coi fantasmi del suo liceo classico. Complimenti. Questo qui non solo pretende di dialogare col primo mitomane che si fa avanti: ma pretende anche di farlo in una lingua tutta sua, incomprensibile e impronunciabile alla massima parte degli italiani. E poi che fa? Crede che qualche traduttore arabo, pur bravissimo e volonteroso, gliela tradurrà? Ha una minima idea dei problemi che una traduzione comporta? Ci vorranno come minimo due passaggi: Letta–Italiano corrente, Italiano corrente–Arabo. Siccome anch'io voglio fare la mia parte, contribuisco con il primo passaggio.

In cambio di modeste informazioni su Simona Torretta e Simona Pari, i sequestratori chiederebbero il rilascio entro 24 ore di tutte le donne musulmane detenute nelle carceri irachene.
Una simile richiesta, secondo il governo italiano, non tiene conto del progressivo ripristino di un sistema giudiziario autonomo iracheno. Inoltre gli italiani – non solo per vie istituzionali, ma anche attraverso le ONG – sono da tempo impegnati nell'assistenza giuridica ai prigionieri di guerra: e questo, nella prospettiva del pieno rispetto della dignità umana e della più rigorosa difesa dei diritti fondamentali della persona.


Ecco, io di parole ce ne ho messe 90, di periodi ne ho fatti tre (più un inciso), e ho scritto esattamente la stessa cosa di Gianni Letta. Ma Giorgino non si strozzerà a leggerla al tg. E i poveri traduttori della Farnesina non picchieranno la testa contro i muri della Farnesina nel tentativo di tradurla.

Non basterebbero tutti i blog del mondo a descrivere in dettaglio i danni che il liceo classico ha fatto alla nostra classe dirigente e all'Italia tutta. Che nel 2004 un rappresentante del governo (uno dei più ragionevoli, pare) ritenga giusto esprimersi in quel modo, non cambia di molto il destino di Simona Torretta e Simona Pari. È solo una piccola beffa nello strazio generale. È la cosa che mi fa più rabbia, però. L'isteria è collettiva: ognuno poi la coniuga secondo le sue idiosincrasie.

sabato 11 settembre 2004

Il pezzo definitivo sull'11/9 e sui tormentoni da 11/9 ("quel giorno io ero da qualsiasi parte a fare qualsiasi cosa e ho subito pensato: nulla sarà come prima!") lo ha scritto Defarge, l'anno scorso, e io lo copio pari pari.

(Defarge, qui, può scrivere quando vuole, ma non vuole quasi mai)

Ma tu dov'eri l’11 settembre? Le storie dell'11 settembre cominciano spesso da qui, da una telefonata privata o dall'interruzione di un programma radiofonico. Perche' dove fossimo e cosa stessimo facendo sono le forme che diamo, forse, a un desiderio di protagonismo storico offeso, quando gli eventi scioperavano e la storia era finita. «Io c'ero» - a un concerto degli U2 come al G8 di Genova - ha costituito per qualche tempo l'unico modo del quale potevano disporre adolescenti o agenti della questura di Bologna per soddisfare questo desiderio di soggettivita', corroborata da una scritta sulla t-shirt. U2, G8: sono coordinate esistenziali. Ogni badile ha il suo manico, diciamo in provincia. E anche gli adolescenti e la polizia hanno il loro, di manico. Ma gli scrittori? Cosa fanno gli scrittori quando due aerei si vanno a schiantare nel centro simbolico del mondo e lo vanno a sbudellare? All'apparenza gli scrittori non sono molto diversi dagli altri esseri umani. Norman Mailer, per esempio, si introduce nell'11 settembre passando per l'anticamera della stessa scena privata. Cosi' veniamo a sapere che il suo intervistatore, Dotson Rader, si trovava «a Manhattan, sulla Ottantacinquesima est» e che qualcuno, nel frattempo, faceva squillare il telefono di Mailer, a Provincetown, per dirgli di accendere il televisore. Sappiamo gia' che Patti Smith era coricata sul suo letto, che Jacques Derrida si trovava in Cina e che Art Spiegelman stava passeggiando con la moglie, un paio di isolati a sud dal World Trade Center. Perche', tra le altre cose, l'11 settembre rimarra' nella storia come una formidabile mappa di chi era dove, una sorta di panopticon civile e spontaneo. Io ero qui. Io c'ero, come Rolando c'era a Roncisvalle, vi fornisco le prove e le coordinate.

Ad animare la premura topografica e il primo piano sui gesti individuali, pero', non puo' essere solo una generica mania di protagonismo. Gli scrittori non sono ne' poliziotti, ne' adolescenti. Loro protagonisti lo sono tutto il tempo, senza bisogno della t-shirt, sulle copertine del New Yorker e del Time, ai party della Quinta e di Holliwood, nei talk-show e sui nostri comodini. La spinta all’autodenuncia potrebbe allora dipendere da una roba simile a quella che condanna Fabrizio Del Dongo, nella Certosa di Parma, a morire con il dubbio di non aver fatto la guerra: l'esigenza di esserci, certo, ma anche la paura di non esserci nel modo giusto. Di non aver capito, di aver confuso la guerra con un bivacco e l'Imperatore con un attendente di cavalleria.


Se l'amministrazione (uno delle forme del potere, quella della sporgenza del pathos, diceva Karl Schmitt, realista quel tanto che basta a prendere una tessera del Reich) reagisce con gli eserciti che aveva preventivamente equipaggiato e con un ordine mondiale che di nuovo puo' vantare solo la sponda pubblicistica della liberta' duratura (riducendo il «nulla sarà più come prima» a un sinonimo della propria impunita'), per gli scrittori l'11 settembre ha lasciato domande «senza risposta, come pagine bianche e vuote», uno spazio da reinventare e una narrazione allergica al riutilizzo delle parole e dei nomi con cui le cose venivano afferrate prima che il mondo si capovolgesse. Da una parte ci sono gli eserciti e le t-shirt, l'uso pubblico della catastrofe, gli stili di vita che ne approfittano per diventare madonne vergini. Dall'altra l'esitazione e la volonta' di capire il ruolo che il nostro azionariato, sicuramente minoritario, puo' aver comunque giocato nel retrobottega dell'11/9, quanto gli stili di vita, legati ben stretti ai dipartimenti di politica estera, possano aver influito nella degenerazione degli altri. E' un'algebra difficile, quasi impossibile. Ma puo' produrre dei risultati notevoli, anche per approssimazione. Norman Mailer, Toni Morrison, Jonathan Franzen, Paul Auster, Don De Lillo, Gore Vidal e parecchi altri: tutti a raccontare dov’erano e a chiedersi subito dopo cosa deve cambiare, a partire da quella cosa che c'era prima e che c'è adesso e che si chiama Norman Mailer, Toni Morrison, Jonathan Franzen, Paul Auster, Don De Lillo... Il chi fosse dove viene inserito in un nuovo contesto, quindi, differente dalla coazione alla t-shirt e alla difesa degli interessi nazionali: adesso la cesura tra i vecchi nomi e le nuove cose comporta lo smottamento delle identità individuali e professionali, mentre l’esserci, come per Fabrizio Del Dongo, è reso inquieto dalla coscienza della propria marginale, costitutiva impreparazione.

mercoledì 8 settembre 2004

Rain tv

Ieri mi è sembrato di vedere un giornalista Rai a Beslan, davanti alle macerie della scuola. Niente di strano, salvo che per tutta la durata della crisi non ce ne sono stati. C'era l'ottimo corrispondente da Mosca, ma stava a Mosca, appunto, vicino a Beslan più o meno come Copenaghen da Roma. E non so voi, ma la mia impressione è me filtri meglio da Copenaghen a Roma, la verità, che da Beslan a Mosca.

(Qualcuno si ricorderà che quando la Repubblica dava già centinaia di morti durante l'irruzione, il conteggio della Rai continuava a parlare di poche decine).

Sarà un problema di sicurezza (ma in Iraq c'è pur sempre gente della Rai come Scaccia, che rischia la pelle un po' di più). Sarà un problema di budget: benissimo, dopotutto la pago io, la Rai: in fondo vanno bene anche le immagini di seconda mano dalla CNN, ne approfitto e ripasso le lingue.
Ma perché mandare un cronista a Beslan proprio ieri, quando è tutto finito, e c'è solo un po' di orrore freddo da riprendere, e delle piccole casse da accompagnare?

Si vede che c'erano poche lacrime in repertorio. La specialità Rai – Radiotelevisione italiana: non le notizie, quelle tanto sono poche e sempre le stesse, si possono riportare pari pari da qualche network più potente. Ma le mamme che piangono, quelle sì che valgono un biglietto per l'Ossezia.

Vabbè, acqua passata, da oggi si volta pagina. Ma che dico, già da ieri pomeriggio. Appostamenti a Rimini e a Roma, mi sembra d'aver già visto l'inquadratura di qualche citofono. Lacrime nostrane, le migliori. E costano anche meno. E via che si va.

martedì 7 settembre 2004

Clausewitz (1780-1831), den mest betydningsfulde militærteoretiker der har levetAndré vs André

Ho fornito a me stesso la prova che un intellettuale che ragiona, che non ha alcun potere e che possiede le stesse informazioni di un lettore di giornali, può farsi un'opinione sensata e ragionevole su quello che accade. Questo mi ha confortato...

Tutti i giorni si impara qualcosa, io per esempio stamattina ho imparato che c'è un Nuovo Filosofo, che si chiama André Glucksmann, che da anni (io chissà dov'ero) si è preso a cuore la causa della Cecenia.
E la cosa mi ha fatto piacere, onestamente. Se c'è gente che ha bisogno di aiuto e d'attenzione, sono proprio i ceceni e i caucasici in generale. Della Cecenia ci siamo sempre preoccupati poco. Forse abbiamo semplicemente finto di preoccuparci. È consolante sapere che c'è chi non rinuncia a smuovere le coscienze.
Anche in giornate come queste, in cui ci vuole coraggio a spezzare una lancia nei confronti della famigerata resistenza cecena; è bello ascoltare un intellettuale che questo coraggio ce l'ha. Era al telefono su Repubblica ieri mattina (pag. 5, 6/9/2004):

"È ovvio che i primi criminali quando c'è una presa di ostaggi sono i sequestratori stessi. Ma le responsabilità del presidente russo sono enormi"
[…]
"La maggior parte dei ceceni non è terrorista. Dobbiamo semmai ammirare la loro rassegnazione, e il fatto che ancora non siano impazziti dal dolore. C'è ancora una parte importante della popolazione cecena che non è caduta nel folle furore. Molti leader politici ceceni sono contro il terrorismo. […] La più grande colpa di Putin è di voler eliminare i moderati indipendentisti ceceni. Ma comportandosi in questo modo, fa il gioco del terrorismo. Non solo: è lui stesso un terrorista, se con questo termine indica chi massacra i civili. Putin è un terrorista che crea dei terroristi. La sua guerra al terrorismo è completamente controproducente".

In giorni bui come questi, in cui tutti i terroristi sono bigi e tutti gli islamici sono terroristi, è un po' consolante sentire un Nuovo Filosofo che parla di una guerra al terrorismo controproducente, che ha causato danni immani e forse irreparabili. "Un paio d'anni fa [Putin] disse che avrebbe ucciso tutti i terroristi, andandoli a stanare fino nei loro cessi. È il contrario di quello che bisogna fare: i terroristi vanno isolati e indeboliti. Putin fa esattamente il contrario". Più chiaro di così.

E poi, vedi l'ironia dei nomi. Questo Nuovo Filosofo, André Glucksmann, è perfettamente omonimo a un altro filosofo, che fino a qualche mese fa chiamava le nazioni d'Occidente a una guerra contro le dittature e il nichilismo terrorista, in nome del Principio dell'Ingerenza Umanitaria: principio formulato e declinato da lui stesso, in piena e orgogliosa autonomia.
Quell'André Glucksmann lì, di cui da un po' non sento più parlare, era un accanito fustigatore: in primis, del multilateralismo ONU e UE, colpevole di non ingerire con prontezza in tutti gli scenari bellici in cui André Glucksmann riteneva giusto ingerire: nei Balcani, in Rwanda, in Cecenia.
E in secundis, di noi pacifisti. Sì, proprio noialtri, i ragazzi arcobaleno, la seconda superpotenza in gita fuoriporta, proprio noi. E quante ce ne ha dette! E quante gliene hanno pubblicate!
Eravamo ingenui, anzi, finti ingenui, a non capire che l'attacco alle Twin Towers era rivolto a noi, non perché fossimo ricchi, ma perché occidentali e cristiani: miopi, anzi, ciechi, a intenerirci per le sorti di Saddam Hussein e non degnare della minima attenzione la tragedia cecena; eravamo senza dubbio antiamericani, perché veteromarxisti; ma allo stesso tempo persino un po' ignoranti, anzi, analfabeti (C'è oggi una mancanza di memoria storica o al che rasenta l'analfabetismo).
Una tirata mi ricordo, memorabile, dove si premurava di insegnarci banali rudimenti di Storia delle Civiltà:

Avete mai sentito parlare di guerre di religione? Non portano la responsabilità di Blair. E Guernica? Berlusconi non c’entra nulla. E le fosse Ardeatine, credete di potervi scorgere la mano nascosta della Cia o dei neocon?

E la "pace" che chiedevamo, secondo quell'André Glucksmann, non era un nobile ideale, ma la quiete di chi vuole dormire sonni tranquilli mentre il mondo fuori va in vacca. Mentre "il terrorismo va spiritualmente e materialmente combattuto in modo aperto. Battaglia di idee e prova di forza sul campo sono inevitabili per chi voglia sopravvivere".
Più chiaro di così.

Quell'André Glucksmann lì, è da un po' che non lo sento. Vero che aveva preso un paio di cantonate sul dopoguerra iracheno, ma è facile dirlo col senno del poi.
Un po', devo dire, mi manca. Le sue fustigate erano molto stimolanti, e non semplici da parare. In fondo, non aveva tutti i torti, non proprio tutti: i dirottatori dell'11/9 ce l'avevano anche con noi, che per un decennio abbiamo snobbato il conflitto ceceno e abbiamo disperatamente chiesto di essere lasciati in pace: e anche sul nostro analfabetismo culturale, qualche ragione ce l'aveva. Del resto lui era un Filosofo, aveva studiato, Tucidide, Clausewitz, mica acqua.

Ora, mi piace immaginare che i due André Glucksmann si conoscano, si frequentino, e che magari si scambino qualche idea. Il Nuovo Filosofo André Glucksmann potrebbe per esempio spiegare al primo i pericoli del suo atteggiamento barricadiero, delle sue idee un po' alla Star Wars, Bene contro Male, Dio che muore per la terza volta, etc.. Basti vedere quel che è successo in Cecenia: Putin si è creduto il Bene e ha voluto sradicare il Male, ora la mala pianta è più virulenta che mai. Il Nuovo André Glucksmann, questa cosa l'ha capita. Sarebbe bello che riuscisse a spiegarla al Vecchio.

Non si vince il terrorismo andandolo a "stanare nei cessi": chi lotta in questo modo, non lotta per annientarlo, ma per crescerlo e amministrarlo. Putin lo fa da quasi un decennio. La paura di noi pacifisti, nelle nostre ridicole sciarpine arcobaleno, è che Bush voglia fare la stessa cosa. E ahinoi, la convention repubblicana sembra darci ragione.
Non esiste quasi più politica interna, nella campagna elettorale USA. Esiste solo l'emergenza al Terrorismo, la guerra infinita al Terrorismo, la Stronger America di Kerry contro l'America Unilaterale di Bush. L'obiettivo, più o meno dichiarato: snidare i terroristi dai loro cessi in Medio Oriente. Non sarà oggi, non sarà domani, forse non sarà davvero mai: ma intanto si riducono in nome della sicurezza i diritti dei cittadini, si 'incastrano' (embed) gli organi di informazione, si votano leggi speciali, si tortura per sbaglio qualche centinaio di prigionieri, si fa passare in secondo piano qualche scandalo finanziario, si rafforza il complesso militare industriale, eccetera.

Questo non significa che Bush equivale a Putin, che Grozny equivale a Bagdad: no, no, no, direbbe il vecchio André Glucksmann. Le dimensioni sono importanti, di qua migliaia di morti, di là milioni. Ma il dubbio rimane. Che cos'è questa Russia, che ci fa tanta paura, che troppo spesso nello scorso decennio ci ha fatto cambiare canale, infastiditi, orripilati? È uno scherzo della Storia, un pachidermico carrozzone che troppo lentamente si rimette in modo dopo il comunismo, e macina tra gli ingranaggi milioni di vite?
O non è forse il futuro, il nuovo modello per l'Occidente del turbocapitalismo? Kgb al potere, tv accentrata, stampa imbavagliata, mafia competitiva su tutti i mercati, un mucchio di nuovi ricchi, una valanga di morti di fame. Testate nucleari, corpi speciali, e tanti terroristi (islamici, naturalmente: affiliati ad Al Quaeda, e come no). Guerra al terrorismo infinita. È il passato, questo? Chi ha mai visto un passato come questo? Chi ci può veramente assicurare che non sia il nostro futuro, magari tra qui a dieci anni? Altri dieci anni di lotta senza quartiere a un'idra che rinasce sempre più forte: dopotutto Bush non ce ne promette di meno.

È questa la paura oscura, a volte inconscia (ma per nulla irrazionale), che ha spinto migliaia e milioni di persone sulle piazze negli anni scorsi, quando Bush e Blair invadevano unilateralmente una nazione all'anno. In modo a volte confuso, ma fermo, molta gente forse non del tutto preparata su Guernica e Fosse Ardeatine, gente che non ha mai letto un rigo di Tucidide o Clausewitz, ha comunque visto nella caccia al terrore una cura più rischiosa del male. Ce lo ha dimostrato l'Afganistan, ce lo dimostra ogni giorno l'Iraq, ma prima ancora, ci sarebbe bastato tenere d'occhio la Cecenia: il terrorismo non si sconfigge così. Resta da stabilire come, ma di sicuro non così.
Come sa bene anche André Glucksmann – perlomeno, uno dei due. Ma mi piacerebbe che lo spiegasse anche all'altro.

mercoledì 1 settembre 2004

Ma il carbone no

Noi diventiamo bambini cattivi a malincuore, per necessità, ma pur sempre per libera scelta, tra due democratiche opzioni. Le opzioni, di volta in volta, cambiano: ma restano sempre e solo due (è un codice binario, la democrazia).

Quando per esempio l'anno scorso ci hanno chiesto se preferivamo i tank americani o le torture di Saddam Hussein, potevamo avere dubbi? I tank, i tank, a malincuore ma i tank.

Quest'anno ci stanno chiedendo se preferiamo i tank americani o gli arabi tagliatori di teste, come si fa a mostrare anche solo il minimo dubbio? Tank, tank, ancora e sempre tank. Democraticamente.

L'anno prossimo, con questo andazzo, ci chiederanno se preferiamo i tank ai cannibali, ai pedofili, ai necrofili, al peggio che ci sarà sempre in circolazione, e c'è poco da fare, c'è poco da dubitare: tank, thanks.

Finché non moriremo, noi bambini cattivi, e andremo all'inferno, a malincuore, ma per libera scelta: e all'inferno ci chiederanno di scegliere, perché la democrazia è arrivata anche laggiù: vogliamo rosolare a carbone o sulla piastra elettronica? E lo sapete, io sono e resto un progressista: piastra. E grazie, grazie per aver voluto sentire il mio parere.